Le ore che precedono la visita mi fanno rimbalzare il cuore al petto. Ogni volta che attraverso quella porta la immagino venirmi incontro con il suo sorriso contagioso o con qualche strambo occhiale creato da qualche strambo artista, poi mi prende per braccio come una vecchia amica e inzia a raccontarmi con l’entusiasmo di una bambina qualche sua marachella amorosa, il dettaglio divertente di un nuovo amante, la smorfia di sdegno dell’amata mogliettina. Mi invita a prendere il tè su un divano che dà le spalle a un’opera di Chagall e che fissa un Boccioni; quando gesticola, gli orecchini dipinti con minuzia da Yves Tanguy sprigionano una luce che mi commuove; poi mi sveglio da questo sogno ricorrente ogni qualvolta i miei piedi toccano Venezia, e più precisamente i pavimenti di Palazzo Venier dei Leoni, la casa che abitò Peggy, Peggy Guggenheim, quella figura che io vedo come una cara amica pur non avendola mai conosciuta.
In questo anno ricorre un evento importantissimo, si omaggia il 70mo anniversario della Peggy Guggenheim collection alla Biennale di Venezia. Era il 1948 quando espose per la prima volta, quando dopo una vita dedicata all’arte decise di approdare su quel romantico pezzo di terra avvolto dalla laguna ed esporre la sua intera collezione, tenuta insieme con fatica, con lacrime e tanta passione.
Fu Santomaso a darle il benvenuto, un artista veneziano che era solito pasteggiare nel ristorante “Angelo”, pagando il conto con un quadro e raccontando le più belle storie di Venezia. Fu lui a incoraggiare Peggy a esporre l’intera collezione alla XXIV Biennale di Venezia. E Peggy non se lo fece ripetere due volte, già affascinata dal clima dell’Italia, dal profumo degli alberi di cedro in fiore, dai possenti palazzi veneziani e da quella laguna calma che sembrava avvolgere tutto e riflettere una città inventata, un po’ fuori dal mondo.
Peggy espose il frutto del suo amore, la sua unica ragione di vita, opere di artisti che aveva scovato e allevato come fossero figli suoi, ma innamorandosene come un’amante capricciosa. In Italia allora non si era ancora sentito parlare di surrealisti, di Giacometti, di Brancusi, di Arp e Pevsner e l’aria bigotta della Biennale di Rodolfo Pallucchini, segretario generale, l’aveva obbligata a togliere un disegno molto sensuale di Matta, che rappresentava Ninfe e Centauri. Il disegno se ne andò offeso di sua iniziativa, cadendo per terra e frantumando il vetro in mille pezzi, prima dell’arrivo dei preti che avrebbero urlato allo scandalo.
Ma l’esposizione di Peggy Guggenheim ebbe un successo inaspettato e straordinario, Pollock e Max Ernst le opere più apprezzate, tutti volevano vendere qualcosa alla mecenate americana, i giornali parlavano di lei e si organizzarono nuove mostre e si scrissero nuovi cataloghi.
Il legame con la città sull’acqua era nell’aria, presto Peggy si sistemo’ a Palazzo Venier dei Leoni, quell’edificio bianco che si affaccia sul Canal Grande, un tempo abitato dalla misteriosa Marchesa Casati che offriva feste alla Diaghilev e passeggiava con due leopardi al guinzaglio. Oggi Palazzo Venier ospita la collezione Guggenheim, e in alcune di queste sale è stata allestita la mostra omaggio a quel lontano e fortunato ’48. Una maquette al centro della sala mira a ricreare l’ambiente del padiglione e ne ricostruisce l’allestimento originario del ’48; sono state raccolte lettere e inviti originali inviati alla Signora in persona, sui muri foto in bianco e nero la ritraggono insieme ai partecipanti, alle figure istituzionali e agli artisti che ha amato e voluto con sé.
Peggy Guggenheim rimane la più grande talent scout di arte contemporanea, è a lei che dobbiamo dire grazie se oggi possiamo gioire di tanta bellezza.
Immagine di copertina: Lionello Venturi, Carlo Scarpa e Peggy Guggenheim al padiglione greco, XXIV Biennale di Venezia, 1948 /
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