Il dialetto fa figo. Di nuovo.
E’ una tendenza nuova, o vintage. Il gusto per l’espressione dialettale in musica è tornato vivissimo nelle ultime uscite, non solo underground ma anche in quelle dei grandi numeri.
Se i rapper e gli artisti di tendenza filo-jazzistica in tempi recentissimi molto local che cantano in dialetto, parzialmente o in toto, rappresentano una fetta commerciale sottile e poco nota al grande pubblico, mi stupisce invece la tendenza di voler fare di artisti giovani e già piazzati benissimo, penso ad Angelina Mango, portavoci di un linguaggio dialettale, popolare, e super local.
L’artista main stream deve accedere a tutta l’Italia, partiamo da qui prima di arrivare altrove, ma sicuramente non deve parlare solo ad un pubblico regionale. Da qualche tempo a questa parte invece, i testi riportano modi di dire a volte intraducibili, e tipicamente locali.
E siccome funziona, voglio credere che questo linguaggio sia voluto, sia studiato, sia pensato. (Troppo ottimista?). Voglio leggere il dialetto qua e là come una necessità di autenticità nel racconto ormai omologato della trap, appiattita da autotune, di cui comunque ci liberiamo a fatica purtroppo, e di una società apparentemente eterogenea ed omogenea allo stesso momento.
Il dialetto caratterizza, puntualizza, rende verace e squisitamente veritiero il racconto. Anche nella vita di tutti i giorni, se ci pensiamo, per rendere meglio l’idea di un concetto o per ironizzare all’interno di un racconto, usiamo delle espressioni dialettali.
Aiuta dunque il personaggio, il dialetto, perché lo rende stereotipo. Sorprendentemente non allontana, ma unisce nel racconto dei più, le storie.
Altro aspetto di importante novità rispetto al passato è che il dialetto è una tendenza vintage. Ha avuto il suo successo nelle canzoni popolari folkloristiche di moltissimi anni fa, mantenendo poi in Italia una collocazione mi viene da dire esclusiva nel territorio Napoletano, che ne ha fatto caratteristica di orgoglio negli anni, anche quando per tutti gli altri il dialetto rappresentava ignoranza, impopolarità, incapacità di calcare i grossi palchi. Sono pochissimi i casi in cui il dialetto in musica si colloca con prepotenza, dimostrando un fortissimo appeal. Uno di questi è Gigi D’Alessio, che con coraggio qua e là ha sempre inserito sia in musica, con i riconoscibili mielismi arabeggianti napoletani nelle chiusure degli acuti, sia in parole, con “se stasera t’avissi vasà” e similari, la sua caratteristica napoletana.
Il dialetto oggi si riprende il suo spazio, ed ha un ruolo commerciale molto forte perché con poca fatica si crea un personaggio. Non male-interpretatemi: non ne faccio una colpa, ma anzi un’ottima carta da giocare, furba e molto ben riuscita.
La musica non è la sola ad usare il dialogo locale. Il cinema, le fiction, le serie TV più di tutte utilizzano questo stratagemma per dare maggiore credibilità a ciò che si vede. Intere serie TV sono in lingua originale, per la maggior parte del tempo, e rinunciano al doppiaggio. Pensiamo a Narcos, o Gomorra. Il dialetto incrudisce, avvicina. Con il dialetto è possibile arrivare più a fondo della storia, più dentro il concetto.
E la musica, non fa eccezione.