Quando siete in una galleria d’arte, in un museo e sentite esclamare “Oh, bello”, “Bellissimo” ,”Wow”, “Aaaah questo sì!”, state certi che si tratterà di quel genere umano capitato lì per caso, perché “fa figo”, per sentirsi “in”, ed è un po’ lo scenario di questa Biennale arrivata alla 57ma edizione dove, durante la vernice, veri e presunti addetti al settore si spintonano alle file o davanti a un’opera.
Più dignitosi sono i coniugi Remo e Augusta Proietti in “Le vacanze intelligenti“, interpretati da Alberto Sordi e Anna Longhi, una verace coppia popolana in visita alla Biennale di Venezia. Ve lo ripropongo qui perché è davvero spassoso e purtroppo non così distante dalla realtà.
Ma venendo a noi, qui cercherò di riassumere i maestosi dubbi sull’arte proposta alla Biennale, curata da Christine Macel, una manifestazione in cui le kermesse non sono mancate, tra accuse di plagio, remix e mashup.
Alle corderie Peter Miller propone una pellicola dal titolo “Stained Glass“; dovrebbe rappresentare un buco nero ipnotico, ed è un’immagine fissa creata da diversi supporti fotografici. “Il buco nero è per definizione invisibile, eppure gli scienziati ne sono venuti a conoscenza“. L’artista vuol dirci che “vediamo le cose invisibili ma non quelle invisibili“. Io qui ci vedo un punto nero. Nient’altro.
L’artista ecologa Bonnie Ora Sherk porta un progetto ambientale fatto di disegni, fotografie, collage, poster, creato nelle città di San Francisco e New York consistente nella valorizzazione di un’area sterile di circa tre ettari che l’artista stessa trasformò in uno spazio dedicato all’arte e all’agricoltura urbana. Ottima iniziativa, ma questa è “arte” o forse più “progetto sociale”?
Al padiglione belga le immagini fotografiche di Dirk Braeckman: una ventina di opere per lo più sui toni del grigio, spazi vuoti, corpi nudi, onde su cui la luce si riflette. Le descrivono come “monumentali, originali, immagini dove trovare sempre storie nuove, dove l’artista si dilunga nello sviluppo in camera oscura con piacere.” Dilunghiamoci meno e passiamo ad altro.
La camera sonora del padiglione francese, signur, un boato di strumenti che stridono tutti insieme, lasciati andare come gatti randagi, sembrano creare una colonna sonora per un film horror. Se ne esce con le mani alle orecchie. Di Xavier Veilhan.
I giganteschi gomitoli di lana, alle Corderie, di Sheila Hicks. Piuttosto decorativi per una parete, potessi arredare la stanza di mio figlio, avessi un figlio, chiamerei la Hicks al posto di Philippe Starck. Forse.
Continuando nella passeggiata della Biennale, svestita di nomi importanti, ci troviamo al padiglione spagnolo con l’opera di Jordi Colomer, leggete qui: “Un’installazione di installazioni” – già l’inizio promette bene – “una successione di gesti poetici che sono un movimento urbano, uno scambio essenzialmente collettivo” – quali sono i gesti POETICI URBANI???? Lo sfrecciare nevrotico delle auto? I clacson che danno alla testa? I pedoni che corrono da una parte all’altra? E continua “una finzione utopica suscettibile di influenzare la realtà“. UNA FIN-ZIONE UTO-PICA SU-SCETTI-BILE DI INFLUENZARE LA REAL-TA’. Io mi metto nel gruppo di Sordi e compare. Ci rinuncio.
Padiglione Giappone. Takahiro Iwasaki porta con sé un po’ di cianfrusaglie, roba che regaleresti al rigattiere, panni da cucina, vecchie t-shirt logore, le mini sorprese che trovi nell’ovetto Kinder, quelle che puntualmente il cane si infila in bocca per poi passare, ben sbavate, tra le mani del tuo bimbo. Iwasaki ci gioca un po’, crea delle montagne giapponese, quelle che tanto gli mancano, la silhouette delle città con torri e grattacieli. Ma poverino, diamoglieli questi Lego, che almeno sono colorati e si diverte di più!
Padiglione Corea – Lee Wan, da una porticina che ricorda quella dello studio di D’Annunzio, ci introduce in una stanza asettica, bianca, un quadrato con appesi 600 orologi che segnano le differenti ore dei paesi del mondo; nomi, nazionalità, occupazioni di persone da lui intervistate che attendono l’ora del pasto, dopo quella del lavoro. Già vistoooooo!
Ma sono davvero tutti così entusiasti di questi oggetti aggregati come paccottiglia, ingombranti come i ninnoli sui caminetti?!
L’associazione di una forza profonda – e qui parte una lista di giornalisti leccapiedi- ad un’opera che è un deja vu’ segna, a mio parere, un regresso piuttosto inquietante. Siamo alle solite stupide affermazioni “E’ stato fatto già tutto” – “I grandi sono solo del passato”. Diamo delle facile risposte anziche’ continuare a farci delle domande, che sono l’area in cui l’artista si muove da quando gli abbiamo affibbiato questo termine e questo ruolo di grande responsabilità. E’ all’artista che ci rivolgiamo per sciogliere qualche dubbio: che senso ha la vita? Come affrontare l’oggettività della morte? Cos’è il tempo? Quanto dura l’amore?
L’estrema monotonia del “copia e incolla” mi porta a pensare che forse l’artista pensa di meno oggi. Forse l’intento narcisista di comunicare “chi è” – è più forte della comunicazione di “cosa si vuole esprimere” . L’-io esisto- è più aggressivo dell’-io faccio- . Quindi noi spettatori siamo costretti a sorbirci delle produzioni in serie, più o meno colorate, più o meno decorative, ma che ci lasciano ben poco, perchè mancano di drammaticità, mancano di pathos, mancano di quell’ingrediente che, quando aggiunto, trasforma un piatto tradizionale in un piatto gourmet: la sofferenza.
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