Per poter insegnare e spiegare un argomento ad altri, è necessario conoscerlo profondamente.
Per argomentarlo con discussioni, è utile averlo masticato; per accettarlo e riconoscerlo, bisogna averlo vissuto. Forse è questo il ragionamento che sta alla base della scelta della curatrice Cecilia Alemani, quando ha pensato al tema del rito e della magia come filo conduttore del Padiglione Italia alla 57^ Biennale di Venezia.
“Il mondo magico”, questo il titolo, dove superstizione, religione, rito e magia si mescolano, terre che l’italiano conosce bene, nel suo profondo e scaramantico sud, nella forza centrata della fede, nel suo infinito mondo di streghe, cartomanti, fattucchiere, corni rossi e Cristi crocifissi.
Cecilia Alemani ha invitato gli artisti scelti, solo tre per questa edizione, a confrontarsi con il fantastico, con il favolistico, con il vasto immaginario che la nostra cultura porta con sé, per la creazione di un padiglione che ha riscosso solo pareri positivi. L’ispirazione della curatrice arriva dal libro di Ernesto de Martino, etnologo, antropologo e storico delle religioni italiano, “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del maoismo” del 1948.
Ciascun artista ha raccontato, attraverso il proprio mezzo espressivo, come le culture e le popolazioni, soprattutto quelle del Sud Italia, reagiscono a situazioni di crisi attraverso lo studio, la pratica e l’immersione nella magia. L’ignoto come risposta, il mistero della fede come salvezza.
Il Padiglione ci accoglie con l’installazione di Roberto Cuoghi, un tunnel onirico, un’isola dei morti bockliniana, dentro cui trovarci faccia a faccia con il corpo di Cristo mummificato e in decomposizione, un passaggio dantesco dove ci attende la figura di Caronte, una “Imitatio Christi” di forte impatto visivo ed emotivo:
« Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave! »
(Inferno III 82-84)
Roberto Cuoghi, da sempre interessato al tema della metamorfosi, sviluppa un’opera di altissimo livello concettuale, un’officina che crea corpi per poi distruggerli, nella quasi totale oscurità degli spazi, un mondo ir-reale dove un Dio comanda la fabbrica dell’umanità, per poi vederla deteriorarsi, lentamente, sotto gli occhi impressionabili dei suoi simili.
I corpi sono composti da una sostanza gelatinosa chiamata agar-agar e vengono sottoposti ad un processo di decomposizione come fossero esseri umani, una decomposizione che avverrà per tutta la durata della mostra; il primo processo è quello dell’asciugatura con il natron, un sale già usato dagli Egizi per le mummificazioni; altro sistema è quello della liofilizzazione attraverso una macchina: I corpi preparati vengono come “asciugati”e perdono acqua, materia di cui siamo composti al 70%. Si vocifera che un’azienda norvegese già proporrebbe una simile mummificazione al costo di qualche migliaia di euro.
Costantemente avvolti dalle tenebre, obbligati ad una concentrazione riflessiva, si arriva all’intervento dell’artista italo-libica Adelita Husni-Bey, classe ’85.
“The Reading / La Seduta” è un video didascalico-scolastico che restituisce un’immagine molto chiara dell’incertezza umana. Un gruppo di persone si interroga su questioni delicate come razza e genere, rapporto uomo-terra, accompagnati dalla pratica “magica” della lettura dei tarocchi.
Da sempre sensibile ai conflitti sociali e politici, Adelita Husni-Bey sviluppa le sue opere con un processo di realizzazione collettiva, riunendo gruppi di diverse comunità tra i quali compaiono studenti, attivisti, disoccupati. La riflessione del gruppo, tra i movimenti rituali e di suspance della lettura delle carte, del loro capovolgimento e della loro apparizione, nei significati più reconditi e profetici, tocca i temi della tecnologia, dello sfruttamento, della minaccia politico-religiosa.
A svelare il linguaggio poetico tra umano e divino, l’immensa opera di Andreotta Calò ci disorienta nella sua oscura impenetrabilità.
L’aspetto ambientale qui gioca un ruolo fondamentale: camminiamo tra freddi tubi di ponteggi, in uno spazio buio e inquietante, dove riconosciamo solo in lontananza un piccolo “spiraglio di luce”, dall’alto, a cui è possibile accedere solo dopo aver salito una rampa di scale. Un passaggio metaforico dell’aldilà? Un messaggio di speranza di una vita oltre la morte? E’ come se ci dicesse “Viviamo ciechi e proseguiamo a tentoni, con gli occhi socchiusi e gravi alla ricerca della luce“. Chi riesce a superare questo passaggio scoprirà, accedendo al “piano superiore”, una “nuova dimensione”, lo sguardo è preda di un profondo specchio d’acqua su cui si riflette la superficie, un mondo capovolto che ci ricorda la laguna veneziana, terra natale dell’artista.
In “Senza titolo (La fine del mondo)“, più che una fine l’opera ci ricorda un inizio, forse la più poetica e profonda di questa 57^ edizione, dove l’acqua, elemento caro ad Andreotta Calo’ si imprime nella nostra mente carica di simbolismo e di forza.
Si esce quasi accecati dalla luce tiepida di Venezia, ormai avviluppati dentro la ragnatela dei perché, coscienti dei propri limiti, dentro una verità spirituale che è tutta italiana e arcaica e primitiva, così statica da obbligarti a tornare lì dentro, perché i passi si sono fatti pesanti, le gambe sono come ancorate a terra da radici, si è imprigionati da quel buio inquieto e silenzioso e misterioso della “fede” umana.
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