La cultura dominante nel periodo fascista in che considerazione tenne la donna? Alcune componenti culturali, già presenti nella lunga storia dell’Italia divisa e nei primi decenni dell’Italia unita, trovarono in questo periodo una formulazione teorica e un’espressione pratica più precisa. Tali componenti sono principalmente il nazionalismo, il razzismo euna certa tendenza all’aggressività e all’arroganza che sfociò in una prassi e in una politica bellicistica.
Il progetto educativo del fascismo, anche perché radicato in una solida tradizione, contribuì a produrre, a difendere e a sviluppare delle convinzioni e degli stati emozionali tanto nelle singole persone quanto nel pensiero collettivo, che si manifestarono in atteggiamenti imitativi e in linguaggi e comportamenti generalmente condivisi.
L’ideologia fascista veniva a innestarsi su un ceppo già ricco di pregiudizi, insieme con indubbi aspetti positivi. Una già diffusa misoginia trovava nuovo vigore nel fascismo e nei suoi simboli: in sostanza la donna si definisce con ruolo subalterno in rapporto all’uomo, del quale è di volta in volta madre, sposa, sorella, figlia e le sue funzioni biologiche e sociali trovano il loro coronamento nella maternità. Le stesse organizzazioni femminili che erano a favore del regime, con i loro corsi di educazione politica o d’indottrinamento, riproponevano un modello imperante al quale contribuiva in misura di non poco peso la convinta adesione delle stesse donne. Obbedienza, spirito di servizio, spiritualità, sacrificio, abnegazione: queste e altre “virtù femminili” costituirono il leit-motiv di un’intera generazione di donne. Con le esperienze belliche, poi, un tale modello si arricchì ulteriormente, con la proposta della donna madre di soldati, la donna vedova, la donna che piange i morti caduti per la grandezza della patria. In un mare di buoni propositi e in un oceano di retorica, la concreta discriminazione della donna e, a volte, la sua emarginazione dalla vita sociale occupava pochissimo spazio nell’azione politica e nell’opinione pubblica.
Un preciso “luogo” di osservazione della condizione della donna nel ventennio fascista può essere la stampa popolare femminile.
Questo tipo di stampa era, sì, soggetto a censure, ma non a un controllo puntiglioso e capillare come avveniva per i quotidiani. Pertanto queste pubblicazioni sono in grado di offrirci certamente il “dogma fascista” con i suoi modelli precisi, ma non sono esclusi anche interessanti squarci di vita concreta, articolati e complessi elementi di dissonanza rispetto alla visione tradizionale, coraggiosi anche se parziali tentativi di problematicizzare la contemporaneità. Insomma, le sfumature che ogni storia porta con sé.
Proprio in quel periodo queste testate fecero registrare un notevole e contribuirono non poco alla formazione culturale delle donne, risultando, non di rado, fresche testimonianze del vissuto femminile dell’epoca. Settimanali, mensili, riviste di varietà e di moda, rotocalchi entrano nelle case delle italiane e tendono a diffondersi. Questo tipo di stampa contribuì in modo significativo alla “fabbrica del consenso”.
«Creature di virile ardimento, ma di squisita femminilità»: questa espressione, proposta da Vittoria de Grazia, riassume con singolare efficacia la visione che il regime ebbe delle donne e che propose attraverso gli strumenti della cultura e del consenso sociale.
Il fascismo si distinse per un irrigidimento del nazionalismo, sia come “naturale” compimento della spinta risorgimentale sia in opposizione ai due grandi movimenti politico-culturali che in quegli anni si andavano diffondendo, cioè il socialismo e il cattolicesimo, ambedue contrassegnati da un’evidente impronta internazionalistica, mentre fortemente in crisi appariva il liberalismo.
La struttura mentale specifica della stagione fascista presentò un’evidente connotazione nazionalistica, maturata da Mussolini già nel periodo dell’interventismo in vista del primo conflitto mondiale, che trovò la sua manifestazione ufficiale nel cosiddetto Discorso dell’Ascensione, pronunziato da lui il 26 maggio 1927: questa data costituisce un punto di svolta nella sua visione e nella sua politica. Nelle parole del leader fascista la questione demografica veniva posta in primo piano, con la proclamazione di uno scopo ideale da raggiungere, cioè «massimo di natalità, minimo di mortalità», perché «il regresso delle nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei popoli e in successivi tempi li conduce alla morte». Lo sviluppo demografico, pertanto, veniva prospettato in chiave esplicitamente nazionalistica. Naturalmente le donne non erano soltanto vittime più o meno consapevoli di queste strutture mentali; ma esse stesse, a varia misura, le condividevano.
Quale risonanza ebbe sulla stampa femminile questa impostazione nazionalistica della cultura fascista?
Va notato, anzitutto, che non sempre e non da tutte le donne veniva condivisa una simile mentalità. La rivista Almanacco della donna italiana, ad esempio, che fu pubblicata per oltre venti anni, non accettò mai l’idea del primato della donna casalinga sempre disponibile a rimanere incinta per «dare figli alla patria» e anzi rivendicò il ruolo delle intellettuali e di quante operavano al di fuori delle mura domestiche. Su quelle pagine, perciò, apparvero i profili di artisti, letterate, poetesse, pubbliciste, giornaliste e professioniste varie. Così pure non di rado furono presentate, con caratteristiche positive, non solo autrici italiane e tedesche o spagnole, per parlare di regimi abbastanza simili, ma anche francesi, inglesi, russe e nordeuropee.
Altre pubblicazioni, invece, seguirono fedelmente se non pedissequamente il cammino del fascismo, con le sue trasformazioni e i suoi adattamenti. Emblematico, in questo senso, è il caso di Italianissima, rivista culturale nata nel 1924: se nei primi numeri affrontava con vigore la questione del suffragio femminile, a partire dal 1926 si allineò completamente alle posizioni ufficiali del partito.
Autore: Vincenzo Francia
IL GRANO E LA GRAMIGNA
«Perché» – si chiedeva il “rivoluzionario” Martin Lutero nella prima metà del Cinquecento – «le bambine cominciano a camminare e a parlare prima dei maschi?». E, in un probabile sghignazzo generale, rispondeva: «Perché la gramigna cresce sempre più in fretta del frumento!».
Ma abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.
Se un rivoluzionario si esprimeva così, il “conservatore” San Giovanni Crisostomo, nel 380 d. C., aveva dichiarato: «Che altro è la donna se non un nemico per l’amicizia, una punizione del cosmo, un male necessario, ecc.».
Uno potrebbe pensare: forse è il cristianesimo a produrre una tale mentalità?
Macché!
Sentite Pitagora, sei secoli prima di Cristo: «Esiste un principio di bene che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo e un principio di male che ha creato il caos, le tenebre e la donna».
Un altro potrebbe obiettare: ma si tratta del pensiero di tanti secoli fa!
Magari!
Sentite cosa scriveva il 7 febbraio 1915 (dunque non nei secoli bui dell’alto medio evo) il liberale e modernista New York Times, circa la proposta di un suffragio universale aperto anche alle donne: «Accordare il suffragio alle donne ripugna all’istinto che affonda le sue radici nell’ordine naturale. È contrario alla ragione umana, spregia gli insegnamenti dell’esperienza e le ammonizioni del senso comune».
Come si diceva, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.
Presso tutti i popoli, culture e religioni esiste un “giudizio” sulla realtà femminile che possiamo senza dubbio chiamare “pre-giudizio”. Anche in quelle condizioni nelle quali la dignità della donna viene affermata senza eccezione (ad esempio nella tradizione cristiana, secondo la quale anche la donna è creata a immagine e somiglianza di Dio ed è stata salvata da Gesù Cristo), non di meno si afferma una marcata differenziazione di compiti, di funzioni, di ruoli: in sostanza, all’uomo si riconosce un ruolo pubblico, mentre alle donne una funzione riservata all’ambito privato.
Questo atteggiamento di fondo, che attraversa praticamente tutta la storia dell’umanità, è riassumibile in un proverbio estone: «La casa è il mondo della donna; il mondo è la casa dell’uomo».
Identificando periodi storici più precisi, focalizzare meglio la questione dei pregiudizi (anzi, del pregiudizio: si tratta, infatti, di una mentalità globale) nei confronti delle donne. Considerando, ad esempio, il ventennio fascista in Italia, è possibile cercare di comprendere la condizione delle donne italiane nella loro reale situazione e non solo alla luce delle proclamazioni politiche più o meno realizzate. Anche in quella vicenda storica, infatti, non mancarono forme di pregiudizio antifemminile, che andrebbero analizzate in chiave psico-sociologica, non ideologica.
Si parlava del fascismo. E non a caso. Tra tutti gli infiniti periodi della vicenda umana, questo capitolo della storia d’Italia è un periodo facilmente identificabile, con una data di nascita e una di morte. È, inoltre, abbastanza lontano nel tempo, così da permettere una lettura critica dei fatti e delle loro motivazioni; ma è ancora abbastanza vicina da suscitare un interesse non di tipo “archeologico”, bensì vivo e vitale. È un momento paradigmatico di tutta un’epoca storica: il fascismo, infatti, nato in Italia, ben presto si “esportò” in altre nazioni, europee e non. Infine, al di là del fenomeno storicamente datato, non si deve trascurare la presenza di una “mentalità fascista” che lo precede e lo segue. Forse anche sul piano del ruolo femminile interessarsi al fascismo può costituire un valido modello di valutazione di alcuni pregiudizi, dai quali faticosamente la società contemporanea cerca di prendere le distanze.
Il pregiudizio
Analizzando la società e le sue dinamiche, si nota che i pregiudizi si verificano nel contatto tra gruppi o membri di gruppi differenti (ad esempio i pregiudizi razzisti ed etnici, non di rado legati alla questione degli atteggiamenti prevalenti nei confronti delle minoranze) o nello stesso gruppo sociale (quali i pregiudizi tra classi, categorie e generazioni). A questa seconda tipologia sono riconducibili i pregiudizi basati sul sesso.
«Nell’ambito dei rapporti fra i gruppi, il pregiudizio è un atteggiamento che predispone un individuo a pensare, percepire, sentire e agire in modi favorevoli od ostili verso un gruppo o verso i suoi singoli membri».
È la definizione classica del pregiudizio, formulata da P. F. Secord – C. W. Backman nel volume Psicologia sociale, edito da il Mulino di Bologna nel 1971. In sostanza, i componenti di un determinato gruppo vengono interpretati globalmente come portatori di valori o disvalori diversi da quelli posseduti dagli altri. In questo processo, in maniera più o meno consapevole, si identificano alcune note distintive, che vengono enfatizzate e, spesso, considerate fuori dai reali contesti, al punto da assolutizzarle.
Queste note, poi, si caricano di un contenuto emotivo, ben al di là della loro reale portata: la paura, ad esempio, è una di quelle reazioni tipiche in presenza di caratteristiche ritenute di per sé pericolose, senza che si sia adeguatamente riflettuto in modo razionale né tanto meno che se ne sia fatta diretta esperienza.
Il pregiudizio, tuttavia, non è di per sé un atteggiamento negativo. Esso, anzi, può rivestirsi di un’atmosfera favorevole: ciò che lo definisce, dunque, non è la sfumatura negativa, ma l’assenza di una motivazione che lo giustifichi.
L’atteggiamento pregiudizievole, tuttavia, viene considerato soprattutto nelle sue valenze negative e di solito sfocia nella discriminazione: ad alcuni individui vengono negati certi privilegi o diritti di cui godono gli altri membri della società.
Alla base del comportamento pregiudiziale, si rileva una teoria dei valori. Non va dimenticato, infatti, che le situazioni concrete che danno origine a pregiudizi sono piuttosto rare, mentre ciò che è estremamente frequente è la continuità del pregiudizio stesso. Il pregiudizio, cioè, trova abbondante e facile alimento nel conformismo personale e sociale.
Nella nascita e nella durata di un pregiudizio un ruolo non secondario va riconosciuto alleader di un gruppo. Questi, infatti, per giungere al potere e per mantenerlo e consolidarlo non può non condividere i valori del suo ambiente; anzi, nei confronti di questi, si pone come un simbolo e una sintesi, quasi un’«icona» del suo tempo e della sua società.
Naturalmente le immagini, simboliche e reali, degli atteggiamenti discriminatori ritornano con un’enorme forza pedagogica nelle realtà istituzionali, quali la famiglia, la Chiesa e la scuola, come pure nei mass-media: arte, letteratura, stampa, radio, cinema e televisione contribuiscono enormemente al perpetuarsi di modelli e di espressioni pregiudiziali. In questo, l’influenza degli intellettuali è fuori dubbio.
In una tale descrizione del fenomeno del pregiudizio, non va tralasciata la funzione esercitata dagli individui. È, infatti, proprio nei singoli che il pregiudizio si manifesta più concretamente. La ricca varietà degli individui fa sì che essi evidenzino varie tipologie nella generazione e nella gestione dei pregiudizi: così, ad esempio, persone più abituate all’ordine e alla trasparenza manifestano atteggiamenti di fastidio e di discriminazione più frequenti in presenza di situazioni caotiche e fluttuanti di altri. Il pregiudizio, perciò, soddisfa anche dei bisogni espressi dai singoli, quali il bisogno di appartenenza e di sicurezza.
Profondamente incisiva appare la presenza o meno di una coscienza religiosa. Addirittura gli studiosi precedentemente citati hanno osservato che
«per quanto attiene ai processi psicologici individuali, la diversità di credenze è un fattore determinante del pregiudizio e della discriminazione più importante dell’appartenenza a un gruppo etnico o a una razza. In altri termini, un individuo è più propenso a disprezzare un altro individuo se egli crede che quest’ultimo abbia credenze diverse dalle sue».
E che dire delle ideologie? Rilevante è il loro contributo nella strutturazione di un pregiudizio: se, ad esempio, si ritiene che le persone di colore non siano “umani”, è chiaro che si negheranno loro alcuni diritti propri dell’uomo.
Il pregiudizio, inoltre, è una distorsione della percezione della realtà, come pure dell’apprendimento, della memoria e della riflessione. Esso ci rende da una parte chiusi alle novità, dall’altra suggestionabili di fronte alle esperienze, ci consolida nelle prevenzioni e negli errori, ci prospetta soluzioni stereotipate e spesso irrazionali, ci esonera dallo sforzo intellettuale ed etico e ci conferma negli automatismi.
Persistenza dei pregiudizi
Il pregiudizio è un giudizio dato prima, cioè espresso a prescindere dall’esperienza. Esso è, nel suo aspetto negativo, un errore di valutazione.
È chiaro come un simile tema occupi tutta la storia dell’uomo, in modo particolare la storia della filosofia. Essa, infatti, altro non è che la ricerca della verità ultima su tutti gli esseri: perciò il primo problema che la filosofia deve affrontare è se e come la mente umana possa giungere a una conoscenza oggettiva delle cose, ad una conoscenza che si esprima in un giudizio e non in un pre-giudizio. Alcuni filosofi, poi, hanno fatto del pregiudizio l’oggetto esplicito del loro studio: il più famoso tra loro è Francis Bacon, che si colloca alle origini del pensiero moderno. Lo stesso atteggiamento antipregiudiziale vale per le scienze matematiche, per le scienze umane e, in genere, per ogni conoscenza che tenda a superare il livello della superficialità.
Al campo del pregiudizio sono riconducibili alcuni concetti e sfumature psicosociologiche. Tra questi si evidenziano i concetti di stabilità e di abitudine, di aggregazione, partecipazione, arbitrarietà, condizionamento, avversione, conflitto e ostilità, interesse consolidato, consenso, educazione, opinione, imitazione, linguaggio, organizzazione, propaganda, polarizzazione, interazione e via dicendo.
È ovvio che molti di questi aspetti esprimono dei significati di grande importanza per la vita delle persone. Quello che non è valido è l’assolutizzazione acritica di questi aspetti a discapito di altri non meno importanti. Il bisogno di appartenenza, ad esempio, è certamente positivo; a esso si collega il desiderio, anzi l’esigenza, di essere accettati dagli altri, di ricevere stima e anche affetto, di comunicare agli altri la nostra presenza. Tutto ciò va benissimo. Ma diventa un dis-valore quando è assolutizzato: in tal caso il soggetto rischia di diventare uno schiavo del suo ambiente. È necessario, allora, dare voce alla capacità di prendere posizione “contro corrente”, affermando altri valori, quali la libertà personale e il rispetto dei fatti.
Il pregiudizio, in definitiva, consiste in un processo, non di rado rozzo e tenace, di semplificazione della realtà messo in atto da un gruppo sociale e utilizzato in modo più o meno consapevole anche dai singoli individui. Il ricorso a un tale processo svolge una funzione prevalentemente difensiva, poiché assicura il mantenimento di posizioni acquisite. La condivisione sociale e la generalizzazione appaiono dei corollari del processo pregiudiziale, inteso come un dinamismo socio-culturale.
Eppure, nonostante l’immenso sforzo della cultura e delle culture di liberarsi del pregiudizio, vediamo come esso ritorni costantemente a influenzare il ritmo della vita. In tutti i momenti del cammino umano siamo costretti a prendere atto della persistenza di opinioni ingiustificatamente sfavorevoli circa le persone appartenenti a un determinato gruppo sociale, opinioni che non restano isolate in un ambito teorico ma producono comportamenti e determinano scelte di tipo discriminatorio.
La questione femminile è uno dei campi d’indagine privilegiato per osservare il fenomeno del pregiudizio. Anche la moderna civiltà occidentale, con tutto il suo enorme progresso, appare, agli occhi non solo di sociologi e psicologi ma anche del comune sentire, ancora come una società maschilista. Basterebbe pensare già soltanto al linguaggio: la parola “uomo”, ad esempio, continua a indicare sia l’umanità in genere sia l’umanità maschile, cosa che non accade con la parola “donna”; e ciò vale per molte situazioni dove il genere maschile è usato per indicare entrambi i sessi.
Se in Occidente si assiste almeno a una progressiva presa di coscienza di queste contraddizioni culturali, in molte altre aree del pianeta la condizione della donna continua ad essere ancora molto insoddisfacente: all’origine di un mancato raggiungimento dell’effettiva parità, notiamo il permanere del pregiudizio antifemminile. L’Occidente stesso, però, appare molto indietro se, al di là degli aspetti formali e giuridici, si considera l’effettiva presenza sociale della donna: i mass-media quotidianamente offrono il modello di una società in cui appare, per dirla con Bruno Mazzara, «il maschio dominante e orientato all’esterno; la femmina dominata e ripiegata su se stessa e sulla casa».
Non di rado i pregiudizi legati ai ruoli attraversano la storia, permangono e spesso si rafforzano, si radicano nelle coscienze e nelle strutture, assumono forme grossolane o più sottili ed eleganti, ma sempre condizionano la vita delle persone e delle comunità.
Linee di tendenza del pregiudizio antifemminile
Nella sua indagine la psico-sociologia non fa riferimento a valori assoluti, espressioni di una vera o presunta interpretazione della natura umana, bensì a linee di tendenza, alla prevalenza di alcuni aspetti su altri, al livello della sensibilità sociale nei confronti di problemi e proposte.
Tra le funzioni esercitate dal pregiudizio, c’è quella “semplificatrice” nei confronti della realtà. Si tratta di un aspetto, nello stesso tempo, confortevole e castrante, poiché non di rado lo stesso soggetto che è vittima di pregiudizio tende a utilizzare gli stereotipi come espedienti identificativi rassicuranti. Ciò si verifica con evidente frequenza nel caso del pregiudizio di genere, quello nei confronti delle donne, forse perché, più che in altri casi, è molto diffuso e basato su concetti condivisi perfino dalle stesse donne. È, in sostanza, un’espressione collettiva particolarmente radicata non solo nei gruppi maggioritari, ma in tutti gli strati della società. In tal modo tale pregiudizio fornisce un prontuario semplice e immediato alla valutazione e alla riflessione, all’espressione e all’organizzazione del pensiero, che è in grado di orientare concretamente anche l’azione.
Anche a causa della sua base emotiva molto consistente, i pregiudizi non di rado si fondano su acquisizioni cognitive per lo più inconsapevoli, determinate e rafforzate dal contesto sociale, familiare e amicale, prodotte già dalla prima infanzia. La donna, in questo senso, appare una vittima ancora più consenziente di quanto non si possa presupporre in altre forme di discriminazione. Ella stessa infatti ha assorbito, con il latte materno, dei veri e propri cliché fissati, difficilmente reversibili e modificabili, sia per la loro diffusione sostenuta dall’ambiente culturale sia per la legittimazione derivante dall’approvazione familiare. Lo stereotipo rafforza negli individui quei messaggi che ottengono consenso e legittimazione sociale.
Mai come in un simile contesto appare che il pregiudizio, oltre che un mezzo di esclusione, è anche, e forse soprattutto, strumento di inclusione, perché produce e conferma il senso appartenenza. Il singolo sperimenta se stesso all’interno di relazioni significative, prima con la madre, poi con la famiglia e, infine, con il mondo esterno. In questo percorso il processo di definizione di sé s’intreccia con il senso di appartenenza o “senso del noi” come una spinta motivazionale per lo sviluppo individuale.
Nell’intreccio di relazioni sociali che danno luogo a una rete molto complessa, allora, il pregiudizio diventa una forma di approssimazione alla realtà che implica, da una parte, un’accentuazione delle differenze tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi e, dall’altra, un’accentuazione delle somiglianze all’interno del gruppo, producendo un effetto di assimilazione. Questa azione di inclusione tende a compensare e gratificare l’individuo nei suoi rapporti con gli altri, generando un certo spirito conservatore tipico delle donne, dovuto ovviamente non alla natura ma alla cultura.
Il pregiudizio “aiuta” anche nell’analisi dell’immagine di sé, perché fornisce uno strumento concettuale d’immediata applicabilità. Conseguentemente chi ne è vittima, in questo caso la donna, si mostra disposto a sminuire la propria immagine, riconoscendosi nell’identità proposta e condividendone il modello: subisce cioè l’effetto dello schiacciamento sociale effettuato, attraverso l’uso degli stereotipi, dal potere di sottomissione del gruppo maggioritario. Perché sforzarsi di modificare la propria posizione d’inferiorità, se questa garantisce comunque alcuni beni e, soprattutto, un consenso di fondo?
Un esempio molto chiaro di distorsione della realtà, prodotta dal pregiudizio, sono le metafore che spesso vengono utilizzate nel linguaggio comune, come pure nei mass media e nel lessico politico: la donna è, di volta in volta e in base alle convenienze (anche proprie), l’angelo, la strega, la vampira, la valchiria, la Giovanna d’Arco, la vestale, la matrona, ecc.; e, poi, ricorrendo a seconda delle situazioni all’apparato immaginifico proveniente dalla mitologia, una Giunone, una Venere, una Diana, una ninfa, una sirena e così via.
La donna viene coinvolta nel linguaggio paradossale della metafora ed è indotta a rapportarsi con se stessa e con il proprio sapere, costruendo la propria coscienza di sé anche grazie alle attese degli altri. Si costruisce, in tal modo, quel sapere e quelle conoscenze che le permettono di relazionarsi con gli altri, si individuano le modalità e i limiti di questa relazione, si precisano i valori che definiscono ciò che è comune e ciò che è diverso.
A tutto ciò va aggiunto il ruolo della dimensione istituzionale e politica, il ruolo cioè che assumono la società e le istituzioni sociali nel delineare il senso comune e gli atteggiamenti maggioritari.
Tutti questi fattori agiscono spesso in maniera integrata, influenzandosi reciprocamente, e ognuno alimenta l’altro in una catena di attribuzioni di causalità e responsabilità reciproche.
Eros e thànatos
I processi psichici vanno considerati come delle energie, delle forze della mente, che possono essere orientate verso un oggetto. È evidente che una tale impostazione allude a un concetto della fisica: la capacità di un corpo a compiere un lavoro. Anche l’energia psichica si colloca in questa linea. Il lavoro è qualsiasi prodotto mentale, cioè non solo l’attività conoscitiva, ma anche tutto ciò che concerne la sfera emotiva che precede, accompagna e segue la conoscenza, tutto quel mondo di precomprensioni, pregiudizi, aspettative intenzioni, desideri, motivazioni, interessi e così via.
Le principali forme di energia sono la libido e l’aggressività. Esse hanno un’origine innata e biologica e, pertanto, sono presenti sin dalla nascita. La libido è un’energia costruttiva orientata alla vita; l’aggressività possiede invece una qualità distruttiva. La meta è la soddisfazione della pulsione, l’oggetto è il mezzo di cui si serve la pulsione per raggiungere la soddisfazione.
In Al di là del principio del piacere del 1920, Freud definisce la posizione teorica finale, secondo la quale esistono due istinti contrapposti: l’istinto di vita e l’istinto di morte; la pulsione aggressiva è una componente di quest’ultimo. La realtà della morte, dunque, è intrinseca al dinamismo psichico. È un istinto che alla nascita è rivolto contro di sé, poi viene deviato verso l’esterno tramite l’influenza della libido, del Super-Io e dell’Io.
Freud precisa che le forze dinamiche sono tendenze orientate verso un fine. Il fine ultimo dell’attività psichica è ricercare il piacere ed evitare il dolore. L’accessibilità alla coscienza spesso è interdetta dalla rimozione, che è lo sforzo di mantenere pensieri specifici al di fuori della consapevolezza per evitare spiacevolezza o dolore.
Proprio perché presenti fin dalla nascita e, per giunta, influenzati dal Super-Io, questi dinamismi fanno sì che il passato influisca sul presente del soggetto. Tale prospettiva identifica degli elementi significativi per l’analisi del passato, del presente e perfino del futuro. Pertanto, alla base della nevrosi adulta non di rado ci sono traumi infantili: perciò il sintomo negativo potrà essere eliminato solo risalendo alla sua genesi e al suo sviluppo nell’età infantile. La psicoanalisi permette di tornare indietro da una struttura psichica a un’altra che l’ha preceduta e dalla quale si è evoluta.
Le origini di conflitti, aspetti del carattere, nevrosi ed elementi strutturali della personalità sono da collocarsi negli eventi e nei desideri dell’infanzia e nelle fantasie che essi hanno generato.
Quando la personalità è molto disturbata, il contatto con la realtà appare del tutto compromesso: è il caso della psicosi.
Le origini di conflitti, aspetti del carattere, nevrosi ed elementi strutturali della personalità sono da collocarsi negli eventi e nei desideri dell’infanzia e nelle fantasie che essi hanno generato.
Le energie possono entrare in contrapposizione tra loro, sfociando in un conflitto. Se non si riesce a risolverlo, di solito sorgono i sintomi della fobia o sintomi fisici (come una paralisi isterica). La contrapposizione principale è tra pulsioni di morte e pulsioni di vita (in cui si pone la libido): eros e thanatos. «Se eros tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d’esistenza inorganica», ribadisce Freud.
Alla luce di queste riflessioni generali, appare non solo legittimo ma altamente valido il ricorso all’indagine psicoanalitica. Esso consisterà non tanto in una particolare tecnica psicoterapeutica, finalizzata al trattamento di disturbi neurologici, quanto in uno sguardo sistematico critico sulle conoscenze che un determinato fenomeno è in grado di focalizzare.
L’inconscio
Il concetto d’inconscio è al centro della teoria e della pratica psicoanalitica.
Va notato, anzitutto, che, a differenza di quanto accade a livello di consapevolezza, l’inconscio non segue le leggi della logica. In modo particolare, viene abolito il concetto di tempo, così che qualsiasi evento può essere rivissuto a prescindere dai suoi legami con una reale sequenza cronologica: un ricordo, un’impressione, un impulso risalente al passato può produrre un effetto più incisivo di uno recente o viceversa.
Nell’inconscio, soprattutto, viene meno quello che è il principio-base di ogni conoscenza, cioè ilprincipio di non contraddizione. È nota la formulazione classica di questo principio proposta da Aristotele: una cosa non può nello stesso momento essere e non essere sotto lo stesso aspetto. Ebbene, è proprio questo che, al contrario, si verifica nella sfera dell’inconscio: in essopossono mescolarsi e coesistere impulsi tra loro opposti senza che essi si annullino reciprocamente.
Per l’inconscio, perciò, non è valida la stessa critica razionale che si applica alle idee del sistema conscio. Questo significa che un soggetto non è capace di affrontare un impulso inconscio, a meno che questo impulso non venga portato alla coscienza. Pertanto, le pulsioni inconsapevoli posseggono una enorme forza di condizionamento rispetto alla volontà della persona.
Nella mente nulla avviene per caso. Ogni fatto psichico è connesso per via causale agli eventi che l’hanno preceduto; perciò ognuno di essi ha un suo significato e una sua importanza nella vita psichica. Non necessariamente, però, questi eventi si compiono all’interno di una piena consapevolezza, ma si svolgono come processi inconsapevoli. Pensieri, sentimenti e impulsi sono fenomeni ed eventi concatenati e casualmente connessi.
Naturalmente, non tutti i fenomeni inconsci sono inconsci allo stesso livello: alcuni, più propriamente detti preconsci, sono facilmente richiamabili alla memoria mediante uno sforzo di concentrazione; altri, invece, richiedono un impegno terapeutico per superare il muro che impedisce l’accesso alla coscienza.
Mediante libere associazioni, in cui il soggetto riferisce all’analista qualsiasi pensiero gli venga in mente evitando ogni censura, sipuò dedurre cosa passi inconsciamente nella mente del paziente. Il lavoro analitico, pertanto, permette di studiare i processi mentali e giungere alla costruzione di un complesso d’ipotesi sul funzionamento normale o patologico della mente. Le attività mentali inconsapevoli non possono essere osservate direttamente, ma se ne possono osservare gli effetti, i derivati, e da questi risalire alle cause.
L’inconscio può essere considerato sotto due aspetti: riguardo al suo contenuto, esso rappresenta tutti quei fenomeni della psiche che non raggiungono la coscienza; riguardo al «luogo» del suo manifestarsi, invece, esso è il deposito di quei contenuti della coscienza che sono diventati oggetto di rimozione. Solo attraverso l’indagine dell’inconscio è possibile risalire a eventi psichici di solito traumatici che sono stati rimossi nel tempo.
La struttura del soggetto secondo Freud
Tra le principali opere di Sigmund Freud sono da segnalare: Le origini della psicoanalisi, Psicopatologia della vita quotidiana, Tre saggi sulla teoria della sessualità, Al di là del principio del piacere, Introduzione alla psicoanalisi, Il disagio della civiltà. In esse Freud delinea la teoria e la prassi della psicoanalisi.
Alla luce del pensiero freudiano, la struttura della persona umana oscilla tra l’Es, cioè la sua base fisiologica e istintiva, e il Superego o Super-Io, cioè il condizionamento che subisce dall’ambiente: all’interno di queste due spinte contrapposte, si forma l’Ego, la singola originale personalità.
L’Es è una struttura inconscia, che spinge a favore della soddisfazione delle pulsioni inconsce dell’individuo. A sua volta, la pulsione ha la sua fonte all’interno del corpo e ha una carica che cerca soddisfacimento. La scelta dell’oggetto nel quale si cerca un tale soddisfacimento si struttura nel corso dello sviluppo dell’individuo e trova rappresentazione nella sua vita psichica.
Anche il Super-Io è una struttura quasi completamente inconscia, ma è costituita come dall’esterno, cioè dalla rappresentazione delle regole, delle tradizioni e dei divieti morali a cui una persona è soggetta. Soprattutto nell’infanzia, vengono interiorizzate le figure genitoriali che creano come una rete di controllo e di contenimento nei confronti dell’Es e delle sue pulsioni.
L’Io è la struttura organizzatrice della personalità. Esso si colloca come equilibrio e mediazione tra gli impulsi inconsci dell’Es e le esigenze della realtà. L’Io si serve di meccanismi di difesa per poter gestire la realtà o, meglio, gestirsi nella realtà.
In questa architettura della mente, l’ultimo livello è la coscienza, i cui contenuti sono immediatamente accessibili. Essa si basa sul principio di realtà (le cui azioni e ideazioni sono date dal confronto con il mondo) e segue processi logici e razionali per un corretto adattamento alla realtà esterna.
L’analisi del soggetto porta a scoprire nell’Es il duplice movimento di amore alla vita e di ricaduta nell’inerzia e nella morte come componenti di tutto il divenire umano.
Un fenomeno particolarmente importante dell’azione dell’inconscio è costituito dalla nevrosi, che è, in senso generale, un insieme di disturbi psico-patologici scaturiti da un conflitto di tipo ansiogeno. Si tratta di un complesso di disordini psichici causati da una patologia generale del sistema nervoso, che provocano a vari livelli disagio o sofferenza nell’individuo.
Come ben videro Sigmund Freud e i suoi seguaci, la nevrosi molte volte deriva da una rimozione o repressione di istinti, pulsioni e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, altrimenti si dà luogo a disturbi del comportamento che durano nel tempo e incidono sulla vita della persona, rendendone difficoltose le relazioni affettive e compromettendone non solo le capacità di lavoro ma perfino alcune funzioni fisiologiche e psicologiche. A causa del vissuto personale di ogni soggetto, le nevrosi possono sfociare in diverse manifestazioni psicopatologiche, quali fobie, ossessioni, isteria, angoscia ed altre.
La stessa idea della temporalità subisce una profonda modificazione: il tempo, infatti, viene concepito come lineare, cioè progressivo o regressivo; ma le nevrosi ci fanno comprendere che esso è anche ripetitivo, ricorrente, simultaneo. Ciò produce un totale «spaesamento», per cui l’uomo non si sente più possessore del tempo, ma prende coscienza di essere posseduto da esso.
Appunti elementari di psicoanalisi
La psicoanalisi si colloca tra due poli: tra scienza e umanesimo. È opportuno, anzi necessario, che questa tensione permanga e continui a fecondare ambedue queste componenti. I principali concetti della psicoanalisi sono in grado di offrire degli strumenti utili per approfondire e consolidare la propria vita e le proprie relazioni con gli altri. La psicoanalisi – è ormai arcinoto – non va intesa come una scuola di pensiero unitaria e rigidamente istituzionalizzata, bensì come una galassia di teorie, sperimentazioni e ipotesi che si sono sviluppate a partire da colui che ne è il padre universalmente riconosciuto: Sigmund Freud.
L’ultimo scorcio dell’Ottocento e tutto il Novecento, fino ai nostri giorni, sono fortemente influenzati dal suo pensiero. Il suo ascendente lo si riscontra non solo nell’ambito strettamente clinico, ma in un senso culturale molto più ampio: religione, filosofia, antropologia, morale, sociologia, storiografia, poesia, teatro, arte, critica, cinema, musica, … nulla è sfuggito all’ottica della proposta freudiana, anzi molto è stato creato o reinterpretato alla luce di essa.
Il suo primo approccio alla problematica del profondo avvenne studiando le malattie nervose e applicando ai pazienti l’ipnosi, come metodo per scoprire le motivazioni dei sintomi isterici. Fu questa la strada che permise a Freud di addentrarsi nel mondo dell’inconscio, per giungere alla fondamentale scoperta che in ogni individuo esiste una parte di sé che è stata dimenticata e rimossa. L’ipnosi, tuttavia, non bastava, perché era necessario condurre il paziente ad una partecipazione attiva. Occorreva, perciò, un nuovo tipo di rapporto da stabilire con lui: Freud individuò tale rapporto nel metodo delle libere associazioni, in modo che il paziente potesse reperire e narrare le sue relazioni affettive che erano state dimenticate e, in sostanza, consegnate ai sogni.
Le sue opere costituiscono delle pietre miliari della cultura contemporanea. In esse l’autore sostiene che non esiste una manifestazione pura del pensiero umano ma ogni pensiero e ogni azione sono condizionati da forze, motivazioni e desideri che molte volte sono ignote. La nuova scienza, cioè la psicoanalisi, deve portare alla luce e comprendere proprio questa realtà inconscia, che determina la nostra condotta e i nostri sentimenti. Prima di Freud, dunque, «normale» e «anormale», «razionale» e «irrazionale» avevano confini ben precisi: dopo di lui, non è più così. Sia la singola persona quanto i gruppi sociali vivono questo dinamismo, non di rado conflittuale, tra consapevolezza e incoscienza.
Tra gli scopi della psicoanalisi c’è quello di individuare le cause delle nevrosi in funzione di una distorsione della personalità con un disarmonico sviluppo del comportamento. Perciò si studia il contenuto conscio ed inconscio dei pensieri umani e il rapporto che esso ha con l’immaginazione e con la creatività.
Come pratica terapeutica questa scienza cerca di portare alla consapevolezza le pulsioni inconsce, i desideri e i ricordi che condizionano la vita della persona. In tal modo queste pulsioni, proprio perché sottratte al sistema inconscio, perdono la grande influenza che avevano nella vita psichica dell’individuo e possono essere soggetti alla critica razionale caratteristica del sistema conscio. La persona, così, è facilitata nel tenere simili impulsi sotto controllo.
Ma. oltre che un metodo di cura, la psicoanalisi, come precedentemente accennato, è una vera e propria teoria sui processi del funzionamento della mente umana. I concetti fondamentali del pensiero freudiano, al di là di inevitabili contestazioni e con le opportune critiche ed evoluzioni, restano i cardini intorno ai quali gira la visione e la terapia psicoanalista. Certo, come ogni altro processo conoscitivo e scientifico, anche questi concetti hanno subìto sviluppi e adattamenti: importanti, ad esempio, sono la rilettura, l’approfondimento e la rivitalizzazione proposte da un Jacques Lacan o da un Michel Foucault. Molto ha contribuito anche il grande sviluppo delle neuroscienze e delle scienze sociali a mettere in crisi o convalidare le teorie freudiane.
La psicoanalisi, dunque, parte dal presupposto che gli individui sono spesso inconsapevoli di ciò che è alla base di emozioni e di comportamenti. Suo singolare oggetto di studio sono l’inconscio e il suo rapporto con la memoria e il sogno come via regia per l’inconscio. I fattori inconsci possono essere fonte di difficoltà, che si presenta talora sotto l’aspetto di sintomi riconoscibili, altre volte attraverso tratti problematici sotto il profilo sanitario, affettivo, relazionale e lavorativo. Frequenti, tra gli altri, sono i disturbi dell’umore o dell’autostima.
La psicoanalisi, pertanto, fonda il proprio metodo sulla concezione di processi mentali inconsci. Il trattamento psicoanalitico può mettere in evidenza tali fattori, vedere come essi influiscano sulle relazioni e sui comportamenti, ripercorrerne il processo storico, rivelare in che modo questi abbiano influenzato la vita del soggetto e aiutarlo ad affrontare meglio la realtà del proprio vissuto.
Arte egizia: le mummie
L’arte della preistoria, proprio per il suo carattere di densità simbolica, ha una chiara connotazione religiosa. Essa potrebbe essere nata non dalla volontà di trasmettere un sapere, ma dalla celebrazione di eventi rituali da parte di sciamani. Questi sono riconosciuti dal gruppo sociale come mediatori tra la realtà materiale e le forze presenti in natura o al di sopra di essa. Certo non si deve immaginare un’esperienza religiosa già istituzionalizzata in modelli di comportamento condivisi da più persone allo scopo di soddisfare il bisogno di un gruppo: più che di religione, forse sarebbe meglio parlare di «religiosità» nelle sue prime fasi di organizzazione sociale.
La magia, a sua volta, si esprime in riti di sortilegio affinché la caccia sia abbondante e gli animali siano fecondi: l’immagine produce l’atto, cioè la rappresentazione della ferita è in grado di provocare la cattura della selvaggina. Anche nella circostanza della morte, la magia esprime una sua presenza evocatrice ed esorcizzante. L’arte è una vittoria sulla morte, la scoperta di una gioia primordiale. Un «gioco» tra realtà e irrealtà che s’intrecciano, si richiamano, lottano tra loro e tra loro si sostengono a vicenda.
Man mano che le società si organizzeranno e si evolveranno, non verrà mai meno il culto dei defunti, con i relativi cerimoniali sempre più complessi e i rispettivi luoghi di sepoltura sempre più solenni. Infiniti sono gli esempi che si potrebbero addurre, dalla società sumerica a quella cinese, dai gruppi indoeuropei a quelli africani.
Un caso classico è il culto dei morti nell’antico Egitto: praticamente sono le tombe a svelare le principali informazioni su quella straordinaria civiltà. Fin dai primissimi insediamenti umani lungo la valle del Nilo (5 mila a. C.), le tombe sono in grado di testimoniare non solo la mentalità di quegli abitatori, ma anche molti aspetti della loro vita quotidiana. Illuminanti sono queste considerazioni di Enrico Ascalone:
«Il cadavere è deposto per lo più rannicchiato e avvolto in teli, stuoie o pelli, accompagnato da oggetti di corredo, che rivelano l’esistenza di concezioni religiose e funerarie. I corredi sono composti da recipienti ceramici, statuine in pietra, terracotta, osso e avorio, oggetti in fibre vegetali intrecciate, armi, monili ed effetti personali; dall’analisi di tali contesti emergono accenni di differenziazione gerarchica, pur mancando una società politicamente strutturata e una coesione territoriale».
Tutto ciò, poi, con la successiva organizzazione sociale, l’importanza della classe sacerdotale e l’avvento al potere dei faraoni, raggiungerà livelli di bellezza e di profondità difficilmente eguagliabili. È soprattutto dal 2.700 a. C., con la costruzione della piramide di Zoser, che le tombe egizie diventeranno monumenti di eccezionale grandiosità tecnica, estetica e simbolica. Seguiranno, tra il 2.550 e il 2.450, le grandi piramidi di Giza, innalzate dai faraoni Cheope, Chefren e Micerino, per giungere infine a veri e propri templi funerari intorno al 2.100.
Al di là della ricchissima documentazione archeologica, è facile immagine il solenne e complesso cerimoniale che si svolgeva in occasione della morte del faraone, dei suoi familiari e dei notabili del regno. Ma anche sepolture più umili offrono uno spaccato sulla civiltà egizia e sulla sua ritualità funebre. Celeberrime, poi, sono le mummie che quel popolo ha consegnato alla storia.
Lo stesso processo di mummificazione non è riducibile a un trattamento chimico-fisico. La cultura egizia, infatti, riteneva che il corpo fosse la sede dell’anima, Ka, e la conservazione del corpo stesso dopo la morte fosse essenziale per la vita nell’oltretomba. La mummificazione tendeva perciò a questa conservazione, mediante l’asportazione degli organi interni e la disidratazione del corpo, prima che questo fosse avvolto in un lenzuolo o in bende intrise di resine. L’aridità dell’ambiente, poi, favoriva la rapida disidratazione del corpo che lo preservava da ulteriori decomposizioni.
Fin dalla più antica mummia egizia, risalente a oltre il 3.000 a. C. e conservata al British Museum di Londra, il corpo, dopo aver ricevuto tutti i trattamenti previsti, fu sepolto insieme con del vasellame contenente cibo e bevande per il viaggio nell’oltretomba. Lo scopo della mummificazione, pur avendo un’indubbia ricaduta sul piano estetico, era di tipo ritualistico-religioso, ulteriormente sottolineato dalle decorazioni espresse sulle pareti delle tombe o sui sarcofagi.
Anche nelle antiche culture cinesi si trova la pratica dell’imbalsamazione attraverso l’uso di legno di cipresso e particolari erbe medicinali. Altre culture in cui si riscontra la pratica della mummificazione sono quelle del Centro America.
Poesia dell’assenza: Afelio di Ada Prisco
L’afelio, ci ricorda l’autrice nell’introduzione a questa raccolta poetica, è il «punto di massima distanza della terra dal sole nel suo moto ellittico di rivoluzione». È il “non sole”: con tutte le conseguenze di buio e di freddo che questa situazione comporta.
Assenza, dunque. Anzi “mancanza”, precisa l’autrice nel sottotitolo. Mancanza è assenza di ciò che dovrebbe esserci e non c’è. Mancanza di relazione, di condivisione, di solidarietà, di progettualità.
Ada scava dentro la sua (e nostra) quotidianità, per smascherarne le fragilità e le ipocrisie. Il paesaggio su cui il suo sguardo si posa è fatto di macerie: «Per ognuno e per ogni città le macerie sono dietro l’angolo». Le rovine delle città s’intrecciano con quelle dei cuori feriti («Il linguaggio puro, semplice, essenziale degli amanti / si muta in mucchio di brandelli fumanti»), con i ricordi dolorosi («Quando parti all’improvviso, / non ti soffermi su alcun sorriso»), con il senso di stanchezza che tutto avvolge e tutto deprime («Nel vero quotidiano / sono poche le carte in mano»).
In questa ottica anche i valori positivi vengono visti nel loro lento dissolversi. Emblematica in tal senso è la poesia Zappa: l’umile strumento stabilisce con l’agricoltore «un abituale rapporto gentile […] uno strumento / flauto dolce che annienta ogni intorpidimento»; ma, una volta abbandonata nella rimessa, «la ruggine ne oscura il metallo, / come la zoppia blocca il cavallo». E il silenzio, che gli spiriti riflessivi cercano, non è occasione di contemplazione serena e creativa, ma ha un sapore di morte, come quello dei cimiteri. Tutto, insomma, è illusione, «tutto appare senza peso», il rapporto con il mondo «evapora», la casa è vuota, la tavola inutile («Se sono via i commensali, / la tavola è come bici senza pedali. […] Certo, sarà più simile a una tomba»). La vita è un teatro e un gioco e, se è accompagnata da una colonna sonora, il suono è quello del fado, «musica nostalgica della terra di Portogallo». Tutto è vanità, direbbe la Bibbia; tutto è «limbo perenne», aggiunge l’autrice.
Valori positivi, si diceva. E cosa c’è di più positivo del futuro? Ma anche il domani appare come un tunnel oscuro: «non c’è più veduta in avanti, / si rimugina su ricordi pesanti», dice Ada in una poesia significativamente intitolata Il futuro quando c’era. Se Battiato cercava un centro di gravità permanente, Ada è consapevole di non riuscire a trovarlo.
L’autrice non si fa abbagliare dall’apparenza delle cose, ma cerca la profondità “nelle” cose. La sua analisi, asciutta e spietata, incide non solo nella carne viva della singola persona ma anche nel tessuto sociale, giungendo perfino all’invettiva contro coloro che commettono l’omicidio di comunità, affogando in un ottuso egoismo il «lavoro di anni, studi, cure, concordi percorsi e testimonianze, / sollecitudine, amorevole attenzione che ignora vacanze».
Il bilancio conclusivo non può essere che tragico: «Lo so adesso che ho un voto severo: / è solo e semplicemente “zero”».
Nella poetica di Ada Prisco riecheggiano i temi e i toni di Giacomo Leopardi. E, come nel Leopardi, anche in Ada si affacciano (timidamente?) delle piste di soluzione. Due in modo particolare. La prima è l’esperienza dell’amicizia, «vitale memoria e cura», la semplice carezza dell’amico. Anche l’intelletto e la conoscenza hanno un loro ruolo salvifico, ma sempre accompagnati dall’amicizia perseverante, da un amore che non sia possesso, da una testimonianza di semplice e coerente gratitudine («una sola parola è da salvare nella mente / non manchi il mio grazie, sinceramente»).
L’altra pista, più problematica, è l’esperienza religiosa. Nei versi di Afelio questa esperienza si affaccia ripetutamente, a volte in modo esplicito, altre volte con allusioni e rimandi. Sembra tuttavia che Ada abbia timore di pronunziare la parola “Dio” e le altre parole della tradizione religiosa: Padre, Gesù, Cristo, Signore. Parole, cioè, che indicano delle persone, non dei concetti ideali. Ada preferisce parlare di “Provvidenza”, che, appunto, è un vocabolo astratto, e lo fa con la solita amarezza: «Dove si credeva la mano della provvidenza, / c’era solo una truffa con evidenza»; «Forse che la Divina Provvidenza / nella solitudine indica la sapienza?».
Il lettore, allora, comprende che il grande assente è proprio lui, Dio. Ma l’assenza di Dio non è il rifiuto della religione: è il rifiuto di “una” religione, di un modo di essere (o di apparire) credenti. In Ada la ricerca estetica si intreccia con la passione per la verità, in costante dialogo con le istanze del nostro tempo, nel quale Dio sembra fuori dell’orizzonte. Ma Dio ritorna, non come l’immagine consegnata a un idolo, ma come dolore della verità e verità del dolore. Dio ritorna come la realtà dell’afelio, la trascendenza assoluta, colui che è al di là di ogni nostra possibilità di pensiero e di rappresentazione.
Nella creativa manifattura di questi versi si manifesta non un desiderio di fuga o d’isolamento, ma un bisogno di appartenenza più profonda alle cose e alla loro storia. Le coraggiose parole di Ada non sono gioielli per decorarsi, ma rocce su cui costruire architetture d’idee e di sensazioni. Con scorci imprevedibili si avverte lo sviluppo di pensieri e soprattutto di emozioni.
Al di là dei temi dominanti, si evidenziano alcuni elementi stilistici che strutturano queste poesie e le raccolgono in unità. Due, principalmente: l’uso della rima e la perdita del ritmo. Segno che le arterie che attraversano le poesie di Ada vorrebbero sfociare nell’armonia, ma questa, nell’umana condizione, può essere solo parziale. Non c’è ritmo, perché la vita non può essere compresa in un numero preciso di sillabe e di accenti. La rima, però, è in grado di farci sognare e forse percepire una nuvola di bellezza, un’onda acustica in cui le lacrime possono ancora brillare di speranza.