DISOBBEDIENZA alla nuova edizione di “Identità Golose”

Il tema della 19a edizione di Identità Golose a Milano è l’idea dell’innovazione derivata dalla disobbedienza. E di fatto l’aria di novità che si respira all’interno della fiera riguarda numerosi aspetti del settore gastronomico.

Lo spirito innovativo emerge dagli accostamenti desueti offerti dallo chef Thomas Turchi di Divine Creazioni. Questi infatti rovescia su un raviolo alla carbonara del caffè con panna, o racchiude in un semifreddo alla pera uno scrigno alla cacio e pepe. Oppure l’atteggiamento disobbediente si manifesta in una comunicazione trivial-pop come quella del Forno Brisa di Bologna, che scrive sulle bags “Fanciullo la dieta” oppure “Legalize Marinara”. 

D’altronde alcuni giovani hanno dimostrato di avere una lettura lucida riguardante la reputazione attuale della cucina italiana. A tal proposito è interessante l’opinione di Lorenzo, 25 anni, che lavora con la propria famiglia nel Caseificio Gennari di Collecchio in provincia di Parma. Dopo aver vissuto un’esperienza in Francia, il settore della ristorazione parigino possiede “un’ottima capacità di presentarsi, ma poca sostanza.” Mentre quello italiano è esattamente il contrario. Tuttavia sostiene che “negli ambienti di lusso l’eccessiva formalità non è ciò il cliente va cercando oggi. La gente non va fuori per mangiare ma per vivere un’esperienza piacevole. E anche il turista medio cerca la sostanza italiana e il sorriso.”

Anche la volontà di sottrarsi in modo indisciplinato agli standard qualitativi della produzione è stato un leitmotiv della fiera. Ad esempio il Caseificio Sorì, con sede a Roccamonfina in provincia di Caserta, produce personalmente il proprio lievito madre e prodotti caseari per realizzare pizze dalla straordinaria leggerezza. O ancora l’organizzazione pugliese Spirito Contadino, Valore alla Terra, con il lavoro di contadini autoctoni, produce verdure benefiche certificate per piatti di eccellente pregio nutrizionale ed etico.

Oltre ad interrogare e visitare gli stand, c’è stata l’occasione di partecipare agli eventi pomeridiani intitolati Identità Vegetali e realizzati in collaborazione con Velier, la tradizionale azienda genovese di importazione di vini e liquori che ha come portavoce il Mixology Manager Angelo Canessa. In questa serie di conferenze, i grandi chef dei ristoranti stellati si sono raccontati sottolineando in cosa consistesse la loro disobbedienza culinaria, e preparando per il pubblico assaggi di alcuni piatti dei loro menù.

A tal proposito il ristorante Saporium di Borgo San Pietro in Toscana, con il team del suo executive chef Ariel Hagen, ha illustrato la propria realtà, della quale il ristorante è solo una piccola parte. Infatti a Saporium fanno capo orti, pollai, stalle, cioccolaterie, un laboratorio di fermentazione e centoventi ettari di coltivazione, dei quali undici di agricoltura biologica. Lo chef afferma di seguire il più possibile il principio del biologico, che consiste nel rispettare l’ambiente anziché manipolarlo. Il menù La stagione che non c’è di Saporium si basa su dieci portate che variano a seconda del periodo dell’anno. Esiste infatti una progettazione del raccolto e dei piatti, ma che risponde alle condizioni climatiche e ai ritmi della natura. 

Uno dei tre assaggi preparati per Identità Vegetali ha come ingrediente principale delle lumachine. Per la preparazione è stata disposta alla base una crema di bieta che conferisse mineralità, vino bianco a crudo per un tocco di acidità, trifoglio, acetosa, sanguigna, olio al prezzemolo, all’erba cipollina, e punte di menta. Accompagna il piatto una bevanda a base di mela, sambuco e melissa.

Dopo Saporium di Borgo San Pietro, è stato ospite il team del pugliese Michele Cobuzzi, resident chef del ristorante Anima dell’Hotel Milano Verticale. In uno dei due piatti proposti, questi ha ripreso la tradizione della propria terra natale preparando un raviolo di pasta di panzerotto fritto riutilizzando gli avanzi delle materie prime. Infatti l’interno del raviolo è a base di verza e soffritto di scarti vegetali. La pasta di panzerotto inoltre proviene dal mulino Casillo che riesce a conservare il germe di grano, la parte più preziosa del chicco, con proprietà antiossidanti. Questa è stata per molto tempo scartata poiché difficile da conservare, ma il mulino Casillo è riuscito a recuperarla donando vantaggi ai professionisti del settore e ai consumatori.

Come accompagnamento a questo piatto, Angelo Canessa di Velier, ha proposto il rum Clairin, prodotto ad Haiti usando puro succo di canna da zucchero della varietà Hawaii con aggiunta di erbe locali, tra le quali anice e citronella.

Per l’ultimo appuntamento del pomeriggio è stata ospite l’Enoteca Pinchiorri, sita a Firenze, che ha raccontato i piatti del menù Terra Madre. Questo si basa su ciò che si può tirare fuori dalla terra rispettando le condizioni ambientali. Il piatto preparato dai due chef Riccardo Monco e Alessandro Della Tommasina è stato un brillante accostamento di lumachine di semola di grano di duro con succo di rabarbaro. In questo modo la parte dolce della pasta viene contrastata da quella acida del succo. Viene aggiunto poi del gelato di cavolo viola fermentato, e gocce di pino marittimo per una nota balsamica. Non avendo la pasta alcun condimento, il gelato funge così da salsa.

Come accompagnamento, Angelo Canessa, ha proposto un Dry Martini composto dal gin italiano biologico piemontese Engine che riprende l’acidità del rabarbaro e da un vermouth secco Vergano in assonanza con la parte botanica del vino.

E’ intervenuto anche Alessandro Tomberli, maître e direttore di sala, spiegando di non avere la pretesa di fornire degli abbinamenti perfetti o di dettare le regole del mangiare o bere bene, piuttosto seguire i gusti e le esigenze del cliente, seppur vegetariano, che desidera abbinare un classico rosso a delle verdure, anziché seguire delle regole non scritte sull’accostamento delle carne.  Inoltre attraverso un suggestivo viaggio immaginario dalle Azzorre all’Argentina, e dal Sud Africa al Cile ha descritto alcuni dei vini più caratteristici della selezionatissima e rifornitissima cantina dell’Enoteca Pinchiorri.

Tra vita e immaginario: il santuario creativo di Rick Owens a Concordia sulla Secchia

Tra vita e immaginario: il santuario creativo di Rick Owens a Concordia sulla Secchia

In un’intervista rilasciata per Vogue Grecia, il designer americano Rick Owens ha sostenuto che il suo obiettivo in quanto artista fosse quello di esprimersi attraverso creazioni che possedessero una componente narrativa e poetica, in grado di invadere lo spazio attraverso l’esagerazione.

Nelle sue collezioni questo spirito di magnificenza ed eccesso si manifesta attraverso l’alterazione e deformazione delle fisionomie dei suoi capi, e nelle location solenni che richiamano templi classici. L’immaginario del designer americano però non si riconosce solo nel suo brand, ma sembra essere un’ aura che pervade più aspetti della sua vita. Egli stesso ha affermato di credere nell’invenzione del proprio sé più che nel potere ineluttabile del destino, ed è con il suo stile di vita che ha inventato la propria estetica personale distintiva, immergendovisi.

Di questo immaginario ben definito e riconoscibile che esula dal mondo della moda, è testimonianza l’abitazione nel comune italiano di Concordia sulla Secchia in Emilia-Romagna. La struttura si trova accanto alla fabbrica del brand Rick Owens ed è considerata dal designer il luogo prediletto per la creazione delle sue collezioni. A testimonianza di ambiente riservato alla creatività, si può citare la presenza di una stanza con pareti di marmo travertino realizzata sul modello di una caverna, quasi a ricreare l’archetipo di un utero materno dal quale partorire nuove idee.

Oltre ad essere dedicato a momenti di creatività, l’abitazione è anche associata a periodi di disciplina e allenamento. Se in un senso pratico ciò è testimoniato dalla presenza di una grande palestra che occupa buona parte dell’appartamento, il minimalismo generale con l’assenza quasi totale di decorazioni riporta il valore ideale di questa severità. Rick Owens stesso si definisce più un eliminatore che un collezionista. La sua intenzione è ricreare un ambiente monastico utilizzando alcuni elementi distintivi come le rigide sedie di legno realizzate dall’artista futurista Giacomo Balla che ricordano, usando le parole del designer stesso, i banchi di una chiesa.

Rick Owens vive per periodi intermittenti in questa abitazione da circa vent’anni, eppure sostiene di non aver mai voluto far ridipingere i banchi del suo ufficio per conservare un senso di memoria, attraverso segni di matite sui tavoli, o piante lasciate crescere selvaggiamente sulla veranda.

Questo richiamo a realtà passate è alla base della sua estetica, che egli stesso definisce retro-futuristica e che combina materiali atavici con forme contemporanee, della quale sono emblema i vasi geometrici di bronzo e cristalli di roccia.

Accanto all’attrazione per il passato, è inoltre pervasiva la presenza della morte. A questo proposito il designer dichiara di essere stato affascinato dalle salme presenti nelle chiese italiane. Egli stesso possiede un teschio umano esposto all’interno della casa e acquistato all’asta, che funge da memento mori, promemoria della vacua vanità.

Legato alla morte e alla memoria, un sarcofago chiamato Liza è sicuramente quello che il designer definisce il suo oggetto preferito. Egli racconta come lo abbia scelto in particolare poiché diverso dalla maggioranza dei sarcofagi, che generalmente sono colorati e non riportano i segni del tempo.

La presenza del sarcofago richiama un altro tema frequente nella sua estetica, ovvero quello dell’esotismo. Emblematica è la collezione di piume di galli Onogadori, allevati nel diciasettesimo secolo in Giappone, posizionata su di una parete dell’ ufficio, e che aumenta tramite acquisti e contatti con fattorie nipponiche. 

In un’intervista tenuta dalla giornalista Sofia Tchklonia, Rick Owens ha dichiarato che “l’indifferenza è un forte elemento di seduzione“. Un’indifferenza intesa come essere flamboyant rifiutando però la bellezza classica. A tal proposito dichiara che il “voler attirare l’attenzione può essere una forma di aggressività o di gioco” e che lui nel processo creativo intende comprendere entrambi questi aspetti. Infatti se molti degli oggetti citati possono facilmente apparire sinistri e in un certo senso aggressivi nella loro esuberanza, comprendono allo stesso tempo la dimensione giocosa del processo creativo, che consiste nell’invenzione del proprio sé e del suo immaginario, come fosse esso stesso un’opera d’arte.



(fonti immagini Tumblr, 10magazine, Pinterest, foto cover J.Teller)