Il rapporto tra Picasso e l’antico in mostra a Milano

Tutti sappiamo quanto Pablo Picasso sia stato il più grande sperimentatore della Storia dell’Arte del Novecento e quanti stili pittorici abbia affrontato nelle sue opere, ma il rapporto del genio di Malaga con l’antico è un nuovo elemento d’indagine.

Pablo Picasso, Il Bacio, 1969, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Il Bacio, 1969, Museo Picasso, Parigi


Proprio questo è il tema della mostra milanese dedicata a Picasso, nelle sale di Palazzo Reale. Dal 18 ottobre 2018 al 17 febbraio 2019, l’esposizione ha l’obiettivo di sviluppare l’analisi sul rapporto tra la sua Arte e la mitologia classica, con la curatela di Pascale Picard. La mostra è promossa e prodotta da Comune di Milano e MondoMostre Skira ed è la tappa milanese di un progetto, promosso dal Museo Picasso di Parigi, che prevede il prestito di circa duecento tra opere del maestro andaluso e oggetti di Arte antica provenienti dalle più svariate istituzioni espositive d’Europa. La mostra, inoltre, è l’ultimo omaggio di Milano a Pablo Picasso, dopo l’esposizione di Guernica nel 1953, nella Sala delle Cariatidi, e le monografiche del 2001 e del 2012.

Pablo Picasso, L'abbraccio, 1970, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, L’abbraccio, 1970, Museo Picasso, Parigi


Chi si aspetta una mostra interamente dedicata a Picasso rimarrà dubbioso, perché questa esposizione, intitolata Picasso. Metamorfosi non è una mostra in toto sul pittore di Malaga, ma un’indagine, un percorso, all’interno del suo rapporto con l’antico e il mito, in particolare con quello classico, greco, ellenistico e romano. Picasso è, a tutti gli effetti, un genio, nel senso etimologico del termine, colui che crea pensando e plasma a immagine e somiglianza dell’uomo, e una tale figura di artista non può che gettare radici nella classicità, nella filosofia di Platone e nel taumaturgo da lui teorizzato, una mente creatrice universale. Picasso ha sempre visto l’antico come fonte, non solo come semplice riferimento stilistico, per tutta la sua carriera, senza limitarsi a quel periodo di ritorno all’’ordine che contraddistinse tanti artisti del ‘900. L’antichità, quindi, diventa punto di partenza per un’indagine, antropologica e, per certi versi, psicoanalitica, sull’opera del maestro andaluso, che ci fa capire quanto i cambiamenti dell’Arte picassiana, le Metamorfosi del titolo (con riferimento a Ovidio), siano stati dettati dal recupero filologico di queste fonti.

Pablo Picasso, Il Bacio, 1929, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Il Bacio, 1929, Museo Picasso, Parigi


La mostra si sviluppa attraverso sei sezioni, che illustrano il magma creativo di Pablo Picasso in relazione a sculture, mosaici, pitture murali e vasellame antico, per lo più proveniente da Roma, da Pompei o dalle città attiche e custodito tra Parigi, l’Urbe e Napoli. La prima sezione, dedicata al tema romantico del bacio, presenta due meravigliose tele di Picasso, Il bacio e L’abbraccio, affiancate a una scultura di Auguste Rodin, dedicata allo stesso tema, e a un dipinto di Ingres, Paolo e Francesca. Picasso ha sempre sperimentato formule creative dedicate al bacio, attingendo a un repertorio mitologico antico, caricato, però, di pulsione erotica e di passione per l’universo femminile, elementi tipici della sua produzione artistica, e ottenuto con la scomposizione della forma tipica del Cubismo, con l’obiettivo di aumentare la sensualità nelle sue opere.

Pablo Picasso, Il Pittore e la sua modella, 1955, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Il Pittore e la sua modella, 1955, Museo Picasso, Parigi


 

Pablo Picasso, Nudo disteso, 1932, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Nudo disteso, 1932, Museo Picasso, Parigi


La seconda sezione è dedicata al rapporto del pittore spagnolo con figure come Arianna e Minotauro. Punti di partenza sono le sculture ellenistiche come l’Arianna addormentata dei Musei Vaticani e il busto del Minotauro. Picasso fu sempre affascinato dalle figure ibride, metà uomo e metà animale, in quanto elementi che si collocavano a cavallo tra bene e male, tra vita e morte: fauni e Minotauro ne sono la perfetta espressione. I primi, sempre ebbri nei cortei dionisiaci, rappresentano l’atteggiamento tipico di Picasso, ubriaco di vita e di passione umana (incarnata dalla donna e dal suo corpo), come ben rappresentato dalle opere Fauno, cavallo e uccello (1936) e Testa di uomo barbuto (1938), ma anche nell’elemento del Minotauro c’è dell’autobiografico, con rimandi alle origini  dell’artista (il toro inteso come simbolo della Spagna), ma anche all’elemento sensuale e sessuale tipicamente picassiano. In tale direzione, si colloca la figura di Arianna, simbolo di bellezza femminile ma anche della potenza primigenia della donna: le odalische ritratte da Picasso sono palesemente ispirate alla posa dell’Arianna del Vaticano. Arianna è figura erotica, un trionfo di carica sessuale esaltata dalla sua bellezza, alternativa al modello etereo di Afrodite, e, per tale motivo, intorno a essa, il genio di Malaga sviluppa raffigurazioni  come il Minotauro, i fauni e altri esseri ibridi che rimandano all’amore (nel senso dell’Eros), alla guerra e alla passione, elementi tipici della sfera maschile mitologica, viste le molteplici opere raffiguranti Ares e Afrodite. Questi esseri, per Picasso, sono sempre visti come simbolo, oltre che della perpetua ebbrezza per la vita, anche delle pulsioni sessuali, mentre Arianna incarna più sfaccettature della passione amorosa e dell’emozione erotica, fino alle fantasie sul rapimento descritte anche dal mito.

Pablo Picasso, Fauno, cavallo e uccello, 1936, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Fauno, cavallo e uccello, 1936, Museo Picasso, Parigi


 

Pablo Picasso, Testa di uomo barbuto, 1938, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Testa di uomo barbuto, 1938, Museo Picasso, Parigi


Le due sezioni successive sono dedicate al rapporto che Picasso ebbe con il grande museo che, nella sua vita, frequentò maggiormente: il Louvre e, in particolare, le sue collezioni di Arte greca e romana. Picasso, sin da giovane, iniziò ad appassionarsi di Arte classica, approfondendola nel 1917, quando viaggiò tra Roma e Napoli alla scoperta dei tesori archeologici laziali e campani. La sua esperienza cubista fu mitigata dall’ispirazione classica anche grazie alle frequenti visite al grande museo di Parigi, dove trasse spunto per opere come il Piatto spagnolo decorato con donne e tori, palesemente frutto del modello del vasellame arcaico greco, ma anche per alcune figure sedute trattate con la scomposizione cubista che squarcia la canonicità dell’archetipo ellenistico. Picasso non si ferma al modello greco, ma va più indietro, alla ricerca delle origini figurative dell’Arte classica: al Louvre scopre gli etruschi, con le sculture filiformi in legno esposte in mostra, e recupera il repertorio degli Iberi, i primi abitanti della Spagna e del Portogallo, come provano le opere in bronzo ispirate agli antichi ex-voto di questi popoli.

Pablo Picasso, Piatto spagnolo con occhio e tori, 1957, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Piatto spagnolo con occhio e tori, 1957, Museo Picasso, Parigi


La parte successiva è dedicata alla ceramica, che Picasso riscopre e che trasforma da oggetto d’uso a opera d’Arte. Il modello è sempre quello arcaico greco, ma anche il vasellame pompeiano attrae Picasso: il risultato sono splendide decorazioni vascolari, quasi neo-greche, ottenute su frammenti di contenitori da cucina o su terrecotte che riprendono i modelli antichi.

Pablo Picasso, Donna con mantiglia, 1949, Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, Donna con mantiglia, 1949, Museo Picasso, Parigi


La logica conclusione della mostra è la raffigurazione delle Metamorfosi di Ovidio illustrate da Picasso nel 1931 per il volume edito da Albert Skira, accompagnata dalla scultura in ferro La donna in giardino (1932). La presentazione delle lastre incise ad acquaforte da Picasso mette ben in evidenza la prassi di creazione del libro d’artista ma anche di un’incisione che crea effetti autonomi rispetto al disegno, ma comunque sempre ispirati al vasellame antico. Sono esposti anche alcuni fogli della Suite Vollard, in cui l’artista è raffigurato nello studio con la modella, come un novello Pigmalione: le scene erotiche ricordano molto gli episodi legati al mito di Arianna e dei fauni, con un ritorno ciclico all’origine del percorso della mostra, al bacio e alla pulsione amorosa.

Pablo Picasso, La donna in giardino, 1930 Museo Picasso, Parigi
Pablo Picasso, La donna in giardino, 1930 Museo Picasso, Parigi


Picasso. Metamorfosi
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: Lunedì 14.30 – 19.30 (dalle 9.00 alle 14.00 riservato alle Scuole), martedì, mercoledì venerdì e domenica 9.30 – 19.30, giovedì e sabato 9.30 – 22.30
Biglietti: Intero 14,00 €, ridotto 12,00 €
Info: http://www.mostrapicassomilano.it/

L’Adorazione dei Magi di Paolo Veronese in mostra al Museo Diocesano di Milano

Il Museo Diocesano di Milano ospita, per l’undicesimo anno di fila, un capolavoro di Pittura Sacra.

Un Capolavoro per Milano, questo il nome dell’iniziativa che si svolge, ogni anno, durante il periodo natalizio, vede, per il 2018, protagonista un dipinto di Paolo Veronese, L’Adorazione dei Magi, proveniente dalla chiesa di Santa Corona a Vicenza.

La speciale esposizione, curata da Nadia Righi, ha luogo, presso la sede museale accanto alla Basilica di Sant’Eustorgio, dal 30 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019 e ha il patrocinio dell’Arcidiocesi di Milano, del Comune, della Regione Lombardia e del Municipio di Vicenza. Sponsor è UBI Banca, special partner Trenord.

Paolo Caliari, detto il Veronese dalla città in cui nacque nel 1528, fu uno dei maggiori esponenti del Rinascimento veneto. Formatosi a Verona nella bottega di Antonio Badile, sin da giovane si avvicinò alla lezione emiliana di Correggio e Parmigianino, con un sapiente uso del colore e della luce, che rimase la cifra stilistica della sua Arte. Con l’inizio degli anni ’50, Paolo si trasferì a Venezia, dove ebbe modo di osservare da vicino le opere di Tiziano e dove iniziò ad affermarsi come maestro, tra pale d’altare, ritratti e affreschi. La prima grande committenza pubblica affidatagli a Venezia fu la decorazione, con teleri (serie di grandi dipinti su tela, secondo una tradizione tipicamente veneta), destinate alle Sale dei Dieci a Palazzo Ducale. Correva l’anno 1553 e il venticinquenne Paolo ottenne una fama straordinaria grazie a questo ciclo, di argomento mitologico, in cui instaurò un gioco luce-colore tutto personale, con effetti cangianti e un taglio scenografico che sarebbe divenuto cifra stilistica. Dal 1554-56 iniziò un secondo ciclo, questa volta di taglio sacro, per il soffitto della chiesa di San Sebastiano, in cui fece progredire il taglio scenografico con l’uso di una nuova componente: audaci elementi architettonici, finti portici, colonne e balaustre, che trasformarono i suoi episodi decorativi in quinte teatrali a tutti gli effetti. In conseguenza di questo successo, la nobile famiglia veneziana dei Barbaro decise di chiamare Paolo, nel 1560, a decorare la villa di famiglia a Maser, vicino Asolo, progettata da Andrea Palladio: ai piedi del Monte Grappa, Veronese lasciò un autentico capolavoro sulle pareti della dimora di campagna dei Barbaro, con figure che si muovono all’interno di quinte architettoniche dipinte e quasi scherzano con i visitatori. Fu il trionfo di quello che, da quel momento, venne chiamato “veronesismo”. Il programma iconografico, legato al tema dell’Armonia e del Cosmo governato dalla Divina Sapienza, venne trattato da Paolo con il suo linguaggio più maturo, un colore ormai schiarito da una luce intensa e penetrante, che media, in chiave veneta, il linguaggio manierista, in particolare la lezione della Sala dei Giganti di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova, adattandola al rigore dell’architettura di Palladio. Dopo l’esperienza di Maser, Paolo si dedicò, fino al 1570, alle enormi tele chiamate, dalla critica, le “Cene”, grandiose feste veneziane, inquadrate all’interno di scenografiche quinte architettoniche, destinate a divenire modelli compositivi per i due secoli successivi, in cui sacro e profano si fondono all’interno di vere e proprie rappresentazioni teatrali dipinte, come provano le Nozze di Cana destinate alla Basilica di San Giorgio Maggiore. Con gli anni ’70, Veronese adattò il suo linguaggio a quello della Controriforma, lavorando, per tutti gli ultimi anni di vita, a pale d’altare ancora fortemente scenografiche, ma più improntate a un certo tono dottrinario, come prova proprio la pala di Vicenza, ma anche il colossale Martirio di Santa Giustina per l’omonima basilica di Padova o il Battesimo di Cristo per il Duomo di Latisana, in Friuli. In questi ultimi anni, Veronese, però, continuò a dedicarsi anche alla Pittura profana, con dipinti mitologici, tra cui spicca la fantastica Venere e Adone, destinati all’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, ma anche con nuove tele destinate a Palazzo Ducale dopo la sua parziale distruzione dopo l’incendio del 1577, dove lavorò accanto a Tintoretto e Jacopo Bassano, con un tono trionfale destinato a celebrare la potenza veneziana “par Terra e par mar”. I suoi ultimi dieci anni di produzione furono caratterizzati esclusivamente dalla produzione sacra, legata alla sempre maggiore pressione controriformistica degli ordini religiosi e alla paura dell’invasione musulmana, e segnata da un linguaggio tenebroso, vicino a quello, in voga, dei Bassano, come prova il suo ultimo dipinto, La conversione di San Pantaleone, lontanissimo, nella sua oscurità, dalle prove delle Cene e di Maser. Paolo Veronese morì a Venezia nel 1588, lasciando in eredità un modus operandi che avrebbe caratterizzato la Pittura veneta del Seicento e, ancor più, del Settecento, tanto che, due secoli dopo l’opera del Caliari, qualcuno definì un altro artista veneziano “Veronese redivivo”: Giambattista Tiepolo.

Paolo Veronese, Adorazione dei Magi, 1573-75, Vicenza, Chiesa di Santa Corona
Paolo Veronese, Adorazione dei Magi, 1573-75, Vicenza, Chiesa di Santa Corona


La pala di Vicenza, di notevoli dimensioni (320×234 cm), venne realizzata da Paolo Veronese nel 1573-75, quindi nel bel mezzo della sua prima produzione controriformistica, per la chiesa di Santa Corona, allora officiata dai Domenicani e famosa, in città, per la ricchezza del suo corredo pittorico rinascimentale, da Giovanni Bellini a Bartolomeo Montagna, da Francesco Maffei ad Alessandro Maganza, e settecentesco, con una pala di Giambattista Pittoni. La pala venne collocata all’interno della cappella della Sacra Spina, dove, pare, sia conservata una reliquia della Croce, mentre, oggi, è collocata nella terza cappella della navata destra, dedicata a San Giuseppe. Committente fu un mercante di stoffe, Marcantonio Cogollo, che, in quegli anni, stava ampliando i suoi commerci verso il Tirolo e il Sud della Germania.

Il linguaggio di Veronese, in questa pala, è scenografico, e l’ambientazione notturna del dipinto rende ancora più serrato il dialogo tra le figure e l’ambiente circostante. La scelta di collocare l’elemento architettonico sull’estrema destra del dipinto fa riferimento al modello della Pala Pesaro di Tiziano nella chiesa veneziana dei Frari, ma, a farla da padrone, sono le diagonali create dai giochi di sguardi tra i personaggi e segnate, quasi geometricamente, dagli elementi architettonici. C’è molta intensità nel modo in cui la Vergine e il Bambino guardano i Magi inginocchiati in primo piano. Proprio i tre re venuti a portare al piccolo Gesù oro, incenso e mirra sono il centro della composizione e, anzi, vengono attualizzati da Paolo con ricche vesti rosse e blu, oltre che trasformati in nobili dell’epoca, accompagnati da paggi, cavalli e due cani, proprio come i signori veneti che gli commissionavano pale e ritratti. I Magi tengono, nelle loro mani, preziosi oggetti che sembrano usciti da una bottega orafa dell’epoca e si muovono come attori di una Sacra Rappresentazione. I tre, con tutto il loro seguito, sono abbigliati con vesti ricche e scintillanti, un vero campionario di stoffe e broccati, molto probabilmente con allusione ai tessuti commerciati dal Cogollo. Nel dipinto vicentino, le figure si muovono come su un vero palcoscenico, visto che il nostro occhio le percepisce come spinte in primo piano, sullo sfondo di un cielo nuvoloso che diviene quasi quinta teatrale, dai toni drammatici che simboleggiano il presagio della Passione di Cristo. La monumentalità è evidente nel punto di vista rialzato, ma anche nella teatralità della parte sinistra, dove, in uno spazio vuoto, aperto verso la campagna, si nota la grandiosità del corteo. Dietro ai re, un uomo barbuto fa capolino accanto a un cavallo: è proprio Marcantonio Cogollo, riconoscibile per le sue insegne sul paraocchi dell’animale. La figura della Vergine è in asse con la colonna alle sue spalle. Quest’ultima ha due significati, uno architettonico, legato al modello palladiano, che sarebbe divenuto cifra stilistica per i secoli successivi (si veda la simile impostazione nella Madonna col Bambino di Sebastiano Ricci in San Giorgio Maggiore a Venezia) e un altro dottrinario, simbolo del Cristianesimo che abbatte il paganesimo, rappresentato dalla capanna.

Paolo Veronese, L’Adorazione dei Magi
Museo Diocesano, Piazza Sant’Eustorgio 3, Milano
Orari: martedì – domenica 10.00-18.00
Biglietti: Intero 8,00 € (compresa la visita al Museo, alla Basilica di Sant’Eustorgio e alla Cappella Portinari); ridotto 6,00 €
Info: tel. 02.89420019; 02 89402671; www.museodiocesano.it

 

Tra strada e protesta: l’Arte di Banksy in mostra a Milano

Street Art. Una parola che divide tra detrattori, spesso caricati di pregiudizi anche ideologici, e sostenitori di una forma creativa nuova in grado di riqualificare spazi urbani.

Anche in Italia questo fenomeno è recentemente esploso, tanto che le nostre città sono diventate campo di sperimentazione per nuove forme di comunicazione visiva su muro, specie nelle periferie. Ne sono prova i lavori eseguiti nel quartiere romano di San Basilio oppure i piloni della Sopraelevata, nel cuore di Genova, ma anche opere comparse in cittadine di provincia trasformate in musei a cielo aperto. La vera capitale della Street Art italiana è, però, Milano che, specie negli ultimi anni, ha visto fiorire moltissimi progetti di decorazione di muri liberi altrimenti in preda al degrado o addirittura di centraline dei semafori che hanno dato un tocco di vita e di colore a incroci apparentemente anonimi.

Milano non poteva essere la sede migliore per ospitare una mostra dedicata a uno dei padri della Street Art mondiale, Banksy. Dal 21 novembre 2018 al 14 aprile 2019, il MUDEC di Milano ospita questa grande esposizione, curata da Gianni Mercurio, che intende presentarsi come un percorso per immagini all’interno del pensiero artistico dell’artista: sono, infatti, esposte circa ottanta opere, tra dipinti e prints numerati, insieme a circa sessanta copertine di vinili e CD, oltre a una quarantina di memorabilia dell’artista.

Donut, 2009, Milano, Collezione Privata
Donut, 2009, Milano, Collezione Privata


Di Banksy si sa pochissimo, o meglio, quasi nulla, visto che nessuno è mai riuscito a svelare la sua vera identità. Potrebbe essere un artista, potrebbe trattarsi di un collettivo o di una crew, ma nessuno sa dire chi, in realtà, sia Banksy. Di certo esiste la sua fama mondiale, accresciuta, sicuramente, da questo volersi nascondere e dal non voler rivelare la propria identità, ma ciò fa parte del suo gioco artistico e della sua filosofia creativa, mirante a far prevalere il concetto sulla personalizzazione, il “cosa faccio” e il “come lo comunico” sul “chi sono” e “quanto sono quotato dal mercato”. Banksy è uno Street Artist, uno dei padri di questa forma creativa contemporanea, ma il suo raggio d’azione va oltre l’Arte. Con le immagini, si rivela un filosofo contemporaneo, un saggio che parte dalla strada per farci capire tante cose sul Mondo di oggi, ma anche un politologo che non parla nei talk show televisivi urlati, ma che comunica per immagini semplici e iconiche. Del resto, la sua massima più significativa è “A wall is a very big weapon” (Un muro è una grandissima arma), che testimonia come il suo modo di fare Arte sia, più che pura prassi creativa, protesta visuale, un tumulto iconografico mirante a farci scoprire le contraddizioni della nostra epoca e i cambiamenti del Mondo. Questa protesta parte dal graffitisimo di New York degli anni ’80 e ’90 e dall’Arte di Jean-Michel Basquiat, che l’artista ignoto ammira per la semplicità comunicativa, per i colori sgargianti e per il primitivismo. Banksy, però, va oltre. Arricchisce qualcosa di puramente fine a se stesso, seppur di rottura, con una voglia di denuncia e di critica sociale che esca dal solito circuito delle gallerie e dei collezionisti, rendendo questo intento visibile a tutta la cittadinanza e trasformandola in pura democrazia visuale. La tecnica scelta è stata quella dello stencil, ovvero l’uso di immagini stampate su carta adesiva, da attaccare su muri liberi. In questo modo, Banksy si è rivelato come il più illusionistico e scenografico tra gli Street Artists, proponendo veri e propri effetti ottici tipici del trompe-l-oeil.

Love is in the air (Flower Thrower), 2003, Butterfly Art News Collection
Love is in the air (Flower Thrower), 2003, Butterfly Art News Collection


Per Banksy, l’opera acquisisce significato se ha una valenza di critica politica e sociale. In primis se critica e combatte senza armi le ingiustizie del Mondo, affrontandole in maniera diretta. Migrazioni, Terzo Mondo e guerre sono suo argomento privilegiato. Notorio è il pacifismo dell’artista, che ha sempre realizzato opere con cui ha manifestato la propria opposizione a qualsiasi conflitto, da lui sempre ritenuto ingiusto. Sul tema bellico, Banksy ha realizzato uno dei suoi capolavori sul muro che separa Israele dai Territori Palestinesi, con l’obiettivo di denunciare le difficili condizioni degli abitanti della Cisgiordania in seguito alla creazione della barriera da parte dello Stato ebraico. Da sagace osservatore della realtà e suo feroce critico, Banksy ha arricchito lo spunto politico con quello, forse, più significativo: la satira. Bansky è un comico che non fa ridere con le battute da cabaret ma con curiosi stencil che raffigurano episodi al limite del surreale e, proprio sul muro arabo-israeliano, abbiamo prova di tutto ciò, con giocosi effetti ottici che aprono, oltre la barriera, panorami marini o montani o con una bambina palestinese che, con ironico rovesciamento, perquisisce un militare di Gerusalemme. La sua opera più suggestiva in terra palestinese, però, è la fantastica bambina che, attaccandosi al filo di un palloncino che si staglia verso il cielo, si libra in volo a superare quell’orribile barriera tra due popoli e due Stati, mandando un messaggio molto chiaro: la Politica divide e costruisce muri, l’Arte unisce e li abbatte. In mostra c’è un’intera sezione dedicata alle opere di Betlemme e al Walled Off Hotel, l’albergo aperto da lui stesso a Betlemme, davanti al muro, per attirare l’attenzione sulle sue opere e sulla situazione del conflitto tra Israele e Palestina.

Rude Copper, 2003, Butterfly Art News Collection
Rude Copper, 2003, Butterfly Art News Collection


 

Flying Copper, 2003, Butterfly Art News Collection
Flying Copper, 2003, Butterfly Art News Collection


Bansky ha sempre assimilato gli uomini a topi e scimmie, animali vittime di cupidigia, potere e consumismo, disposti a farsi la guerra pur di affermarsi l’uno sull’altro: la prova sono le sue immagini, in mostra, di topi che disegnano cuori o scimmie che denunciano, con cartelli ironici, i cambiamenti climatici. Non manca nemmeno il senso di oppressione che caratterizza la realtà di oggi, ossessionata dalla sicurezza e dalla paura: la prova migliore è l’opera raffigurante, tramite stencil, Judy Garland, nel Mago di Oz, affiancata da un poliziotto antisommossa che le controlla la borsa, ma anche il tipico bobby londinese che mostra il dito medio allude a questa situazione di disagio umano, da cui Bansky ne esce sempre con l’arma comica dell’ironia. E’ ancora la guerra, però, a farla da padrona: l’artista è rimasto impressionato dalle manifestazioni che invasero il centro di Londra contro la Seconda Guerra del Golfo e la politica bellica di Tony Blair, tanto da realizzare, in questa occasione, i famosissimi Smiley copper, immagini di poliziotti dei reparti antisommossa, con casco e fucile per lacrimogeni, ma con curiose ali e, al posto del volto, uno smiley simile a quello che tutti noi ci scambiamo su Whatsapp e Messenger. Allo stesso evento fa riferimento anche il famoso Flower Thrower, manifestante col volto coperto che, al posto di gettare una molotov, lancia un mazzo di fiori: una versione contemporanea di quel motto delle manifestazioni degli anni ’60 in cui si cantava “metteremo fiori nei vostri cannoni”. Attraverso l’ironia, Bansky entra nel mondo del punk e della sua cultura, simbolo, totally British, di rottura con il sistema: Winston Churchill con la cresta verde sembra Johnny Rotten dei Sex Pistols, così come la denuncia dell’alcolismo a Londra è condotta attraverso le parole dei Clash, “I fought the Law, and the Law won” (Ho combattuto la Legge, e la Legge ha vinto”). Ovviamente sono irrisi i simboli della monarchia inglese, con la regina Elisabetta trasformata in scimmia che ride beffarda davanti all’entrata in guerra dell’Inghilterra a fianco degli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein e Queen Victoria, simbolo da sempre di pruderie moraleggiante (e moralista), che diviene, con un simpatico fotomontaggio, icona hard mentre ha un rapporto saffico con una ragazza e siede, in autoreggenti e reggicalze, sul suo volto.

GIrl with red Balloon, 2004, Butterfly Art News Collection
GIrl with red Balloon, 2004, Butterfly Art News Collection


La logica conclusione è la vena pop di Bansky, con Kate Moss ritratta come la Marilyn di Warhol, accanto alla scena comica di John Travolta in Pulp Fiction, mentre spara con una banana al posto della pistola, insieme alla sua vena creativa come autore di copertine di album musicali, come Think Tank dei Blur.

Mosquito, 2002, Anversa, Artificial Gallery
Mosquito, 2002, Anversa, Artificial Gallery


Appendice alla mostra, secondo lo stile tipico delle mostre del MUDEC, è una sala immersiva in cui sono proiettate le immagini in video delle sue opere su muro, da quelle in Palestina a quelle che ha realizzato in Inghilterra, tra cui spicca il recente murale di Dover in cui, sul muro di un palazzo popolare, un uomo su una scala stacca una stella dalla bandiera dell’Unione Europea, con palese riferimento alla Brexit e alla disaffezione verso l’Europa in un Vecchio Continente su cui, ormai, soffiano i venti del sovranismo e del nazionalismo.

Rat, 2015, Anversa, Artificial Gallery
Rat, 2015, Anversa, Artificial Gallery


A visual protest. The Art of Banksy
MUDEC, Via Tortona 56, 20144 Milano
Orari: lunedì 14.30 – 19.30; martedì – mercoledì – venerdì – 09.30 – 19.30; giovedì – sabato – domenica – 09.30 – 22.30
Biglietti: Intero  € 14,00, ridotto  € 12,00
Informazioni: www.ticket24ore.itwww.mudec.it | Tel. +39 0254917


 

Il collezionismo di Margherita Sarfatti in mostra a Milano

Il collezionismo, nel Novecento, ha sempre visto Milano come capitale italiana degli appassionati e conoscitori d’Arte. Ora, il capoluogo lombardo dedica una mostra a una delle sue più grandi esponenti, Margherita Sarfatti.

Baccio Maria Bacci, Il figliol prodigo, 1925, Museo del Novecento, Milano
Baccio Maria Bacci, Il figliol prodigo, 1925, Museo del Novecento, Milano


Al Museo del Novecento, con un’appendice al MART di Rovereto, infatti, è allestita un’esposizione, curata da Danka Giacon e Anna Maria Montaldo, in collaborazione, per l’allestimento, con lo Studio Bellini, che intende rappresentare la Sarfatti come ambasciatrice italiana dell’Arte del Novecento. Dal 21 settembre 2018 al 24 febbraio 2019, presso la sede museale di Piazza Duomo, è possibile ammirare una piccola pinacoteca di opere di artisti dei primi trentacinque anni del Novecento, con cui la donna, in un certo qual modo, “ha avuto a che fare”, per dirla con il linguaggio di oggi, soprattutto nei suoi scritti.

Umberto Boccioni, Crepuscolo, 1909, Collezione privata
Umberto Boccioni, Crepuscolo, 1909, Collezione privata


 

Felice Casorati, Meriggio, 1923, Museo Revoltella, Trieste
Felice Casorati, Meriggio, 1923, Museo Revoltella, Trieste


 

Achille Funi, Il bel cadavere, 1919-20, Collezione Boschi Di Stefano, Milano
Achille Funi, Il bel cadavere, 1919-20, Collezione Boschi Di Stefano, Milano


 

Ubaldo Oppi, I vetri di Murano, 1925, Museo del Novecento, Milano
Ubaldo Oppi, I vetri di Murano, 1925, Museo del Novecento, Milano


Margherita Grassini nacque a Venezia nel 1880 da una ricca famiglia di origine ebraica. Nei suoi anni giovanili ebbe, come insegnanti, personaggi come Pompeo Molmenti, e frequentò, grazie ai rapporti di amicizia del padre, anche letterati come Gabriele d’Annunzio. Punto di svolta della sua vita fu il matrimonio, nel 1898, con l’avvocato milanese Cesare Sarfatti, da cui prese il cognome. Trasferitasi a Milano nel 1902 e affascinata dal socialismo professato dal marito, Margherita conobbe Anna Kuliscioff e scrisse, come critica d’Arte, sull’Avanti. Collaborando con il noto giornale socialista, conobbe un uomo, di lì a poco destinato a diventare direttore del giornale, Benito Mussolini. Tra i due nacque una relazione, destinata a durare per vent’anni e che avrebbe segnato anche la sua carriera collezionistica e giornalistica, visto che iniziò a scrivere per il Popolo d’Italia di Mussolini nel 1918. Inizialmente scettica sul ruolo dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, la Sarfatti si schierò con gli interventisti, salvo pentirsene dopo il tragico evento, che la sconvolse, avvenuto ad Asiago pochi mesi prima della fine del conflitto, quando il figlio Roberto, arruolatosi nel Regio Esercito, perse la vita in un’imboscata. Dopo essersi ripresa dallo shock, si dedicò interamente all’Arte e alla Teoria Politica, con un sempre maggiore attaccamento a Mussolini: se, da un lato, divenne direttrice editoriale della rivista Gerarchia, fondata dal futuro duce, dall’altro divenne una delle galleriste e collezioniste più importanti di Milano. Fondamentale fu il suo salotto di Corso Venezia, dove, insieme a letterati di peso, frequentò artisti come Medardo Rosso. Il 1922 fu l’anno della sua svolta critica: insieme al gallerista Lino Pesaro, fondò il gruppo chiamato Novecento italiano, i cui artisti mescolavano ritorno all’ordine, realismo magico e toni ancora futuristi, come prova il Manifesto di Sironi, in mostra. I maggiori rappresentanti di questo momento artistico furono lo stesso Sironi, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Ubaldo Oppi. La Sarfatti, forte della sua relazione con Mussolini, cercò di creare un manifesto dell’Arte fascista, e ciò, accompagnato dalla sua adesione al nuovo regime nel 1925, condusse vari pittori ad allontanarsi dal gruppo. Rimasta vedova nel 1924, Margherita riprese la relazione, ormai sempre più segreta, con Mussolini, tanto da scrivere una sua biografia e trasferirsi a Roma nel 1929, ma, pochi anni dopo, la situazione tra i due iniziò a scricchiolare. Con la linea sempre più intransigente del fascismo, la Sarfatti iniziò a scontrarsi con Mussolini, fino alla rottura definitiva dovuta alla sua opposizione alla guerra d’Etiopia e all’alleanza con i nazisti. Con le leggi razziali del 1938, la Sarfatti lasciò l’Italia per la Francia e, poi, per il Sud America. Rientrò nel 1947, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e del fascismo, vivendo gli ultimi quindici anni della sua vita appartata nella sua villa di Cavallasca, sopra Como, dove morì nel 1961.

Anselmo Bucci, Gli amanti sorpresi, 1920-21, Palazzo Cangi Neri, Fossombrone
Anselmo Bucci, Gli amanti sorpresi, 1920-21, Palazzo Cangi Neri, Fossombrone


 

Leonardo Dudreville, Amore discorso prima, 1924, Collezione Fondazione Cariplo, Milano
Leonardo Dudreville, Amore discorso prima, 1924, Collezione Fondazione Cariplo, Milano


 

Gian Emilio Malerba, L'attesa, 1916, Galleria Antologia, Monza
Gian Emilio Malerba, L’attesa, 1916, Galleria Antologia, Monza


Mario Sironi, Ritratto di Margherita Sarfatti, 1916-17, Collezione Privata, Roma
Mario Sironi, Ritratto di Margherita Sarfatti, 1916-17, Collezione Privata, Roma


Senza questa parte biografica, risulta difficile capire questa mostra, comprensiva di circa novanta opere che attestano, anche tramite le parole stesse della Sarfatti nei suoi scritti, l’affermazione del gusto di Novecento in Italia e in Europa. Più che un percorso biografico, la mostra si propone al visitatore come un racconto di immagini dipinte e scolpite riguardanti la vicenda critica, artistica e politica di Margherita. Sono state, infatti, selezionate opere di artisti che hanno frequentato i salotti milanesi della donna, che hanno esposto alle mostre da lei organizzate e che hanno segnato un’epoca. Basti citare il novarese Felice Casorati, artista molto apprezzato dalla Sarfatti ed esponente di una Pittura trasognata, che ammira il nudo nella sua perfezione classica, ma in vena decadentista, chiamata Realismo Magico, come prova, in mostra, l’opera Meriggio, da abbinare al bellissimo ritratto di Rosso di San Secondo, eseguito dal romano Cipriano Efisio Oppo, grande amico della donna. In mostra, sicuramente, le opere più degne di nota sono le vedute e il nudo di quel Carlo Carrà che, al momento, è celebrato nel contiguo Palazzo Reale con una grande esposizione personale, ma anche le opere di Achille Funi, dai colori giotteschi, o quelle di Ubaldo Oppi, che segnano un ritorno all’ordine dell’Arte italiana del primo Rinascimento, come provano, del primo, Il bel cadavere, e, del secondo, il bozzetto per la pala d’altare di San Venanzio.  Anche la scultura ha il suo ruolo all’interno della mostra, e il personaggio predominante è quell’Adolfo Wildt che apre idealmente la mostra con il classicheggiante ritratto di Margherita Sarfatti e la chiude con il busto di Mussolini proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Via Palestro. Non mancano, però, anche riferimenti all’universo futurista, ammirato, in gioventù, da Margherita, come provano le opere di Boccioni, oppure alla moda degli anni ’20, con le bellissime ragazze ritratte da Bucci, Malerba e Marussig. Tutto questo compendio di Storia dell’Arte mira a dimostrare come Margherita Sarfatti fu, oltre che una delle prime grandi conoscitrici di Pittura e Scultura del nostro Novecento, una figura di svolta per la nascita di un moderno sistema dell’Arte in Italia, secondo un rapporto osmotico tra artista, collezionista e gallerista, che avrebbe segnato anche gli sviluppi futuri del “fare Arte”, modernamente inteso, nel nostro Paese.

Carlo Carrà, Il leccio, 1926, Museo del Novecento, Milano
Carlo Carrà, Il leccio, 1926, Museo del Novecento, Milano


 

Leonardo Dudreville, Partita di calcio, 1924, Museo del Novecento, Milano
Leonardo Dudreville, Partita di calcio, 1924, Museo del Novecento, Milano


 

Pietro Marussig, Donne al caffè, 1924, Museo del Novecento, Milano
Pietro Marussig, Donne al caffè, 1924, Museo del Novecento, Milano


 

Mario Stroppa, Viale tra Milano e Sesto San Giovanni, 1909, Collezione privata
Mario Stroppa, Viale tra Milano e Sesto San Giovanni, 1909, Collezione privata


 

Margherita Sarfatti
Museo del Novecento, Milano
Orari Milano: lunedì 14.30-19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica  9.30-19.30 giovedì e sabato 9.30-22.30
Biglietti: intero 10 euro ridotto 8 euro
Info Milano: www.museodelnovecento.org www.electa.it


Il rapporto tra Milano e il cinema in mostra a Palazzo Morando

Milano, per la Storia del Cinema italiano, ha sempre avuto un ruolo di primo piano, sia come set per le pellicole che come spazi di produzione.

Vittorio Gassman sul set del film "Audace colpo dei soliti ignoti (1959), Archivi Farabola
Vittorio Gassman sul set del film “Audace colpo dei soliti ignoti (1959), Archivi Farabola


Le vicende che legano la Settima Arte al capoluogo lombardo sono al centro della mostra Milano e il cinema, allestita nelle sale al pianterreno di Palazzo Morando dall’8 novembre 2018 al 10 febbraio 2019. Curata da Stefano Galli e organizzata dal Comune di Milano e Direzione Musei Storici (nell’ambito dell’iniziativa Novecento italiano), con il patrocinio della Regione Lombardia e con la collaborazione di archivi storici fotografici ed editoriali, la mostra si propone come un percorso storico, per luoghi, ma soprattutto per film, del rapporto che lega Milano al Mondo del Cinema italiano. Si tratta di un racconto fotografico, condotto in particolare attraverso rare foto di scena effettuate durante le riprese o tramite fotogrammi delle pellicole, ma anche con l’esposizione di manifesti originali, locandine e memorabilia vari, che rendono ragione di quanto Milano, prima dell’ascesa romana, fosse la vera capitale italiana della Settima Arte.

Esterno del cinema Excelsior, Milano, 1973, Archivi Farabola
Esterno del cinema Excelsior, Milano, 1973, Archivi Farabola


Fino a circa quindici anni fa, Corso Vittorio Emanuele era un pullulare di sale cinematografiche, dall’Odeon in Via Santa Radegonda fino all’Excelsior della Galleria del Corso, ma anche in zone più distaccate non mancavano i luoghi di proiezione, dal mitico Maestoso di Piazza Lodi al Colosseo di Piazza Cinque Giornate e allo Splendor di Viale Gran Sasso, oltre ai numerosi cinema d’essai e a luci rosse di cui Milano era piena. Al giorno d’oggi, l’esplosione di Netflix e il concentrarsi delle sale nei grandi multisala di periferia e dell’hinterland hanno inferto un colpo mortale a questi vecchi cinema, spesso costretti a chiudere per trasformarsi in grandi store di brand di moda o, addirittura, lasciati al degrado e all’abbandono, come prova il caso del De Amicis di Via Camminadella. Alcuni resistono, l’Odeon, il Colosseo, il Ducale di Piazza Napoli, così come, tra le sale minori, l’Ariosto e il Beltrade di Via Oxilia. Bene, la mostra non vuole essere una rievocazione nostalgica dei tempi che furono, ma un racconto di quanto Milano ha dato al Cinema, e quanto esso ha dato alla metropoli.

Dario Fo e Franca Rame in Piazza Mercanti durante le riprese del film "Lo svitato" (1955), Archivi Farabola
Dario Fo e Franca Rame in Piazza Mercanti durante le riprese del film “Lo svitato” (1955), Archivi Farabola


In origine, infatti, sin da fine ‘800, Milano era stata la prima città italiana a installare proiettori in sale destinate al pubblico e a importare l’invenzione francese dei fratelli Lumiere: la prima venne realizzata a Turro, tra gli attuali Viale Monza e Via Bolzano, con una maestosa copertura che arrivò dalla Stazione Trastevere di Roma, in via di ristrutturazione. Per tale motivo, iniziò a svilupparsi una nuova industria cinematografica, con piccole case di produzione e teatri di posa, di cui i più famosi erano collocati accanto alla chiesa di San Cristoforo, in quello che oggi è un distretto creativo, mentre allora era una zona ampiamente periferica e malfamata. Tale industria iniziò a lavorare a numerosi film muti, con attrici famose come Lyda Borrelli, e sopravvisse fino all’ascesa del regime fascista. Mussolini, nel nome della retorica trionfalista, decise di spostare a Roma l’industria cinematografica italiana, fondando quella che, oggi, è Cinecittà. Milano conobbe circa vent’anni di declino ma, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in città, rinacque una fiorente filiera di produzione cinematografica.

Comparse che interpretano degli spazzini fotografate in Piazza del Duomo durante la lavorazione di una scena del film Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, 1951; ©ArchiviFarabola
Comparse che interpretano degli spazzini fotografate in Piazza del Duomo durante la lavorazione di una scena del film Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, 1951; ©ArchiviFarabola


Il percorso fotografico della mostra parte proprio da qui. A fine anni ’40, i film “dei telefoni bianchi”, così chiamati per gli apparecchi di bachelite adoperati dagli attori per chiamarsi durante le riprese, non vennero più girati solo a Roma, ma anche a Milano. La vera esplosione, però, avvenne con gli anni ’50, quando Milano tornò a essere luogo di produzione e set per tantissime pellicole, e il neorealismo diede una svolta a questa tendenza. Si creò una dicotomia, quasi un duello, tra Milano e Roma. Se la capitale rimase il luogo privilegiato per la produzione dei grandi kolossal o per i capolavori di Rossellini, Germi e De Sica, Milano divenne un luogo di cinematografia indipendente e un set per tantissimi film e attori che fecero Storia, dallo stesso De Sica a Lucia Bosè. I film degli anni ’50 erano pellicole per lo più di evasione, storie d’amore, costruite sullo sfondo di una città ancora alle prese con la ricostruzione post-bombardamenti, come provato dal primo film del maestro Michelangelo Antonioni, Cronaca di un amore, ma non mancarono anche pellicole che raccontavano il boom economico della città, come Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica. Da citare anche uno degli episodi più comici del nostro cinema, come Totò, Peppino e… la malafemmina, la cui scena cult è quella con i due protagonisti napoletani, Totò e Peppino De Filippo, che, cercando di fare i settentrionali, chiedono, in Piazza Duomo, a un “ghisa” informazioni in un grammelot misto di francese, partenopeo ed espressioni più o meno lombarde. Di questo periodo sono anche le prime comparse, sul grande schermo, di quelli che sarebbero stati numi tutelari dello spettacolo milanese, come Dario Fo e Franca Rame.

Adriano Celentano fotografato con la troupe in Piazza Duca d'Aosta durante la lavorazione del film Super rapina a Milano di cui è interprete e regista; accanto a lui, Pietro Vivarelli (regista non accreditato); Milano; 27/08/1964;
Adriano Celentano fotografato con la troupe in Piazza Duca d’Aosta durante la lavorazione del film Super rapina a Milano di cui è interprete e regista; accanto a lui, Pietro Vivarelli (regista non accreditato); Milano; 27/08/1964;


 

Manifesto del film "Cronaca di un amore"
Manifesto del film “Cronaca di un amore”


 

Manifesto del film "Miracolo a Milano"
Manifesto del film “Miracolo a Milano”


Gli anni ’60 segnarono l’esplosione di un cinema diverso, più legato ai cambiamenti della città, sia dal punto di vista urbanistico che da quello demografico: irruppero, nella Storia del Cinema, i primi fenomeni migratori dal Sud verso il Nord, ed emblematico è Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, così come il personaggio milanese del “cumenda”, l’uomo arricchitosi con il boom economico che, dal nulla, era diventato ricco, magistralmente interpretato da Tino Scotti e che avrebbe fatto scuola per gli anni ’80, con i personaggi interpretati da Guido “Dogui” Nicheli, ma anche per imprenditori che avrebbero scalato le vette del potere politico in nome del “mi consenta” o del “ghe pensi mì”. La protagonista, però, rimase sempre Milano, non più solo una città legata al centro produttivo, ricco e dei locali, ma anche dei quartieri periferici e dei casermoni dormitorio in cui Rocco e i fratelli vivono e scoprono la vita autentica, oltre che delle industrie, come l’Alfa Romeo del Portello, dove molti meridionali realizzarono il loro sogno d’integrazione che li ha portati, talvolta, a essere più milanesi dei milanesi stessi. Il film di Visconti è un caso archetipico, ma anche altre pellicole immortalarono una Milano “in fieri”: è il caso di Ieri, oggi, domani, sempre di De Sica, da molti ricordato per il celebre spogliarello di Sophia Loren davanti a Marcello Mastroianni: i due attori hanno girato anche alcune scene a Milano, in particolare una che li raffigura a bordo di una bellissima spider nera, simbolo del miracolo economico, sul cavalcavia che conduce da Rogoredo a San Donato, sullo sfondo del nuovo centro direzionale ENI, chiamato Metanopoli. Forse un altro simbolo, per antonomasia, della Milano che cambiava e che diveniva, ancora di più città internazionale, cosmopolita e accogliente.

Totò e Peppino De Filippo durante le riprese di Totò, Peppino e la… malafemmina, 1956; ©REPORTERS ASSOCIATI & ARCHIVI
Totò e Peppino De Filippo durante le riprese di Totò, Peppino e la… malafemmina, 1956; ©REPORTERS ASSOCIATI & ARCHIVI


 

Manifesto del film "Audace colpo dei soliti ignoti"
Manifesto del film “Audace colpo dei soliti ignoti”


 

Manifesto del film "La vita agra"
Manifesto del film “La vita agra”


 

Manifesto del film "Rocco e i suoi fratelli"
Manifesto del film “Rocco e i suoi fratelli”


Negli anni ’60 e all’inizio dei ’70, Milano fu anche il set per molti film di protesta, legati alla contestazione giovanile, ma anche il luogo privilegiato per nuovi terreni di ricerca e sperimentazione cinematografica, come l’animazione, in cui spiccò il genio di Bruno Bozzetto e nel cui solco vennero create trasmissioni televisive cult per tanti bambini di allora, come Carosello, lo spettacolo dopo cui i nostri papà e le nostre mamme dovevano sempre andare a letto.

Cinema Capitol (Cinema Capitol via Croce Rossa, anni '50
Cinema Capitol (Cinema Capitol via Croce Rossa, anni ’50


Gli anni ’70, per Milano, furono un periodo molto vivo, ma, spesso, anche drammatico, con una contestazione sempre maggiore e, sovente, con scontri tra esponenti di opposte fazioni. In un momento come questo, accanto al cinema più legato al sociale, si affiancò un genere, quello “poliziottesco”, in cui si raffigurava la Polizia come unico rimedio contro il crimine dilagante: titoli come Milano Calibro 9 segnarono un’epoca, con attori come Tomas Milian, Luc Merenda, Gastone Moschin, Barbara Bouchet e molti altri. Di questo periodo, sono esposte, in mostra, alcune locandine storiche.

da sin.) Renato Salvatori, Luchino Visconti, Claudia Cardinale e Alain Delon in una pausa durante la lavorazione del film Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti; Milano, 26/02/1960; ©Archivi Farabola
da sin.) Renato Salvatori, Luchino Visconti, Claudia Cardinale e Alain Delon in una pausa durante la lavorazione del film Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti; Milano, 26/02/1960; ©Archivi Farabola


 

Manifesto del film "Milano calibro 9"
Manifesto del film “Milano calibro 9”


Gli anni ’80 segnarono la nascita della “Milano da bere”, per citare uno spot di un noto amaro, e varie pellicole misero in evidenza il fenomeno della scalata sociale sullo sfondo dei cantieri del nuovo centro direzionale di Porta Garibaldi, come Yuppies dei fratelli Vanzina. Tra gli attori compaiono i nomi di Massimo Boldi, Jerry Calà ed Ezio Greggio, che frequentarono la vera fucina cinematografica della Milano degli anni ’80, ovvero il Derby di Via Monte Rosa. Questo locale divenne, con il passare del tempo, un vero e proprio cabaret, da cui presero le mosse attori come il simbolo degli anni ’80 milanesi, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Teo Teocoli, ma anche un figlio di emigrati pugliesi che, meglio di altri, interpretò alla perfezione il ruolo del nuovo milanese “cient’ pe’ cient'”: Diego Abatantuono. Di quest’epoca, spiccano le foto di scena del capolavoro di Pozzetto, Il ragazzo di campagna, con Artemio che arriva in Piazza San Babila in trattore, o quelle di Un povero ricco, con la bellissima Ornella Muti in short che attende lo stesso Pozzetto a Porta Venezia. Di Abatantuono meritevoli sono le foto di Ecccezzziunale… veramente, soprattutto quella che lo ritrae insieme agli amici storici del Derby, Boldi, Teocoli e Ugo Conti.

Locandina del film "Un povero ricco"
Locandina del film “Un povero ricco”


 

Manifesto del film "Lui è peggio di me"
Manifesto del film “Lui è peggio di me”


La logica conclusione della mostra sono le immagini della Milano della droga e dello sballo di Fame chimica (2003), ma anche di quelle di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino, in cui la meraviglia di Villa Necchi Campiglio si fonde con l’atmosfera fatata in cui vivono i borghesissimi e annoiati protagonisti, o ancora di più, a chiusura del cerchio, la scena degli Sdraiati (2017) di Francesca Archibugi, con la battaglia tra vecchi e giovani che si svolge sullo sfondo di una futuribile Piazza Gae Aulenti.

Milano e il Cinema
Palazzo Morando, Via Sant’Andrea 6, 20121 Milano
Orari: martedì-domenica 10.00-20.00; giovedì 10.00-22.30
Biglietti: 12,00 € intero, 10,00 € ridotto
Info: www.mostramilanoeilcinema.it; 02 88465735

La magia del Romanticismo in mostra a Milano

Romanticismo è una parola che evoca, in tutti noi, grande suggestione, perché ci ricorda episodi epici della nostra Storia o suggestioni letterarie di grandi eroi e di storie d’amore. Ora, a questo fenomeno, è dedicata una grande mostra a Milano.

Il Romanticismo è il protagonista della mostra, curata dal professor Ferdinando Mazzocca, che, tra le due sedi delle Gallerie d’Italia e del vicino Museo Poldi Pezzoli, intende indagare e mettere in evidenza l’apporto italiano a questo fenomeno internazionale, non solo artistico, ma anche letterario e filosofico. Dal 26 ottobre 2018 al 17 marzo 2019, le due sedi museali ospitano circa duecento opere, tra Pittura e Scultura, soprattutto di artisti italiani, ma con apporti anche francesi e tedeschi, che sono testimonianza di quanto l’Italia divenne un centro di sviluppo del dibattito sul ruolo degli Intellettuali e degli Artisti nella nuova società, figlia della Rivoluzione Francese, ma in decisa controtendenza rispetto a essa. La nostra Penisola poté godere di questo ruolo grazie alle correnti di pensiero francesi e tedesche che, mediate dai rapporti che i Savoia e gli Asburgo avevano oltralpe, giunsero anche a Torino, a Milano e in Veneto, per poi espandersi a Roma e a Napoli, segnando gli sviluppi culturali e politici del nostro Paese. Varie delle opere esposte in mostra non sono mai state nel nostro Paese, ed è per questo motivo che la mostra milanese rappresenta un’occasione eccezionale.

Giuseppe Pietro Bagetti, Sacra di San Michele, 1825-30, Torino, Palazzo Reale
Giuseppe Pietro Bagetti, Sacra di San Michele, 1825-30, Torino, Palazzo Reale


Storicamente il Romanticismo ha due estremi temporali. La data d’inizio di questo fenomeno è il 1815, anno in cui, a Vienna, Inghilterra, Francia, Russia, Austria-Ungheria e Prussia si misero a un tavolo per ristabilire l’Ancien Regime, l’ordine monarchico abbattuto dalla Rivoluzione e dalle conquiste napoleoniche, mentre quella finale è il 1848, quando l’Europa venne sconvolta da moti borghesi, esattamente come lo era stato quanto visto nel 1789 in Francia, che decretarono la seconda fine delle monarchie assolute e sancirono la nascita degli Stati liberali.

Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna, 1820-30, Torino, Palazzo Reale
Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna, 1820-30, Torino, Palazzo Reale


All’interno di questo contesto si colloca la vicenda artistica e culturale del Romanticismo. Verrebbe da chiedersi “cosa è stato il Romanticismo?”. Darne una definizione è molto difficile e complesso, perché questo fenomeno ha avuto diverse sfaccettature a seconda del Paese in cui si è sviluppato, ma ha anche accentuato, per la prima volta, sforzi internazionali di collaborazione tra le Arti. Il Romanticismo, nelle Arti, prese le mosse dalla contestazione del primato razionalista del Neoclassico, affermatosi sotto Napoleone, e dalla rivalutazione del Medioevo, periodo considerato “oscuro” nel Seicento e nel Settecento, sulla spinta dell’iperbole barocca e del decorativismo trionfale rococò. Vennero rivalutate le forme artistiche medievali, archi a sesti acuti, volte ogivali e quant’altro, con una particolare predilezione per il Gotico. Non a caso, i primi fenomeni pre-romantici vennero dall’Inghilterra, dove l’architettura gotica non si era mai spenta del tutto, con le poesie di Thomas Gray e le incisioni di William Blake, in cui si mescolavano elementi onirici al recupero dell’architettura gotica e delle rovine delle antiche abbazie della campagna inglese. Anche in Germania, Caspar David Friedrich dipinse paesaggi mozzafiato della sua Greifswald, con tramonti eccezionali e occasioni di meditazione all’interno di rovine gotiche. In area tedesca, si coniò il termine Sturm und drang, ovvero quel tentativo titanico di raggiungere l’infinito attraverso la Natura ed, elemento nuovo, il sentimento. Il Romanticismo fu l’epoca dei Sentimenti, e, non a caso, l’amore fu il primo a essere rivalutato, all’interno di poesie e romanzi dedicati a tali temi.

Massimo D'Azeglio, Lo studio del pittore a Napoli, 1827 ca., Torino, GAM
Massimo D’Azeglio, Lo studio del pittore a Napoli, 1827 ca., Torino, GAM


Anche in Italia si rivalutò il Medioevo dopo la grande epoca barocca e neoclassica, che produsse geni da Bernini a Pietro da Cortona, da Tiepolo a Canova. Con un elemento in più: la Politica. Rivalutazione del Medioevo significava riprendere il periodo glorioso dell’epoca dei Comuni, in cui le città italiane si amministrarono da sole, liberandosi dai gioghi dei potenti stranieri. Quindi, per i Romantici nostrani, rivalutare il Medioevo significava lottare per liberare il Paese, e rendere l’Italia, come scrisse Mazzini “unica e indivisibile”, sotto una sola bandiera, contro i dominatori austriaci, contro il Papa e contro i Borbone al Sud. La rivalutazione italiana del Medioevo avvenne in chiave architettonica, specie nel Triveneto, con le opere di Selvatico (la chiesa di San Pietro a Trento) e Jappelli (il Caffè Pedrocchi a Padova), ma anche attraverso la Letteratura, con i romanzi e le opere teatrali, tra gli altri, di Manzoni, Tommaso Grossi e Giovanni Berchet, tutti attivi nella capitale romantica che fu la Milano austriaca del Primo Ottocento. L’elemento che, forse, caratterizzò maggiormente il Romanticismo italiano fu lo Storicismo: i nostri artisti assorbirono le caratteristiche delle tendenze estere, rivestendole, però, nella maggior parte dei casi, da patine di revival storico. Nacquero così le figure di Renzo e Lucia alla base dei Promessi Sposi, ma anche molte delle scene dipinte da Hayez e Molteni, nonché i grandi libretti per le opere, musicate, più tardi, da Verdi e Rossini. Anche in Italia i sentimenti entrarono nello scenario artistico e culturale, e l’amore fu il principale: ne divennero simboli i due amanti danteschi Paolo e Francesca, oppure Romeo e Giulietta ritratti da Hayez sullo sfondo di una Verona fiabesca.

Salvatore Fergola, Notturno a Capri, 1848, Napoli, Museo della Certosa di San Martino
Salvatore Fergola, Notturno a Capri, 1848, Napoli, Museo della Certosa di San Martino


Senza queste coordinate risulta difficile orientarsi in mostra. L’esposizione prende le mosse dalla rivalutazione della Natura e della realtà di Friedrich, con tre opere mai viste in Italia, affiancate ad altre, realistiche ma interiorizzate, del veronese Carlo Canella e di un giovane Massimo D’Azeglio, che, più tardi, sarebbe diventato genero di Manzoni, nonché uno dei patrioti padri dell’Unità d’Italia. Lo stesso D’Azeglio, insieme a Bagetti, rappresenta la sezione successiva, dedicata ai paesaggi piemontesi, dalla Natura incontaminata ma anche, dalle suggestioni britanniche, vista l’attrazione per i fenomeni atmosferici mediata dalla teoria del sublime di Blake. Tali elementi caratterizzano anche i paesaggi della terza sezione, opere di scuola lombarda, di artisti come il bergamasco Marco Gozzi, dal taglio scenografico e drammatico, ma anche dai colori intensi e scintillanti dei vigneti di Franciacorta ritratti dal genovese Giuseppe Bisi. Segue una parte dedicata alla notte, non più tenebrosa come la intendeva la pittura barocca erede di Caravaggio, ma come elemento onirico e di attrazione verso l’ignoto e l’infinito, come provano le vedute di Bagetti, del veneto Ippolito Caffi e del napoletano Salvatore Fergola. Un’altra sezione è dedicata a Napoli e al suo scenario unico al Mondo, al suo Golfo e al Vesuvio che domina la città e ne definisce lo scenario: vi sono esposte opere prevalentemente di artisti locali, come Fergola o Giacinto Gigante, o di stranieri come Pitloo o Scedrin, in cui venne immortalata la “Grande Bellezza” di una città e di un territorio unico al Mondo.

Salvatore Fergola, Tifone nel Golfo di Procida, 1842, Napoli, Palazzo Reale
Salvatore Fergola, Tifone nel Golfo di Procida, 1842, Napoli, Palazzo Reale


Dalla veduta di esterni si passa a quella di interni, molto contigua alla scena di genere ereditata dal Settecento e dalle prove veneziane dei Guardi e dei Longhi. Per i romantici, la veduta di interni divenne racconto realistico di vita vissuta all’interno di edifici e monumenti storici: è nata in questo modo la “Pittura Urbana” che, specie a Milano, tendeva a rappresentare scene quotidiane all’interno delle chiese della città. In mostra, sono testimonianze di questa fase le prove del bresciano Angelo Inganni e del piemontese Giovanni Migliara, che raffigurarono l’interno del Duomo di Milano pullulante di gente, secondo un’ottica civile di rivalutazione del nostro passato. Sempre all’interno di questo filone, si collocano le vedute dei Navigli, elemento caratterizzante di Milano, dello stesso Inganni, affiancate a scene di vita sui canali di Venezia e sulla Senna a Parigi, dipinte da Bisi, Canella e Caffi.

Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835, San Pietroburgo, Ermitage
Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835, San Pietroburgo, Ermitage


 

Caspar David Friedrich, Finestra sul parco, 1836-37, San Pietroburgo, Ermitage
Caspar David Friedrich, Finestra sul parco, 1836-37, San Pietroburgo, Ermitage


La passione per la Storia emerge nella successiva sezione dedicata ai Promessi Sposi. Alessandro Manzoni emerge come simbolo del Romanticismo per antonomasia, con il suo mix culturale di rivalutazione del Medioevo (evidente nella tragedia Adelchi), spirito cattolico e impeto per un’Italia unita. Di ritratti di Manzoni ne sono esposti tre, il più famoso e solenne di Hayez e quelli pensierosi e trasognati di Massimo D’Azeglio e di Giuseppe Molteni, accanto a opere che raffigurano i personaggi del romanzo manzoniano, tra cui spicca la bellissima Lucia di Eliseo Sala. Uno dei generi più significativi della Pittura romantica fu il ritratto, a cui è dedicata la sezione successiva; i nomi di spicco di tale genere sono Hayez e Molteni, insieme agli scultori Vincenzo Vela e Alessandro Puttinati. I loro ritratti non sono più pura ufficialità, come lo erano quelli settecenteschi di Reynolds o di Batoni, ma diventano specchi di sentimento, di interiorità, come prova la Contessa Teresa Zumali Marsili di Hayez, figura tutt’altro che ideale ma che manifesta forte personalità, oltre che un pizzico di malinconia. Alla donna, e in particolare al nudo femminile, preferito, per sensualità, a quello maschile, è dedicata la sezione apposita, in cui spicca la Schiava dell’Harem di Hayez, dallo sguardo distaccato, accanto all’Orgia di Torquato della Torre, opera di intento moralistico, come prova il teschio in basso, ma anche di forte carica erotica. Il trait d’union con la sezione dedicata alla Pittura sacra è la fantastica Meditazione di Hayez, in cui l’elemento erotico, espresso dai capelli corvini e dai seni candidi, si fonde con lo sguardo malinconico e con il volto rigato dalle lacrime di Maria, simbolo di una nuova visione, più umana e meno canonica, della scena sacra. Sul campo del sacro si mosse Manzoni, a definire una nuova visione della Fede e della Provvidenza, ma anche gli artisti romantici seppero rivalutare le scene “da chiesa” e bibliche in un’ottica meno ieratica e più sentimentale, come provano le quattro versioni dell’Educazione della Vergine di Trecourt, Carnovali, Coghetti e De Albertis. In quest’ottica di umanità, i Romantici seppero dare dignità agli ultimi, al proletariato urbano, il cui riscatto sarebbe stata una delle basi filosofiche e antropologiche della seconda metà del XIX secolo: la miglior prova di ciò sono i ritratti degli Spazzacamini di Molteni, neri di fuliggine ma profondamente umani, quanto gli altezzosi aristocratici ritratti dallo stesso e da Hayez.

Francesco Hayez, La Meditazione, 1851, Verona, Galleria d'Arte Moderna
Francesco Hayez, La Meditazione, 1851, Verona, Galleria d’Arte Moderna


 

Francesco Hayez, Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe, 1833, Lodi, Museo Civico
Francesco Hayez, Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe, 1833, Lodi, Museo Civico


 

Francesco Hayez, L'Innominato, 1845, Collezione Privata
Francesco Hayez, L’Innominato, 1845, Collezione Privata


 

Eliseo Sala, Lucia Mondella guarda dalla finestra se ritorna il suo fidanzato nel giorno stabilito per le nozze, 1843, Collezione Privata
Eliseo Sala, Lucia Mondella guarda dalla finestra se ritorna il suo fidanzato nel giorno stabilito per le nozze, 1843, Collezione Privata


L’ultima sezione è dedicata alla Pittura di Storia, tema romantico per antonomasia, in cui spiccano eroi simbolo della lotta sentimentale (Romeo e Giulietta) e per la libertà politica (Caterina Cornaro) ritratti da Hayez accanto ad altre figure, come il patriota greco Marco Botzaris, ritratto da Lipparini, Riccardino Langosco, di Pasquale Massacra, o Francesco Ferrucci, immortalato da De Albertis, le cui scene di martirio prefigurano il sacrificio che ogni uomo doveva essere disposto a fare per combattere l’oppressore, cacciarlo e realizzare il sogno dell’Unità d’Italia.

Francesco Podesti, Il Tasso declama la "Gerusalemme liberata" alla Corte estense, 1831-34, Ancona, Pinacoteca Civica
Francesco Podesti, Il Tasso declama la “Gerusalemme liberata” alla Corte estense, 1831-34, Ancona, Pinacoteca Civica


L’appendice, al Museo Poldi Pezzoli, ruota intorno alla figura dell’artista, ma si ricollega alla Pittura di Storia attraverso raffigurazioni di grandi italiani, come Torquato Tasso, Francesco Petrarca e Raffaello, opere del marchigiano Francesco Podesti e del ligure Gaetano Gandolfi, che sono, sì, scene in costume, frutto di storicismo, ma anche racconti di gloria di qualcuno che, in passato, aveva reso onore al nostro Paese con i suoi servigi letterari e artistici. Capolavoro di Luigi Mussini è il Trionfo della Libertà, opera manifesto e simbolo del Romanticismo, con tutti i grandi dell’umanità, da Platone a Dante, da Colombo a Galileo, in adorazione davanti al simulacro che rappresenta l’ideale romantico per eccellenza, il cammino verso il progresso. Sono, poi, esposti, alcuni autoritratti, da quello eroico e già bohemien del romagnolo Tommaso Minardi nel suo studio a quello tra amici di un beffardo Hayez, insieme a quelli curiosi di Guardabassi, con un pappagallo e del bolognese Guardassoni con una delle prime raffigurazioni dello strumento che avrebbe posto la parola fine a questo genere pittorico: una macchina fotografica.

Francesco Hayez, Autoritratto in un gruppo di amici, 1827, Milano, Museo Poldi Pezzoli
Francesco Hayez, Autoritratto in un gruppo di amici, 1827, Milano, Museo Poldi Pezzoli


Concludono la mostra le raffigurazioni dei moti del 1848, tra cui spicca, per crudezza e commovente semplicità, la Trasteverina colpita da una bomba di Gerolamo Induno, opera di denuncia degli orrori della guerra, che, già allora, indignava e raccoglieva, anche tra gli artisti, impeti pacifisti.

Giuseppe Molteni, Un ragazzetto venditore di latte con una capra, 1837, Collezione Privata
Giuseppe Molteni, Un ragazzetto venditore di latte con una capra, 1837, Collezione Privata


 

Giuseppe Molteni, Ritratto della contessina Anna Pallavicino Trivulzio, 1848, Milano, Museo Poldi Pezzoli
Giuseppe Molteni, Ritratto della contessina Anna Pallavicino Trivulzio, 1848, Milano, Museo Poldi Pezzoli


Romanticismo
Gallerie d’Italia, Piazza della Scala 6, 20121 Milano – Museo Poldi Pezzoli, Via Manzoni 12, 20121 Milano
Orari: Gallerie d’Italia, 9.30-19.30 (giovedì fino alle 22.30, lunedì chiuso); Museo Poldi Pezzoli, 10.00-18.00 (giovedì fino alle 22.30, martedì chiuso)
Biglietti: 10,00 € accesso a una sola mostra; 7,00 € accesso alla seconda previa presentazione del biglietto della prima
Info: http://www.gallerieditalia.com/it/milano/mostra-romanticismo/

L’Arte di Francesco Pedrini in mostra alla Galleria Milano

Galleria Milano è uno spazio, nel centro della metropoli meneghina, da sempre rivolto allo sperimentalismo e al rapporto tra le varie forme d’Arte, a cavallo tra Pittura, Scultura e Fotografia.


Dal 18 ottobre al 6 dicembre 2018, la Galleria ospita una mostra dedicata all’artista Francesco Pedrini. Per lui, si tratta di un ritorno, nello spazio espositivo di Via Manin, in quanto aveva già esposto, in una personale intitolata Nebula, in cui affrontava il rapporto dell’uomo con il cielo, e quindi, con l’infinito. Sempre a questi due elementi, è dedicata la mostra attuale, intitolata Gli strumenti del cielo.


Francesco Pedrini è nato a Bergamo nel 1971. Dopo gli studi all’Accademia Carrara di Belle Arti nella città natale, si è trasferito a Venezia, dove ha ottenuto la laurea magistrale allo IUAV. Terminati gli studi, ha iniziato una carriera di artista che lo ha portato a esporre in varie Gallerie del Mondo. Sue mostre personali si sono tenute a Bergamo, Torino, Buenos Aires, Tirana e Berlino, così come ha esposto in collettive a Rimini, Venezia, Merano e Istanbul.


Francesco Pedrini è un artista affamato di infinito. In fondo, il suo è uno streben romantico verso il cielo, verso quella Natura che vede, come Burke, in maniera sublime e panica. Il suo afflato lo porta all’ascolto dell’elemento celeste, ed è questa la base più profonda della sua nuova mostra. Per poter ascoltare ci servono degli strumenti, che siano tramiti ma anche che producano, su di noi, effetti pari alle note prodotte da una chitarra o da una tromba. In questo senso, Pedrini si avvicina molto a Garutti e alla sua opera Egg, in Piazza Gae Aulenti: l’idea di voler ascoltare l’indeterminato, l’intangibile è la base del suo lavoro. Il suo ascolto è anche osservazione del fenomeno immateriale, che ci porta a produrre immagini, segni tangibili di questa esperienza.


Francesco Pedrini, Strumento
Francesco Pedrini, Strumento



Gli Strumenti esposti in mostra sono prova di tutto ciò, ma partono, anche, da un’esperienza storica profondamente drammatica per l’umanità, ovvero la Grande Guerra. Questi oggetti erano, infatti, usati dai soldati, un secolo fa, per intercettare l’arrivo degli aerei nemici: in fondo, anche questa è un’esperienza di ascolto del cielo e dell’infinito! Pedrini non ha certo utilizzato questi attrezzi per le sue opere, ma ne ha tratto spunto, in quanto, partendo dalle immagini fotografiche poste sulle pareti, ha collocato i suoi Strumenti, sculture in legno, rame e ottone, al centro della sala, ricostruendo, in questo modo, il momento di cattura della percezione dell’infinito attraverso un’ipotetica orchestra dell’ascolto in grado di captare il silenzio alla base dell’infinito. Le opere alle pareti prendono il nome di Momenti, e sono composte di ossidi in polvere di minima quantità, su cui l’artista ha soffiato, registrandone, poi, il peso (riportato nei titoli delle opere). Il loro titolo è ispirato all’etimologia latina della parola, momentum, ovvero quel peso minore in grado di inclinare e muovere la bilancia.


Francesco Pedrini, Momento
Francesco Pedrini, Momento



Tornadi sono un work in progress iniziato nel 2012, tratto da immagini d’archivio dei siti meteo. Partendo da ciò, Pedrini ha realizzato disegni con polveri e pigmenti, con l’obiettivo di indagare l’elemento atmosferico della tromba d’aria, ormai sempre più spesso di attualità, ma anche di stabilire un rapporto dialettico con gli strumenti di ascolto del cielo, a forma di tromba, rendendo concreto il tentativo di raggiungere l’intangibile.


Francesco Pedrini, Tornado
Francesco Pedrini, Tornado



La logica conclusione della ricerca di Pedrini è data da Taken, lavoro sugli archivi di Alexander Graham Bell, l’inventore del telefono. Chi più di lui seppe sfruttare le potenzialità dell’infinito e del cielo per creare un sistema di comunicazione che avrebbe reso le persone sempre più vicine con il passare dei decenni? L’opera consiste in fotografie raffiguranti gli esperimenti di Bell sugli aquiloni tetraedrici, che furono alla base delle prime macchine volanti inglesi. Queste opere raffigurano cieli e distese infinite, ma anche del rapporto di Bell con la moglie Mabel, la quale diviene simbolo della comunicazione tra l’uomo e l’indeterminato senza fine, attraverso il veicolo chiamato amore. Come il cielo, anche l’amore è infinito, e il disegno di Pedrini raffigura Bell e Mabel imbrigliati in un reticolo di linee, allusione alle barriere legate alla sordità della donna, da cui, solo attraverso l’amore, si può evadere, verso l’infinito e tornare “a riveder le stelle” (Dante, Inferno, XXXIV, 139).


Francesco Pedrini. Gli strumenti del cielo.
Galleria Milano, Via Manin 13 – Via Turati 14, 20121 Milano
Orari: martedì-sabato 10.00-13.00, 16.00-20.00
Ingresso gratuito
Info: o2. 29000352; info@galleriamilano.com

La Pittura di Carlo Carrà in mostra a Milano

La stagione delle grandi mostre d’autunno a Milano vede, di nuovo, come protagonisti, i grandi del Novecento: Picasso a Palazzo Reale, Modigliani e Klee al MUDEC, Magritte alla Fabbrica del Vapore e altri ancora.

Sempre nella cornice dello spazio espositivo di Piazza Duomo, un’altra mostra degna di nota è quella dedicata a Carlo Carrà, uno dei più grandi pittori del XX secolo italiano. Organizzata da Comune di Milano in collaborazione con Civita e curata dall’equipe Maria Cristina Bandera – Luca Carrà (nipote dell’artista, n.d.r.), la mostra presenta circa 130 opere, provenienti dalle più prestigiose collezioni pubbliche e private del Mondo, dalla Pinacoteca di Brera alla GAM di Torino e al Museo Pushkin di Mosca, insieme, elemento peculiare dell’esposizione, a libri, riproduzioni di fotografie che ritraggono Carrà con la moglie Ines e con amici artisti, e cimeli, come i pennelli originali usati dal pittore. Dal 4 ottobre 2018 al 3 febbraio 2019 è possibile percorrere, nelle sale di Palazzo Reale, un percorso all’interno della produzione pittorica e delle vita di uno dei massimi artisti del nostro Novecento.

La mostra, infatti, si articola come un percorso biografico, che parte dalle origini piemontesi del pittore, nato a Quargnento, vicino Alessandria, nel 1881 e dai suoi esordi pittorici divisionisti, realizzati durante i suoi primi anni a Milano e a Monza, dove iniziò la carriera come decoratore. Allora la sua Pittura era totalmente influenzata da Previati, dai Grubicy de Dragon e da Faruffini, ed è per questo motivo, proprio partendo dalle sue origini, che lo si può considerare come un vero erede della tradizione ottocentesca lombarda e piemontese, con uno stile che mescolava pennellate rapidissime, quasi spighe di grano impresse sulla tela, a una luce intensa e profonda, pari a quella delle Maternità di Previati. A questo substrato, Carrà aggiunse, durante i viaggi giovanili a Londra e a Parigi, suggestioni dalla Pittura tardoromantica e simbolista francese, ma anche dal vedutismo inglese di Constable e Turner.

Carlo Carrà, La Carrozzella, 1915, Rovereto, MART
Carlo Carrà, La Carrozzella, 1915, Rovereto, MART


La seconda fase della sua vita fu quella che lo consacrò alla Storia dell’Arte. Dopo un accenno liberty sulle tracce di Sartorio, come prova la meravigliosa Allegoria del Lavoro in mostra, Carrà scoprì il fascino del dinamismo e della voglia di rompere con lo schema accademico che, fino ad allora, aveva contraddistinto il suo stile. Sempre nella capitale artistica italiana dei primi del ‘900, Milano, Carrà mosse i primi passi verso il Futurismo. In città, nel 1908, conobbe Marinetti, Severini, Balla e Boccioni, che iniziò a frequentare e con i quali, in una notte successiva a una delle tempestose serate che li caratterizzava, scrisse di getto il Manifesto della Pittura Futurista, risalente all’aprile del 1910. Di questa fase, in mostra, sono prove i disegni, autentici schizzi di figure in rapido movimento e parole in libertà (notare il motto Zang Tumb Tumb tanto caro a Marinetti e a Palazzeschi!), ma anche quadri, come quello raffigurante un simbolo di dinamismo moderno e non “passatista”, come scrisse lo stesso Carrà nel Manifesto: un tram, antenato dei mitici 1928 che vediamo ancora oggi per le strade di Milano, che sferraglia producendo scintille e bagliori di luce che scompongono i piani su cui il mezzo si muove. In questo periodo, Carrà iniziò anche a interessarsi di Politica, facendosi affascinare, anche grazie alla relazione sessuale con una donna anarchica, dalle teorie di Bakunin. Uno dei suoi capolavori futuristi, non a caso, è la tela raffigurante I funerali dell’anarchico Galli, in cui movimento, ribellione e rabbia sociale sono tutt’uno. Durante i suoi sei anni di militanza futurista, Carrà, però, passò dall’anarchismo al nazionalismo interventista. Prima della Guerra, l’artista si cimentò anche con il collage, avvicinandosi agli esiti cubisti di Braque, pur mantenendo la struttura futurista, dal dinamismo impetuoso e magmatico.

Carlo Carrà, Composizione 1915, Mosca, Museo Pushkin
Carlo Carrà, Composizione 1915, Mosca, Museo Pushkin


Carlo Carrà, La Musa Metafisica, 1917, Milano, Pinacoteca di Brera
Carlo Carrà, La Musa Metafisica, 1917, Milano, Pinacoteca di Brera

Dopo la Grande Guerra, Carrà rimase folgorato dalla Metafisica di Giorgio De Chirico. Già durante gli anni del ’15-’18, il pittore, ricoverato a Ferrara, abbandonò l’attività politica interventista per dedicarsi nuovamente all’Arte. Nel 1917 conobbe De Chirico e Filippo De Pisis, dando vita alla cosiddetta Pittura Metafisica. Di questa fase, in mostra, spiccano Madre e figlio (1917) e La Musa metafisica, dello stesso anno. Se, nella prima, lo stile è ancora quello di De Chirico, tra arcaizzante e primitivo, con la seconda Carrà elabora uno stile tutto suo, reduce dell’esperienza futurista e memore del suo interventismo (come prova la mappa dell’Istria e della Venezia Giulia), ma anche già proiettata verso quell’alone di magia tipica di Morandi e di sospensione tra Mondi paralleli che sarà tipica del Surrealismo.

Carlo Carrà, Gentiluomo ubriaco, 1916
Carlo Carrà, Gentiluomo ubriaco, 1916


Come De Chirico, anche Carrà, poi, tornò alla figura, all’Ordine. Con gli anni ’20, l’artista iniziò a dipingere vedute, paesaggi e figure al bagno che riassumevano tutte le sue fonti artistiche. Per i colori, tornò a guardare al ‘300 fiorentino e senese, mentre per i ritratti umani prese a modello la statuaria antica romana ed ellenistica, riproposta in chiave meno ideale e più primigenia, con donne dai fianchi larghi e dai seni prosperosi e uomini muscolosi, quasi atletici. I suoi paesaggi degli anni ’20 risentirono anche dell’influsso dei Macchiaioli: non a caso, anche Carrà, come Fattori, dipinse sul litorale maremmano ritraendo cavalli sullo sfondo delle spiagge sul Tirreno. Dal suo ritiro montano di Varallo, in Val Sesia, Carrà dipinse varie vedute dei borghi valligiani, esposte in mostra, ispirandosi ancora alle prove inglesi di Turner, ma anche, nelle gamme cromatiche all’Impressionismo.

Carlo Carrà, Il Bersaglio, 1928, Collezione Privata
Carlo Carrà, Il Bersaglio, 1928, Collezione Privata


Carlo Carrà, Vele nel porto, 1923, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell'Arte Roberto Longhi
Carlo Carrà, Vele nel porto, 1923, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell’Arte Roberto Longhi


Carlo Carrà, Nuotatori, 1932, Rovereto, MART
Carlo Carrà, Nuotatori, 1932, Rovereto, MART


Carlo Carrà, Bacino di San Marco, 1932, Milano, Galleria d'Arte Moderna
Carlo Carrà, Bacino di San Marco, 1932, Milano, Galleria d’Arte Moderna


Con gli anni ’30 e l’affermazione del potere fascista, per Carrà, considerato “vero pittore italiano” al pari degli amici Sironi, Oppi, Funi e Casorati, pur non essendosi mai schierato ufficialmente con Mussolini, arrivarono anche grandi committenze pubbliche, come quella della decorazione ad affresco di alcune sale del Palazzo di Giustizia di Milano, progettato dall’architetto ufficiale del regime, Marcello Piacentini. L’artista dipinse, sulle pareti della Corte d’Appello, una scena storica e una sacra, con Giustiniano che libera lo schiavo e Il Giudizio universale. In mostra, è possibile vedere i cartoni preparatori per questi grandi e trionfali affreschi, che andavano ad affiancarsi ai mosaici celebrativi di Sironi all’interno di quello che fu il più significativo esempio di razionalismo fascista a Milano. Lo stile di Carrà, per questa prova, risentì nuovamente dell’influenza di Giotto e Simone Martini, anche se i cartoni svelano ben altro: studi anatomici approfonditi, torsioni dinamiche e sensualità femminile che fanno pensare più a Michelangelo e a Tiziano. In questi stessi anni, Carrà iniziò ad affrontare anche il mondo dello Sport, come prova la tela del 1932, che è una delle prime raffigurazioni, nella Storia dell’Arte, di una partita di calcio, molto probabilmente della fortissima Nazionale di allora, viste le maglie azzurre.

Carlo Carrà, Estate, 1930, Milano, Museo del Novecento
Carlo Carrà, Estate, 1930, Milano, Museo del Novecento


Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Carrà ottenne la cattedra di Pittura all’Accademia di Brera. L’ultima sezione della mostra è dedicata a questi ultimi vent’anni della sua vita, in cui riprese le lezioni del passato, pur mantenendosi sempre all’interno del recinto figurativo: di nuovo paesaggi e ritratti, tra cui spiccano le Bagnanti degli anni ’50, ancora influenzate da Renoir e da Degas, ma anche scene di vita quotidiana e Nature Morte. Proprio con una di queste, Carrà ci lasciò nel 1966: aveva appena finito di dipingerne una variante con chicchera quando morì nella sua casa milanese.

Carlo Carrà, Cinqualino, 1939, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell'Arte Roberto Longhi
Carlo Carrà, Cinqualino, 1939, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell’Arte Roberto Longhi


Concludono la mostra tre autoritratti dell’artista, eseguiti in tre diverse fasi della sua vita: spicca quello piccolissimo, custodito a Brera, in cui Carrà con la sua espressione meditabonda, ma burbera, sembra quasi salutarci.


Carlo Carrà
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, 20121 Milano
Orari: lunedì: 14.30 -19.30, martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30, giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
Biglietti: Open 16,00 €, Intero 14,00 €, Ridotto semplice 12,00 €
Info: tel. 199.15.11.21, web mostracarra@civita.it, www.mostracarlocarra.it