Tra Pittura e Poesia. L’Arte dei Preraffaelliti in mostra a Milano

Quando si parla di Preraffaelliti, si pensa subito all’Inghilterra vittoriana e a un certo gusto artistico mirante a una rivalutazione del passato in chiave moderna.

Questo è il senso della mostra allestita dal 19 giugno al 6 ottobre 2019 nelle sale del piano terra di Palazzo Reale. Curata da Carol Jacobi e promossa da Comune di Milano e 24Ore Cultura, la mostra presenta circa ottanta opere, provenienti dalla Tate Gallery di Londra, esemplificative di quei diciotto pittori che presero parte alla cosiddetta “Confraternita dei Preraffaelliti”.

Walter Howell Deverell, Un animale domestico, 1853, Londra, Tate Gallery
Walter Howell Deverell, Un animale domestico, 1853, Londra, Tate Gallery


Questi artisti presero le mosse della loro scelta estetica e artistica da un preciso fenomeno storico, che tutti conosciamo attraverso l’anno in cui questo si svolse, ovvero il 1848. Questi dodici mesi furono un susseguirsi di tumulti, moti e ribellioni, borghesi e popolari, contro i potenti ritornati sui loro troni e nei loro palazzi dopo il Congresso di Vienna. Le Cinque Giornate di Milano, i moti a Brescia, nello Stato Pontificio e a Napoli, in Italia, scossero gli animi dei Liberali e di tutti coloro che sognavano la nascita di un Paese unito e indivisibile, come sostenne Mazzini, ma anche nel resto d’Europa questa ventata di novità, purtroppo soffocata nel sangue, mosse le coscienze culturali e artistiche nella volontà di riunificazioni nazionali e di un primo abbozzo di un continente coeso e senza barriere. In Inghilterra la situazione era diversa, ma non meno “agitata”. Al potere c’era una monarca rigida ma amante dell’Arte, Vittoria, e, anche oltremanica, gli operai degli slums descritti da Dickens cominciavano a ribellarsi alle condizioni di vita e lavoro disumane nelle periferie di Londra e di Manchester.

Queste istanze le seppero cogliere diciotto artisti, per lo più figli di classi agiate, ma anche di estrazione popolare, accomunati dagli studi presso la Royal Academy di Londra. Per loro, lo stile e i dettami ancora di fine ‘700, ispirati alla ritrattistica di Gainsborough e al vedutismo di Turner, che l’Accademia proponeva, parevano superate. Come nel resto d’Europa con il movimento romantico, anche in Inghilterra questo gruppo di artisti decise di tornare al Medioevo, ma con un intento meno politico dei loro colleghi italiani, tedeschi e francesi. Gli inglesi, molti dei quali reduci dal Grand Tour italiano tra Roma, Firenze e Napoli, guardavano allo stile, più che al messaggio, e trovarono la risposta alla loro ribellione nella Pittura italiana dal ‘300 all’inizio ‘400, toscana e umbra. In sostanza, tutta quella Pittura italiana prima dell’avvento di colui che cambiò, per sempre, i canoni artistici e stilistici del Rinascimento, Raffaello. Da qui il nome del gruppo: Preraffaelliti.

 

La mostra si muove, dopo un’introduzione biografica dei diciotto artisti, attraverso sezioni tematiche dedicate agli argomenti affrontati da questi ragazzi che, meglio di ogni altro, costituirono la prima vera avanguardia artistica sul territorio britannico. I Preraffaelliti si configurarono, sin da subito, in segno di devozione verso quel periodo di transizione tra Medioevo e Rinascimento, come una confraternita, ma la loro fu sempre una scelta stilistica, e non certo religiosa, vista la laicità totale del Movimento. Erano confratelli come lo erano i loro pilastri artistici e culturali. La loro Arte si può definire come Medioevo Moderno, perché si muove su due binari paralleli: i Preraffaelliti scelsero il Medioevo toscano come principio ispiratore della loro Pittura, con riferimenti che spaziavano da Dante a Petrarca, da Giotto a Simone Martini, ma seppero trasformarlo, calandolo nella realtà inglese di metà XIX secolo, attraverso un sapiente uso di riferimenti letterari e filosofici, ma anche con l’ironia con cui affrontavano i cambiamenti sociali. Seppero essere una forza di cambiamento nella rigida e statica società artistica inglese e, forse, i Preraffaelliti si dimostrarono un po’ come la propaggine inglese del Romanticismo, vista la poliedricità dei loro lavori, anche se definirli “romantici” è una forzatura, in quanto non possedevano molte delle caratteristiche dei colleghi del Continente, a partire dal forte impegno politico. Certo, erano interessati a tematiche sociali, ma la loro direzione fu quella di un nuovo realismo, diverso da quello crudo di matrice francese, più legato a un’aura estetizzante e, per certi versi, già Liberty, che alla denuncia diretta di Courbet e di Millet.

John Everett Millais, Ofelia, 1851-52, Londra, Tate Gallery
John Everett Millais, Ofelia, 1851-52, Londra, Tate Gallery


Il primo nome di punta della Confraternita fu Dante Gabriel Rossetti, figlio di un esule e carbonaro abruzzese. Fu lui a contribuire alla nascita di un’associazione mirante a rivoluzionare l’Arte in Inghilterra, con l’aiuto di altri due sodali, poi divenuti maestri della Pittura Preraffaellita, William Holman Hunt e John Everett Millais. Tutti e tre frequentavano i corsi di Belle Arti della Royal Academy di Londra, dove si dedicavano, per tutto il giorno, a riprodurre, a disegno, opere antiche e medievali italiane. Proprio da questi disegni prende le mosse la prima sezione. Ben presto si unì a loro un nuovo sodale, Ford Madox Brown, grande amante dell’Arte medievale italiana e personaggio ribelle, che, reduce da un viaggio a Firenze, realizzò opere come la bellissima Nostra Signora dei bravi bambini, in cui lo stile ispirato a Beato Angelico e a Melozzo da Forlì si fonde con il realismo evidente nell’aver ritratto, tra i piccoli astanti, anche la figlia e nell’allusione al bagno dei pargoli ogni sabato sera. Quest’opera è emblematica della definizione di Medioevo Moderno: stile antico, tema e personaggi moderni. Nella prima sezione emerge subito anche un grande interesse della Confraternita per la Letteratura, e per drammi personali reinterpretati in chiave teatrale. Capolavoro, in questo senso, è l’Ofelia (1851-52) di Millais, opera ispirata alla vicenda dell’Amleto di Shakespeare, in cui l’artista ritrasse la pittrice Elizabeth Siddal nei panni dell’eroina che si uccise in quanto respinta da Amleto. Per le scelte, Millais lavora su un substrato romantico, ma il naturalismo e le acque nitide del fiume prefigurano il Decadentismo di fine secolo.

William Holman Hunt, Claudio e Isabella, 1850, Londra, Tate Gallery
William Holman Hunt, Claudio e Isabella, 1850, Londra, Tate Gallery


La seconda sezione è dedicata al rapporto, strettissimo, tra Pittura e Poesia nell’estetica preraffaellita: non solo, gli artisti si ispiravano alla Letteratura, ma erano letterati loro stessi, scrittori di prosa o poeti, e, per tale motivo, confrontavano il realismo dei loro soggetti con le fonti privilegiate, Dante, Boccaccio, Chaucer, Shakespeare, ma anche moderni come Browning, in un costante dialogo tra Italia e Inghilterra, quasi a concepire Londra come una seconda Firenze. E qui entra in scena il terzo grande attore della vicenda, l’Amore. Un Amore romantico, certo, mai espressamente carnale e fisico, ma sempre sentimentale, figlio di quell’Amor Cortese dei grandi romanzi del ‘200, ma calato nel contemporaneo. Le storie d’Amore dipinte dai Preraffaelliti erano raffigurazioni di amanti separati dal denaro e dalla cupidigia, piuttosto che dal destino, ma anche di personaggi infedeli, come segno di ribellione nei confronti dell’establishment culturale dell’epoca.

A seguire, una parte è dedicata a quello che era la Fede religiosa, per i Preraffaelliti. La loro era una Fede laica, in grado di attualizzare i testi sacri come la Bibbia, che ritenevano una grande fonte d’ispirazione. Per tale motivo, giunsero a raffigurazioni sacre molto realistiche, che suscitarono critiche per la concreta attualizzazione della scena, come prova la Lavanda dei Piedi di Brown o la Sant’Agnese di Cadogan Cowper, giudicata scandalosa per una modella minorenne nei panni della santa e di un’attrice per l’Angelo che le appare.

Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-6, Londra, Tate Gallery
Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-6, Londra, Tate Gallery


I Preraffaelliti, come già anticipato, seppero calare la vita moderna in una patina di antichità. Anzi, forse, più di altri, furono i cantori della Modern Life inglese, e, per tale motivo, seppero cogliere i profondi cambiamenti sociali e sociologici dell’epoca nei loro dipinti, a partire dal dramma dell’emigrazione, per arrivare a una concezione di amore non convenzionale, che sfocia in una denuncia, velata, nei confronti della mancanza di diritti basilari delle donne, in primis quello di voto. Non a caso, nessun membro dell’associazione ebbe una vita sentimentale stabile, quasi in contrasto con la concezione vittoriana della famiglia. Emblematico è Amore d’aprile di Arthur Hughes (1855-56), opera raffigurante un incontro tra amanti in una Natura lussureggiante, ma anche l’enigmatica Tenete vostro figlio, Signore di Brown e la criticatissima Valle del Riposo di Millais, in cui due suore sono intente a scavare una fossa in un cimitero con un realismo giudicato eccessivo a causa delle braccia muscolose di una delle due religiose. Hunt realizzò un quadro, La nave, di ritorno da un viaggio in Oriente, concependola come “vascello della salvezza”, e come metafora della vita, con una palese allusione all’emigrazione britannica verso Australia e Sudafrica, così come emblematica del dramma dell’espatrio è Un ultimo sguardo all’Inghilterra di Brown, in cui raffigurò un amico con moglie e figlio, diretti nel Nuovo Mondo.

Arthur Hughes, Amore d'aprile, 1855-56, Londra, Tate Gallery
Arthur Hughes, Amore d’aprile, 1855-56, Londra, Tate Gallery


 

Ford Madox Brown, Cattivo soggetto, 1863, Londra, Tate Gallery
Ford Madox Brown, Cattivo soggetto, 1863, Londra, Tate Gallery


La sezione successiva è dedicata al “plein air”. I Preraffaelliti, incoraggiati dal loro primo grande critico, John Ruskin, furono pionieri nell’esporre dipinti eseguiti all’aperto e non in studio, e, in ciò, anticiparono i Macchiaioli toscani, che ne furono influenzati, specie nelle vedute, a causa della loro devozione e fedeltà alla Natura. A Firenze, alcuni artisti Preraffaelliti frequentavano la folta e culturalmente elevata comunità britannica presente in riva all’Arno, come prova la bellissima veduta della città di John Brett.

John Brett, Veduta di Firenze da Bellosguardo, 1863, Londra, Tate Gallery
John Brett, Veduta di Firenze da Bellosguardo, 1863, Londra, Tate Gallery


La Confraternita si sciolse nel 1863. I Preraffaelliti, però, mantenendo uno stile di vita bohemien, continuarono a frequentarsi, approfondendo motivi e scelte stilistiche precedenti, come fece, per esempio, Dante Gabriel Rossetti, che abbandonò il realismo delle prime prove per affinare il suo amore per Dante Alighieri, per la figura di Beatrice, per la Vita Nuova e per i racconti arturiani, tra cui quello inglese di Thomas Malory. Ne uscirono opere ancora di taglio tardogotico, con fondi dorati e iscrizioni arcaiche in caratteri medievali, ma, in cui, la concezione di Amore è quella romantica. Le prove migliori sono la bellissima Paolo e Francesca, in cui campeggia la scritta “o lasso” sopra la testa di Virgilio, o la suggestiva Roman de la Rose, perfetta attualizzazione delle storie cavalleresche cortesi del ‘200.

Dante Gabriel Rossetti, Lucrezia Borgia, 1860-1, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Lucrezia Borgia, 1860-1, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Roman de la Rose, 1864, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Roman de la Rose, 1864, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Il sogno di Dante alla morte di Beatrice, 1856, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Il sogno di Dante alla morte di Beatrice, 1856, Londra, Tate Gallery


La Parte finale della mostra è dedicata alla fase tarda della produzione dei Preraffaelliti, che sperimentarono nuove gamme stilistiche e cromatiche, anche in relazione al nascente design e alle arti applicate, fatte conoscere dalla mente geniale di William Morris, con il suo movimento Arts & Crafts, il vero trait d’union tra Otto e Novecento britannico. Ne emerse anche una nuova raffigurazione della donna, più interiorizzata, ma anche più femme fatale, ormai vicina all’estetica decadentista che cominciava a emergere, anche grazie a un giovane scrittore che promuoveva tale concezione estetizzante della vita: Oscar Wilde. Stilisticamente, Rossetti, da Preraffaellita, divenne Postraffaellita, passando attraverso il filtro del Sanzio per scegliere, nei ritratti, i modelli veneti di Tiziano e Giorgione, con donne in carne e ingioiellate, che identificano, in chiave moderna, divinità antiche, come Monna Pomona e Monna Vanna, ormai modelle simbolo di uno stile di vita e di abbigliamento alla moda; anche la figura di Beatrice divenne icona di stile, e il capolavoro che chiude, ciclicamente opposto all’Ofelia di Millais, la mostra, ne è la prova: Beata Beatrix (1864-70). A concludere l’esposizione, una piccola sezione dedicata all’eredità che i Preraffaelliti lasciarono a due movimenti artistici che, negli anni ’80, iniziavano a nascere: il Simbolismo e l’Impressionismo. Opera emblematica di questo lascito è la fantastica Dama di Shallow di John William Waterhouse, raffigurante un racconto di Alfred Tennyson. La Natura, rigogliosa, sembra già anticipare le pennellate di De Nittis, mentre la figura femminile è una modella in stato di trance, a metà strada tra un’eroina del Decadentismo letterario e una delle figure dipinte da Franz von Stück.

Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Monna Pomona, 1864, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Monna Pomona, 1864, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Aurelia (L'amante di Fazio), 1863-73, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Aurelia (L’amante di Fazio), 1863-73, Londra, Tate Gallery


 

John William Waterhouse, La dama di Shallott, 1888, Londra, Tate Gallery
John William Waterhouse, La dama di Shallott, 1888, Londra, Tate Gallery


Preraffaelliti. Amore e Desiderio
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: Lunedì 14,30 – 19,30
           Martedì – mercoledì – venerdì – domenica 9,30 – 19,30
           Giovedì e sabato 9,30 – 22,30
Biglietti: Intero € 14,00; Ridotto € 12,00
Info: www.mostrapreraffaelliti.com

Tra Pop Art ed etnografia, l’Arte di Roy Lichtenstein in mostra a Milano

Un grande maestro della Cultura figurativa mondiale è il protagonista della nuova mostra del MUDEC di Milano: Roy Lichtenstein.

Dal 1 maggio all’8 settembre 2019, la mostra, intitolata Roy Lichtenstein. Multiple Visions omaggia il maestro statunitense nella completezza della sua opera. Curata da Gianni Mercurio, studioso di Lichtenstein, l’esposizione è promossa da Comune di Milano e 24Ore Cultura, e conta circa cento opere dell’artista, provenienti sia da note collezioni americane che da altre private.

Roy Lichtenstein, Head Profile, 1988
Roy Lichtenstein, Head Profile, 1988


Quella del MUDEC non è una mostra sulla Pop Art, perché Lichtenstein è stato, sì, folgorato tra gli anni ’50 e ’60, dal fenomeno artistico di Warhol, ma non si è mai limitato a quel periodo. Anzi, ha continuato ad affinare le sue tecniche e ad approfondire nuovi temi, che lo hanno condotto lontano dagli esiti del genio di Pittsburgh. Lichtenstein ha creato una forma artistica figlia di quella che Benjamin chiamava “riproducibilità tecnica” dell’opera, e non a caso la Pop Art era una riproduzione “a stampino” di un modello base, però orientandola verso mille direzioni tematiche, ovvero quelle Multiple Visions a cui accenna il titolo. La sua Arte fu sempre orientata all’etnografia, come testimonia il suo interesse giovanile per le culture e le rappresentazioni dei Pellerossa, così come seppe essere attenta all’evoluzione dell’iconografia pubblicitaria frutto del boom degli anni ’60 e alla sempre maggiore centralità del ruolo delle donne nella società, specie negli anni ’70, mostrando grande interesse per tutti quei movimenti femministi che stavano scuotendo gli States. Dagli anni ’80, iniziò a tornare all’Arte in senso lato, lavorando, nei suoi ultimi anni, a opere astrattiste o a ricordi delle avanguardie storiche, soprattutto del Cubismo e di Picasso. Sono queste le Multiple Visions che riassumono perfettamente la sua opera e che lasciano stupito il visitatore medio, che conosce Lichtenstein esclusivamente come artista Pop. E queste mille direzioni influenzarono generazioni successive di creativi, specie nell’ambito della Moda e della Pubblicità, in virtù del suo lavoro in prevalenza eseguito a stampa.

Roy Lichtenstein, I love Liberty, 1982
Roy Lichtenstein, I love Liberty, 1982


Occorre tracciare qualche cenno biografico dell’artista. Roy Lichtenstein nacque a New York nel 1923, da una famiglia ebraica della “middle class”. Nel 1940 iniziò a frequentare il corso di Belle Arti all’Università dell’Ohio, ma, ben presto, dovette interrompere gli studi in quanto venne chiamato alle armi e inviato in Francia al fronte. Rientrato dall’esperienza bellica nel 1949, terminò gli studi e sposò la prima amata moglie, Isabel, da cui ebbe due figli. La sua prima mostra, nel 1951, lasciava presagire il debito verso le avanguardie che Lichtenstein espresse nei suoi ultimi anni: un’esposizione di opere che oscillavano tra Cubismo ed Espressionismo. Con l’inizio degli anni ’60, l’artista lasciò la Pittura per iniziare a lavorare a stampa, con una tecnica creata da un reticolato di linee e puntini, chiamato Ben-Day Dots, applicata a immagini dei cartoni animati e dei fumetti: nacque così, insieme alla famosa Zuppa Campbell’s di Warhol, la Pop Art. Con la stessa tecnica, lavorò a opere, soprattutto nature morte, ma anche ritratti, in cui stravolse o sovrappose repertori iconografici tratti da Picasso, Braque, Mondrian e altri, fondendo il fascino dell’Avanguardia e il dinamismo della scomposizione cubista e astrattista con lo stile pubblicitario della neonata Pop Art. Le mostre che gli dedicarono le grandi gallerie newyorkesi furono un successo, che presto divenne non solo americano, ma mondiale. Con gli anni ’70, si dedicò anche alla scultura, con la serie Mermaid, in cui si ispirò fortemente a Giacometti e a Calder. Una grande mostra itinerante nel 1981 lo consacrò definitivamente a livello mondiale, mentre, nei suoi ultimi anni, ritornò a guardare all’Astrattismo e all’Informale. Roy Lichtenstein morì nella sua New York, la città che sempre amò e che sempre venerò nei suoi quadri, nel 1997, all’apice di una fama incredibile.

Roy Lichtenstein, American Indian Theme VI, 1980
Roy Lichtenstein, American Indian Theme VI, 1980


La mostra si sviluppa in alcune sezioni tematiche, non cronologiche, dedicate, ognuna alle molteplici visioni, o punti di vista, che Lichtenstein seppe applicare alla sua Arte. La prima prende le mosse dalle prove litografiche giovanili dell’artista, ispirate a temi letterari con uno stile astratto derivato da Paul Klee e da artisti di area tedesca, ma anche dalle sue incisioni giovanili dedicate ai Nativi d’America, tema che sempre lo interessò e che, a partire dagli anni ’70, in linea con un suo sempre maggiore appoggio all’attivismo dei movimenti come Red Power, riprese in chiave Pop come denuncia delle condizioni di vita delle riserve indiane, in grandiosi arazzi che paiono usciti da una tenda del grande capo di una tribù. La prova migliore è The Chief, incisione che ritrae un capo indiano con uno stile che si avvicina al Cubismo. Lichtenstein, in questa fase, fece deliberatamente uso di stilemi tratti dalle culture figurative pellerossa, mescolati a elementi dell’Arte occidentale e a elementi primitivi, a creare un modello “di protesta” di Arte americana alternativa a quella ufficiale.

Roy Lichtenstein, The Chief, 1956
Roy Lichtenstein, The Chief, 1956


A seguire, la mostra inizia ad analizzare l’utilizzo massiccio della forma stampata da parte dell’artista, che ne fece un marchio di fabbrica. Fondamentali, in questa fase, furono gli oggetti d’uso quotidiano, che caratterizzano la seconda sezione. Come il barattolo di zuppa per Warhol, Lichtenstein utilizzò un hot dog o un pollo arrosto per creare un’immagine iconica, riproducibile e, sicuramente, pubblicitaria, ma “no logo”, per usare le parole di Naomi Klein, una figura simbolo di un’epoca, gli anni ’60 del boom economico, ma che è anche denuncia della cultura di massa da cui prende le mosse la Pop Art. In questa fase, fondamentale è la tecnica a puntini, che trasforma oggetti quotidiani in opere d’Arte, ma lo è anche l’uso del colore, forte, shocking, ma diretto all’osservatore, e in questo Lichtenstein è un vero grafico pubblicitario. Nella serie delle Still Lifes, i colori sono quelli fondamentali, ed evitano le gradazioni tonali, a delineare l’oggetto perno dell’opera e a evidenziarne il carattere percettivo: in questo, l’artista fu un predecessore dell’interior design.

Roy Lichtenstein, Hot Dog, 1964
Roy Lichtenstein, Hot Dog, 1964


Segue una sezione dedicata alle serie di raffigurazioni d’Interni, realizzate da Lichtenstein tra il 1972 e il ’74 e riprese, poi, nel 1990, con frequenti autocitazioni da parte dell’artista. Si tratta di opere eseguite con tecniche miste, serigrafia, litografia e xilografia, in cui Lichtenstein si affermò, ancor più, come pioniere del Design d’interni. Queste opere, però, sono un’evoluzione della sua fase Pop, come prova l’inserimento degli oggetti d’uso negli interni raffigurati, oltre a un curioso gioco in cui l’artista arriva a riprodurre in miniatura alcune sue opere precedenti appese alle pareti, come provato da The Oval Office. Gli interni di Lichtenstein, raffigurati dall’artista con una tecnica che privilegia la percezione, sono ambienti non certo d’abitazione quotidiana, ma inanimati e quasi metafisici, oppure espressione di una satira nei confronti del potere politico americano.

Roy Lichtenstein, The Oval Office, 1992
Roy Lichtenstein, The Oval Office, 1992


La figura femminile fu sempre di grande interesse per Lichtenstein. La sezione successiva è dedicata proprio alle donne, su cui l’artista realizzò alcuni dei suoi capolavori. Lichtenstein seguì, da vicino, il processo di emancipazione femminile, dagli anni ’60 ai ’90. Partì da opere di inizio anni ’60, in cui la donna è ancora casalinga felice, angelo del focolare, per arrivare, in pochi anni, con l’inizio dei ’70, a una raffigurazione femminile ispirata ai cartoni animati, in cui la protagonista, spesso piangente, sembra lamentarsi della sua condizione e pronta a emanciparsi. Nascono così capolavori come Reverie e Crying girl, figure idealizzate ma “con i piedi per terra”, in preda ad angosce personali ed esistenziali ma quasi eroine quotidiane. Lichtenstein riprese, poi, il tema femminile a partire dal 1977, in linea con i movimenti femministi dell’epoca, con sculture raffiguranti profili sinuosi e sensuali, per concludere il processo a inizio anni ’90, con la serie dei nudi, che hanno come protagoniste ragazze moderne colte nella loro sfera intima, dietro a cortine sfumate ottenute con la tecnica a puntini.

Roy Lichtenstein, Reverie, 1965
Roy Lichtenstein, Reverie, 1965


 

Roy Lichtenstein, Crying Girl, 1963
Roy Lichtenstein, Crying Girl, 1963


A seguire, una sezione dedicata a un altro tema molto amato da Lichtenstein, i cartoni animati e i fumetti. Sin dall’inizio della sua esperienza Pop, con la Ben-Day Dots, i cartoons furono campo d’indagine per l’artista. Ora, sembra quasi di calarci all’interno dell’universo Marvel, ma con un intento più formale che narrativo, mirante a valorizzare la tecnica a puntini sperimentata da Lichtenstein, e a evidenziare l’impatto nella percezione dell’immagine. Nascono così opere come la serie delle Reflections, in cui l’artista lavorò su fotogrammi tratti da Superman e Wonder Woman, studiando l’effetto visivo di uno scontro tra oggetti o la reazione dell’eroina, chiamata, nell’opera, Minerva. In questa serie, trionfa l’immaginario guerresco e dinamico, contrapposto al sentimentalismo femminile statico di opere come Reverie, concepito, però, come denuncia di una società, quella americana, che vive sul culto delle armi e che, spesso, ha preteso, con la guerra, di esportare la democrazia.

Roy Lichtenstein, Reflections on Crash, 1900
Roy Lichtenstein, Reflections on Crash, 1990


 

Roy Lichtenstein, Reflections on Minerva, 1990
Roy Lichtenstein, Reflections on Minerva, 1990


I cartoons, in parte, tornano anche nella sezione successiva, quella dedicata ai paesaggi. Su questo tema, Lichtenstein riprese moltissimo le vedute giapponesi di Hiroshige e Hokusai, come prova il bellissimo paesaggio con sole, che sembra tratto dalla grafica nipponica, ma fu influenzato anche dall’Impressionismo. I paesaggi di Lichtenstein sono frutto dell’osservazione non di un dato naturale, ma di uno sfondo, ancora Pop, dei cartoni e dei fumetti. Rivoluzionario si rivela, in questa fase, l’utilizzo del Rowlux, un tipo di plastica lenticolare che, applicata alla superficie stampata, rende l’effetto del dinamismo sull’osservatore. Con i paesaggi degli anni ’80, Lichtenstein inizia a mescolare i colori tipici dei cartoons a quelli reali, creando un effetto fortemente gestuale e scenografico, mentre, con quelli cinesi del 1996, l’artista lavorò sia sul modello giapponese che sulle prove di Degas, ottenendo uno dei migliori risultati della tecnica Ben-Day dots, con un’atmosfera rarefatta e quasi fiabesca.

Roy Lichtenstein, Sunrise, 1965
Roy Lichtenstein, Sunrise, 1965


L’ultima parte della mostra è dedicata al Lichtenstein interessato all’Astrattismo e alle Avanguardie storiche. Dopo la fase Pop, l’artista tornò a interessarsi al fenomeno astratto ma solo in chiave parodistica, più che estetica, come provano le serie dei Brushstrokes, del 1965, in cui la pennellata è concepita come gesto archetipico, ma anche ironico e dissacrante. Lichtenstein vi ritornò negli anni ’80, con una pennellata che diventa segno grafico autonomo, con colori smaglianti, oppure reinterpretazione di repertori classici, dal ritratto alla natura morta, con omaggi a Van Gogh e a De Kooning. Concludono la mostra una serie di opere a stampa in cui l’artista riprende temi e repertori iconografici tipici delle Avanguardie. Non si tratta di citazionismo, ma di una volontà di scomporre, smontare queste figure e ricostruirle in una dimensione contemporanea, esattamente come avevano fatto i Cubisti cinquant’anni prima. Si tratta di ricostruzioni stilistiche, e non tematiche, miranti a trasformare la figura in uno strumento per un gioco linguistico e creativo totalmente nuovo, sempre un po’ irrisorio e ironico, come tutta l’opera del maestro, che diventerà una delle chiavi del Post-Moderno, di cui, forse, a sua insaputa, Roy Lichtenstein è uno dei padri.

Roy Lichtenstein, Brushstroke, 1965
Roy Lichtenstein, Brushstroke, 1965


Roy Lichtenstein, Landscape with boats, 1996
Roy Lichtenstein, Landscape with boats, 1996


Roy Lichtenstein, The Couple, 1980
Roy Lichtenstein, The Couple, 1980


Roy Lichtenstein. Multiple Visions
MUDEC, Via Tortona 56, Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30
martedì-mercoledì-venerdì-domenica 9.30-19.30
giovedì-sabato 9.30-22.30
Ingresso: 14,00 € intero, 12,00 € ridotto
Info: www.mudec.it

La fotografia concettuale di Pierluigi Fresia in mostra a Milano

Galleria Milano ritorna attiva con una mostra nel solco della tradizione sperimentale che ha sempre contraddistinto lo spazio espositivo di Via Turati.

Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018
Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018


Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018
Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018


Dal 22 maggio alla fine di luglio, infatti, sono qui esposti alcuni lavori di Pierluigi Fresia, sotto la curatela del professor Francesco Tedeschi, ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea all’Università Cattolica. Si tratta di una mostra importante, e di un ritorno, in quanto è la prima esposizione realizzata dopo la scomparsa, alla fine di febbraio, della mente creatrice della Galleria Milano, Carla Pellegrini. In fondo, la mostra è dedicata anche a questo straordinario personaggio della Storia dell’Arte milanese. Senza Carla, Galleria Milano non sarebbe mai esistita e, proprio nel suo nome, lo spazio espositivo ha deciso di continuare la sua attività tra mostre ed eventi culturali.

Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019
Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019


Out of place è il titolo della mostra dedicata alle opere di Pierluigi Fresia. L’artista è nato ad Asti nel 1962, ma vive e lavora sulla collina torinese, tra la città e il Monferrato. Formatosi come pittore, il suo lavoro ha poi impiegato nuovi mezzi e media, dal video alla fotografia, creando un amalgama in grado di mescolare le diverse forme espressive, sulle quali viene a stratificarsi anche l’uso, comunicativo e creativo, della parola. Fresia ha allestito, negli anni, numerose mostre nel Nord Italia, dalla sua città adottiva, Torino, a Genova, Bologna e, ora, Milano.

Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019
Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019


L’Arte di Pierluigi Fresia è una forma di espressione concettuale, mirante a scoprire i significati reconditi del suo fare fotografia. E, per questo, si può parlare di fotografia concettuale. Out of place altro non è che una nuova indagine su quello che è il tema più caro al lavoro di Fresia, ovvero la fugacità del reale, attraverso tre serie di fotografie da lui realizzate tra il 2017 e il 2019, Afasia, Blackboard e Ibidem.

Pierluigi Fresia, Afasia, 2017
Pierluigi Fresia, Afasia, 2017


La ricerca artistica di Fresia è uno streben romantico concepito come tensione verso l’invisibile e l’impercettibile, verso un concetto che, concretamente, noi non possiamo vedere e toccare ma che, con la mente, possiamo immaginare direttamente. È proprio questo l’Out of place, ma non dobbiamo immaginarlo come un elemento trascendente, bensì come qualcosa che è puro frutto della nostra immaginazione. Le fotografie di Fresia raffigurano uno scenario grigio, a cui va a sovrapporsi un segno bianco, grafico, che ne definisce i contorni e che cerca di dare una dimensione più “con i piedi per terra” e concreta a qualcosa che, in realtà, è intangibile. Si tratta di quelli che lui stesso chiama “segni di transito”, espressioni che delineano un contorno tangibile a qualcosa che, in realtà, non lo è. Nella serie Afasia sono segni, simili a graffi, su soggetti immersi nella nebbia, mentre in Ibidem questa filosofia di fare Arte si configura in note a piè di pagina incomplete, quasi commenti testuali lasciati all’immaginazione dell’osservatore, e, ancora, in Blackboard, i “segni di transito” sono graduali cancellature su una lavagna, che, su di essa, lasciano una piccola e impercettibile traccia: una superficie nera con pochi puntini, che lascia immaginare un riferimento a un cielo notturno, al Cosmo con tutte le Stelle o a galassie lontane. Tutto questo procedimento non mira, con intento moralistico, a ricordarci che il tempo scorre e che dobbiamo morire tutti, ma a farci da promemoria sull’inesorabilità del passare dei giorni e dei mesi, con il senso di perdita che la vita si porta dietro, entrando in collisione con quel tentativo, quasi utopia, dell’artista, di fermare questo orologio, in una dimensione di “oltre-vita”, quindi “out of place”, fuori posto. E proprio questo tentativo ci porta a definire la fotografia di Fresia come una forma di Arte concettuale, che resiste allo scorrere del tempo, delle stagioni e delle tendenze creative, ma che ci ricorda come dobbiamo cogliere l’attimo e vivere la nostra vita godendocela fino all’ultimo istante. In fondo, proprio come ha fatto Carla Pellegrini, vivendo per l’Arte fino al suo ultimo respiro, e alla quale dedico questo articolo.

Pierluigi Fresia, Afasia, 2017
Pierluigi Fresia, Afasia, 2017


Pierluigi Fresia. Out of place
Galleria Milano, Via Turati 14 – Via Manin 13, 20121 Milano
Orari: martedì-sabato 10.00 – 13.00; 16.00-20.00
Ingresso libero

La pittura di Angelo Morbelli in mostra alla GAM di Milano

La Galleria d’Arte Moderna di Via Palestro a Milano, da sempre, è luogo sacro per gli amanti dell’Arte dell’800 lombardo, e, ora, una mostra, allestita al suo interno, rende omaggio a uno dei più grandi artisti di questo periodo storico: Angelo Morbelli

Su Morbelli sono state allestite pochissime mostre monografiche, e l’ultima risale al lontano 1949, ma non si può dire che l’artista sia un pittore poco noto, in quanto si tratta di uno dei maestri della stagione pittorica a cavallo tra ‘800 e ‘900 e, stilisticamente, tra ultimo Romanticismo, Realismo, Divisionismo e Simbolismo. La mostra attuale, visitabile nelle sale del piano terra della Villa Reale del Pollack, da poco restituite ai milanesi dopo lavori di restauro, dal 15 marzo al 16 giugno 2019, rende onore a questa convergenza artistica nella figura di Morbelli. La curatela è stata affidata a nomi di calibro, come Paola Zatti, Alessandro Oldani, Giovanna Ginex e Aurora Scotti, mentre l’organizzazione è opera del Comune di Milano insieme alla GAM stessa.

Angelo Morbelli è milanese, ma d’adozione, in quanto nacque ad Alessandria nel 1853. Nel 1867, si trasferì a Milano per dedicarsi agli studi presso l’Accademia di Brera, dove ebbe, come maestri, l’anziano Francesco Hayez e Giuseppe Bertini. Iniziò a farsi conoscere come pittore paesaggista ma anche come autore di scene storiche grandiose e drammatiche, anche se, dall’inizio degli anni ’80, si dedicò a rappresentazioni dirette e crude della realtà milanese dell’epoca, anche sull’influenza di quanto avveniva in Francia con Courbet e Millet, con le sue opere più famose, ovvero il ciclo di tele raffiguranti i vecchioni del Pio Albergo Trivulzio, che tutti i milanesi conoscono affettuosamente con il nome di “Baggina”. Negli stessi anni, Morbelli iniziò a dedicarsi a un altro tema che avrebbe contraddistinto l’Arte italiana di fine ‘800, la Maternità. Scelse, come modella, la moglie Maria Pagani: le sue rappresentazioni sono il pendant perfetto per quelle, di analogo tema, dedicate dai contemporanei Previati e Segantini al mondo animale. Dagli anni ’90, influenzato dall’esperienza francese dell’Impressionismo, si dedicò alla scomposizione del colore, generando, con l’utilizzo di mille puntini ottenuti con pennellini finissimi, la tecnica che venne chiamata dalla critica “Divisionismo” e che fu la risposta italiana al fenomeno francese. In questi anni approfondì ulteriormente la scelta realistica e strinse amicizia con Giuseppe Pelizza da Volpedo e Leonardo Bistolfi, anch’essi alessandrini, “mandrogni”, a Milano, con cui, spesso, amava ritirarsi nella sua casa di Colma, sulle colline di Casale Monferrato. Ritrasse spesso la tenuta, insieme alle campagne circostanti e alle vicine risaie. Con i primi anni del’900, reduce dalle vittorie di premi a Milano e a Roma, ritornò sul tema dei vecchioni del Trivulzio e su quello della maternità. Nei suoi ultimi anni, si avvicinò dapprima al Simbolismo, poi al Futurismo, e lavorò soprattutto a raffigurazioni dei ghiacciai e della vegetazione della Valfurva. Morì a Milano nel 1919.

Angelo Morbelli, Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, 1892, Olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay
Angelo Morbelli, Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, 1892, Olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay


La mostra della GAM intende essere un omaggio alla milanesità di Morbelli, acquisita dopo il suo arrivo, giovanissimo, dal Piemonte sudoccidentale, ma simbolo di qualcosa che, ancora oggi, è vivo: Milano è città aperta, che accoglie persone provenienti dalle provincie del Nord, dalle Regioni del Sud e dai Paesi più poveri del Mondo. E quando sei a Milano, un po’ milanese, in fondo, lo diventi! Così fu per il giovane Angelo, che iniziò, sin da subito, a destreggiarsi tra i luoghi più suggestivi della città, immortalandoli con un tratto quasi fotografico e con la tecnica divisionista. Il punto di partenza sono sempre le opere della collezione permanente della GAM, a cui vanno ad aggiungersi altre tele, prestate da illustri musei come l’Orsay a Parigi o la Galleria d’Arte Moderna di Roma. E il punto di partenza della mostra non è, cronologicamente, la Pittura degli esordi, ma, tematicamente, quella legata al Pio Albergo Trivulzio. Realismo puro. Queste due parole riassumono benissimo il ciclo di tele che Morbelli realizzò a partire dal 1882, a più riprese, fino ai primi anni del ‘900. Si tratta di una forma di realismo di denuncia delle condizioni di solitudine e alienazione in cui si trovavano questi anziani ospiti di quella che, forse, è ancora la più conosciuta casa di riposo milanese. Morbelli traduce questo sentimento su tela con la forma più cruda, esattamente come Courbet faceva in Francia, evidenziando i volti stanchi e gli sguardi persi nel vuoto degli anziani, ma non disdegnando momenti di convivialità, come prova Il viatico, opera dall’inedito, e straordinario, taglio fotografico, a cui fa da contraltare Un Natale al Pio Albergo Trivulzio, opera di inizio ‘900 in cui il vuoto fisico diventa anche interiore. Forse, uno dei capolavori di Morbelli è Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, sempre degli anni ’80, in cui il realismo tende a essere più sfumato, con lo scopo di dare maggior spazio alla tecnica divisionista.

Angelo Morbelli, Giorni… ultimi, 1882-1883, Olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna
Angelo Morbelli, Giorni… ultimi, 1882-1883, Olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna


Segue la parte che maggiormente identifica Morbelli con la Milano che lo accolse, da allievo di Bertini e Bisi a Brera. Punto di partenza, però, per un’analisi della sua Pittura degli esordi è la grande tela di soggetto storico, del 1880, raffigurante Goethe Morente, con cui divenne noto al pubblico. Partendo da questa grande opera, con il suo taglio drammatico e teatrale, si può affermare che Morbelli sia stato l’ultimo pittore romantico milanese, come prova lo sguardo della nuora di Goethe, mediato dalla pittura di Hayez e di Molteni, ma anche da quella del suo conterraneo Pagliano. Come anticipato, però, la milanesità di Morbelli si riassunse in alcuni dipinti, dal taglio realistico, con cui il pittore di Alessandria si distaccò dal vedutismo urbano del suo maestro Luigi Bisi, autore di interni di chiese e basiliche: Morbelli non disdegnò il tema, ma preferì immortalare la nuova Milano delle strutture in ferro e vetro, come quella Stazione Centrale, progettata da un ingegnere francese e da poco terminata con la sua innovativa tettoia, o la Galleria Vittorio Emanuele, anch’essa da poco inaugurata, dopo la tragica fine del suo progettista Giuseppe Mengoni. Sono immagini che paiono fotografie, episodi di una Milano sparita e da ricordare che Morbelli ci ha restituito nel suo realismo e nel brulicare di vita, tra treni in movimento e borghesi a passeggio, ieri come oggi. Non mancano, però, anche opere della maturità in cui Morbelli riprese modi e temi cari al maestro Bisi, specie negli interni di Santa Maria dei Miracoli, sull’attuale Corso Italia: ne sono prova tele come Incensum Domino, in cui lo sfumato della luce mista all’incenso durante la celebrazione della messa si unisce a una resa ancora naturalistica dei personaggi: siamo alle origini del Divisionismo.

Angelo Morbelli, La stazione centrale di Milano nel 1889, 1889, Olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna
Angelo Morbelli, La stazione centrale di Milano nel 1889, 1889, Olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna


Angelo Morbelli, Le guglie del Duomo, 1915-1917, Olio su tela, Milano, Palazzo Morando – costume, moda, immagine
Angelo Morbelli, Le guglie del Duomo, 1915-1917, Olio su tela, Milano, Palazzo Morando – costume, moda, immagine


Segue una sezione dedicata al Morbelli più intimo, con raffigurazioni della sua tenuta a Colma, oltre a opere dedicate all’amata moglie Maria, come La prima lettera (1890), che anticipa, nella scelta stilistica, il Divisionismo. In questa fase, durante i lunghi soggiorni nel Monferrato, Morbelli ebbe modo di sviluppare nuove dinamiche cromatiche e luministiche, che sarebbero sfociate nella sua ultima produzione, insieme a un’attenta, e naturalistica, analisi della vegetazione che circonda la tenuta e che rimanda, ancora una volta, ai suoi esordi da paesaggista.

Angelo Morbelli, La prima lettera, 1890-1891, Olio su tela, Milano, collezione privata
Angelo Morbelli, La prima lettera, 1890-1891, Olio su tela, Milano, collezione privata


Successivamente, un corpus di dipinti mette in evidenza il ruolo della donna secondo Morbelli. Una donna che, innanzitutto, da buon uomo dell’800, è moglie e madre, angelo del focolare, come provato dai ritratti di Maria o da Alba serena, ma che costituisce anche una sorta di monito alla caducità della vita. Varie sono le donne morenti o malate ritratte da Morbelli, anche in linea con la contemporanea Scapigliatura di Praga e Tarchetti, ma la più riuscita è sicuramente La venduta, opera del 1887 in cui l’artista di Alessandria, con un realismo degno delle sue origini e delle tele dei vecchioni, ritrae una giovane prostituta malata, con lo sguardo fisso e immobile, simbolo della rassegnazione davanti alla morte ma anche, moralisticamente, come conseguenza dello stile di vita condotto dalla ragazza. L’opera venne presentata a Londra nel 1889 all’interno di una serie di eventi legati a un’inchiesta sulla prostituzione nelle città europee e promossi da un giornale della capitale inglese: fu un successo!

Angelo Morbelli, Alba felice, 1892-1893, Olio su tela, Milano, collezione privata
Angelo Morbelli, Alba felice, 1892-1893, Olio su tela, Milano, collezione privata


La conclusione è affidata all’ultimo Morbelli, quello dei primi anni del’900, che riprese i lavori sui vecchioni del Trivulzio, che aderì, in forma velata, ai dettami simbolisti, come prova il Trittico della Vita, dal taglio liberty, e che poi, tornò a un grandioso naturalismo perfettamente espresso da Il ghiacciaio dei Forni, raffigurante uno dei più affascinanti bacini d’acqua delle Alpi, oggi in gran parte ritiratosi a causa dei cambiamenti climatici e al surriscaldamento globale. Questo è il testamento che ci lascia Angelo Morbelli, un’identificazione panica, dannunziana, tra uomo e Natura, attraverso forme titaniche di montagne e calotte di ghiaccio che diventano anche stati d’animo, oltre che testimonianze dirette di qualcosa che oggi, purtroppo, per colpa dell’uomo, abbiamo perduto. Ed è la miglior prova di quanto si sbagli il visitatore che pensa all’alessandrino esclusivamente come al pittore dei vecchioni: Morbelli è stato un trait d’union tra ‘800 e ‘900 e tra Realismo e Avanguardia.

Angelo Morbelli, S’avanza, 1892-1896, Olio su tela, Verona, Comune di Verona, Civica Galleria d’Arte Moderna Achille For
Angelo Morbelli, S’avanza, 1892-1896, Olio su tela, Verona, Comune di Verona, Civica Galleria d’Arte Moderna Achille For


Morbelli 1853-1919
GAM, Via Palestro 16, Milano
Orari: martedì-domenica 9.30-17.30
Biglietti: Intero 5,00 €, Ridotto 3,00 €
Info: www.gam-milano.com

 

 

Una wunderkammer in mostra nel centro di Milano

La Natura, nella sua magnificenza, è la protagonista della mostra tematica ospitata a Palazzo Reale di Milano.

Dal 13 marzo al 14 luglio 2019, infatti, nella Sala delle Cariatidi e in quelle contigue, di Palazzo Reale, è allestita la mostra Il meraviglioso mondo della Natura. Una favola tra Arte, Mito e Scienza, curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, professori all’Università degli Studi di Milano. La mostra è promossa da Comune di Milano, Palazzo Reale e 24Ore Cultura. Si tratta di un’occasione unica, in quanto, per l’evento, è stata allestita una vera e propria wunderkammer, ovvero uno di quei gabinetti delle meraviglie, con pietre rare, oreficerie, oggetti rari e animali imbalsamati, che caratterizzavano, nel Cinquecento, alcune dimore della nobiltà austriaca e del Nord Italia. Un’ulteriore occasione è fornita dalle celebrazioni per i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, che, più di ogni altro, seppe analizzare, da scienziato, e rappresentare, sia da artista che da ingegnere, la Natura, adattandola all’uomo e alle sue esigenze.

La mostra è esattamente una panoramica sulla rappresentazione della Natura dal XV al XVII secolo, con particolare attenzione a Milano e al suo scenario, famoso già all’epoca per la perfetta sintonia tra Arte e Scienza, tramite l’analisi della Natura. Punto di partenza sono due opere grafiche: la prima è un foglio di un codice tardogotico lombardo, l’Historia plantarum, custodito a Roma, in cui è rappresentato un gatto, associato, quasi come in un bestiario medievale, a superstizioni legate a varie parti del suo corpo. Il foglio del codice è affiancato da un disegno di Leonardo da Vinci, della Biblioteca Ambrosiana, di analogo soggetto, ma frutto di un’analisi scientifica sul corpo dell’animale. Quindi, Medioevo contro Rinascimento significa Superstizione contro Scienza ed Esperienza diretta.

Bottega di Giovannino de’ Grassi, Gatto arraffa una fetta di cacio, 1395-1400 circa, Roma, Biblioteca Casanatense
Bottega di Giovannino de’ Grassi, Gatto arraffa una fetta di cacio, 1395-1400 circa, Roma, Biblioteca Casanatense


 

Leonardo da Vinci, Studio sull'equivalenza di superfici e disegno di un gatto, 1513-15, Milano, Biblioteca Ambrosiana © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio
Leonardo da Vinci, Studio sull’equivalenza di superfici e disegno di un gatto, 1513-15, Milano, Biblioteca Ambrosiana © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio


Segue un altro bellissimo confronto, tra due dipinti celeberrimi rappresentanti una Natura morta, eseguiti alla fine del ‘500: la Natura morta con pesche di Giovanni Ambrogio Figino e la Canestra di frutta di Caravaggio. La prima, del 1594-95, in collezione privata, è un’opera estremamente realistica, che pare quasi in 3D, se la si guarda da vicino, ma che risente ancora dell’espressività idealizzata del Manierismo, di cui Figino fu uno dei massimi rappresentanti milanesi. La versione di Caravaggio, dell’Ambrosiana, opera giovanile eseguita dal Merisi mentre era ancora allievo di Simone Peterzano, è frutto di un’osservazione diretta, e scientifica, della canestra, condotta tramite una perfetta resa al dettaglio e con l’uso di un fondale chiaro che simula un intonaco, a dare un effetto illusionistico. Sembra vera, nonostante sia un quadro!

Giovanni Ambrogio Figino, Natura morta con pesche, 1594-96, Milano, Collezione Privata
Giovanni Ambrogio Figino, Natura morta con pesche, 1594-96, Milano, Collezione Privata


 

Leonardo da Vinci, Studio sull'equivalenza di superfici e disegno di un gatto, 1513-15, Milano, Biblioteca Ambrosiana © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio
Leonardo da Vinci, Studio sull’equivalenza di superfici e disegno di un gatto, 1513-15, Milano, Biblioteca Ambrosiana © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio


Queste opere sono il prologo al vero fulcro della mostra, ovvero il cosiddetto Ciclo di Orfeo, allestito nella Sala delle Cariatidi. Si tratta di uno dei più riusciti cicli pittorici del ‘600 italiano, che si trovava all’interno di un palazzo, oggi non più esistente, all’angolo tra le vie Monte Napoleone e Pietro Verri. Tra il 1623 e il ’24, tale palazzo venne acquistato da un ramo dei Visconti, a cui apparteneva anche Alessandro, in contatto con i duchi di Toscana e dalla cui corte fece chiamare due pittori, il polacco Pandolfo Reschi e il fiammingo Livio Mehus, per realizzare, nel salone, un ciclo dipinto raffigurante la Natura e il mondo animale, inquadrato nelle vicende mitologiche di Orfeo e di Dioniso. Intorno al 1670, il ciclo, stando ai documenti, doveva essere terminato. Nel Settecento, il palazzo passò dai Visconti ai Lunati e, poi, ai Verri, la famiglia a cui appartennero, tra gli altri, gli illuministi Pietro e Alessandro. Un Verri, Carlo, cercò di restaurare, a un secolo di distanza, le tele di Reschi e Mehus, ma con esiti disastrosi. In questi anni, iniziò a circolare l’errata attribuzione delle tele al genovese Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, e, per tale motivo, la sala iniziò a essere chiamata in questo modo e, nell’800, venne usata dagli allievi di Brera per studiare composizioni naturalistiche e relative al mondo animale. Nel 1877, i Verri vendettero il palazzo e il ciclo venne smembrato. Nei primi anni del ‘900, le tele vennero rimontate e riallestite in Palazzo Sormani, l’attuale sede dell’omonima biblioteca, da Achille Majnoni d’Intignano che, per sistemarle in un ambiente più piccolo e stretto, le tagliò per poi risistemarle sovvertendo l’ordine narrativo. Nacque, così, quella che, ancora oggi, è la Sala del Grechetto di Palazzo Sormani, dove il ciclo è attualmente ospitato. Il palazzo, nel 1935, passò al Comune, mentre le tele, sfuggite ai bombardamenti del 1943, negli anni ’50, vennero ripristinate nel loro assetto d’anteguerra. L’effetto è scenografico, anche frutto dell’allestimento, delle luci e della pittura illusionistica mirante a ricostruire l’ambiente di Palazzo Verri. Le 23 tele che costituiscono il grandioso ciclo troneggiano per magnificenza nella loro mirabile rappresentazione della Natura e del Mondo animale, del quale sono raffigurati circa duecento esemplari. Tra questi, compaiono anche animali fantastici, come l’unicorno, accanto a esemplari esotici conosciuti dai pittori solo tramite testi illustrati consultati nel Nord Europa e a Firenze. Si tratta di un autentico capolavoro, unico nella Storia dell’Arte lombarda, per varietà tematica e grandiosità, che, grazie a una sapiente ricostruzione, ora si può ammirare quanto più possibile nella sua verosimiglianza all’originario assetto di palazzo Verri.

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


 

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


 

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


 

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


 

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


 

Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati
Anonimo olandese, Pandolfo Reschi (16401696), Livio Mehus (1627-1691) Ciclo di Orfeo (dettaglio) 1675-1680 circa olio su tela Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti) © Comune di Milano-Tutti i diritti riservati


A concludere la mostra, un’appendice con una piccola esposizione di animali imbalsamati, circa 160, provenienti dal Museo di Storia Naturale e dall’Acquario di Milano, oltre che dal MUSE di Trento: si tratta degli stessi animali rappresentati da Reschi e Mehus, che paiono prendere vita tramite un sortilegio e che fanno, della rappresentazione della Sala delle Cariatidi, una sorta di wunderkammer contemporanea.

Il meraviglioso mondo della Natura. Una favola tra Arte, Mito e Scienza
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano

Orari: Lunedì 14,30 – 19,30;
           Martedì – mercoledì – venerdì – domenica 9,30 – 19,30
           Giovedì e sabato 9,30 – 22,30
Biglietti: Intero € 14,00, Ridotto € 12,00
Info: www.mostramondonatura.it

Ingres a Milano. Un viaggio tra Neoclassicismo e Romanticismo a Palazzo Reale

La grande stagione del primo ‘800 è la protagonista della nuova mostra ospitata a Palazzo Reale di Milano.

Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone è il titolo completo della mostra che si tiene, dal 12 marzo al 23 giugno, nelle sale del piano nobile del Palazzo di Piazza Duomo. Promossa dal Comune di Milano, in collaborazione con Palazzo Reale, Civita Mostre e Musei, l’esposizione è curata da Florence Viguier-Dutheil, direttrice del Museo dedicato all’artista a Montauban, in Occitania, dove l’artista nacque nel 1780. La collaborazione con il museo di Montauban è molto importante, dal momento che Ingres, al momento della sua morte, a Parigi, nel 1867, lasciò un corpus di circa 4500 disegni alla città natale, e così iniziò a formarsi quella che è la collezione permanente, poi arricchitasi di numerosi dipinti di Ingres e dei suoi allievi.

Ingres Jean-Auguste-Dominique (1780-1867). Paris, musée d'Orsay. RF2521.
Ingres Jean-Auguste-Dominique (1780-1867). Paris, musée d’Orsay. RF2521.


La mostra di Palazzo Reale, con i suoi circa 150 pezzi, tra tele, statue e disegni, non è un racconto biografico sulla vita di Ingres ma un percorso all’interno dell’epopea napoleonica nelle Arti e un dialogo, continuo, tra Francia e Italia, sempre legato alla figura di quel Napoleone Bonaparte che, da generale semisconosciuto figlio degli ideali della Rivoluzione, varcò le Alpi per la prima volta nel 1796 per sconfiggere gli Austriaci e instaurare le Repubbliche che si rifacevano all’esperienza politica transalpina, ma anche di quel Napoleone che, nel 1805, già incoronato Re dei Francesi, si fece anche fregiare del titolo di monarca d’Italia nel Duomo di Milano, deludendo le speranze di chi vedeva, in lui, non un imperatore figlio del potere assoluto, ma un liberale in grado di scacciare i vecchi regimi. Non si tratta certo di una mostra sulla figura di Napoleone, ma di un excursus artistico che, sicuramente, ha coinvolto la sua persona, come mecenate e come fonte d’ispirazione.

Jean Auguste Dominique Ingres, Dormeuse, 1820 circa, Londra, Victoria and Albert Museum
Jean Auguste Dominique Ingres, Dormeuse, 1820 circa, Londra, Victoria and Albert Museum


La mostra intende anche essere un nuovo, e più focalizzato, punto di vista sul Neoclassicismo, allontanandolo dalla visione e dal pessimo giudizio critico che il nuovo stile ricevette già in epoca romantica. Il Neoclassicismo venne inteso come qualcosa di totalmente purista, freddo e lontano dalla sensibilità umana, e solo come un fenomeno artistico meramente estetico ed estetizzante, mirante alla celebrazione del Bello ideale, incarnato nella Classicità greco-romana. Da quello che emerge in mostra, invece, è possibile cogliere un’altra sfumatura, ovvero un’anticipazione del nascente Romanticismo, in alcune opere oniriche e notturne, come Il Sogno di Ossian di Ingres, in cui il bardo celtico, già romantico per scelta tematica, vede, nel sonno, le anime dei Morti, un oltretomba virgiliano fatto di eroi e Dee totalmente tratte dalla Classicità, come provano la presenza di armature achee e pose da statue ellenistiche. Il Neoclassicismo, però, seppe anche anticipare l’attenzione romantica al paesaggio e al dato naturale, come provato dai dipinti, quasi cronachisti, di Nicolas Taunay, che raffigurano la traversata delle Alpi da parte di Napoleone, in cui la Natura è avvolta nella sua bellezza sublime.

Il punto di partenza del percorso è Jacques Louis David. Ingres fu il suo allievo più famoso e nel suo atelier parigino giunse nel 1797. Testimonianza base di questa prima fase della sua carriera sono i due Torsi maschili con cui il giovane Ingres  vinse i primi premi, che iniziarono a valergli la fama pittorica. Affiancate alle opere del giovane Ingres e a un uomo di spalle di David, frutto di ricordi romani, degne di nota sono anche quelle di un altro grande distruttore dell’estetica rococò e tardobarocca, ovvero François Xavier Fabre, come prova la sua Susanna e i vecchioni, tema barocco per antonomasia, ma, ora, affrontato con una più spiccata attenzione all’episodio della violenza verso la donna e con una maggiore propensione al sentimento.

Jean Auguste Dominique Ingres, Torso d'uomo, 1799, Montauban, Musee Ingres
Jean Auguste Dominique Ingres, Torso d’uomo, 1799, Montauban, Musee Ingres


 

Jacques Louis David, Nudo detto Patroclo, 1780, Cherbourg, Museo Thomas Henry
Jacques Louis David, Nudo detto Patroclo, 1780, Cherbourg, Museo Thomas Henry


A seguire, una sezione è dedicata al ritratto, in cui Ingres eccelse e iniziò a specializzarsi non appena aprì un suo atelier autonomo. Si tratta di istantanee che colgono lo sguardo del protagonista, ma anche i suoi aspetti più fisiognomici, lontani dal gioco galante del ritratto settecentesco di Boucher e Fragonard. Tra questi, spiccano il ritratto fatto al ventcinquenne Ingres all’opera dalla sua fidanzata di allora, Julie Forestier, ma anche quello, del maestro, di Paul Lemoyne. Compaiono, poi, anche scene di ritrattistica ufficiale, condita, però, di un tocco già trasognato, come prova la Principessa di Lichtenstein di Elisabeth Vigee-Lebrun, che trasforma la nobildonna austriaca in una dea in volo verso la gloria, mescolando elementi neoclassici (il vestito e la trasposizione con la mitologia classica) e romantici (lo “streben” verso l’infinito). Forestier e Vigee-Lebrun sono due nomi importanti perché furono, tra le prime donne della Storia dell’Arte, a essere considerate maestre di Pittura e non più casi isolati in un mondo ancora prevalentemente maschile, come lo erano state, in passato, Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana e Rosalba Carriera.

La sezione successiva è dedicata al rapporto tra i primi temi romantici e il mito classico. La dicotomia segnò anche Ingres prima di entrare in rapporto con Napoleone Bonaparte. In questa sezione, degna di nota è la scena dal Guglielmo Tell dipinta da Vincent, già frutto dello storicismo romantico, affiancata al Sogno di Endimione di un’altra grande pittrice, simbolo di emancipazione, ovvero Anne-Louis Girodet Troison, che dipinse una scena ancora neoclassica ma carica di un erotismo straordinario nel meraviglioso nudo della ragazza, che pare, anch’esso, già romantico.

La figura centrale di Napoleone, è introdotta dal capolavoro del pittore di Montauban, quel Sogno di Ossian dipinto nel 1813 per la camera da letto del Bonaparte. La grandiosa tela si trovava nel soffitto della stanza per esplicita richiesta del generale, che amava i Canti di Ossian, un poema epico gaelico che, nel fervore storicista del primo ‘800, trovò ampio spazio nella Cultura dell’epoca, come prova la traduzione italiana di Cesarotti, e che Napoleone stesso considerava una base per il suo pensiero, tanto da portarsi una copia dell’opera, tradotta in francese, in battaglia. L’attenzione, a questo punto, si sposta prima sulla campagna d’Italia, del 1796, la cui testimonianza sono le raffigurazioni del passaggio alpino del Bonaparte di Taunay, e, poi, sull’arrivo di Napoleone a Milano, con il meraviglioso ritratto eseguito da Andrea Appiani nel 1796-98, in cui sono riassunte tutte le speranze che gli Italiani riponevano in lui in quanto simbolo della liberazione dal giogo austriaco al Nord e spagnolo a Napoli: basti osservare la sua spada, la cui elsa è avvolta da un ramoscello d’ulivo. Il messaggio è molto chiaro: Napoleone porterà, con una campagna bellica, la pace in Italia. Sappiamo tutti che non sarà così, perché Bonaparte avrebbe piazzato sui vari troni d’Italia parenti e generali a lui fedeli, come Murat a Napoli, deludendo le speranze liberali e unitarie degli intellettuali e degli artisti italiani, da Foscolo a Canova e allo stesso Appiani. Nonostante ciò, Milano, con Napoleone re d’Italia, sarebbe divenuta, nei primi anni dell’800, una seconda Parigi, una vera capitale politica e culturale, con personaggi di spicco, come Canova, presenti in città accanto a una generazione d’oro di artisti milanesi, come Appiani e Bossi, e di architetti come Cagnola e Cantoni. Non a caso, dopo essere stato incoronato re dei Francesi a Notre-Dame, Napoleone volle una seconda cerimonia in Duomo a Milano, in cui si proclamò Re d’Italia e Imperatore. Era il 1805, e quel momento Ingres lo seppe cogliere. L’anno successivo il maestro francese realizzò il suo secondo capolavoro, il Napoleone sul trono imperiale. Un’opera lontanissima da quel ritratto liberale che ne face Appiani! Napoleone, sguardo fisso e freddo sull’osservatore, abbigliato di broccati ed ermellino, come un qualsiasi “dux”, siede sul trono mentre regge due scettri, di cui uno è quello imperiale di Carlo Magno. Ai suoi piedi, un tappeto tessuto con il disegno di un’aquila imperiale. Si tratta di simboli di un potere assoluto, e per molti aspetti sacrale, come provato dallo schienale del trono, quasi a forma di aureola. Tra i due estremi temporali, il ritratto di Appiani e quello di Ingres, però, si colloca una grande epopea celebrativa esemplificata dai busti di Canova e Monti, in cui Napoleone è raffigurato come Giulio Cesare, o dalle incisioni di Andrea Appiani che riproducono il fregio da lui dipinto nel salone di Palazzo Reale e distrutto dalle bombe nel 1943, dedicato alle imprese belliche di Napoleone in Italia, in Francia e in Egitto. Degna di nota è anche la figura di Giovanni Battista Sommariva, commerciante di Lodi che, grazie a Napoleone e al suo lavoro a Milano, poté divenire conte e creare, nel suo palazzo, una grandiosa collezione di dipinti dell’epoca, anche di Ingres, di cui ci restano delle riproduzioni in miniatura, simili ai cammei romani, oggi custodite alla Pinacoteca di Brera.

Jean Auguste Dominique Ingres, Il sogno di Ossian, 1813, Montauban, Musee Ingres
Jean Auguste Dominique Ingres, Il sogno di Ossian, 1813, Montauban, Musee Ingres


 

Jean Auguste Dominique Ingres, Napoleone sul trono imperiale, 1806, Parigi, Museo delle Armi
Jean Auguste Dominique Ingres, Napoleone sul trono imperiale, 1806, Parigi, Museo delle Armi


 

Adele Chavasseau d'Haudebert da Andrea Appiani, Venere che accarezza Amore, miniatura, Milano, Pinacoteca di Brera
Adele Chavasseau d’Haudebert da Andrea Appiani, Venere che accarezza Amore, miniatura, Milano, Pinacoteca di Brera


Ingres fu affascinato da Napoleone ma ancora di più da un altro personaggio che fece la Storia: Raffaello. Il pittore francese giunse a Roma nel 1806, per rimanervi vent’anni a inseguire il suo ideale di perfezione legata al mito dell’Urbinate. Lui stesso si definiva quasi figlio artistico di Raffaello e l’ultima parte della mostra ne è la migliore prova. Il suo ideale di bellezza era un canone fisso, come provato dal ritratto che Ingres fece al padre, anch’egli pittore, a cinquant’anni, ma ringiovanendolo secondo i canoni estetici puristi del primo raffaellismo, o quello dello scultore fiorentino Lorenzo Bartolini. Ingres, in Italia, fu anche affascinato dalla bellezza delle ragazze e delle donne della Penisola: in vari disegni ebbe modo di studiare quegli elementi che, delle italiane, affascinarono molti artisti nordici che ebbero modo di effettuare il Grand Tour. Tra questi spicca quello della donna, molto in carne, quasi abbondante ma straordinariamente sensuale, con tre braccia, che sembra riprendere le figure femminili di Tiziano e Veronese. Dipinse, inoltre, in Italia, molte figure femminili nelle fattezze di Odalische, come quella celeberrima per la scarsa verosimiglianza anatomica legata alle tre vertebre in più e al seno troppo a contatto con l’ascella.

Jean Auguste Dominique Ingres, Grande Odalisca, 1830, New York, Metropolitan Museum of Art
Jean Auguste Dominique Ingres, Grande Odalisca, 1830, New York, Metropolitan Museum of Art


 

Jean Auguste Dominique Ingres, Donna con tre braccia Montauban, Musee Ingres
Jean Auguste Dominique Ingres, Donna con tre braccia Montauban, Musee Ingres


 

Jean Auguste Dominique Ingres, Copia dell'autoritratto di Raffaello, 1820-24, Montauban, Musee Ingres
Jean Auguste Dominique Ingres, Copia dell’autoritratto di Raffaello, 1820-24, Montauban, Musee Ingres


Il finale è tutto giocato sull’ammirazione, quasi maniacale, di Ingres per Raffaello. L’ultima sala, infatti, ruota intorno a tale venerazione e ad alcune opere che ne sono testimonianza, da quella simbolica che raffigura il Sanzio con la sua modella preferita, la Fornarina, fino alla Morte di Leonardo da Vinci e all’opera più raffaellesca di Ingres, ovvero la pala d’altare raffigurante Cristo che consegna le chiavi a San Pietro, destinata a una Cappella presso Trinità dei Monti a Roma, eseguita nel 1820, e alla copia del ritratto di Raffaello, che Ingres stesso destinò a Montauban, quasi a dichiarare che il nuovo genio della Pittura francese fosse nato in Occitania.

Jean Auguste Dominique Ingres, Raffaello e la Fornarina, 1848, Columbus Museum of Art
Jean Auguste Dominique Ingres, Raffaello e la Fornarina, 1848, Columbus Museum of Art


 

Jean Auguste Dominique Ingres, La morte di Leonardo da Vinci, 1818, Parigi, Petit Palais
Jean Auguste Dominique Ingres, La morte di Leonardo da Vinci, 1818, Parigi, Petit Palais


Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì 14.30 – 19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30
giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
Biglietti: Open 16,00 €, normale 14,00 €, ridotto 12,00 €
Info: https://www.mostraingres.it/

La collezione di Nature Morte di Geo Poletti in mostra a Milano

Palazzo Reale è la sede di mostre non solo dedicate ai grandi artisti, ma anche ai collezionisti più famosi che resero Milano la capitale di questa prassi.

È il caso dell’esposizione dedicata a Geo Poletti, artista, ma soprattutto grande conoscitore e grande collezionista, allestita nell’appartamento dei Principi, al primo piano di Palazzo Reale di Milano, dal 1 al 24 marzo 2019, nell’ambito dell’iniziativa MuseoCity. Curata da Paolo Biscottini, direttore di MuseoCity, e Annalisa Zanni, la mostra intende presentarci le capacità di collezionista e critico di Poletti, attraverso la raccolta di dipinti, del ‘600 e del ‘700, raffiguranti Nature Morte, ma anche la sua figura di artista, tramite le tele da lui stesso eseguite nell’arco della sua vita. Sì, perché quella di Geo Poletti fu una vita al servizio dell’Arte.

Pittore attivo a Napoli, Cesta con alzata di agrumi, carciofi, uva e volatili, 1640-1650 circa
Pittore attivo a Napoli, Cesta con alzata di agrumi, carciofi, uva e volatili, 1640-1650 circa


Ruggero, detto Geo, Poletti nacque a Milano nel 1926. La famiglia possedeva una villa a Bellagio: qui il giovane Geo soggiornò durante la Seconda Guerra Mondiale e qui conobbe il maestro che lo avrebbe spinto alla carriera artistica, Mario Sironi. Finito il conflitto, Geo tornò a Milano ma, nei primi anni ’50, seguì il padre a San Paolo del Brasile, dove ebbe modo di affinare uno stile pittorico legato al primitivismo. Tornato in Italia, strinse amicizia con il grande critico Roberto Longhi, che lo instradò verso quella passione per il XVII secolo che avrebbe indotto Alberto Arbasino a chiamarlo “il più grande conoscitore milanese della Pittura del Seicento”. Con Longhi, Poletti approfondì soprattutto Caravaggio e i suoi seguaci, ma anche vari altri pittori del nostro Seicento, dai bolognesi legati ai Carracci ai napoletani come Caracciolo, Stanzione e Cavallino. Si interessò moltissimo anche agli artisti spagnoli dello stesso secolo, come Velazquez e Ribera. Nello stesso tempo, studiò anche i moderni e i contemporanei, da De Chirico ai Futuristi fino a uno dei modelli di riferimento per la sua Pittura, ovvero Francis Bacon. Con gli anni ’60, Poletti si diede quasi esclusivamente al collezionismo, dipingendo solo per diletto personale. Iniziò a raccogliere opere del Seicento e del Settecento e intraprese viaggi a Londra per entrare in contatto con il mercato antiquario internazionale e per arricchire la sua collezione, composta per lo più da Nature Morte. Studiò non solo nomi di peso della Pittura lombarda come Tanzio da Varallo, Giacomo Ceruti, Fra Galgario e Cerano, ma anche personaggi fino allora considerati minori, come il bolognese Bartolomeo Passerotti o il comasco Paolo Pagani, pittore pochissimo attivo in Patria ma celebre nell’area austriaca e boema. La sua collezione è stata visitata da molti critici, studiosi e conoscitori, da Federico Zeri a Vittorio Sgarbi, che ne hanno fatto un punto di riferimento per le loro attribuzioni. Negli anni ’90, con l’amata moglie Giulia, anch’essa pittrice, acquistò una villa dal FAI a Lenno, sul suo adorato ramo del Lago di Como. Qui, Geo Poletti è morto nel 2012, lasciando agli eredi una collezione di inestimabile valore.

Pittore caravaggesco Natura morta con cesto d’uva, fichi, vaso di fiori e gigli, 1620-1630 circa
Pittore caravaggesco Natura morta con cesto d’uva, fichi, vaso di fiori e gigli, 1620-1630 circa


Proprio grazie agli eredi Poletti è stato possibile ricostruire, nelle sale del primo piano di Palazzo Reale, una parte della collezione di Geo. Si tratta di venticinque nature morte del XVII e XVIII secolo, molte delle quali ancora di dubbia attribuzione, appartenute al maestro, il quale aveva fatto i nomi dei pittori che compaiono oggi sui cartellini. Queste opere sono, per la prima volta, esposte al pubblico e intendono essere una sorta di riflessione sul concetto di Natura, proprio negli stessi giorni in cui inaugura una grande mostra a tema attigua all’esposizione dedicata a Poletti. La Natura, dalle opere che possiamo osservare, non è esercizio stilistico, né monito moralistico alla caducità della vita, ma qualcosa di vivo, di quotidiano, diretto nella sua purezza e semplice straordinarietà, sempre in grado di stupirci.

Pittore caravaggesco Natura morta con vaso di fiori, fragoline, pesche, pere e altri frutti, 1620-1630 circa
Pittore caravaggesco Natura morta con vaso di fiori, fragoline, pesche, pere e altri frutti, 1620-1630 circa


Proprio questo effetto ci fa, appena entriamo, la tela di Giacomo Ceruti, pittore molto amato da Geo, con una testa di maiale su un piatto d’argento, messa lì, davanti ai nostri occhi, ma senza il colare del sangue delle macellerie dei Carracci, bensì con un semplice tocco di bianco con cui l’artista bresciano settecentesco rende incarnato e pelo dell’animale. Accanto, possiamo osservare una riflessione del bergamasco Evaristo Baschenis sulla Canestra di frutta di Caravaggio all’Ambrosiana, ridotta in chiave più semplice e “povera”, com’era tipico di un artista di provincia, e un tripudio di fiori, frutti e selvaggina dello spagnolo Luis Melendez, che approfondì il genere a Napoli. Seguono una serie di opere, come la Vecchia con cesta di funghi, che Geo Poletti attribuì ai Carracci, ma su cui non abbiamo prove certe che si tratti di uno dei maestri bolognesi, e una meravigliosa tela, di scuola olandese a cavallo tra Seicento e Settecento, raffigurante diverse varietà di volatili, che il maestro attribuì all’ungherese Tobias Stranover.

Giacomo Ceruti, Natura morta con testa di maiale, anatra, volatili, cavolo e frattaglie, 1725-1730
Giacomo Ceruti, Natura morta con testa di maiale, anatra, volatili, cavolo e frattaglie, 1725-1730


 

Evaristo Baschenis, Natura morta con cesto di mele, piatto con prugne, meloni e pere 1645-1650 ca.
Evaristo Baschenis, Natura morta con cesto di mele, piatto con prugne, meloni e pere
1645-1650 ca.


Nella sala successiva compaiono vari piccoli dipinti raffiguranti uccelli, tra cui spiccano i Piccioni del romano Arcangelo Resani, autentico re della Natura Morta tra Emilia e Romagna a cavallo dei due secoli dopo una breve carriera da pittore sacro, da collocarsi nella fase tarda della sua produzione, influenzata dal chiaroscuro di Giuseppe Maria Crespi, ma anche due opere raffiguranti colombe, una di ambito napoletano, attribuita a Bernardo Cavallino per il tono naturalistico e caravaggesco, l’altra del Settecento veneto, che Poletti assegnò, senza riscontri sicuri, a Giandomenico Tiepolo.

Bernardo Strozzi, Vasi con fiori e composizioni di frutta, 1630 circa
Bernardo Strozzi, Vasi con fiori e composizioni di frutta, 1630 circa


A seguire, degno di nota è il Ragazzo con cesta di frutta e cacciagione, che stupisce per la somiglianza con il Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio. Si tratta di una tela di dimensioni medie, raffigurante un giovane, quasi efebico nella sua bellezza, che si è introdotto di nascosto in una cucina ed è colto dallo stupore del tripudio naturalistico della Natura Morta. Il dipinto venne assegnato da Poletti, con conferme di altri studiosi, all’olandese Henrik Terbruggen, che soggiornò a Roma nel primo decennio del Seicento e iniziò a seguire l’esempio di Caravaggio nelle sue Nature Morte e nelle raffigurazioni di genere.

Hendrick Terbrugghen (attr.). Ragazzo con frutta e cesta di cacciagione, 1620-1630 circa
Hendrick Terbrugghen (attr.). Ragazzo con frutta e cesta di cacciagione, 1620-1630 circa


La sala successiva ospita un’opera quasi sicuramente attribuibile all’artista più amato da Geo Poletti, il genovese Bernardo Strozzi, pittore di Nature Morte, di cui il collezionista raccolse molte tele, influenzate da Caravaggio ma approfondite nel tasso scenografico e nell’impostazione della luce, più chiara e sicuramente frutto del suo lungo soggiorno veneziano. La prova migliore è il Catino con fiori, che, per l’impaginazione, ricorda moltissimo la Canestra di Caravaggio, autentico modello per la Natura Morta del ‘600 in Italia, ma che, nel colore e nella pennellata, rimanda alla mano del pittore genovese, così come nel semplice ripiano su cui poggia il catino, di ascendenza fiamminga e olandese. Concludono la carrellata di opere, alcune Nature Morte di ambito napoletano, attribuite da Poletti ai Recco e a Luca Forte, insieme a un’altra di ambito romano, che il conoscitore assegnò a Simone del Tintore, caravaggesco lucchese attivo nell’Urbe a cavallo tra Sei e Settecento.

Bernardo Strozzi (attr.), Catino con fiori, 1635-1644 circa
Bernardo Strozzi (attr.), Catino con fiori, 1635-1644 circa


Degna appendice della mostra sono alcune prove pittoriche di Geo Poletti, che attestano il parallelismo tra la sua verve critica e una Pittura influenzata, nella stesura del colore, dall’Impressionismo e dal Verismo di Morlotti, specie per le raffigurazioni del giardino della villa di Bellagio, con pennellate dense e veloci, così come, nello studio della figura umana, dal trionfalismo di Sironi e dal primitivismo, come provato dal suo autoritratto, in cui il volto pare estratto da una maschera africana.

Geo Poletti, Autoritratto 1946
Geo Poletti, Autoritratto
1946


Le Nature Morte di Geo Poletti
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30
martedì-mercoledì-venerdì-domenica 9.30-19.30
giovedì-sabato 9.30-22.30
Ingresso libero
Info: www.museocity.it

Il genio di Antonello da Messina in mostra a Milano

Il Rinascimento è il protagonista della prima grande mostra della stagione 2019 a Palazzo Reale di Milano.

Il nome è quello di Antonello da Messina, forse uno dei maggiori maestri del nostro Quattrocento, nonché colui che, meglio di ogni altro, fece da tramite tra la tradizione pittorica italiana e quella fiamminga.

Antonello da Messina, Ritratto d'uomo (Ritratto Trivulzio), 1476, Torino, Museo Civico d'Arte Antica
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo (Ritratto Trivulzio), 1476, Torino, Museo Civico d’Arte Antica

Dal 21 febbraio al 2 giugno 2019, la mostra, curata dal professor Giovanni Carlo Federico Villa, grande esperto di Rinascimento veneto, e curata da Comune di Milano, Regione Sicilia e Mondomostre Skira, mette in evidenza diciannove opere autografe del maestro, su trentacinque provate, affiancate da disegni e schizzi su queste ultime, eseguite dal conoscitore e Storico dell’Arte che, nell’800, contribuì alla costruzione dei tasselli della sua biografia e alla sua fortuna critica, ovvero il veronese Giovanni Battista Cavalcaselle (1819-97). Fu, infatti, grazie al critico originario di Legnago che Antonello poté diventare quello che è oggi, uno dei padri del Rinascimento internazionale, al pari di Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Botticelli e Dürer.

Antonello da Messina, Ritratto di giovane, 1478, Berlino, Staatliche Museen
Antonello da Messina, Ritratto di giovane, 1478, Berlino, Staatliche Museen

Di Antonello da Messina si sa ancora poco, nonostante lo sforzo di Cavalcaselle. Sicuramente Antonio di Antonio, detto Antonello, nacque a Messina intorno al 1430. La sua città d’origine, già allora, era un porto di passaggio e di transito navale tra Tirreno e Mediterraneo, tanto da ospitare, due volte l’anno, l’attracco delle Mude, i convogli commerciali veneziani che la Serenissima inviava verso il Sud Europa ma anche in direzione di Bruges e Anversa per caricare tessuti preziosi. In questo clima “di transito”, Messina divenne città cosmopolita, anche a livello artistico, con la presenza in città di maestranze catalane e aragonesi. Antonello, in questo contesto, mosse i primi passi, realizzando pale d’altare per chiese della provincia messinese e catanese, ma, visto il suo talento, venne inviato a Napoli, dove svolse apprendistato presso il maggiore pittore partenopeo del Rinascimento, Colantonio. A Napoli, capitale artistica al pari di Roma, Firenze e Venezia, il giovane Antonello ebbe modo di conoscere da vicino la pittura fiamminga e francese, approfondendo il suo stile, che sarebbe divenuto internazionale. Tornato in Sicilia, divenne il ritrattista più richiesto sull’isola, nonché un pittore sacro di grande maestria. Gli anni ’70 del ‘400, per lui, furono occasione per grandi committenze al di fuori della sua Sicilia: nel 1476 è sicuramente documentato a Venezia da Pietro Bon. Qui si trovava per eseguire uno dei suoi più grandi capolavori, ora distrutto, la pala di San Cassiano, per l’omonima chiesa, opera che i critici dell’epoca definivano tra le più belle della Storia dell’Arte. Nello stesso anno, Antonello ricevette dal duca di Milano Galeazzo Maria Sforza una richiesta di trasferirsi in Lombardia, ma questi declinò, per rimanere in Laguna a terminare la pala di San Cassiano, per poi tornare a Messina, dove lo attendevano moglie e figli. Certa è la data della sua morte, nel 1479, perché provata a livello documentario dal testamento che lui stesso redasse.

Antonello da Messina, Ritratto di giovane, 1474, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art
Antonello da Messina, Ritratto di giovane, 1474, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art

La ricostruzione della vita di Antonello è frutto del lavoro di due archivisti siciliani, Gioacchino Di Marzo e Gaetano La Corte, la cui testimonianza si affianca a quella critica di Cavalcaselle. I tre poterono consultare documenti e testimonianze prima che il più devastante terremoto mai accaduto in Italia radesse al suolo Messina nel 1907, cancellando molte tracce della vicenda biografica e artistica di Antonello. La mostra si pone proprio come un percorso parallelo tra la Pittura di Antonello e la ricostruzione critico-biografica di Cavalcaselle, configurando l’erudito veronese come la nostra guida ideale alle diciannove opere del “pictore ceciliano”, come lo definirono i documenti milanesi di Galeazzo Maria Sforza. La mostra è anche uno spunto di riflessione sull’incuria, la trascuratezza e l’ignoranza della gente, che sempre accompagnò l’opera di Antonello, conducendo alcuni suoi capolavori alla distruzione: basti pensare al polittico di San Gregorio a Messina. La chiesa venne sventrata dal terremoto del 1907 e l’opera, situata nell’unica parte superstite, venne lasciata per tre giorni in balia delle intemperie e delle scosse di assestamento, che la cancellarono per sempre.

Antonello da Messina, Ritratto d'uomo (Ritratto di Michele Vianello?), 1475 ca., Roma, Galleria Borghese
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo (Ritratto di Michele Vianello?), 1475 ca., Roma, Galleria Borghese

Tra le opere del maestro siciliano esposte in mostra spiccano i ritratti, in cui Antonello eccelse. Il più significativo è la bellissima Annunciata, del 1475, autentica icona di stile e di un periodo artistico nella sua purezza, semplicità e gestualità, con quella mano appena alzata che pare chiederci “perché proprio a me?”. L’Annunciata non è semplicemente Maria, è una giovane donna siciliana del tempo, bellissima nel suo viso perfettamente ovale, frutto della lezione veneta di Giovanni Bellini e di Mantegna, e nel suo sguardo affascinante. E in questo Antonello fu maestro, come lo sarebbe stato Caravaggio: non scelse mai personaggi ideali, finti ed eterei, ma modelli veri, presi dalla realtà quotidiana. Anche gli altri ritratti esposti evidenziano questa tendenza, a partire da quello di uomo della collezione Mandralisca di Cefalù, (1465 circa), il cui enigmatico sorriso affascinò, tra gli altri, Leonardo Sciascia, che ebbe modo di sostenere la sicilianità manifesta di quest’uomo che pare guardarci un po’ beffardamente, come fanno gli uomini seduti nelle strade di un paese sulle Madonie o sui Nebrodi. Anche un altro ritratto d’uomo, proveniente da Pavia, del 1468 circa, è caratteristico per la sua verve enigmatica e ironica, con lo sguardo corrucciato e pensieroso, ed è tipicamente antonelliano per la struttura, molto simile, nel chiaroscuro della scena, a quello di Cefalù.

Antonello da Messina, Annunciata, 1475 ca., Palermo, Galleria di Palazzo Abatellis
Antonello da Messina, Annunciata, 1475 ca., Palermo, Galleria di Palazzo Abatellis

 

Antonello da Messina, Ritratto d'uomo (Ritratto di ignoto marinaio), 1470 ca., Cefalù, Fondazione Culturale Mandralisca
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo (Ritratto di ignoto marinaio), 1470 ca., Cefalù, Fondazione Culturale Mandralisca

Accanto ai ritratti si collocano le scene sacre, che Antonello dipinse per chiese siciliane e per la committenza privata. Spiccano le figure, provenienti da Palazzo Abatellis di Palermo, dei santi facenti parte del Polittico dei Dottori della Chiesa, di inizio anni ’70, che riassumono alla perfezione la lezione appresa a Napoli con Colantonio, dal fondo oro ancora bizantino alle figure, già influenzate dal Rinascimento italiano e ai dettagli, come le aureole punzonate, di matrice franco-borgognona. Degne di nota sono anche la bellissima Crocifissione del Museo di Sibiu (1460 circa), anch’essa frutto della lezione napoletana nella scena naturalistica, in cui si notano alcuni edifici della Messina dell’epoca, e il San Girolamo nello studio, dalla National Gallery di Londra (1474-75), raffinato nei dettagli di fattura fiamminga ma che, nella posa, ricorda i modi veneziani di Bellini e dei Vivarini. Antonello eccelse anche nelle raffigurazioni della Madonna con il Bambino, come quella meravigliosa di Washington, del 1475 circa, in cui Maria, secondo esempi di tradizione veneta (Bellini, Montagna), estremamente umana e poco divina, appare come una madre che coccola il proprio bimbo che, affamato, infila la manina sotto la veste alla ricerca del seno, ma anche nel pathos della vicenda di Cristo, come provato dall’emozionante Ecce Homo del 1473 circa, proveniente da Piacenza, in cui un Christus Patiens, coronato di spine e piangente, ci guarda, con straordinaria umanità, per ricordarci del suo sacrificio, secondo un modello desunto dalla pittura fiamminga e nordeuropea.

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475 circa, Londra, National Gallery
Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475 circa, Londra, National Gallery

 

Antonello da Messina, Madonna col Bambino (Madonna Benson), 1475 ca., Washington, National Gallery of Art
Antonello da Messina, Madonna col Bambino (Madonna Benson), 1475 ca., Washington, National Gallery of Art

Accanto a questo corpus di opere, si colloca il lavoro di Cavalcaselle, con fogli disegnati e taccuini pieni di schizzi e appunti, in base ai quali il conoscitore veronese riuscì a risalire all’attribuzione antonelliana dei quadri in mostra e a trasformare l’artista siciliano in un mito della Storia dell’Arte. Si tratta di diciannove esemplari, fogli disegnati e appuntati su recto e verso e taccuini, con cui Cavalcaselle iniziò a tracciare un abbozzo di catalogo del maestro messinese, parallelamente alla ricerca archivistica di La Corte e Di Marzo. Perché, in fondo, senza Cavalcaselle , i suoi schizzi e le sue annotazioni, Antonello da Messina non sarebbe “Antonello”, ma sarebbe rimasto un semplice pittore siciliano, dimenticato dalla critica e privato del ruolo fondamentale che, invece, e giustamente, la Storia dell’Arte gli ha riconosciuto.

Madonna col Bambino e due angeli reggicorona, dal Polittico dei Dottori della Chiesa, 1471-72, Firenze, Galleria degli Uffizi
Madonna col Bambino e due angeli reggicorona, dal Polittico dei Dottori della Chiesa, 1471-72, Firenze, Galleria degli Uffizi

Antonello da Messina
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30
martedì-mercoledì-venerdì-domenica 9.30-19.30
giovedì-sabato 9.30-22.30
Biglietti: Intero 14,00 €, ridotto 12,00 €
Info: http://www.palazzorealemilano.it/wps/portal/luogo/palazzoreale/mostre/inCorso/ANTONELLO_DA_MESSINA

Il Dialogo intorno alla Cena in Emmaus alla Pinacoteca di Brera a Milano

Alla Pinacoteca di Brera di Milano ritornano i Dialoghi tra opere, ovvero i confronti tra tele di maestri diversi tanto cari al direttore James Bradburne.

Dal 5 al 24 febbraio, presso la Sala XXVIII della Pinacoteca, è possibile osservare, uno accanto all’altro, due versioni del medesimo soggetto, la Cena in Emmaus, eseguite rispettivamente da Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, e da Rembrandt Harmenszoon van Rijn, due tra i massimi maestri del Seicento europeo e dell’uso della luce nella Storia dell’Arte

Il confronto parte dal tema evangelico della Cena in Emmaus, in cui gli artisti raffigurarono sempre il dubbio, l’umanità e la caducità di Cristo, per calarla nel Mondo attuale, in cui si erigono muri, sorge la diffidenza nei confronti del “diverso”, dell’ “altro” e prolifera la xenofobia. La Cena in Emmaus è l’episodio che va in senso contrario a questa tendenza, ed è la miglior prova di quanto l’Arte vada oltre i muri e costituisca ponti di dialogo.

Le due cene sono straordinariamente umane, e si sviluppano intorno alle reazioni dei protagonisti, oltre a un attento studio della luce e del colore, con cui Caravaggio e Rembrandt fecero la Storia. L’iconografia, quella del Cristo pellegrino e straniero, fu sempre apprezzata e approfondita da vari maestri, da Tiziano a Veronese, Rubens e Caravaggio, specie in chiave simbolica di percorso verso la vita eterna, ma fu il maestro olandese a svilupparla in più versioni durante la sua carriera e a dimostrare l’umanità e la semplicità della figura di Gesù, seguendo l’essenzialità creativa tipica dell’Olanda calvinista del ‘600, ma anche le sue radici ebraiche legate alle figure, altrettanto umane, dei profeti biblici.

Il dipinto di Rembrandt è una piccola tela, oggi al Museo Jacquemart-André di Parigi, eseguita nel 1629, quando l’artista aveva 23 anni, a Leida, in pieno fervore calvinista. Per tale motivo, visto che le raffigurazioni di Cristo erano proibite, l’artista scelse di rappresentare profeti biblici, in omaggio alle sue origini, ma anche immagini dell’intimità di un Cristo “umano, troppo umano”, come avrebbe scritto due secoli dopo, Friedrich Nietzche. Quale migliore iconografia del Cristo viandante e pellegrino poteva adattarsi al momento? Ecco come è nato questo piccolo capolavoro della Pittura olandese del ‘600. Nel buio della stanza, molto simile a quello raffigurato da Caravaggio, Cristo si manifesta come presenza ombra, epifania, che si staglia contro un intenso chiaroscuro. Il bagliore improvviso di una luce nascosta (altra assonanza tra i due maestri) illumina la semplice e frugale stanza, creando un chiarore che, pian piano, ne svela la fonte: una candela dietro all’ombra di Cristo, che illumina il discepolo, colto nella sua reazione di stupore, ma anche una tavola semplice, frugale, povera, appena apparecchiata, e un retrobottega dove una donna pare intenta alle faccende domestiche. La silhouette ombrosa di Cristo e quella del discepolo formano una sorta di V che costituisce il centro tematico della scena, mentre Cristo compie il gesto eucaristico, di spezzare il pane volgendo gli occhi al cielo. Ciò che sprizza di umanità sono le reazioni fisiche dei partecipanti alla scena, sia quella del discepolo avvolto dalla luce della candela che sgrana gli occhi, che quella dell’uomo accovacciato all’ombra di Cristo in atteggiamento di adorazione della figura divina.

Rembrandt, Cena in Emmaus, 1627, Parigi, Museo Jacquemart-Andrè
Rembrandt, Cena in Emmaus, 1627, Parigi, Museo Jacquemart-Andrè


La tela di Caravaggio, di proprietà della Pinacoteca braidense, invece, è di struttura più classica e canonica, anche legata ai dettami cattolici post-tridentini che il maestro lombardo, pur nella sua indole ribelle a schemi, stili e regole, dovette seguire sempre. Venne eseguita nel 1606, molto probabilmente a Paliano, in Ciociaria, feudo dei Colonna, grandi committenti del Merisi. Caravaggio, quando dipinse la tela, stava vivendo un momento drammatico della sua vita, ovvero la fuga da Roma, dove aveva ucciso, durante una lite, Ranuccio Tomassoni. In Ciociaria, Caravaggio dipinse la Cena in Emmaus e una Maddalena in estasi, destinate a essere vendute per racimolare denaro al fine di raggiungere Napoli. Come Cristo era viandante e pellegrino, anche Caravaggio era fuggitivo, e questo nesso è alla base della creazione dell’opera. Il maestro si era già cimentato con questa iconografia, in una tela oggi a Londra, ma, rispetto alla versione, precedente, Caravaggio ne dà una versione più scarna, con una tavolozza cromatica più fredda e che evidenzia ripensamenti in fase di stesura. Il chiaroscuro è quello tipico di Caravaggio, che avrebbe fatto breccia in mezza Europa, con una fonte luminosa non più nascosta ma totalmente misteriosa che inonda la scena, in cui Cristo, geometricamente inteso come centro della composizione secondo i dettami tridentini, crea un semicerchio ideale su cui si dispongono i discepoli, colti in un momento non di stupore, ma di profonda meditazione e riflessione, visto che la raffigurazione si svolge nell’istante dell’addio di Cristo, del suo commiato e della rievocazione dell’Ultima Cena.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, Milano, Pinacoteca di Brera
Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, Milano, Pinacoteca di Brera


Ottavo dialogo. Attorno alla Cena in Emmaus. Caravaggio incontra Rembrandt
Pinacoteca di Brera, Via Brera 28, Milano
Orari: Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica 8.30-19.15
Biglietti: Intero € 12.00, Ridotto € 8.00, gratuito ogni prima domenica del mese 

Le origini dell’Arte di Paul Klee in mostra a Milano

I rapporti tra Arte contemporanea e le sue origini sono sempre stati oggetto delle mostre del MUDEC.

Dopo la mostra dedicata a Kandinskij e al suo repertorio folklorico russo, argomento della nuova esposizione di Via Tortona sono le origini della Pittura di un altro grande dell’Arte del ‘900, Paul Klee.

Composizione con occhi, 1916, Fondazione Marguerite Arp, Locarno
Composizione con occhi, 1916, Fondazione Marguerite Arp, Locarno


L'Occhio, Zentrum Paul Klee, Berna
L’Occhio, Zentrum Paul Klee, Berna


La grande mostra dedicata al pittore svizzero, curata da Michele Datini e Raffaella Resch, dal 31 ottobre 2018 al 3 marzo 2019, intende essere un percorso filologico all’interno della Pittura di Klee, una specie di parallelismo con l’esposizione di Palazzo Reale dedicata a Picasso e alle sue fonti antiche. Sì, perché di fonti si tratta, visto che la mostra intende farci scoprire le radici dell’Arte di Klee, anche attraverso la sua, meno nota, produzione figurativa e il suo rapporto con il Rinascimento tedesco e svizzero. Klee fu un grande conoscitore dell’Arte antica, tanto da recarsi in viaggio a Roma tra il 1901 e il 1902, dove ebbe modo di scoprire la grandiosità delle basiliche paleocristiane ma anche le grandi decorazioni rinascimentali. Klee guardò anche al modello dell’Arte dei popoli preistorici ed extraeuropei, ma il suo primitivismo non fu mai evasione dalla quotidianità, come lo visse Gauguin, per esempio, bensì riscoperta delle origini, tanto che Klee si interessò anche alle manifestazioni artistiche degli antichi Elvezi, i primi abitanti della sua amata Svizzera.

Con il serpente, 1924, Fondazione Musei Civici, Venezia
Con il serpente, 1924, Fondazione Musei Civici, Venezia


Roccia artificiale, 1927, Kunstmuseum, Thun
Roccia artificiale, 1927, Kunstmuseum, Thun


La mostra, promossa da Comune di Milano e 24Ore Cultura, intende essere un percorso “a rebours”, a ritroso, partendo dall’opera compiuta per risalire alle fonti dell’Arte di Paul Klee. Tracciare una biografia di Paul Klee sarebbe superfluo, perché distrarrebbe il visitatore dall’attenzione sulla traccia filologica dell’esposizione. In mostra il visitatore si sente come un pesce che risale il fiume del turbinio creativo di Klee partendo dalla foce, l’opera compiuta, fino alla sorgente, la fonte antica o primitiva. Nelle sale di Via Tortona sono ospitate un centinaio di opere, per lo più provenienti dal Zentrum Klee di Berna, la città vicino cui Paul nacque nel 1879, accanto ad altre di Arte antica e primitiva delle collezioni del Comune di Milano. Klee fu sempre ostile a qualsiasi scuola e a qualsiasi movimento. La critica lo ha sempre considerato un astrattista, visto anche il suo legame umano con Kandinskij, ma la sua Arte è sempre andata oltre, è sempre stata ricerca delle origini. I Surrealisti lo acclamarono a Parigi, i suoi studenti al Bauhaus lo considerarono un maestro, ma Klee non fu mai un capocorrente, bensì un genio creativo libero da qualsiasi vincolo. Le Origini, per lui, furono le testimonianze artistiche dell’Alto Medioevo e del Rinascimento, ma anche le Culture africane e precolombiane, ma tali fonti non vennero mai mescolate, evitando, quindi, di cadere nel rischio revivalistico ed eclettico, tanto in voga negli anni in cui Paul operò.

Con la lampada a gas, 1915, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma
Con la lampada a gas, 1915, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma


Senza titolo, 1939, Zentrum Paul Klee, Berna
Senza titolo, 1939, Zentrum Paul Klee, Berna


La mostra si presenta suddivisa in cinque sezioni tematiche, ognuna legata alle fonti cui traggono ispirazione. La prima è dedicata alla più originale e recondita della produzione di Klee, quella delle caricature che realizzò nei suoi anni giovanili e anche in quelli di permanenza a Monaco, dove conobbe Kandinskij, Macke e Marc, e a Weimar, con il Bauhaus. La sua radice è ancora simbolista, come evidente dai tratti grafici dedotti dall’Arte di Stück, ma con intento totalmente irrisorio. Lo stile è mediato dall’Arte rinascimentale tedesca e mitteleuropea: basti confrontare la Vergine e L’Eroe con l’ala, entrambi del 1903-4, con le incisioni di Dürer, come la Melancolia della Raccolta Bertarelli, per capire come la fonte privilegiata siano proprio gli artisti della Scuola di Norimberga, Altdorfer o l’alsaziano Schongauer. Le sue caricature, che lui chiamava Inventionen, sono esercizio stilistico, basato su forme grottesche ispirate allo Jugendstil viennese,  e pura ironia sul suo tempo, senza mai cadere nella mera cronaca o nella militanza ideologica, nonostante la sua ferma opposizione al nascente regime nazista che, giunto al potere, lo allontanò dall’insegnamento al Bauhaus, costringendolo al ritorno in Svizzera, dove sarebbe morto nel 1940.

Vergine sognante, 1903, Zentrum Paul Klee, Berna
Vergine sognante, 1903, Zentrum Paul Klee, Berna


La casa rossa, 1913, Museo Comunale d'Arte Moderna, Ascona
La casa rossa, 1913, Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona


La seconda sezione è dedicata prevalentemente agli anni a ridosso della Grande Guerra, quando Klee, al fronte con l’esercito tedesco, visti gli orrori bellici e perso l’amico Marc, decise di allontanarsi dall’illustrazione satirica per dedicarsi a un tipo di Arte eremitica e solitaria. Divenne, quindi, nella sua fase espressionista, “Illustratore cosmico”, con disegni e acquerelli pensosi, trasognati e spesso onirici, influenzati nella sfera tematica dalla Pittura di un altro grande svizzero come Heinrich Fuessli e frutto di una volontà di spiegare, in immagini già astratte, le leggi universali del Cosmo e dell’Universo. Per ottenere tali risultati, a Monaco, Klee si ispirò ad antichi Evangeliari miniati e ai mosaici bizantini: con formati piccolissimi, spesso lavorati con penne e matite, ottenne risultati che prefiguravano il misticismo del Blaue Reiter, come prova il Piccolo Mondo del 1924.

Costruzione di una foresta, 1919, Museo del Novecento, Milano
Costruzione di una foresta, 1919, Museo del Novecento, Milano


Sommo guardiano, 1940, Zentrum Paul Klee, Berna
Sommo guardiano, 1940, Zentrum Paul Klee, Berna


La terza sezione è imperniata sulla sua costante passione per gli alfabeti antichi, da quelli mesopotamici ai geroglifici egizi, alle grafie islamiche e alle rune celtiche. Klee si esercitò costantemente su queste testimonianze di scrittura in quanto segno, più che mai tangibile, delle Origini dell’Uomo. Furono più che altro i geroglifici egizi ad attrarlo, in quanto ideogrammi che contenevano, insieme, un seme di parola ma anche una raffigurazione oggettuale del suo significato, e ciò compare in varie sue opere, in cui pseudo-grafemi prendono vita, divenendo elemento umano, zoomorfo o fitomorfo. Più o meno lo stesso intento che animava l’Arte applicata agli inizi del ‘900 e che diede vita al fenomeno Art Nouveau, ma in direzione opposta, visto che Klee, anche grazie al contatto con l’amico Kandinskij e ai suoi scritti, si diede all’astratto, come provano alcune delle opere della sezione, come il bellissimo Angelo in divenire del 1934 o l’ironico Artico immobiliato del 1935, così come la tavola Turbato, del 1935, elabora uno stile personale, frutto dell’essenzialità creativa infantile unita alla grande passione per i geroglifici egizi, e anche il formato su tavola è frutto di un’elaborata analisi delle fonti antiche, dagli stessi egizi ai lavori dei maestri medievali attivi nelle chiese bavaresi e svizzere.

Paul Klee, Angelo in divenire, 1934, Zentrum Paul Klee, Berna
Paul Klee, Angelo in divenire, 1934, Zentrum Paul Klee, Berna


La quarta sezione mette in rapporto gli oggetti di Arte africana e precolombiana del MUDEC con il ritorno all’infanzia di Klee. La sua semplicità formale si abbinò a un notevole interesse per le silhouette ovali delle maschere africane, ma, soprattutto, a un rinnovato interesse, frutto anche di un lavoro psicanalitico, per l’infanzia e per i suoi segni creativi. Il frutto migliore di questa fase è il Teatro delle Marionette, capolavoro di Klee, realizzato tra il 1916 e il 1925 per realizzare un desiderio del figlio Felix: si tratta di una cinquantina di pupazzi, realizzati con i più disparati materiali che trovò nella sua abitazione, secondo la tradizione del teatro popolare del Nord Europa, in cui ritrasse, satiricamente, amici e colleghi o personaggi del suo tempo.

Kraftwetter, 1933, Zentrum Paul Klee, Berna
Kraftwetter, 1933, Zentrum Paul Klee, Berna


L’ultima sezione è dedicata al risultato finale della sua Arte, l’Astrazione, che, attraverso tutte le fonti esaminate, si manifesta in tutta la sua potenza, in quello che, per Klee, era uno stile di vita, un comportamento, frutto di un volersi allontanare dalla realtà seguendo un’esperienza metafisica e trascendente, ma non in senso religioso, in quanto il suo vero credo era l’Arte, la Pittura in particolare. Successivamente, negli anni del Bauhaus, Klee aderì a un tipo di Arte più formale, con geometrie semplici e dirette, più adatte a esigenze didattiche, come provano la bellissima Chiocciola, del 1924 o il Paesaggio urbano rosso-verde del 1923. In questo periodo, Klee arricchì le sue geometrie di colori sgargianti: fu lui stesso a cominciare a parlare di “policromie”, ispirate ad artisti svizzeri di nascita o di adozione, dell’800 o contemporanei, da Segantini a Hodler, da Itten a Giacometti. Sono nati in questo modo corpus di opere, degli anni ’30, in cui l’astrazione si accompagnò a un ricordo, quasi ossimoro, naturalistico, per poi volgersi a rappresentazioni più architettoniche, inserite in disegni geometrici semplici, ma che, come un ciclo che si chiude, ritornano alle origini della sua Pittura, alla verve ironica delle sue caricature e al misticismo cosmico della sua fase intorno alla Grande Guerra.

Paesaggio urbano rosso-verde, 1923, Zentrum Paul Klee
Paesaggio urbano rosso-verde, 1923, Zentrum Paul Klee


Paul Klee. Alle origini dell’Arte
MUDEC, Via Tortona 56, Milano
Orari: Lun 14.30 ‐19.30 | Mar, Mer, Ven, Dom 09.30 ‐ 19.30 | Gio, Sab 9.30‐22.30
Biglietti: Intero € 14,00 | Ridotto € 12,00
Info: www.ticket24ore.it | Tel. +39 0254917

L’Adorazione dei Magi di Perugino a Milano

Come ogni anno, il Comune di Milano regala ai propri cittadini e ai turisti che riempiono la città durante le Feste natalizie una straordinaria possibilità di vedere da vicino un capolavoro proveniente da un Museo italiano o straniero.

Lo scenario è sempre la sala Alessi di Palazzo Marino, il Municipio di Milano, dove, dal 1 dicembre 2018 al 13 gennaio 2019, è possibile osservare da vicino, con una validissima spiegazione, l’Adorazione dei Magi di Pietro Vannucci, detto il Perugino, proveniente dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia.

Curata dal direttore della Galleria, Marco Pierini, la mostra è promossa da Comune di Milano e Intesa San Paolo, patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e organizzata con la collaborazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, della Regione Umbria e del Comune di Perugia.

La pala è un’opera giovanile di Perugino (Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523). Pietro fu uno dei maestri del Rinascimento italiano, che si formò a Firenze con Andrea del Verrocchio e dove divenne pittore affermato, tanto da aprire due botteghe parallele, una nel capoluogo toscano e un’altra a Perugia. Dopo un decennio di attività soprattutto in Umbria, venne chiamato a Roma nel 1479 per la decorazione della Cappella Sistina, in collaborazione con pittori fiorentini come Botticelli e con un giovane artista umbro destinato a grande fama, Pinturicchio. Qui, con la Consegna delle Chiavi, Perugino lasciò un autentico capolavoro, che raccoglie l’essenza della sua opera: la prospettiva derivata da Piero della Francesca e dagli studi di Leon Battista Alberti e Luca Pacioli, insieme al colore erede della tradizione di Beato Angelico e Benozzo Gozzoli e ai paesaggi, frutto della lezione di Verrocchio. Subentratogli Luca Signorelli, Perugino lasciò Roma per tornare a lavorare tra Firenze e Perugia. Fu in questo periodo che, raggiunta una fama notevole, Pietro iniziò un’attività sempre più frenetica, che lo portò, spesso, a riprodurre gli stessi schemi pittorici per realizzare più pale d’altare nel minor tempo possibile: fu per questo che Vasari, nelle Vite, ebbe modo di criticare la sua opera. A Firenze si sposò  nel 1493 e, qui, iniziò a frequentare i circoli di Lorenzo il Magnifico e l’Accademia Neoplatonica, approfondendo la prospettiva nei suoi dipinti, che divenne aerea e scenografica, con grandiosi portici sotto cui Perugino tendeva a rappresentare le figure. Fu in questo periodo che, nella sua bottega fiorentina, arrivò, da Urbino, un giovane destinato a grande fama, tale Raffaello Sanzio, che, sempre, fece riferimento agli schemi compositivi e prospettici del maestro. La pittura di Perugino, specie quella religiosa, divenne, poi, amata da Savonarola e dai suoi seguaci per la semplicità compositiva e la purezza stilistica. Anche dalla bottega umbra uscirono numerose opere, ma quella più significativa fu la decorazione del Collegio del Cambio di Perugia, realizzata a cavallo tra gli ultimi anni del ‘400 e i primi del ‘500, nelle cui scene allegoriche Perugino raggiunse il punto più alto della sua creazione e in cui fuse le lezioni fiorentine e romane con la tradizione della pittura umbra. Dopo una commessa mantovana non andata a buon fine e a una feroce critica da parte del Papa per la decorazione di una delle stanze vaticane, la pittura di Perugino, con i primi anni del ‘500, iniziò ad andare in crisi e a essere criticata, anche in seguito alla crescente fama dell’allievo Raffaello, ma specie per la ripetitività del suo stile, ancora legato al ’400 e non certo pronto al turbine di novità artistiche che stavano sconvolgendo Roma e Firenze e che i committenti iniziavano ad apprezzare maggiormente. I suoi ultimi anni Perugino li passò a dipingere per le chiese della provincia umbra, dove la sua pittura, ormai tradizione, veniva ancora apprezzata.

Pietro Perugino, L'Adorazione dei Magi, 1475-80, Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria
Pietro Perugino, L’Adorazione dei Magi, 1475-80, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria


L’Adorazione dei Magi è una grande pala d’altare (242 x 180 cm) e venne dipinta per la chiesa di Santa Maria dei Servi a Perugia, oggi non più esistente in quanto l’edificio venne abbattuto per fare posto alla Rocca Paolina. Nel 1543 venne trasferita in Santa Maria Nuova e, poi, nell’Ottocento, entrò a far parte del corpus di opere della Galleria Nazionale dell’Umbria. La datazione è stata un problema annoso e la critica si è dibattuta su di essa. L’ipotesi più plausibile la formulò, circa un secolo fa, Adolfo Venturi, assegnando la pala a un Pietro Perugino venticinquenne o poco più, quindi, tra il 1475 e il 1480 e collocando, quindi, la pala, nel novero della produzione giovanile umbra dell’artista. Ci sono alcuni elementi che farebbero propendere per tale ipotesi, e il più importante è quella figura che ci guarda dall’estrema sinistra del quadro: si tratterebbe dell’autoritratto dell’artista che, confrontato con altri omologhi posteriori, tra cui quello al Collegio del Cambio, porterebbe a propendere per tale datazione. Altri elementi sono i panneggi ricchi e mossi, frutto della lezione di Verrocchio ancora fresca di bottega, così come gli ornamenti delle vesti, che rimandano ai fiorentini Pollaiolo, conosciuti da Perugino durante il suo apprendistato toscano. Non manca nemmeno il rimando a Piero della Francesca, con l’albero al centro della composizione, in sezione aurea, esattamente come nel Battesimo di Cristo dell’artista biturigense. Il primo piano della scena è ancora tardogotico, frutto del modello di Beato Angelico e del Gozzoli, con figure ammassate in primo piano davanti alla capanna, posta a destra, che contrasta, nella sua semplicità, con la ricchezza delle vesti dei Magi, già tipicamente rinascimentali nella resa accurata. Alcuni critici, come Teza, hanno valutato di riconoscere, nei Magi, le fattezze dei committenti, la celebre famiglia perugina Baglioni: a Gaspare corrisponderebbe un ritratto di Malatesta, capostipite della famiglia, a Baldassarre quello di Braccio, guida della casata all’epoca del dipinto, mentre a Melchiorre quello di suo figlio Grifone, destinato a succedergli. Ciò spiegherebbe anche la collocazione dell’opera, visto che la chiesa dei Serviti era il tempio prediletto dei Baglioni.
Lo sfondo è debitore della lezione fiorentina di Andrea del Verrocchio, viste le somiglianze con quelli del giovane Leonardo da Vinci, suo compagno di bottega, ma anche, nella sua nitidezza paesaggistica, della pittura fiamminga e di Piero della Francesca, vista la conoscenza della sezione aurea e della prospettiva aerea.

L’Adorazione dei Magi
Palazzo Marino, Piazza della Scala 2, Milano
Orari: tutti i giorni, 9.30-20.00, giovedì 9.30-22.30
Ingresso gratuito
Info: Tel. 800.167.619; www.comune.milano.it; mostre@civita.it