“AZUL – Gioia, Furia, Fede y Eterno Amor”, Stefano Accorsi a teatro, in uno spettacolo che parla di amicizia, sogni e passione per il pallone
C’è nel teatro, in quello spazio magico dove l’attore non solo si muove ma danza, una sorta di fantasmagoria, di romanticismo, dove le parole assumono forme nuove e i personaggi si arricchiscono di una sensualità antica.
Ogni volta che siedo su quelle poltroncine rosse, mi riprometto di tornarci più spesso, perché il teatro guarda in faccia la vita vera, con persone vere, con musicisti veri, e in “AZUL – Gioia, Furia, Fede y Eterno Amor“, Daniele Finzi Pasca, scrittore e direttore dello spettacolo, ha voluto rappresentare l’amicizia con un linguaggio universale.
Quattro amici condividono una grande passione, quella per il calcio, la storia di ogni casa vista da ogni finestra nel mondo; Pinocchio, Golem, Frankenstein e Adamo, sono personaggi di fantasia e un po’ fantastici lo sono, nelle perfette caratterizzazioni. Pinocchio, detto Pino, interpretato da Stefano Accorsi, ha una fobia per il verde e per i grilli, nessuno di loro ha avuto la fortuna di essere amato da una madre, ma tutti amano la stessa squadra, Azul.
E in questa squadra riversano tutta la loro foga calcistica, gli abbracci dissennati, l’euforia per un gol, anche la rabbia e il disprezzo, verso gli avversari scorretti, ogni sentimento viene condiviso come se tutti i tifosi, tante piccole particelle, diventassero una cosa sola.
Su una poltrona che fa da coscienza, Stefano Accorsi che abbraccia pienamente tutto lo spazio, tenendo la scena, il ritmo, l’attenzione del pubblico, si lascia andare ai ricordi, sotto le note di un pianoforte a muro, in una sorta di fenomeno della memoria involontaria. I pensieri che ne scaturiscono, sono sempre metafore e raccomandazioni che fa a se stesso e a noi tutti:
“La felicità quando arriva, bisogna godersela tutta, spremerla tutta. Non approfittare della felicità è una delle cose più stupide che si possano fare nella vita. Di felicità ne abbiamo a disposizione un tot. Io lo dico sempre, raccoglietele tutte le briciole della torta, di giorni di festa ce ne sono un numero limitato nella vita, di torte fatte con amore, burro, di felicità non c’è stomaco che possa fare indigestione.“
E nel mezzo dell’opera, ci rimanda a un quesito, che forse pochi si sono mai chiesti: “In quale giorno e dove siamo stati concepiti”? Uno spaccato esilarante e divertente che Accorsi tiene con una naturale ironia, con equilibrio e con una scioltezza accolta dal pubblico con grandi applausi e coinvolgimenti.
“AZUL – Gioia, Furia, Fede y Eterno Amor” è uno spettacolo fatto di consigli sussurrati, di umanità, un teatro leggero che accompagna a riflessioni profonde, ma che soprattutto, nel raccontare la follia del tifo, nella semplicità di un’amicizia, reinventa la poetica di un intero mondo:
“Sono cresciuto nel mondo del teatro e poi sono stato rapito dai grandi eventi: spettacoli monumentali per il Cirque du Soleil, Cerimonie Olimpiche. Però, ogni volta che ritrovo l’odore e il sapore della scena, mi sembra di tornare a casa e di riscoprire le mie radici. Credo siano clown i personaggi che popolano le mie storie dato che sussurrano, inciampano, ridono e si commuovono. Sono fatti di cristallo, di burro e di zucchero e con un colpo di vento si trasformano in giganti. Ho avuto la fortuna di incontrare Stefano Accorsi, Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo e Luigi Sigillo attori carichi di umanità, mestiere e passione. Con loro è stato facile dare vita a questa piccola rapsodia dedicata a quanti non si danno mai per vinti.” Daniele Finzi Pasca
Lo sguardo duro, fiero, di quelli che credono nelle gerarchie, che obbligano al rispetto e alla distanza, quelli che in paese chiamerebbero “un uomo tutto d’un pezzo” o i più sensibili “ne ha viste tante e la vita lo ha indurito”.
Davide Spartaco Penitenti, A.D. Si.Se, azienda nota ed apprezzata in Italia e nel mondo che si occupa di sistemi segnaletici e della loro sicurezza, è un appassionato collezionista di cose belle, e tra queste rientrano le auto d’epoca, una vera e propria ossessione che racchiude in un parco macchine di oltre 20 esemplari. Insieme al figlio Matteo, Penitenti partecipa alla prima edizione del Grand-Road Venezia-Montecarlo, la gara riservata alle supercar moderne costruite dal 1982 al 2019 organizzata dalla Scuderia Mantova Corse. Padre e figlio al volante di una Mercedes Benz AMG GRT (640 hp) vincono la gara, e con lo spirito competitivo di Penitenti non poteva essere diversamente. Dice, guardando la sua Mercedes 6oo V100, “Io sono un collezionista di auto-mobili e non di auto-statiche”.
“Ha tutti gli optional: telefono, frigobar, televisione, tendine, porta profumi, ed è a comando idraulico perché non facesse rumore. Testimonianze vogliono che su questi sedili ci siano stati il direttore d’orchestra Herbert von Karajan e l’attrice Ursula Andress, amici dell’ex proprietario, fino a quando l’auto non è diventata mia! Questa fa parte di una serie realizzate in scala dal verde scuro al verde oliva ed è totalmente restaurata in ogni sua parte, dagli interni in pelle ai legni, dalla carrozzeria al motore.”
Oggi chi costruisce delle auto che possiedono questa eleganza? Nessuno. Forse la Bentley, ma è comunque più classica, non ha le stesse forme della Mercedes. Questa Continental T, ad esempio, riprende i canoni estetici della Bentley fine anni ’20 nel cruscotto, quella dei Bentley Boys; è una delle poche uscite con questa combinazione, ha la configurazione particolare in alluminio infiorettato, sembra spazzolato, veniva realizzato e poi lucidato per evitare che si ossidasse. Una versione sportiva con prestazione da Ferrari, anche se non sembra è un gigante della strada. Nel mio parco auto possiedo anche due Ferrari, una 400 I, serie iniziata nel ’73 e finita nell’ ’89 nelle varie versioni 365, 400, 400 I e 412, era a suo tempo la macchina “degli importanti”, la possedevano Gianni Agnelli, Pininfarina; questa era di Manuel Fangio, noto campione del mondo di Formula 1; e una Ferrari 599 relativamente moderna, era la macchina di Paolo Barilla, un caro amico. Il grigio ferro l’hanno pensato per questa 560 SL, comprata a Cape Code nella villa accanto a quella dei Kennedy, importata nel 2011 e realizzata appositamente per il mercato americano; io l’ho voluta rossa con gli interni color dattero, perchè quando ero più giovane c’era la serie televisiva Dallas di cui ero appassionato e questa era proprio la macchina che usavano nelle scene principali. La 420 SL Mercedes, europea, viene da Montecarlo, l’ho comperata da un amico, è una serie prodotta in poche unità rispetto al totale, ne hanno fatte 2000. Sono auto la cui differenza sostanziale da quelle di oggi sta nella qualità dei materiali e degli assemblaggi, linee e forme, e un’eleganza che appunto non esiste più.
Per questo ha la passione per le Mercedes? Si, ma le amo tutte! La Mercedes Coupé con cui ho corso è azzurro pastello con il tetto panna e la si riconosce dai bolli che sono rimasti! Ma possiedo anche una Fiat 125 con cui ho partecipato al Rallye Monte-carlo Historique; a breve invece arriva Unimog, un camion speciale prodotto dalla Mercedes Benz che si adatta a ogni tipo di terreno, 1980 mimetico. 15 giorni fa ero a Stoccarda all’interno di una bellissima fiera di auto, per la maggior parte Porche e Mercedes, mi si avvicina un tizio scatenato, allo stand Unimog che si trovava accanto a quello delle G-class Mercedes e mi dice: “Chi possiede una G- class è al top, chi ha una Unimog è over the top”.
Suo figlio ha la tua stessa passione? Il primo regalo che gli ho fatto è stata una bellissima G-class del 1984 una prima serie, color sabbia del deserto con il tetto bianco, il tetto si chiama Sahara, Mercedes produceva il doppio tetto ma vista la grande qualità dei materiali ne produceva una su mille con il doppio tetto e la mia ce l’ha, è stata trovata con le targhe italiane con tutti i libretti uso manutenzione. L’abbiamo restaurata completamente ed oggi è la sua felicità ma la mia rovina, perché in ossessione mi sta superando.
Qual è la sua preferita? La Mercedes 600 che è destinata alla grandi riunioni di famiglia, alle occasioni importanti come Natale, Pasqua, cerimonie; facciamo un giro in 600, andiamo al ristorante, ci godiamo una passeggiata d’altri tempi a bordo di una culla in velluto.
Quando nasce questa grande passione per le automobili? Sin da marino, quando al bar di Castel d’Ario i grandi mi offrivano il gelato e io colavo dai loro racconti sul grande Tazio Nuvolari, era il 1968 e tutti volevano dire la loro su un eroe che aveva i nostri stessi natali. Sembrava quasi di sentire l’odore dell’asfalto durante le corse; erano così fervidi i racconti e così carichi di pathos che è impossibile a Castel d’Ario ci sia qualcuno interessato ad altro che non al motore.
Cosa è la velocità? La velocità per chi prende coscienza del momento è la massima espressione della libertà. Ogni auto possiede personalità diverse e hanno bisogno di linguaggi diversi; una Mercedes 600 si guida diversamente da una Land Rover Defender, un bolide può essere portato agli eccessi perché nasce con una certa natura ribelle.
Il collezionismo cosa rappresenta? Il sogno di quand’ero bambino. Sperare di diventare grande e avere dei solidi in tasca e realizzarlo. Non a caso i veri appassionati posseggono ancora in garage le prime auto acquistate da ragazzi. Per questo dico sempre che l’immaginazione è tutto, e parte dall’infanzia.
Se dovesse paragonare l’auto ad un oggetto o a una sensazione, quale sarebbe? L’auto è il mezzo attraverso il quale esprimo un concetto estetico trasmessomi da mia madre, donna che apprezzava molto le cose belle. Quel che per me è importante è il valore intrinseco, non monetario, perché l’oggetto in sé rappresenta la passione; ci si lascia sedurre da un bell’abito, un trucco fatto ad arte su un sorriso smagliante. Ciò che muove il nostro desiderio è il piacere, piacere di possedere e curare, piacere di gioirne e far sorridere, e la bellezza in qualche modo condiziona il nostro umore, per questo quando vediamo qualcosa di brutto e dozzinale siamo tristi ed è vero il contrario.
La sua attività in azienda SI.SE è legata in qualche modo alla sua passione? La mia azienda si occupa di segnaletica stradale e servizi annessi e connessi in Italia e nel mondo, sono a contatto con gli enti che gestiscono questa forma di sicurezza, l’interlocutore naturale è il governo nelle sue forme che può passare dal Ministero dell’Interno perché è sempre un pacchetto sicurezza fino agli uffici tecnici comunali o autostradali o delle province delle Ferrovie dello Stato. L’attività è certamente legata alla mia passione, che è determinante, è un momento di gioia strettamente correlato al pericolo occasionale, l’adrenalina che una persona ha modo di provare nell’ambito della passione è una sorta di refugium peccatorum, una valvola di sfogo, come quando lanci la tua auto a velocità importante e stai rischiando la tua vita: un mix terrificante ma allo stesso tempo eccitante.
La situazione più pericolosa che ha vissuto? La parte più pericolosa non riguarda l’attività precisamente espressa ma il modo in cui io sono arrivato a proporre il mio lavoro nel lontano 2005 al governo iracheno, era ancora un periodo legato al momento Saddam Hussein molto pericoloso, c’erano ancora varie attività militari sul luogo e ricordo come fosse adesso il momento in cui ho attraversato il confine turco iracheno quando il militare preposto alla mia sicurezza mi disse “Signore, benvenuto all’inferno!”
Avesse la possibilità di scrivere una frase sulla cartellonista in tutti i paesi del mondo, che cosa scriverebbe? “La vita è una questione di stile e di onore”.
Chi è Davide Spartaco Penitenti? Il nipote di Spartaco, mio nonno era un vero gentleman, un uomo di gran cuore che ha aiutato molte famiglie, poi si è ammalato gravemente. Il figlio di un padre di famiglia modesta, appassionato di motori e meccanico motorista della pattuglia acrobatica italiana che poi ha cominciato a lavorare con i camion diventando imprenditore nel mondo dei trasporti, ma rimanendo un uomo semplice. Io amo la gente semplice, posso parlare con uno Sceicco e trovarmi a mio agio nel dialogo, o essere costretto a confrontarmi con un pinco pallino ricco che è un coglione e sentirmi disturbato. Io amo le persone vere, il resto non mi interessa. Silvio Peruzzi, professore alla Bocconi, mi ha detto che alla Bocconi insegnano che il management non è quello di andare in azienda a comprendere i meccanismi di produzione, di vendita, ma è quello di andare a sparare menate sulle teorie del management anglosassone quando l’Italia è basata sulla produzione. Ecco, il mio responsabile del personale ha l’ordine categorico di cassare tutte le richieste di lavoro che provengono dalla Bocconi. Questo sono io!
Domanda di rito, quanto è Snob Davide Penitenti? Davide Penitenti è molto Snob, non per tutti, ma Snob per sé stesso.
Sofia Bertolli Balestra riporta in alto la bandiera BLU
COLLEZIONE FALL WINTER ‘23-24
Lo sapevate che non è il rosso ma il blu il punto più caldo della fiamma? Il blu Balestra per l’esattezza, quello che scalda la Collezione Fall Winter ’23-’24 di questa storica maison, oggi sotto la direzione artistica di Sofia Bertolli Balestra, terza generazione che introduce il prêt-à-porter contemporaneo.
Una collezione materica, con tessuti seconda pelle come il lamè, ricami daily, il blu colore dell’energia, tessuti nuovi e nuove sperimentazioni per un mercato veloce ma attento ai dettagli e alla qualità.
Ai trench tecnici sono collegate delle mantelline, il velluto cattura luce e calore, e l’effetto rettile dato dalle paillettes ci riporta nelle terre selvagge dentro cui sono stati inseriti i disegni delle ginestre, l’unico fiore che cresce in territori ostili come quelli vulcanici. E’ il fuoco il filo conduttore della collezione Autunno Inverno ’23/’24, che scioglie metalli argentati come il jersey effetto pelle e che prende vita nei long dress di raso cinzato.
Abbiamo incontrato Sofia Bertolli Balestra che ci ha raccontato così la collezione:
Sofia Bertolli Balestra, terza generazione della grande maison, lei è cresciuta tra bozzetti, creatività, e abiti couture, questo è anche il futuro che desiderava?
Mi sono diplomata prestissimo, a 17 anni, e a quell’età sognavo di fare la giornalista, ma da sempre ho avuto la passione per l’arte, ciò che mi ha accomunato a Renato, mio nonno, per cui ho scelto, dopo la critica, di diplomarmi anche in Storia dell’Arte Contemporanea. Solo successivamente sono entrata in azienda con lo scopo di andare a ritroso nell’archivio Balestra, e di creare un puzzle importantissimo della storia della moda italiana. In questo bellissimo viaggio sono gli anni ’60 /’70 ad avermi affascinato maggiormente, e quel coraggio avventuriero di nonno Renato, che aveva di prendere la valigia da Trieste e cercar fortuna altrove, da Milano a Roma per poi arrivare al successo che tutti conosciamo.
Quali sono le grandi novità all’interno della collezione FW ’23/’24?
Dall’haute couture siamo passati ad una collezione prêt-à-porter contemporanea, mantenendo il grande bagaglio sartoriale della maison, tutto quello che passa dall’ideazione alla costruzione di un abito d’alta moda, background che ci ha permesso di essere sempre molto attenti al dettaglio, alla qualità del prodotto, fondamenta imprescindibili.
Abbiamo però inserito tessuti del tutto nuovi e stiamo lavorando al fine di ottenere un prodotto che sia competitivo anche rispetto al prezzo, che risponda ad un mercato totalmente diverso dal passato, più veloce. Oggi la moda è democratica, un tempo era privilegio di pochi.
I cambiamenti sono quindi prettamente scelte di mercato?
Si tratta delle scelta di voler e poter vestire tutte le donne e in tutte le occasioni. Mentre prima le scelta di un abito importante ricadeva sull’occasione speciale, oggi vorrei offrire al pubblico dei capi che possano durare nel tempo ed essere indossati nel corso degli anni e delle proprie giornate, magari inserendo dei pezzi contemporanei per alleggerire un abito da sera.
I capi Balestra sono totalmente made in Italy? Assolutamente, ho impiegato un anno nella ricerca perfezionistica delle giuste aziende ed ho trovato una filiera di realtà umbre, toscane, laziali, romagnole, per la scelta della lavorazione dei pellami più pregiati fino alle rifiniture e ai drappeggi sartoriali.
Il capo di questa collezione a cui è più legata?
Forse il chiodo in pelle, a cui dovevo però regalare la personalità e il carattere Balestra, per cui è un insieme di tessuti tra cui pelle laminata, resine colate e ovviamente l’iconico colore blu.
Ma anche l’abito che chiamo “metallo fuso”, una second skin con spacco, l’idea è nata pensando al metallo che si scioglie sul corpo e su cui il materiale viene lavorato con drappeggi per ottenere tridimensionalità e bellissimi giochi di luce. Sembra davvero argento colato.
Progetti futuri?
Una collezione scarpe probabilmente nella prossima Primavera, vorrei dare alle donne un total look Balestra, e raccontare una sartorialità italiana e tutte quelle che sono le grandi eccellenze del settore.
Ci può raccontare un aneddoto di lei bambina?
Mi divertivo come una pazza a provare gli abiti nella stanza al piano superiore quando non c’era nessuno, ci andavo di nascosto, avevo dodici anni e mi infilavo il tacco 12 davanti a questi grandi specchi dorati, ed io piccina piccina dentro queste meraviglie che mi stavano enormi. Una collezione couture con quell’immagine di me sdoppiata per il riverbero degli specchi, era un momento magico, un sogno, e la cosa più piacevole per me non era immaginare di essere una modella, ma capire cosa si provava ad indossare un abito così speciale e avere la fortuna di sentire il tessuto, avvicinarlo alla pelle, farlo mio.
E un’altra immagine che conservo è quella delle disegnatrici con tutte le mani piene di brillantini. Anche quello “sporcarsi” fa parte del processo creativo; io dipingo ancora e sentire la materia mi aiuta ad avvicinarmi al colore e a capirlo nel profondo.
Cosa rappresenta per lei la moda?
Un modo di espressione. Io sento la necessità dell’atto creativo, è una forma d’arte, un racconto.
Com’ è cambiata dal passato ad oggi?
È più show che prodotto, si è più attenti a chi presenzia ad una sfilata rispetto al lavoro che c’è dietro.
E cosa c’è dietro il suo marchio?
Forza e passione. C’è la voglia di raccontare una storia che non si è fermata ma è stata dimenticata; c’è la voglia di creare un marchio internazionale, e di portare il made in Italy in giro per il mondo.
Un servizio esclusivo per SNOB a cura di Michele Gastl, noto fotografo di still life che fa della perfezione tecnica il diktat del suo lavoro.
Ha immaginato un mondo Micro e lo ha rappresentato con una fotografia Macro. Questo è l’Eros, uomini e donne si muovono in mondi fatti di oggetti d’uso quotidiano; prendono il sole tra la pasta, si spogliano accanto ad una tazza di tè, un vojeur sbircia una donna in lontananza mentre si slaccia il reggiseno, regista, microfonista e tutta la troupe riprendono delle donne nude, cosa staranno facendo? Ce lo racconta l’autore in questa intervista:
– Che mondo hai immaginato sul tema dell’Eros qui rappresentato?
Un mondo parallelo al nostro. Un mondo a noi invisibile che però rispecchia i nostri sentimenti, ha le nostre stesse passioni e desideri.
– Esibizionismo, vojerismo, quale di questi aspetti sono più interessanti da raccontare?
Sicuramente voyerismo. Personalmente intendo quello di tutti i giorni, una curiosità della vita altrui, più che della ricerca dell’eccitazione. Se conoscessi questa persona cambierebbe la mia vita?
– Nelle immagini ci sono oggetti di uso quotidiano, rossetti, tazze da tè, penne, piante, pasta, quali caratteristiche deve possere un oggetto per ispirarti?
Deve essere un oggetto di uso quotidiano immerso in una situazione che noi viviamo tutti i giorni e non osserviamo più con attenzione. Se lo facessimo scopriremmo i personaggi che la popolano.
– Dove hai trovato le miniature di questi personaggi e come li scegli?
Per caso, cercando modellini per ricostruire un paesaggio in miniatura, ho scoperto che il mondo del modellismo offre anche personaggi e oggetti inaspettati. I tedeschi sono molto bravi nel modellismo per i trenini e offrono un catalogo sconfinato. Li ho scelti anche in base all’eleganza, non volevo delle situazioni volgari.
– E’ più interessante un mondo micro o un mondo macro?
Il mondo macro è più interessante perché sfugge a prima vista, necessita di più attenzione più concentrazione in un mondo molto distratto e superficiale.
– Eros e Fotografia, è un matrimonio felice?
Inizialmente le foto dei nudi erano vendute come “aiuto per pittori”, tuttavia il realismo della fotografia contrasta l’idealismo del dipinto facendone così opere erotiche. Dalla sua invenzione la fotografia è stato un mezzo per portare nel taschino l’eros come nelle cartoline erotiche inizio secolo. Personalmente preferisco fotografare gli oggetti, sono più silenziosi e pazienti.
– Quali strumenti usi per questo genere fotografico?
In questo caso ho usato delle vecchie luci ad incandescenza, mi sembravano più calde, avvolgenti, sensuali. La macchina fotografica digitale, moderna. La pellicola l’ho abbandonata da parecchio tempo, è un processo troppo lento.
– Quanto tempo di lavorazione è necessaria per costruire un mini set?
Non è stato tanto lungo il tempo di ripresa quanto la ricerca e la preparazione. Le sei foto le ho scattata in tre diverse sessioni perchè ad ogni scenetta sentivo che mi mancava un prop.
– Se fossi il protagonista di queste scenette, quale saresti?
Sicuramente il cameraman nascosto dietro alla sua cinepresa.
Noto per aver deflorato Minnie (avete capito bene), per aver venduto la madre ad un’asta (con tanto di cartellino al collo), per essersi (falsamente) proclamato Ambasciatore del Ministero della Propaganda Sociale e Culturale della Repubblica Popolare Democratica di Corea, oggi Max Papeschi, artista provocatorio (?), discusso e irriverente, ci stupisce con una mostra differente dai suoi soliti schemi: Extinction, un progetto da lui ideato in collaborazione con Flavia Vago e realizzato in partnership con AIIO e Michele Ronchetti.
Extinction vuole rappresentare ciò che resterà di noi quando ci saremo estinti, ma è (ahinoi) la fotografia del presente, il decadimento culturale che tutto oscura. E nell’oscurità Max Papeschi decide di far marciare dei soldati in terracotta alti 1.80 mt, quello che potrebbe essere l’esercito di Xi’an, ma con il volto dei nani. Un tramonto verde acido ispirato ad “Alien” dove statue fossilizzate raccontano un popolo in guerra perenne, e della cui scelta l’artista si prende gioco, inserendo l’elemento kitsch (la testa dei nani) come simbolo dell’impoverimento culturale.
Da un insieme di formule matematiche e dati mixati di culture occidentali e orientali, nascono invece le 1200 opere d’arte digitali create in partnership con Michele Ronchetti; l’installazione “Snow White overdrive” mostra su 4 schermi la complessa elaborazione dell’intelligenza artificiale dove dna di alieni, umani, antenati, nani, si mescolano formando una nuova razza, ancora ignota.
Com’è nata l’idea di Extinction?
Qualche anno fa Flavia ed io abbiamo visitato il Leeum Samsung Museum of Art di Seoul ed una mostra che aveva come tema l’umanità e ci siamo chiesti “Come potremmo rappresentare un concetto artistico sulla razza umana?“ Nel contempo è scoppiata la pandemia e il primo pensiero comune, che aveva sempre come obiettivo un progetto, è stato proprio l’Estinzione. La ricerca si faceva strada tra il Palazzo di Cnosso a Creta (siamo grandi appassionati di storia e archeologia) e abbiamo scoperto che tutte le installazioni presenti erano solo ipotesi, arbitrarietà, non vi era nulla di certo. Il Minotauro è mai esistito? Certo che no, ma abbiamo bisogno di riferimenti, di miti, di simboli. È stato così che gli errori archeologici ci hanno permesso di fare satira della razza umana.
Perché la scelta del volto è ricaduta sui nani?
Perché è la cosa più stupida e kitsch della cultura europea. Oggi il nano in casa potrebbe essere definito “cool“, ma i nani da giardino rappresentano in sé la cretineria folle, la scelta ignorante, e messi insieme all’esercito di Xi’an, sintetizzano la stupidità della guerra e il decadimento culturale.
Perché sono esseri estinti?
La guerra potrebbe essere una prima ipotesi: si sono uccisi tra di loro. Dall’altra parte più che una distruzione di massa, si può parlare di regressione, di bassa cultura, lo “stato nano” è lo sfascio culturale.
Ha un suo specchio nell’era dei social network? I social network SONO lo specchio della società, il pensiero stupido lo si percepisce proprio da lì.
E qual è la punta di diamante del mondo culturale? La lettura di Yuval Noah Harari ad esempio, grande antropologo e filosofo israeliano, o quella di Jared Diamond, grande divulgatore e geografo che nel saggio “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere“, spiega i motivi che hanno portato nel passato il crollo repentino e la diminuzione drastica della popolazione, spesso attraverso conflitti armati.
Perché è interessante raccontare l’estinzione? Perché è sempre interessante studiare la razza umana, ci aiuta nella comprensione del presente, e il nostro presente oggi conferma una citazione di James Graham Ballard:
“Un diffuso gusto per la pornografia significa che la natura ci sta avvertendo di una certa minaccia di estinzione.”
“Extinction – Chapter One”, quale sarà il secondo appuntamento della trilogia?
Nei prossimi interventi ci muoveremo in giro per l’Italia, insieme a Stefania Morici che è curatrice del progetto. Ogni installazione avrà protagonisti diversi ma sempre legati al tema dell’estinzione, che Karl Kraus ci ricorda con questa frase:
“Quando il sole della cultura è basso all’orizzonte, i nani hanno l’aspetto di giganti”.
EXTINCTION. CHAPTER ONE 20 gennaio – 19 febbraio 2023 Sala del Collezionista, Gallery I martedì – domenica, 10-20 (chiuso il lunedì) ingresso gratuito
Polmone verde dell’Italia, l’Umbria possiede i poetici filari di cipressi, una storia medievale di castelli, una cucina tradizionale storica, ma soprattutto un’eredità potentissima religiosa, che calamita ogni anno fiumi di turisti in cerca di ispirazione ed illuminazione.
Vi basterà passeggiare per il centro di Assisi per capire che qui vive uno spirito diverso dalle altre città turistiche, respirerete un’energia nuova, il cibo si farà più buono, il manto verde che ricopre le piccole montagne vi sembrerà morbido come cotone e accogliente come una coperta, d’altronde lo scrive spesso un grande saggista, Claudio Magris, che viaggiare è un atto di umiltà e insegna a sentirsi stranieri tra gli stranieri, l’unico modo forse per essere veramente fratelli.
Questo è il primo appuntamento di una piccola guida sui luoghi del cuore dell’Umbria, per un week end all’insegna del food e del relax.
PARK HOTEL AI CAPPUCCINI – Gubbio
Nato dalla ristrutturazione di un antico convento del 1600, il Park Hotel Ai Cappuccini è un gioiello del territorio in pietra e racchiude al suo interno altrettanti simboli rappresentanti la sua importanza storica. Nelle sale si possono ritrovare dipinti di Nelli Ottaviano rappresentanti San Cristoforo datati 1420 e provenienti da Palazzo Beni; sculture in cemento e grafite dell’artista statunitense Beverly Pepper; quadri di natura rurale di Emilio Scanavino del 1974; vasi di ceramica Gualdo Tadino e Rometti; oltre ad uno spazio totalmente dedicato all’arte contemporanea dove trovare ben due opere di Arnaldo Pomodoro e di Giuseppe Capogrossi, padre anche del simbolo di Park Hotel Ai Cappuccini.
La Spa
Uno spazio completo dove ritrovare se stessi e il silenzio rigenerante. Il Park Hotel Ai Cappuccini è dotato di una grande zona dedicata al benessere di corpo e mente, dalla Soft Sauna a quella Finlandese, dal Bagno Mediterraneo al Bagno Turco, oltre a vasche thalasso, idrojet e idromassaggio potassio-magnesio. Due ambienti distinti con due percorsi diversi, per incontrarsi nella sala tisaneria e sala relax o finire il trattamento con massaggi viso e corpo o speciali rituali concentrati ai fanghi.
Ristorante Nicolao
Travi a vista, ambiente elegante ed ottimo servizio al ristorante Nicolao del Park Hotel Ai Cappuccini dove ritorna, sui piatti, l’iconico simbolismo colorato di Capogrossi. Dal Menu che abbraccia la tradizione consigliamo il tagliere con selezione di salumi e formaggi umbri; la zuppetta di gamberi, ombrina, spigola e pescatrice in guazzetto di ceci; i ravioli di baccalà con salsa alla puttanesca; il tortino di ricotta con porcini e cialda al parmigiano e la crema al caramello con gelato allo zabajone abbinato ad un Pourriture noble (muffa nobile) Tenuta Decugnano dei Barbi, una tenuta di Orvieto che produce questo vino delizioso, da meditazione, proveniente dai vigneti Grechetto e Procanico 60%, Sauvignon Blanc 35%, Semillon 5%, frutto di una meticolosa vendemmia in più passaggi successivi, pressatura immediata e lunga fermentazione. Degno di nota anche il bianco Monteleto 2021, uno Chardonnay in purezza della Cantina Semente per accompagnare tutto il pranzo.
CERAMICHE ROMETTI – Umbertide La bellezza risponde a delle leggi che non sono universali, bensì individuali, segue un bisogno primario, come quello di nutrirsi, e come per il nutrimento necessita di costanza per poter crescere. Chi ha bisogno del “bello”, lo cerca assiduamente come l’aria in ogni angolo di mondo; è la storia di Rometti Ceramiche, di Massimo Monini e Jean-Christophe Clair, rispettivamente proprietario e direttore artistico del brand. Mecenate e grande visione imprenditoriale il primo, poliedrico, creativo e appassionato il secondo, insieme stanno portando una firma enorme del mondo della ceramica dal 1927 quando nacque dalle mani del ceramista Settimio Rometti, al successo internazionale attraverso importanti esposizioni oltralpe e collaborazioni prestigiose con brand e artisti che hanno ideato collezioni uniche come Roche Bobois, Cartier, Borbonese, Fresh, Ambrogio Pozzi, Liliane Lijn, Sergio Fiorentino, Chantal Thomass, Studio MAMO, B&B, Christian Tortu, Ugo La Pietra, Kenzo Takada e Roberto Capucci.
Storie di feticismi e pizzi per la collezione di Chantal Thomass e le iconiche figure parigine con basco, caschetto da flapper e stivaletto stringato per un passo di danza al cabaret. Elegantissima la mano di Kenzo Takada che ci ricorda lo spessore della cultura giapponese con la tecnica del kintsugi, una pratica che evidenzia con dell’oro le linee di rottura dell’oggetto. Il vaso con le “cicatrici” diviene così più prezioso, perché è nelle fragilità che vediamo la vera bellezza. Shogun è una collezione che lascia senza fiato. Ma ciò che più rimane, se avrete la fortuna di visitare la sede Rometti a Umbertide, in provincia di Perugia, è quello che sta dietro la porta dorata dello show-room, il luogo dove gli artigiani lavorano con le mani, dove vive la materia e si trasforma, quei luoghi che sanno un po’ di casa, con i bozzetti appesi e l’atmosfera rilassata di chi sta giocando. Gente che ama ciò che fa, che condivide il bancone con il proprio gatto, che potrebbe creare ad occhi chiusi perché a volte è necessario serrarli, per poter vedere tanta bellezza.
TENUTA SAN MASSEO– Assisi
Boutique Farm Resort & Spa, ex essiccatoio del tabacco, oggi Tenuta San Masseo è un boutique hotel immerso in un parco di 20.000 mq di fronte alla veduta più bella d’Assisi. Proprietà della Famiglia Carloni, la Tenuta è stata ristrutturata mantenendo il gusto accogliente di una casa, e completata di ogni servizio e comodità, compresa la nuova riapertura della Spa con sauna, bagno turco e stanza trattamenti. Finemente arredata, Tenuta San Masseo sceglie di conservare la rusticità della villa con le pietre a vista, regalandole carattere e originalità attraverso la scelta di arredi esotici e di oggetti di design. Le lampade chips in bronzo arrivano da un viaggio della famiglia a Marrakech; alcune sculture sono dell’artista romana Rabarama, come l’opera in bronzo intitolata “In cinta”, datata 2009 ed esaltata da un’illuminazione teatrale; di Lello Esposito l’artigianato napoletano rappresentato da maxi corni in argento che arredano delle nicchie ricavate alle pareti; mentre i guerrieri che proteggono la breakfast room arrivano da un viaggio cambogiano. Le suites sono degli acquari che affacciano sul parco e sulla città di Assisi, per poter godere notte e giorno della vista più bella della città e di un’illuminazione poetica che si sofferma sulle opere a cielo aperto di Giuseppe Carta o sui tavoli in pietra lavica maiolicata dell’artista Domiziani.
TESTONE – Santa Maria degli Angeli
A Santa Maria degli Angeli, in provincia di Perugia, trovate la migliore torta al testo. Dove? Da Testone, una moderna osteria dove si mangia “street food”, quei piatti confortevoli che ti ricordano la nonna, i sapori decisi, l’abbondanza. Qui potete assaggiare la vera torta al testo, la “focaccia” realizzata da un impasto di farina, acqua, bicarbonato e sale, cotta su di una pietra circolare detto testo, infuocato sotto le braci. Piatto di origini antichissime, può essere un’ alternativa non lievitata al pane tradizionale, oppure gustosa se viene farcita; io la consiglio con erba e salsicce, o accompagnata agli altri piatti stagionali del Testone, come una coratella o cotiche, qui non si scherza mica!
FRANTOIO GAUDENZI
Olio plurimpreniato, a Frantoio Gaudenzi permane la storia di nonno Vittorio che nel 1950 rileva un antico frantoio per rinnovarlo completamente; oggi Andrea e Stefano, terza generazione, portano avanti il grande progetto unendo innovazione e tradizione. Gioiello in azienda, un macchinario innovativo, primo passaggio del loro olio pluripremiato, frutto di una raccolta monitorata e studiata dove zero è il minimo comune denominatore: Zero Emissioni, Zero Pesticidi. Una ricerca continua verso un’agricoltura sostenibile volta a valorizzare il massimo livello qualitativo delle varietà tipiche del territorio: Moraiolo, Frantoio, Leccino, San Felice e Dolce Agogia. Sono olii eccellenti, non è un caso se il re dell’olio, lo chef Lorenzo Cantoni sceglie proprio Frantoio Gaudenzi per completare alcuni suoi piatti. L’attuale sede è aperta ad accoglienza, vendita diretta e degustazioni, che vi consiglio di non perdere per imparare qualcosa in più sul frutto orgoglio della nostra Italia che sta alla base della nostra cucina, e sia lodata!
ANTICHE SERE OSTERIA ENOTECA – Bevagna
Succede spesso che il turista in terra straniera sbagli la scelta del ristorante, è capitato a tutti di farsi ingannare dalla posizione, dalle recensioni sul web, ma una cosa poi anche il turista l’impara, e cioè che chiedere a chi è del posto “dove mangiare bene” è cosa buona e giusta. Stra-consigliato, all’Osteria Enoteca Antiche Sere l’ambiente è rustico, caldo, accogliente, arcate in pietra, sedie in paglia, tavolate di legno, sembra d’essere dentro uno di quei quadri di Van Gogh, anche il giallo alle pareti ha la stessa intensità.
Qui non c’è una sola specialità, dovete abbandonarvi a tutto il menu consigliato dal proprietario, un barese in terra umbra: frittata con tartufo, salumi nostrani, coratella, stringozzi col tartufo, spezzatino di cinghiale, tozzetti con sagrantino, ricotta con le visciole, torta di noci e fichi e non vorrete più andarvene, salvo poi per finire col parlare di cruditè ‘nderr a la lanz con Luciano Sabbatini, luogo del cuore di tutti i baresi, patria del pesce crudo, che va benissimo il tartufo di terra, ma anche quello di mare che bontà!
Esposto in 26 paesi del mondo, il progetto fotografico “Followers” di Marco Onofri nasce nel 2016 ma è un sempreverde. Nell’era dei social network, questi luoghi irreali dove a contare sono solo i like, dove un sociopatico si può costruire un’immagine di socialite e dove si possono cambiare i connotati a colpi di clic, sono i followers i veri protagonisti. Persone qualunque di ogni parte del mondo che hanno parola, il cui pensiero può attraversare l’oceano in una frazione di secondo, frustrati scatenati che vomitano il loro livore, donne complessate che aggrediscono gratuitamente, nemici politici pronti a smascherare gli scheletri nell’armadio di quando il competitor frequentava la quinta liceo. Tutti possono parlare, tutti possono urlare, gli unici filtri consentiti sono i robot che leggono cerchi rosei sul petto e li blurizzano perché capezzoli, ma potrebbe trattarsi anche della Venere di Botticelli e la censura si fa alla storia e all’arte. Il fotografo italiano Marco Onofri ha voluto raccontare i “Followers” in un progetto personale, trasformando il mondo social in un set fotografico. Una donna si mostra nuda, ammicca, provoca, mette in primo piano il corpo, come se ne vedono infinite, timbrate e clonate su account diversi eppure così uguali, in attesa di un commento, che arriva prontamente falsato da profili di uomini impegnati, talvolta carichi di insulti e parole volgari, di scherno o spregio – così racconta Marco Onofri.
Sono esattamente questi uomini, queste donne, questi “Followers” che Marco Onofri vorrebbe sul suo set, e li spinge a partecipare ad una sessione fotografica dal vivo, dove le donne colpite dagli insulti, si spogliano dal vero. Cosa succede? Rifiuto. C’è chi si nascondeperché teme la reazione della compagna /moglie /consorte, c’è chi accetta l’invito per curiosità, chi si presta alla recita (ma chi può sapere se si recita più dietro ad una tastiera o davanti ad una fotocamera?). E le donne che si mostrano senza veli? Pudiche come delle monache clarisse, che a mostrarsi a 10 persone reali anziché milioni fittizie e che non sono Mario, Antonio, Pasquale, ma bimbo18 e superman84, si fa peccato. Onofri nonostante le reticenze, ha completato l’originale progetto, volendo così dimostrare come la condizione venga ribaltata dall’occasione. Ha confermato che il “leone da tastiera” altro non è che una pecora impaurita, debole e fragile, e che la “leonessa” tutta pizzi e bocca a cuore, altro non è che un essere bisognoso di attenzioni e conferme. E dove stanno tutti gli altri? A vivere la vita vera, fuori da quel quadrato fatto di pixel e finti cuoricini.
“Possiamo permetterci un Audermars Piguet, eppure ringrazio il Signore che l’unica cosa capace di scaldarmi il cuore è questa” – sono le parole di Annalisa Zorzettig mentre mi mostra una foto di suo padre insieme alla nipotina felici, mentre accarezzano una pecorella.
Ma chi è Annalisa Zorzettig? Me lo sono chiesta in tutti quei giorni in cui ci ha accompagnato durante un tour alla scoperta del Friuli che conosce bene, eppure l’ho compreso solo ora, ora che sono costretta a salutarla, alla fine del viaggio, mentre le vedo gli occhi brillare, finalmente, quando orgogliosa mi mostra il video di Leonie, sua nipote, la stessa a cui ha dedicato un’etichetta.
Donna in un ambiente tradizionalmente maschile, Annalisa Zorzettig è a capo dell’azienda omonima, leader del settore vitivinicolo del friulano dal lontano ’84, quando il Cavalier Giuseppe Zorzettig decise di ristrutturare un vecchio casale a Spessa di Cividale al fine di trasformarlo in una cantina tecnologica e all’avanguardia.
E Annalisa oltre all’impegno nel tenere alto il nome dell’azienda, ci mette qualcosa in più, qualcosa che forse solo noi donne abbiamo il coraggio di concederci, anche in ambito lavorativo: il cuore. Cosa non da poco quando si è a stretto contatto con il pubblico, perché il concetto di accoglienza in cantina, dove salutare gli ospiti e accompagnarli alla scoperta della storia e della passione che guida da oltre 100 anni l’azienda Zorzettig, è la loro firma.
Annalisa Zorzettig
LA TENUTA
Siamo sulle colline di Spessa, nel cuore dei Colli Orientali del Friuli, qui un tempo vivevano due contesse zitelle che avevano un solo pensiero, godersi il panorama ma soprattutto i vini del loro vigneto, visibili dal grande terrazzo oggi adibito al servizio degustazione. Qui il visitatore può provare il vero gusto del relax, assaggiare gli ottimi vini della cantina, godersi la gentilezza di Annalisa, scoprire i segreti dei migliori tra i vini del Collio.
i vigneti
la Tenuta del ‘700
MYÒ LA LINEA RISERVA
MYO è la linea riserva che si basa sulla filosofia di rispetto per l’ambiente e profonda devozione al territorio; si tratta di una selezione particolare che identifica i vitigni più vecchi e maggiormente vocati alla qualità assoluta. Sono vini di grande personalità, grande espressione, sono i più promettenti della Tenuta ed esprimono un grande percorso fatto di scelte e numerose ricerche. A guidarle c’è Saverio di Giacomo, enologo dell’azienda, uomo di principio, fare bonario, amore per la natura.
All’interno della Tenuta, uno spazio che rappresenta una tipica casa friulana, dove far respirare agli ospiti il classico ambiente domestico. E’ qui che per noi di Snob è avvenuta la degustazione dei vini Zorzettig. Alcuni tra questi:
Zorzettig Sauvignon Blanc, 5 mesi in acciaio e 1 mese in bottiglia, un naso profumatissimo, sentori di fiori bianchi, frutta tropicale, sorso cremoso e sapido.
MYÒ Malvasia, piccoli interventi di diradamento dei grappoli per elevare la qualità del vino, vigneto storico, sentori di frutta matura, floreale, tra i miei favoriti dei loro bianchi.
MYÒ Fiori di Leonie – è un blend di uve Pinot Bianco, Sauvignon e Friulano, raccolte a mano da Saverio, l’enologo e team – affinamento in legno, note intense di mele e pesche mature, fiori bianchi e sensazioni agrumate. Molto persistente.
Con grande sorpresa, un assaggio di un Pinot Nero Zorzettig del 1977, 45 anni di vino che ci regala un tannino morbido, sentori di frutta secca, prugna e albicocca disidratata, ciliegia sotto spirito. Una esplosione di sapori e profumi.
MYÒ la linea riserva
E’ stato detto che la semplicità è una forza, e alcuni episodi ci forniscono semplicemente l’occasione per comunicarlo. Per Annalisa Zorzettig il nome, il suo nome, non ha importanza, ciò che conta è l’essere. E il suo metodo ci da la possibilità di peritare, stimare, l’idea di bellezza che ha del suo mondo, il vino, un mondo dove appunto la semplicità è solo un velo elegantissimo che nasconde una grande complessità, di persone e lavoro.
Ed è grazie all’ingrandimento delle cose godute dal vivo, come certi fatti vissuti dopo averli sognati o come una città visitata, dopo averla studiata su di una guida, così i vini Zorzettig assumono al nostro palato il valore che meritano. Maggiorazione formidabile validata dai preziosi collaboratori, Saverio di Giacomo e Alan Gaddi, rispettivamente enologo e commerciale dell’azienda, che con la loro competenza e professionalità e il profondo sentimento della terra che scaturisce dai loro racconti, possiamo esser certi di portare sulle nostre tavole un prodotto nobile.
Ci auguriamo che il mondo del vino si tinga ancora di rosa, se i risultati sono simili a quelli che Annalisa ha regalato a Zorzettig, un capitano che ha già discendenti femminili, come la figlia Veronica, mente innovativa e sempre attenda al concetto di Green.
Assisi è luogo di santità e preghiera, dove anche chi non crede si trova a ricredersi, perché l’energia spirituale invade tutto, le strade, i campanili, le pietre delle case nascoste e dal cielo c’è sempre una luce sottile ma potente, che passa tra le nubi come un segnale. Succede anche da questa altezza, dal ristorante Il Frantoio che affaccia sulla vallata umbra, quella stessa luce passa dalle vetrate e illumina la sala verde, omaggio al frutto adorato dallo chef Lorenzo Cantoni che ha preso a capitanare la squadra: l’olio d’oliva. Tutto rimanda all’indiscusso protagonista, le foglie della pianta messe sotto resina sui tavoli, la piccola macina del frantoio che è un poggiaposate, le immagini fotografiche in bianco e nero sulle pareti, ma soprattutto l’olio quale assenza di grassi animali, burro, per una cucina sostenibile e godibile con costanza nel tempo. La cucina No Porn, ma New Born dello Chef Lorenzo Cantoni.
Il benvenuto ce lo da un pane lievitato 48 ore e servito con Elly & Ello, un olio di loro produzione, a seguire un tondo croccante aromatizzato con fegatini di pollo, erbe sinergiche e aceto, crème brûlée di porri, crackers di maialino con mortadella senza conservanti, foglia croccante di patate e spinaci, e la prima lacrimuccia di gioia che avrete a tavola, così, senza preavviso, senza avere ancora il tempo di ambientarvi e capire chi è Lorenzo Cantoni: una finta oliva con nocciolo di mandorla e un liquido di salamoia (ricreato dall’olio d’oliva ça va sans dire) che esplode in bocca come un trompe-l’œil per l’occhio. È questa fake oliva che vi farà capire quale luna park di sapori vi attende alla tavola de Il Frantoio.
Il tiramisù fatto con olio d’oliva, pane croccante, tartufo ed erbe sinergiche, ci viene servito in una lattina di tonno; UNO è il carciofo sbollentato con ripieno di purea di gambi, senape fredda, salsa garum, ricoperto da un agrodolce di caramello, accompagnato da un’altra grande scoperta qui a Il Frantoio, un vino bianco le cui note richiamano i fiori di sambuco, la polpa bianca e matura della pesca e un sapore minerale, sapido, che si sposa perfettamente ai piatto; è Donna Elena, una delle tre interessantissime etichette prodotte dalla proprietà. Fatene scorpacciata, è un consiglio.
Sul fondo di un piatto blu oltremare, sembra galleggiare la pizza alla Perugina, una base bianca di pizza fritta sopra cui posa un disco di panna cotta al patè di fegatini di pollo, punta di burrata, fiori di peperone e senape Red frills.
Leggero dripping rosato nel piatto di friggitello arrosto farcito di pecorino di Norcia, punte di fagioli cannellini, wasabi ed erba Red frills, e un velo d’olio dorato Batta per il risotto cotto in acqua di verza con patate arrosto ed erba Oxalis, un’acetosa che arriva dall’orto La Clarice di Diego e Davide Narcisi, passione per le piante, eredità del nonno che lascia loro un pezzo di terreno dove durate il lockdown sono nati i frutti che troviamo in questi piatti, una forte sinergia di erbe sinergiche che nella loro piccolezza fanno una grande differenza. Non poteva mancare in menu il tanto chiacchierato foie gras etico, dove la parte dell’ingrassamento viene fatta da un’emulsione di olio evo, crema di mele, punta di nocciole, prugna e passito sagrantino.
Rosso sangue la salsa ai frutti rossi al centro del piatto con piccione cotto una notte su barbecue con carbone di ulivi; per pulire il palato una gelèe di olio d’oliva e tagete filifolia, un’erba spontanea che ricorda la liquirizia, un sorso con estratto di lime, basilico e menta. Altro gioco d’inganni il dolce non dolce, ravioli di rapa rossa, mix di formaggi umbri, aceto di lampone addensato, polvere di frutta secca, yogurt bianco e acido.
Cosa si comprende dal concept del Miglior Chef dell’Olio AIRO 2021 Lorenzo Cantoni? Amore per il proprio territorio, profondo rispetto per la tradizione ma grande ironia, sinonimo di estrema intelligenza, spirito collaborativo (e chi fa squadra va lontano), impegno costante nella ricerca (ah io vorrei dire ciò che ha scoperto ma devo mantenere ancora per poco il segreto), voglia di sperimentare e giocare (menti creative arrivano talvolta dove solo lo studio non vede), e la serietà della buona tavola, del concetto di cucina sana nel senso etico del termine ma soprattutto onesto, dove il burro e i grassi animali vengono banditi, dove l’elemento cardine della tradizione italiana, l’olio extra vergine di oliva, assume il ruolo protagonista e il rispetto che giustamente merita. E lo merita anche questo giovane chef che ci regala non solo prelibatezze per il palato, ma un grande esempio da seguire.
Il Frantoio Via Fontebella 25 Assisi (Pg) info@ristoranteilfrantoioassisi.it 075812242
Inusuale per un ristorante, eppure Daniel Canzian, chef del ristorante omonimo, stupisce ancora, questa volta con la creazione di un profumo che non arriva dai suoi piatti bensì da una fragranza creata ad hoc per Daniel Canzian Ristorante nel cuore di Brera.
Trattasi di “Serra San Marco“, note liquide passate dai nasi di Integra Fragrances, azienda leader nella creazione di identità olfattive per marchi del lusso, musei, prodotti, strutture ricettive. Anche per la società la sfida è stata ardua, ideare un profumo dedicato che accompagnasse gli ospiti verso la sala ristorante, portando necessariamente con sé delicatezza, leggerezza, note lievi e non persistenti, non invasive, un benvenuto fresco.
E’ all’entrata che avvolge gli ospiti di Canzian Ristorante, nella piccola area tra la porta d’ingresso e la sala pranzo, la fragranza “Serra San Marco”, a cui lo chef ha voluto omaggiare un lunch ispirato:
“Il connubio tra le note agrumate di testa, il calore degli aromi di cuore e la profondità di quelli di fondo nascono da un racconto che parla di passione, creatività e determinazione. Serra San Marco è l’identità olfattiva che Integra Fragrances ha realizzato per lo Chef Daniel Canzian, le cui note sensoriali possono essere ritrovate nel menu in degustazione“.
Un calice di rosè Brut Millesimato 2020 Montelvini, ci accoglie insieme al pane sfogliato diventato ormai icona del ristorante, e oggetto di desiderio per quanto crei dipendenza. Trattasi di un pane sfogliato al burro a cui viene aggiunta della farina di mais, tipica della cultura del Nord Italia.
A seguire dei piccoli nidi su cui poggia un guscio aperto a metà, con all’interno un tuorlo d’uovo servito crudo, dentro cui viene versato brodo, un filo d’olio, pepe, sale. Il calore del liquido lo cuoce leggermente.
Antipasto vegetariano con carciofi ripieni, spinaci e mentuccia e grande creatività per il primo piatto, “Divisionismo in cucina” un risotto “Expo-nenziale“, un piatto che cita l’opera divisionista del Boccioni (La città che sale), e pensato in occasione dell’Expo di Milano. Per questa ricetta Villeroy ha creato un piatto apposito che riprende il gioco velato di spezie servito sul risotto, tre macchie di colore arancio (paprika), color senape (curry) e black (tè nero affumicato).
A terminare in dolcezza, una charlotte milanese, mele e cannella e il rito tipicamente italiano del caffè bollente. Tra questi piatti si nascondono le note di “Serra San Marco“, che altro non è che questo luogo di peccato dove gode la gola ma non solo. A voi scoprirle, basta varcare la soglia, chiudere gli occhi, attraversare la porta e…ritrovarle nei deliziosi piatti di Canzian.
Da erotomane a sacerdote. Il fascino sensuale delle donne trasformato in amore per la comunità.
INTERVIEW: MIRIAM DE NICOLÒ PHOTO: GIOVANNI PISCAGLIA
Don Daniele quando hai avuto questa vocazione. Cosa è successo? È merito della mia “ultima fidanzata” che un giorno mi disse “Sei sprecato per una sola donna”. In quell’atto di amore e di grande generosità ho compreso davvero la mia strada, un nuovo percorso di amore verso la comunità. Mi ha molto colpito quel momento, perché era evidente che il suo intuito era forte, mentre io invece mi sentivo molto confuso ed in crisi, ma una titubanza che dipendeva solo da me perché lei era splendida. Ecco allora che ho scelto di dedicarmi agli altri, di esserci per chiunque bussi alla mia porta, anche se dedicarsi ad una sola donna per creare una famiglia è un atto altrettanto nobile. Terminate le superiori a 19 anni, sono un perito meccanico, ho quindi intrapreso questo cammino, e 7 anni dopo sono stato consacrato sacerdote.
Prima dei tuoi 19 anni, come vivevi la tua vita? Ho la fortuna di essere cresciuto in una famiglia credente, mio papà fa il catechista in parrocchia da 40 anni, mia mamma canta nei cori cristiani; la fede mi accompagna fin da quando sono bambino, e ho sempre frequentato la comunità parrocchiale di Charvensod, il paese di Aosta. Ma la vocazione arriva dalla relazione con le donne.
E a proposito di donne, noi abbiamo una cara amica in comune, la tua prima fidanzata, Francesca che, facendo del pettegolezzo, mi raccontava del tuo saltare da una donna all’altra anche volentieri, per cui possiamo dire da don Giovanni a don Daniele? Ho sempre avuto grande empatia e delicatezza nei confronti delle donne; quando mi si è aperto il mondo femminile non ho resistito al fascino e sono entrato in un circolo vizioso, che nei primi anni di superiori è stato abbastanza impegnativo, le donne erano degli oggetti e volevo provare ogni sorta di esperienza. Solo all’interno di relazioni più mature e più stabili ho intuito che cos’era l’amore con la A maiuscola, perché si fondavano non solo sull’attrazione fisica ma sul rispetto, sulla conoscenza e accettazione reciproca, ma soprattutto testavo per la prima volta qualcosa di anomalo, la fedeltà. Quando ho capito che anche quel genere di amore, per quanto sano, non mi bastava più, ho buttato il mazzo per aria e ho cambiato completamente partita. Oggi direi che la partita è buona, ecco la nuova partita per ora sta andando bene.
Possiamo affermare che le figure religiose femminili le senti più vicine? Si assolutamente, posso dire che a Maria e alle sante sono certamente più devoto rispetto alle figure maschili.
Come si diventa sacerdote? Ci si affida ad un padre spirituale, qualcuno che ti accompagni. La nostra chiesa valdostana è un po’ povera di sacerdoti, ce ne sono molti anziani e non molto entusiasti di ciò che fanno, mi sono rivolto ad una decina di loro ma non ho trovato aiuto, fino a quando ho bussato le porte del Monastero Regina Pacis Saint Oyen, dove ci sono delle monache di clausura. La Priora del Monastero mi ha accolto e accompagnato fino alle porte del seminario in un anno e mezzo; come vedi un’altra donna, ecco perché per me sono davvero preziose. Il percorso di studio consiste in una laurea in teologia di 5 anni dove si fanno esperimenti di vita comunitaria con altri aspiranti sacerdoti, e un periodo di tirocinio nelle parrocchie, ospedali, carceri.
Credo ci sia ancora un po’ di confusione tra le promesse di una vita sacerdotale e i voti che invece spettano alla vita vescovile. Puoi spiegarci le differenze? Prima della celebrazione dell’ordinazione sacerdotale, quando il vescovo impone le mani sul sacerdote, quest’ultimo fa una preghiera di consacrazione. Quelle sacerdotali sono promesse di territorio, preghiera, celibato. La promessa di territorio indica fedeltà ad una chiesa precisa, in questo caso per me si tratta della Valle d’Aosta, siamo legati a dei luoghi, in gergo veniamo incardinati in un posto e promettiamo fedeltà e obbedienza al vescovo di Aosta e ai suoi successori, mentre i frati sono legati ad un carisma, si dedicano ai poveri, ai ragazzi, ad esempio e vengono spostati in diverse comunità, mentre il nostro territorio sarà uno solo per tutta la vita. La promessa di preghiera è forse la più interessante perché ci impegniamo attraverso la preghiera della liturgia delle ore, mattino, mezzogiorno, sera prima di andare a dormire, a pregare per il mondo intero, preghiamo per chi non prega, preghiamo per le persone che ci sono affidate, attraverso la celebrazione della messa nell’Eucaristia. L’ultima promessa, quella che scandalizza di più il mondo, è una promessa di celibato, che non è la castità a cui nella Chiesa sono chiamati anche gli sposi, un modo di vivere la propria sessualità, ma anche i propri affetti, mettendo l’altro/a prima di noi. La promessa di celibato indica la rinuncia a esercitare la nostra sessualità ma non i nostri affetti e il nostro amore, perché andrebbe in contraddizione con quello che abbiamo scelto di fare. Attraverso la rinuncia alla sessualità si sceglie di essere di tutti, la profezia della mia fidanzata, oggi lo capisco profondamente, anche se viviamo un mondo che non è casto e dove essere di tutti è difficile perché si è di tutti e di nessuno. Noi invece apparteniamo al Signore.
Come riesci a rinunciare alla sessualità avendo avuto esperienze con molte donne? All’inizio è stato molto difficile, fisicamente, perché il corpo si può educare, la mente è più ribelle. Quando parlo con i ragazzi cerco di far capire loro che gli istinti sessuali sono quelli animali, noi invece differenziamo dalle bestie perché capaci di controllarci. Per me è stato difficile rispettare la donna ed educare il mio sguardo, che era finalizzato ad ottenere, ci sono voluti anni per approcciare in maniera diversa con le donne, lasciarle libere senza tirarle a me pensando che fossi il centro del mondo. Ho imparato a mettere l’altro al centro, a rispettare i suoi tempi, è un cammino molto difficile e al contempo affascinante, perché qui risiede la vera bellezza. In questo è maestro l’unico santo uomo a cui sono molto affezionato, San Giovanni Paolo II. Oggi per me stare insieme ad una donna significa elevarla in tutta la sua bellezza emotiva, mentale, fisica, spirituale, psicologica senza possederla, è una sensazione bellissima su cui bisogna sempre vigilare.
Hai avuto tentazioni nel corso degli anni? Le pulsioni vengono un po’ a mancare quando non si esercitano più, anche se ho 30 anni; difficile è lasciar andare l’adrenalina del possesso, dell’avere una donna lì per te, e questo si ripercuote su altri tipi di attività, per chi magari come me ha forte empatia o carisma e riesce ad ottenere ciò che vuole; succede anche in parrocchia nel ricevere favori o servizi. Il sacerdote che ancora adesso mi accompagna mi aiuta a fare un po’ di luce su questo atteggiamento, una sorta di perversione, che parte come un sassolino ma può diventare valanga, un atteggiamento che nuoce noi e le persone che ci sono accanto.
Questa tua vanità non è letta come un peccato? Io sono un egocentrico e nel cammino esiste un momento di accettazione del proprio lato umano. L’amore che vivo oggi e ricevo dal Signore è l’esperienza di amore più vero, perché si è amati per quel che si è e non per quel che si fa. Per una natura prestazionale come la mia, e lo sono tutt’ora nelle attività pastorali, è molto liberante sapere di essere amati perché esisto, mi commuove. Entrare in una tradizione di 2000 anni all’interno della Chiesa e accompagnare le persone che mi sono state affidate mi aiuta nell’esercizio della carità, perché ci sono per loro ma non sono la loro salvezza, così com’ero convinto di essere la salvezza di tutte le donne con cui sono stato. La fisicità si educa, anche se ci sono giornate meno facili.
E cosa succede in quel momento?Tu sei a contatto con tantissime donne La grande scelta è stata tra il monastero e il sacerdozio, dovevo scegliere se mettermi in un ambiente più protetto per non fare casini o se scegliere di vivere nel mondo e di mettere questo “dono” (ho iniziato a chiamarlo così molto tardi nel percorso, era un peso inizialmente perché procuravo dolore intenzionalmente) a servizio degli altri. In seconda superiore ho frequentato per sei mesi due donne contemporaneamente, per me era normale perché non mi sentivo “spaccato” e non avevo intenzione di ferirle, fino a quando sono stato messo all’ordine rendendomi conto che forse avevo bisogno di un ambiente ritirato. Chissà un giorno mi trasferirò in qualche eremo o monastero, con l’età o per stanchezza, perché gestire tante relazioni, come oggi, non è semplice, soprattutto quando si è molto empatici, affettuosi, è un gran dispendio di energie.
Ci sono delle donne che ti hanno fatto delle avance, delle proposte? Si è capitato negli anni, soprattutto all’inizio del percorso; in questi casi il nostro padre spirituale ci allerta che se qualcuno intralcia il nostro cammino, abbandonarsi non ha alcun senso
Ti è mai capitato di cedere? Mai. Anzi cavalcando l’onda dell’entusiasmo ci si imbatte in situazioni in qualche modo cercate, per dimostrare a te stesso che ce la puoi fare. Il nostro percorso di formazione è molto protetto perché si vive in seminario tra giovani che stanno facendo quel tipo di cammino, si studia in facoltà teologica e siamo esposti solo quando veniamo catapultati nella vita di parrocchia, nel servizio, ed è il motivo per cui ho chiesto fin dall’inizio al vescovo di andare a far esperienza di vita comunitaria insieme ad altri preti.
E’ una scelta anomala perchédi solito ogni prete ha il suo appartamento, corretto? Esatto, di solito il prete è mandato in una parrocchia e ha la sua casa abbinata, vive solo. Ma la settimana prima di essere ordinato sacerdote è stato fatto l’incontro di tutti i preti della valle e il vescovo ha chiesto ai sacerdoti valdostani se ci fosse la volontà di qualcuno di loro disponibile per fare un’esperienza di vita comunitaria. Oggi vivo con 3 preti, nello stesso alloggio, mangiamo insieme, condividiamo gli stessi spazi e ci aiutiamo a vivere in fedeltà il nostro ministero, non tanto sull’aspetto delle relazioni perché la nostra casa è un porto di mare, tutti sanno dov’è la chiave per entrare, ma per centrarci continuamente sul motivo per cui noi siamo qui, quando uno di noi si siede e inizia a farsi gli affari suoi e a vivere per sé stesso e non per gli altri, ecco che il compagno punzecchia e ci riporta all’ordine.
In appartamento non avete il televisore, leggi il giornale per informarti sui fatti quotidiani? Non sono mai stato un appassionato della tv perchè vivendo una realtà contadina stavo spesso a contatto con la natura. Nella nostra abitazione e negli appartamenti dedicati all’ospitalità, abbiamo deciso di eliminarla per dedicarci a chi abbiamo di fronte. Nelle nostre stanze poi ciascuno decide cosa leggere o magari scrive o medita. Non siamo totalmente fuori dal mondo, io ad esempio sono su Instagram.
E Instagram non è un mezzo di distrazione? Sono stati i ragazzi che seguo a chiedermi di entrare in questo mondo perché è utile ai fini pastorali; abbiamo la pagina del nostro oratorio, l’account della pastorale giovanile diocesana e poi da un anno anche il mio personale, che gestisco insieme a loro. Mi interessa per lanciare sul web anche qualcosa di bello.
Può permettersi di coltivare dei vizi un prete? Sono un appassionato di LEGO e di Star Wars fin da bambino, così i miei amici per festeggiare i miei 30 anni mi hanno regalato un LEGO da collezione, il Millennium Falcon, esposto in casa come un trofeo. Do spazio al mio orgoglio, così per la musica, altro vizio che mi costringe a spendere soldi per un mega impianto auto ma anche per casa. Ascolto musica da discoteca, la stessa di quando frequentavo le superiori. Se mi limitassi a questo non sarebbe un problema, il vero cruccio non è lo sperpero di denaro, è che purtroppo finisce in fretta.
Un prete percepisce una retribuzione? A quanto ammonta? Abbiamo un piccolo stipendio che ci viene dato dalla Chiesa e il buon Dio è il nostro datore di lavoro. Percepiamo più o meno 900 euro al mese, legge stabilita negli anni ‘80 per omologare in Italia le disparità che c’erano tra Nord e Sud, quando se una parrocchia era molto ricca, il sacerdote percepiva un compenso alto, se invece si viveva da noi in Valle d’Aosta, in una valle sperduta, si faceva la fame. Inoltre, come per altri mestieri, si maturano gli scatti di anzianità, ogni tre anni; io sarò sempre don, modello base.
E come gestisci questo denaro? La differenza rispetto ai religiosi che fanno voti di povertà, castità e obbedienza, che non possono possedere nulla di loro proprietà e sono costretti a mettere tutto a disposizione del convento, è che noi possiamo spendere il denaro per bisogni personali, come fare la spesa, perché la casa ci viene invece fornita dalla diocesi. L’auto che possiedo è un dono dei miei genitori, da quando sono sacerdote faccio più o meno 30000 km all’anno nelle nostre valli e metà dello stipendio in realtà lo spendo in gasolio.
Hai anche una bella collezione di vini rossi Regali, la gente sa che i sacerdoti apprezzano il vino e noi possiamo sempre dire come vanto che il nostro è uno di quei pochi mestieri dove si “deve” bere!
Immagino che all’interno della coppa che usate durante la Messa non ci siano dei vini pregiati In realtà è un vino marsalato, un passito alto di gradazione, almeno 14-15 gradi perché la bottiglia rimane aperta un mese circa e si evita vada a male. C’è chi utilizza il vino rosso chi il bianco, si può scegliere, l’importante è che non sia estremamente trattato. Alcune diocesi producono il vino che usano per la messa secondo le indicazioni precise date dalla Chiesa.
Insegni religione ai bambini e segui il percorso spirituale di ragazzi universitari, oltre a fare Messa in sette parrocchie; qual è l’ attività che ti dà più gioia? Ti cito San Giovanni Paolo II che diceva: “Stando con i giovani si rimane giovani”. È una grande verità, sicuramente quella voglia di vivere che sprigionano da ogni poro è contagiosa ed arricchente, ed è per questo che da due anni e mezzo coordino tutte le attività dei ragazzi nella nostra valle. Ma anche la liturgia mi appassiona e per la maggior parte del tempo io sto in dialogo con le persone.
Cosa ti piace delle persone? Mi piace aiutarle a cogliere le bellezze che hanno dentro, far loro capire quanto si è preziosi e spiegare loro che non siamo qui per caso, esiste un disegno di amore dentro di noi, dentro quello che facciamo, anche nelle fasi difficili della nostra vita. Io sono solo uno strumento, mi sono ritrovato delle volte a non sapere cosa dire, come al funerale di un quarantenne, una giovane vita spezzata, o quando uno dei miei ragazzi di 12 anni ha perso la mamma. Cosa vuoi dire? Provo solo a portare un po’ di speranza in un mondo dove ce n’è estremo bisogno.
La cosa più brutta che ti potrebbe capitare? Vivere con tristezza le mie giornate, e in maniera triste le relazioni, non sapere perché alzarsi al mattino e non sapere per chi vivere, ecco quello mi spaventa, quindi faccio di tutto per cercare di rimanere vivo.
Che cosa consiglieresti a chi volesse intraprendere il tuo percorso? Di essere veri e circondarsi di persone che ti mettano di fronte alla verità come ad uno specchio, anche se scomoda. Vale lo stesso nelle coppie, essere sinceri e rispettosi è la ciliegina sulla torta delle relazioni, ma non è tutto, se quello diventa il tutto significa che non c’è altro da condividere.
Che cosa è il tutto? È stare uno di fronte all’altra, guardarsi con affetto, con tenerezza, con rispetto e quando uno si allontana, l’altra sceglie di andargli incontro, con la possibilità di “tenersi”, “riscoprirsi” ma mai possedersi. È un bellissimo gioco di equilibri.
A proposito di verità, cosa pensi delle polemiche a sfondo sessuale all’interno della Chiesa che molto spesso vengono taciute? Durante il pontificato di Benedetto XVI è esploso tutto, l’attuale Papa Francesco ha chiesto in tutte le diocesi del mondo di istituire un Ente per la tutela dei minori contro le violenze sessuali; i membri della comunità ecclesiale e i membri esterni aiutano il vescovo sia a gestire i casi e le situazioni problematiche sia a prevenire nella formazione. Ad esempio noi al centro estivo formiamo i maggiorenni sul sistema di comunicazione con i minorenni, quali sono gli atteggiamenti da evitare, comportamenti atti ad educare; evitiamo che nelle gite si dorma ragazzi e adulti insieme. Ci scandalizzano certe notizie, ma quello che vediamo e sentiamo è solo la punta dell’iceberg, il problema è la patologia di chi commette certi atti, e che purtroppo tira giù con sé, nel livello più basso dell’essere umano, persone innocenti, bambini, donne, gente fragile e in difficoltà. Grazie alle direttive di Papa Francesco oggi mettiamo tutto alla luce per permettere a chi ha commesso lo scandalo di capire.
E’ corretto dire che all’interno della Chiesa ci si sente in qualche modo un po’ protetti, motivo per cui i casi di abusi sono frequenti? In realtà l’ambito ecclesiale non è quello col maggior numero di casi, è solo quello che fa più rumore, perché è più scandaloso che il colpevole sia un sacerdote consacrato rispetto ad uno qualunque. Gli ambiti più a rischio sono invece le scuole, il mondo dello sport e le mura domestiche.
Cosa leggi? J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis, Gilbert Keith Chesterton, la scuola che cerca di trasmettere un messaggio esplicitamente cristiano; J.K. Rowling perché sono un grande fan di Harry Potter. Avendo una formazione tecnica ho avuto qualche difficoltà nello studio della filosofia e della teologia, anche se sono risultate subito affascinanti.
Quindi tu sei perito meccanico, ti aiuta questo? Moltissimo, soprattutto nei lavori manuali casa, faccio tutto.
E gli altri cosa fanno, perchè so che tu cucini… Gli altri mi sopportano, che è già tanto.
Descriviti con tre aggettivi Sensibile, egocentrico, empatico
L’egocentrismo non è parte della vanità? Dipende da come lo usi, il buon Dio elargisce doni e sta a ciascuno di noi sfruttarli al meglio, per cose buone. Io ne sono la testimonianza vivente, se non avessi fatto le esperienze che ho fatto, non sarei quello che sono, non riuscirei a essere accanto alle persone e alle donne con estrema empatia e trasporto.
Una curiosità, tra tutte le confessioni e i segreti che ascoltate, fate mai del pettegolezzo tra di voi? Una delle regole ecclesiali molto ferrea dice che non posso più esercitare il mio ministero e si è quindi scomunicati e sollevati da tutti gli incarichi quando si riesce a risalire alla persona vittima del pettegolezzo. In media confesso tre persone al giorno e una delle gioie più grandi dell’essere prete è quella di accogliere e poter alleviare le ferite. Noi abbiamo l’obbligo di confessione una volta all’anno, anche se io lo faccio una volta al mese, mi è utilissimo per mettere un punto, incontrare le mie miserie e combattere l’egocentrismo. Sbaglio come tutti, ma vengo perdonato, esperienza bellissima perché ci si sente amati a prescindere da ciò che si fa. Se non sbagliassimo anche noi preti, diventeremmo dei moralisti, il che non rientra affatto in quello che Gesù cerca di trasmettere.
Pensi mai alla morte? Si con serenità, e sperando di morire giovane, perché bisogna finire quando si è in crescita non come quei cori guidati da direttori che a 80 anni non sentono più e lasciano che la musica diventi deprimente e stonata. Vorrei lasciare all’apice, vorrei un finale col botto, però vedremo, tanto è il Signore che decide.
In Paradiso, è li che troverai la tua serenità? C’è un passo del Vangelo che dice che quando si fanno tanti gesti di amore, si coprono tanti dei propri peccati, uno dei modi che abbiamo per cercare di tappare i buchi delle nostre mancanze, cercando di amare tanto. Io ho provato questa strada.