“Be yourself; everyone else is already taken“. “Sii te stesso; tutti gli altri sono già stati presi” cita Oscar Wilde, e forse questo Wilde aveva ragione, l’unicità, ecco cosa rimane più del talento.
Quando uno scrittore arriva al cuore del pubblico? Quando un attore riesce a sfondare il muro invisibile che lo separa da chi l’ascolta? Quando una immagine trasmette l’emozione che ha provato la stessa mano che l’ha fotografata? Quando si arriva alla più alta forma di coraggio: l’essere se stessi; riconoscendo i propri limiti e sfruttandoli a favore, accettando i propri difetti concentrandosi sul migliorarsi, ma soprattutto arrivando ad una consapevolezza, che passa dalle radici, dal vissuto, da quello che ci ha riservato la vita.
In questo bellissimo ritratto del grande teatro napoletano, la storia mitica dei fratelli De Filippo, Sergio Rubini si sottrae alla penna registica per regalarci la storia, con grande rispetto e umanità.
Del teatro napoletano, che in fondo è la vita delle strade, con i suoi scugnizzi, il dialetto il cui suono fa simpatia anche a chi non lo comprende, i ruba caciotte, i malfattori, le donne matrone, le famiglie allargate, il modo tutto partenopeo di arrabattarsi, le abitudini culinarie, o ‘Vesuvio, Rubini ci racconta la nascita, il cui albero genealogico parte con Eduardo Scarpetta, commediografo di fine ‘800.
Un padre padrone Scarpetta, dall’etica discutibile (prolifera con la sorellastra e la nipote della moglie, da cui ebbe figli a cui non diede mai il cognome), pretenzioso di portare avanti i personaggi e le commedie comiche da lui ideate; con sé i figli impareranno l’arte del teatro, ma il rancore di chi è stato abbandonato e poi ripreso, forse non tacerà mai. Così Eduardo, Titina e Peppino, figli di Luisa, una delle tante donne sedotte dall’uomo più celebre di quei tempi, si lanceranno nell’ambizioso progetto di fondare la loro compagnia teatrale, quella dei fratelli De Filippo.
Rubini coglie l’intimità di quelle case, i litigi inevitabili tra fratelli, le piccole gelosie, i sotterfugi, le imponenti presenze delle madri che raccolgono i figli per dar loro una lezione importante, aiutarsi l’un l’altro. Lo fa anche con ironia, avvicinando il teatro alla settimana arte, con le scenette delle donne che cucinano il capitone che sviscera dalle mani, un piccolo intervallo che si consuma nel dramma, e con toccante sensibilità nei flashback dei fratelli, che da bambini giocavano a fare gli attori.
“Che cos’è il teatro? Gioie e dolori. È rubare dalla vita, una commedia dove il pianto e la risata sono ammogliati…”.
“Ti sei arrubbato l’arte“, confida un giorno il mito Eduardo Scarpetta al figlio Eduardo De Filippo, quasi sottovoce, come una sofferta forma di ammissione. Se la prima stesura di un testo in giovane età di Eduardo figlio, poteva essere una qualche forma di eredità, il successo che invece ebbe il trio De Filippo alla morte del padre biologico si può chiamare vera e propria rivalsa, il paziente e sofferto e meritato riscatto.
La povertà, gli stenti, i fischi, Rubini non tralascia niente del sipario De Filippo, né i risentimenti e le umiliazioni che i figli mai riconosciuti dovettero subire, compreso il nutrirsi degli avanzi della “famiglia pubblica” e l’impossibilità di usare il loro ascensore, lusso di inizi ‘900.
Una Napoli presente anche sui volti degli attori del cast, dalla naturalezza di Biagio Izzo nei panni del figlio Vincenzo, all’autoritario Giancarlo Giannini (nei panni del capotribù) che diventa cittadino d’Italia in ogni dialetto che interpreti, nella rassicurante madre del branco Rosa De Filippo che ha il volto di Marisa Laurito, alla grande interpretazione di Anna Ferraioli Ravel nei panni di Titina. Mario Autore e Domenico Pinelli, i due fratelli De Filippo, sono le pagine bianche sopra cui Rubini scrive il grande dramma, che non è solo quello di una famiglia disgregata, che dove sta il successo ce lo si aspetta, ma quello della vita vera, delle piccole grandi difficoltà di tutti i giorni. Ha a che fare con l’educazione, con il rispetto, con la fratellanza, con i sogni e l’amore; e sono tutti i colori che trovate in questo piccolo capolavoro che ha visto la luce dopo sette anni di gestazione.
Il film ha ottenuto 5 candidature e vinto un premio ai Nastri d’Argento, 6 candidature e vinto un premio ai David di Donatello.
“Napoli è un teatro all’aperto, il popolo è una compagnia in cui ognuno recita una parte, una caricatura. E lo fa lasciandosi guardare.”
Interview Miriam De Nicolò Photography Marco Onofri
Qual è la caratteristica più apprezzata di un artista? Fosse la naturalezza, Andrea Bianconi vincerebbe l’oro. La genuinità (quasi infantile), pare l’abbia conservata in una scatola dall’infanzia per farne uso nella sua quotidianità adulta di artista e perfomer; Andrea Bianconi lavora sull’essenza del linguaggio e della (ir)razionalità umana. Dove andiamo? Qual è la nostra direzione? Cosa ci piace? Perché parliamo? Perché viviamo? Chi siamo? Sono solo alcuni dei quesiti che nella ricerca ossessiva l’artista si pone, una indagine personale che parte dalle (dis)sezioni dantesche Inferno, Purgatorio, Paradiso con “Fantastic Planet“, installazione del 2018 esposta al Centro Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia, dove le frecce, simbolo di direzione (dove stiamo andando?) formano paesaggi immaginari scuri e cupi ma che lasciano uno spiraglio di luce, la salvezza verso un potenziale Paradiso.
Un mondo bianco simbolo di libertà, espressiva, spirituale, umana, quella libertà che Bianconi rappresenta attraverso lo spazio, fedele alleato del viaggio immaginario e reale del personale “Fantastic Planet”. Nel 2018 catalizza l’attenzione dell’ONU, nella sede del quartier generale del Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra, facendo strillare contemporaneamente 25 sveglie nella performance “Time to ring“, monito al rispetto del Pianeta e della situazione ambientale. Arriva nel 2020 la pubblicazione di “Diario di un pre-carcerato”, uno stralcio reale dei giorni precedenti la performance al Carcere di San Vittore, dove l’artista porta “libertà”. L’installazione prevede delle gabbie appese di fronte ai cancelli, chiaro rimando alla situazione carceraria, intonando insieme alle detenute, che diventano parte dell’opera, una filastrocca attraverso cui liberare i propri desideri.
Ma è l’ultimo progetto di Bianconi a contaminare l’Italia intera, SIT DOWN TO HAVE AN IDEA, l’iconica poltrona che ha toccato tutte le più importanti città del Bel Paese, arrivata fino alla vetta più alta delle Piccole Dolomiti; “Spedizione Cima Carega” è l’installazione permanente che permette a chi vorrà raggiungere quelle alture, di godere non solo del panorama, ma della fortuna di poter ottenere l’IDEA che questo oggetto magico può donare.
Siamo sotto i portici di San Luca a Bologna, Patrimonio Unesco, i più lunghi del mondo, 4 km concepiti come percorso devozionale di pellegrinaggio e divenuti una palestra a cielo aperto. La poltrona nera è al centro e Andrea Bianconi si esibisce in un rito propiziatorio: “Esci Sole, Sole Esci“, muovendo le mani come un mago davanti al cilindro, “Esci Sole, Sole Esci” concentrato verso l’alto, e quando il Sole è finalmente venuto in nostro soccorso per la foto perfetta, sorride fiero come quando da bambina raccontavo d’essere una strega mostrando ai compagni di classe un anello con una pietra viola, dentro cui ci si poteva specchiare, come fosse la prova della mia appartenenza al mondo mistico. La fierezza di chi è convinto che il Sole sia uscito a suo comando. E così Andrea Bianconi dimostra di avere potere. Il potere dei bambini.
Gli esordi della tua opera artistica? Era il 1997, studiavo giurisprudenza e condividevo casa con altri 4 ragazzi, uno di questi appese un quadro che mi disturbava moltissimo, rappresentava un paesaggio banale, ma era invalidante per i miei occhi, così decisi di crearne uno io, immaginario. Da allora non ho mai smesso di disegnare e ho capito anche la grande importanza del colore.
Che cosa hai provato quando hai disegnato il tuo primo quadro? Libertà totale, una felicità che arrivava fino alla punta del capello, sentivo la testa ballare. Avevo vent’anni, l’età dell’onnipotenza, un giorno chiesi ad un signore: “Ma se volessi diventare famoso?” Mi rispose che avrei dovuto fare un monumento. E lo feci, due anni dopo, per la città di Arzignano. Si chiama “La scatola della realtà” ed è dedicato a los desaparecidos.
La gabbia è un oggetto ridondante nei tuoi lavori, era già dentro di te? Sì, era già desiderio di evasione.
C’è un po’ di follia in tutto il tuo percorso creativo? Tantissima follia e tantissima coscienza, che dall’alto controlla.
Come descriveresti il tuo stile? In continua trasformazione.
Che cosa vuoi raccontare attraverso l’arte? Indago le connessioni, la relazione tra l’uomo e le altre energie, la relazione tra l’uomo e il potere, che ho cercato di esprimere attraverso la performance “Time to ring”, la relazione tra la stupidità e l’essere umano descritto nel mio ultimo libro “Manuale per esercitare la propria stupidità”, edizione Skira.
E cosa hai scoperto dell’essere umano attraverso queste ricerche? Che ogni essere umano viaggia verso una direzione.
Se fossi un simbolo? Sarei una freccia, un simbolo universale. Indica una direzione, perché il nostro sguardo ha una direzione, il nostro respiro, il battito del cuore, il linguaggio, un gesto, bere una tazzina di caffè, il sorgere del sole, il tramonto, una foglia che cade, un fiore che nasce, la nostra stessa vita ha una direzione, come il nostro credo, i nostri passi, i nostri pensieri, le idee, i sogni e desideri. Io sono una direzione tra mille direzioni.
Come vedi gli altri? L’Altro è per me non solo indispensabile, ma vitale. Cerco nell’altro una potenziale connessione, vivo con l’Altro l’imprevisto entrando in culture e pensieri nuovi, diversi dai miei, che possano in qualche modo illuminarmi. Vivo dell’altro gioie e tristezze. L’Altro diventa la mia performance.
Bologna è come una donna sincera, con i seni morbidi, il sorriso aperto, i modi semplici e il fare bonario. Non si nasconde, non recita, è buona come le sue infinite e caotiche trattorie. Ci da’ sempre l’occasione di arricchirci di quelle sensazioni profonde che non danno né i quadri nè gli oggetti, ma la vita stessa. Le potete percepire nei vicoli natalizi che agitano la città, tra la folla allegra in cerca di regali, i turisti appaesati, nelle osterie tradizionali dove l’oste si premura che stiate bene, abbiate mangiato meglio e vi siate riparati dal freddo invernale con un buon piatto di cappelletti in brodo.
Forse ci somigliano un po’ tutti se queste piccole coccole ci alleviano i dolori, e in queste piccole gentilezze, Bologna ci regala degli appuntamenti assolutamente da non perdere, quattro tappe in città da raggiungere a piedi.
LA MOSTRA DI VIVIAN MAIER A PALAZZO PALLAVICINI Dal 07 settembre 2023 al 28 gennaio 2024 in via San Felice 24
La mostra di Vivian Maier a Palazzo Pallavicini ci racconta l’architettura urbana tra New York e Chicago negli anni ’50-’60, l’eleganza delle auto e dei costumi, le abitudini e le mode. La “bambinaia fotografa”, così l’hanno soprannominata quando le sue pellicole furono ritrovate in scatoloni nascosti e accumulati in un box dimenticato, ci svela tutta la bellezza della stranezza, negli scatti delle periferie abitate da prostitute, senzatetto, giganti buoni che guardano una vetrina insieme ad un amico “ordinario”, tanto da ricordare Diane Arbus e la sua ricerca amorevole dei “freak“.
La strada era il suo teatro di posa, non c’è immagine che risulti banale, ogni composizione è scelta per caratterizzare il soggetto, un dettaglio, un gesto, una coppia che si tiene per mano, un bianco che offre delle monetine ad un nero, un edicolante assonato, una coppia di amiche con un collo di pelliccia in volpe un poco macabro, un’elegante signora che guarda lontano. Tutto ci parla con intensità della sua visione del mondo; lo fa senza giudicare, avvicina solo un poco lo sguardo attraverso la sua macchina fotografica, per farci guardare meglio, ma sempre con estrema delicatezza.
Anche nei tagli netti, Vivian Mayer riesce a cogliere il cuore del momento, come nella foto datata 18 settembre 1962 dove una bambina di bianco vestita tiene per la gonna la madre dal tubino nero e le décolleté a spillo. La Mayer qui sceglie di tagliare i volti e concentrarsi sul bianco candido della piccina e il nero serioso della donna, mettendosi all’altezza dei più deboli, di chi necessita di attenzioni e conserva ancora la purezza dell’età.
Credo che con l’avvento del colore e l’utilizzo della Leica (siamo nei ’70), Vivian Maier abbia forse un po’ perso quell’intensità e quella crudezza dei primi tempi in bianco e nero; forse qualcosa è cambiato anche nella sua vita, anche se sul suo conto sappiamo poco o nulla, a parte il suo mestiere di bambinaia che le permetteva di acquistare pellicole e viaggiare parecchio insieme alle famiglie, e che era diventata un’accumulatrice seriale di giornali che trattavano tematiche sociali, politiche, ma soprattutto di cronaca nera. Pile e pile di quotidiani furono ritrovati nelle stanze dove viveva, e altrettante scene del crimine furono immortalate nelle sue fotografie e nei brevi video che in questa mostra troverete.
Il lavoro di Vivian Maier rimane comunque un mistero, qualcuno ancora pensa che sia una trovata di marketing fatta dallo scavatore d’oro di questa artista meravigliosa, ma i suoi autoritratti ci parlano di una donna in carne ed ossa, che ha rinunciato alla maternità per dedicarsi tutta una vita ai bambini degli altri, e che con grande generosità ci ha regalato immagini di un’epoca che possiamo vivere attraverso i suoi occhi, di una New York degli invisibili, di una street photography che ha potenza, ironia, evocazione, allusione, come quel profilo d’uomo col cappello nero, che tiene in mano un giornale da cui si legge solo “Killers”.
GUERCINO Pinacoteca Nazionale di Bologna 28 ottobre 2023 -11 febbraio 2024
Dopo quasi un secolo di studi dedicati alla figura di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, l’esposizione della Pinacoteca Nazionale di Bologna intende fare luce sulle straordinarie doti imprenditoriali, tecniche e organizzative che, sin dalle prime fasi della sua attività, lo portarono a strutturare un atelier prolifico, caratterizzato da complesse dinamiche professionali che rispondevano alle esigenze del collezionismo e del mercato artistico.
Nato a Cento nel 1591, il Guercino studiò dapprima con Benedetto Gennari senior e poi completò la sua formazione tra Modena e Bologna, entrando in contatto con specialisti della pittura murale e con rinomati esponenti della scuola bolognese, tra cui Ludovico Carracci col quale ebbe un rapporto di reciproca stima. Dopo il soggiorno a Roma (1621-1623) su invito di papa Gregorio XV Ludovisi, che ne ammirava le straordinarie abilità di decoratore e la maniera sprezzante e robusta, la fama del Guercino crebbe e, con essa, anche la mole di lavoro che lo portò a organizzare il suo studio come un’azienda familiare e a disciplinare il lavoro dei suoi assistenti, tra i quali vi erano i Gennari e il fratello Paolo Antonio, ognuno con un preciso compito, artistico o gestionale. Dal 1642 fino alla morte avvenuta nel 1666 il Guercino visse con i suoi familiari nella grande casa studio di via Sant’Alò 3, in cui l’abitazione privata e gli spazi professionali coincidevano.
In una delle sale, sotto una grande teca, è esposto il Libro dei conti (1629-1666), uno strumento insostituibile nello studio del Guercino, che consente di ricostruire con precisione l’attività dell’artista tra il 1629 e il 1666, anno della sua scomparsa. Grazie al prezioso registro è possibile mettere a fuoco la clientela dello studio, la tipologia delle opere prodotte – oltre che dal Guercino anche dal fratello Paolo Antonio Barbieri – e le variazioni dei prezzi nel corso degli anni. L’ultima nota, stesa da Benedetto Gennari il 22 dicembre 1666 ricorda la scomparsa del celebre pittore e la sua importante eredità: “II Sig. Zio Giovanni Francesco Barbieri terminò i suoi giorni, e le sue gloriose fatiche lasciando in tutte le Città d’Italia, et anche fuori memoria eterna della sua Virtù, come della sua bontà e delle sue facoltà ne lasciò Heredi noi Benedetto, e cesare Gennari suoi nipoti”.
Di particolare pregio, il dipinto “Ortolana” del 1655, ci introduce al tema delle specializzazioni praticate nello studio: Paolo Antonio è l’autore del brano di natura morta, con i commestibili investiti da un lume che ne rivela le consistenze e indugia sul sottile pulviscolo delle prugne, riverse accanto alla stadera della venditrice, che fu eseguita in un secondo momento dal Guercino. La tela è ricordata in termini elogiativi da Carlo Cesare Malvasia (1678), che informa della sua originaria collocazione nella villa suburbana dei Ludovisi a Roma, dove giunse dopo essere stata acquistata dal marchese Achille Albergati nel 1655.
Il dipinto “San Giovanni Evangelista” del 1653 circa raffigura il santo mentre sorregge un calice da cui esce un serpente, rievoca l’episodio secondo cui l’apostolo avrebbe bevuto del vino avvelenato rimanendone incolume. La luce, proveniente da destra, illumina i lineamenti delicati del giovane e produce riflessi sulla lamina dorata del calice che acquista un efficace effetto prospettico. Gli allievi del Guercino riproporranno, in quadri da stanza e mezze figure, la partecipazione emotiva e l’intimo raccoglimento espressi in questo dipinto, esposto per la prima volta in un museo.
Santa Maria Maddalena e San Paolo Eremita rispettivamente del 1652-1655 erano parte di una serie di quattro dipinti che il Guercino, secondo quanto tramanda Carlo Cesare Malvasia, che avrebbe eseguito per arredare la sua casa bolognese in via Sant’Alò. Esemplari dell’attività tarda, le opere testimoniano il perdurare dell’interesse per il paesaggio a cui il pittore concede un ruolo predominante. I toni accesi e contrastati della fase giovanile si trasformano in delicate tonalità pastello, testimonianza del rinnovato interesse classicista stimolato dall’incontro con la pittura di Guido Reni, il cui approfondimento avvenne col trasferimento del Guercino a Bologna nel 1642.
IRIDE Via Caduti di Cefalonia, 2/d
C’è una parte del nostro corpo che vede ma che noi non possiamo guardare realmente da vicino. I nostri occhi. Che osservano e indagano, ma che lo specchio non riporta fedelmente. Di questo misterioso mondo che è l’iride, nello studio Limbo Gallery di Bologna, sito in via Caduti di Cefalonia, potrete ottenere l’immagine ingrandita, nelle sue infinite sfumature, colori che non avreste immaginato, figure astratte e lapilli, aurore boreali, crateri e lune. L’iride diventa una vera e propria opera d’arte, e con un piccolo servizio aggiuntivo, potrete richiedere anche la lettura ad una iridologa legata al progetto; sì perchè se è vero il detto che “gli occhi non mentono”, l’esperta leggerà lo stato di salute dei vostri organi interni, fegato, reni, stomaco etc. e alcuni tratti del vostro carattere, similmente allo studio della fisiognomica.
OPERA UNICA Via Caduti di Cefalonia, 2/d
In Via Caduti nel centro storico di Bologna, Marco Onofri ha fondato il progetto “Opera Unica“. Non solo per nostalgici, Opera Unica è un bellissimo regalo che potrete fare a voi stessi o alla vostra famiglia, un ritratto intimo in bianco e nero, una foto stampata che vi racconta senza filtri, attraverso gli occhi di un fotografo che fa della gentilezza la sua firma. Marco Onofri riesce davvero a catturare quel tratto che cercate di nascondere e che in fondo, come spesso succede, vi rende invece speciali, unici. Uno sguardo malinconico, un sorriso spontaneo, un accenno di timidezza, Opera Unica sarà il ritratto onesto e fedele a voi stessi, che potrete portarvi a casa subito, scegliendo i diversi tipi di stampa.
Da Opera Unica i ritratti di famiglia accolgono anche i vostri amici a quattro zampe, simpatici cagnetti pelosi che negli scatti ricordano le ironiche immagini di Elliott Erwitt, il grande fotografo statunitense che ci ha lasciato il mese scorso. Momenti di grande ilarità, divertimento e grande commozione, da Opera Unica vivrete un’esperienza, unica.
Milano non si ferma mai, è come quegli androidi di Alien che fanno tutto il lavoro ininterrottamente, giorno e notte, mentre gli altri, gli esseri umani, riposano. Ma a differenza loro è buona, perchè ci regala un’altra settimana dedicata a cosa? Al disegno. Dal 25 novembre al 3 dicembre, potrete godere dei capolavori di artisti del XX secolo, parte della Collezione Ramo che ne conta ben 700, presso le migliori gallerie di Milano, gratuitamente.
Tra un caffè in centro e una passeggiata per negozi, avrete l’occasione unica di vedere da vicino quello che rimane custodito con cura maniacale e certosina, in caveau dedicati, i disegni di Umberto Chiodi, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni, Alighiero Boetti, etc… selezionati per l’occasione da artisti emergenti, che avranno l’onore di accompagnare la loro opera a quella del loro idolo, mentore, maestro.
Accompagnati dalla curatrice della MDW, Irina Zucca Alessandrelli, abbiamo iniziato il percorso dal Museo di Storia Naturale, dove espone l’artista francese Mad Meg, con opere su carta di due metri e mezzo, una collezione intitolata “Patriarchi”, una denuncia dell’uomo maschilista. Sono giganti insetti travestiti da uomo, e accomunati da comportamenti bizzarramente simili, come l’impollinatore che identifica la figura femminile come mera incubatrice; o il cercatore d’oro con la testa di mosca, che riprende una vecchia fotografia di Bernard Otto Holtermann che nel 1872 trovò nella sua miniera la pepita d’oro più grande del mondo; uno sfottò alla smania ossessiva di ricchezza, che viene paragonata allo sterco cui la mosca si avvicina.
I disegni di Mad Meg sono realizzati a pennino e china, con una esposizione del particolare fatto con incredibile minuzia; le opere sono messe inoltre in relazione alle specie catturate dalla sezione entomologica del Museo di Storia Naturale, in accordo con i protagonisti della serie d’artista; sono insetti stecco giganti della Malesia, bruchi, crisalidi, lepidotteri notturni adulti, impollinatori come il bombo comune, l’ape legnaiola, l’ape domestica o da miele con esemplari di tutte le caste (regina, fuchi e operaie) e alcuni frammenti di favi, mosche della famiglia delle Sirfidi e alcuni tra i coleotteri più ricercati dai collezionisti, i carabi e le cicindele.
Mad Meg sceglie “Studi per archeologi” di Giorgio de Chirico dalla Collezione Ramo, per la terza esposizione della Milano Drawing Week, un’opera che riprende i concetti della grecia classica e dei manichini, esordio dello studio della pittura metafisica, affascinata dal modo che de Chirico ha di rappresentare gli spazi mentali e le allegorie del XX secolo.
“Studi per archeologi” di Giorgio de Chirico
“Patriarchi” di Mad Meg
Proseguendo il giro, alla Galleria Tiziana Di Caro, sita in Via Gioacchino Rossini 3, l’artista Luca Gioacchino di Bernardo all’interno della sua personale, sceglie dalla Collezione Ramo, l’opera di Gianfranco Baruchello, l’artista che cercò per tutta la vita l’interscambiabilità tra natura e arte. Fondò l’Agricola Cornelia spa, dove svolgeva attività di agricoltore dedicandosi alla terra, all’allevamento di bovini e ovini, dove il silenzio di una stanza d’artista era necessariamente interrotto dall’urgenza di un parto di una vacca. E nel seguito lo si vedeva ritornare con un pennello in mano, a disegnare l’opera che aveva appena vissuto sulla propria pelle.
“Ho scelto “Skizo corpus philosophica” poiché trova riscontro con una mia tutt’ora viva ricerca tra la stretta comunanza archetipica tra l’albero e la figura umana.” racconta Luca Gioacchino di Bernardo, attorniato dalle nodose radici dei suoi disegni che nascondono codici indecifrabili, espressioni, frasi oniriche. Radici portate alla luce e vivisezionate come corpi, una specie di radiografia che sembra più rivolta a se stesso che ad un oggetto preso in prestito.
“Skizo corpus philosophica” di Gianfranco Baruchello
Luca Gioacchino di Bernardo
Nella Galleria Renata Fabbri di Via Antonio Stoppani 15/c, troviamo il colore di Serena Vestrucci che, attraverso l’uso del pennarello e della forza che impiega nel colorare su carta, indaga l’aldilà. Lo fa toccando il fondo, stressando la carta fino al punto di rottura. Cosa troveremo al di là del foglio? Cosa si cela dietro un gesto ripetuto, ordinario, superficialmente banale del colorare? La risposta è incorniciata accanto all’originale, il retro si mostra di fianco al davanti, il mistero vicino al reale, l’ignoto accanto a ciò che ci aspettiamo. Ed è questo ignoto che ha colpito l’artista nella scelta de “I vedenti- Eterno dilemma tra contenuti e contenitori” di Alighiero Boetti, che per tutta la sua vita artistica ha ricercati l’aspetto del vedente e del visibile, anche attraverso quest’opera dedicata ai vedenti colpiti da cecità, per alludere a chi non lo è.
“I vedenti- Eterno dilemma tra contenuti e contenitori” di Alighiero Boetti
Serena Vestrucci “Toccare il fondo”
Nello studio di architettura e spazio espositivo indipendente, Spazio Lima, l’installazione unica di Benni Bosetto che ricopre le pareti come carta da parati. Ripetizioni di immagini, corpi e simboli elusivi, segni grafici come codici e linguaggi nascosti, perfettamente coesi con la ricerca verbo visuale di Tomaso Binga, scelta da Collezione Ramo per questa edizione MDW con “Dattilocodice” tavola n.13 del 1978.
Bianca Pucciarelli Menna, la vera donna che si celava dietro il nome d’artista Tomaso Binga, per facilitarsi un percorso artistico al tempo chiuso al mondo femminile, lavora da sempre con la parola scritta desemantizzata, lettere che mescolate insieme, scritte l’una sull’altra, danno vita ad codice nuovo, lontano dal significato corrente che invece distrae, per riappropriarsi interamente della propria identità.
Benni Bosetto
“Dattilocodice” tavola n.13 di Tommaso Binda
Chiude il nostro primo viaggio, il dialogo inedito tra i due Boccioni al Castello Sforzesco.
“Controluce“, opera della Collezione Ramo che l’artista in vita espose ben due volte, la prima con la famiglia artistica di Milano nel 1910, e la seconda nell’estate dello stesso anno presso Palazzo Pesaro a Venezia, fu dapprima proprietà della nota intellettuale e critica d’arte Margherita Sarfatti.
Sullo sfondo, la periferia cittadina, in primo piano, una giovane donna dall’amabile sorriso, avvolta da uno scialle che le accarezza una guancia, e da una luce che penetra la figura e la inserisce, fondendola, con l’ambiente circostante. Trattasi della svolta futurista della compenetrazione dei piani, qui ancora con un tratto a grafite divisionista, ma vicinissima al percorso stilistico che toccherà Boccioni, visibile nei capolavori affiancati de “La madre seduta con le mani incrociate“, 1911 e 1912 appartenute a Collezione Ramo e al Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano la seconda.
E’ un’occasione unica di poter vedere per la prima, e forse unica volta (chissà), due capolavori affiancati che hanno generato la rivoluzione futurista.
Terza edizione A cura di Collezione Ramo Da sabato 25 novembre a domenica 3 dicembre 2023
All’interno di uno storico palazzo milanese, dove la libreria che tocca gli alti soffitti è firmata dal celebre architetto Eiffel, nasce la Milano Drawing Week. L’intento è quello di dare il giusto valore al disegno italiano, ancora ahinoi troppo sconosciuto, troppo poco esposto, troppo poco stimato. Sono decenni ormai che la Collezione Ramo acquisisce opere su carta degli artisti del ‘900, custodendoli con cura amorevole in un caveau gestito da una conservatrice, disegno per disegno, foglio per foglio, tra veline e dentro apposite cartellette realizzate con materiale da conservazione, perchè la carta è un materiale delicato, fragile, sensibile alla luce e all’umidità. Questi disegni riposano, prima di essere esposti nelle migliori gallerie (solo durante la Milano Drawing Week) e nei musei istituzionali di tutto il mondo; sono 700 in tutto finora, e avremo la fortuna di vederli incorniciati dal 25 novembre al 3 dicembre nella città di Milano per la Drawing Week, alla sua terza edizione.
Nove giorni all’insegna dell’arte, quella meno conosciuta del disegno con le sue infinite tecniche, in un viaggio totalmente gratuito perchè gli spazi sono a entrata libera (ad esclusione del Museo di Storia Naturale), riconfermando un legame che Collezione Ramo sente forte con la sua città, che vede coinvolgere anche due istituzioni civiche, il Castello Sforzesco e il Museo di Storia Naturale, e le dieci gallerie, Clima, Galleria ZERO…, Gió Marconi, kaufmannrepetto, Loom Gallery, Monica De Cardenas, OPR Gallery, Renata Fabbri, Spazio Lima e la Galleria Tiziana Di Caro, con sede a Napoli ma presente a Milano per la sola partecipazione alla manifestazione.
A.Boetti
Le opere degli artisti contemporanei scelti da Irina Zucca Alessandrelli, curatrice della Collezione Ramo, dialogheranno con le opere degli artisti italiani del xx secolo, creando così un mezzo nuovo per far conoscere il grande bagaglio culturale del nostro paese e metterlo in luce.
Perchè è meno considerata l’arte del disegno rispetto alla pittura o alla scultura? Irina Zucca Alessandrelli: Il tema centrale è il mercato, perchè in passato il disegno era anche concepito come bozzetto o come fase preparatoria di un’opera più grande importante di pittura o scultura e quindi è rimasta l’idea sbagliata che il disegno non possa essere un’opera d’arte autonoma. In secondo luogo, spesso gli artisti regalavano i propri disegni a chi comprava un quadro, e anche per questo storicamente hanno sempre avuto (ingiustamente) meno valore economico.
Ha un suo peso specifico la diffusione della cultura imposta da ciascun paese?
IZA: Sono solita chiedere alle persone qual è l’ultima mostra di disegno vista, e tutti rispondono nessuna. Quando vivevo a New York ed il Moma esponeva una mostra di disegni, la gente era invece entusiasta, perchè era qualcosa di speciale, unico, raro e mai visto. Esiste come una tara da cui bisogna cercare di liberarsi, c’è ancora tanto da fare, e la Milano Drawing Week sta mettendo un tassello in questo percorso
Umberto Chiodi
Quali sono le novità di questa edizione?
Si rinnova quest’anno la prestigiosa collaborazione con il Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco con un focus sui disegni prefuturisti di Umberto Boccioni. Partecipa invece per la prima volta il Museo di Storia Naturale che ospiterà la mostra di Mad Meg (Francia, 1976), artista che mette in dialogo il proprio lavoro su carta con un lavoro di Giorgio de Chirico della Collezione Ramo e alcuni esemplari entomologici della collezione museale. Un’artista interessante che disegna con pennino come facevano nel ‘700, china e porta inchiostro; crea opere da due metri e mezzo, e la mostra si chiamerà “I patriarchi”, una critica alla società maschilista, dove gli insetti vengono messi a confronto con i comportamenti umani.
Quali sono tutti gli artisti della Milano Drawing Week? John Bock, Umberto Chiodi, Luca Gioacchino Di Bernardo, Benni Bosetto, Vadim Fishkin, Juul Kraijer, Mad Meg, Valerio Nicolai, Adrian Paci, Brandi Twilley, Serena Vestrucci, in dialogo con quelle dei grandi maestri del secolo scorso Gianfranco Baruchello, Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Umberto Boccioni, Alighiero Boetti, Massimo Campigli, Alik Cavaliere, Betty Danon, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana, Piero Manzoni.
Boccioni
Avete introdotto anche un Premio speciale?
Sì, trattasi di un’altra importante novità di questa edizione, l’introduzione del Premio Milano Drawing Week, che verrà assegnato a uno degli artisti contemporanei presenti nell’edizione di quest’anno. Il Premio, sostenuto da Gruppo Censeo, consiste in un riconoscimento in denaro all’artista pari a €3.000 come incentivo per la continuità nella produzione su carta.
Quali sono gli eventi collaterali? Moltissimi, dal concerto con orchestra sinfonica dove un artista disegna sul palco insieme a tutti gli strumentisti, alla festa di apertura di sabato 25 novembre sera con djset e live drawing, dai laboratori didattici per ragazzi, a uno sketchmob.
Tutte le info dettagliate della Milano Drawinng Week a questo link.
Chissà perchè esiste ancora il preconcetto che la cucina vegetariana sia insapore, quando per natura le verdure sono forse tra gli ingredienti della cucina più saporiti, più caratterizzati da aromi, particolari sfumature dall’amarognolo della cicoria, alla nota minerale degli spinaci, alla tendenza dolce della zucca. Un pot- pourri per il palato che ha a disposizione centinaia di prodotti diversi, idratanti, ipocalorici, minerali, essenziali per una dieta sana ed equilibrata, soprattutto oggi che sempre più stiamo attenti a ridurre lo spreco, a sostenere l’ambiente, a tutelare la vita degli animali.
Su queste scelte etiche, c’è un nuovo indirizzo in città, GIARDÍ, il locale che propone una cucina veganaplant-based, in chiave golosa.
GIARDÍ ha aperto a Milano in Via Napo Torriani 3, in un locale sobrio dai toni caldi del legno e con un menu ricco di sapori al primo assaggio. Vi consiglio di iniziare con la Curry Bowl di verdure croccanti, riso nero, scarola, semi di zucca, continuare con il Uao Burger e la sua salsa Bbq che crea dipendenza, per poi lasciarvi sorprendere dalla Weekly chef’s special, una portata a scatola chiusa che oggi vi svelo essere una vellutata deliziosa di zucca, frutto di stagione.
GIARDÍ è il nuovo progetto di una coppia nella vita e nel lavoro, lo Chef Tommaso Coppola, esperienza decennale nella ristorazione, dalla stellata alle grandi catene, e Michela Rubegni, imprenditrice del settore marketing e comunicazione. Dopo un viaggio nella magica Barcellona, che ispira tutti colori capaci di cogliere la vera energia della città, influenzata anche dal grande architetto spagnolo Gaudì, il duo si cimenta in quello che è un grande messaggio ma anche una grande passione.
Coerente anche la mise en placeinteramente compostabile monouso, e ovviamente un servizio proteso alla città che corre, talvolta obbligata ad un fast food ma che non rinuncia a mangiare bene.
Il gusto c’è, il messaggio pure, non resta che provarlo!
“L’abito non fa il vino“ è il proverbio che si potrebbe coniare dopo la collaborazione tra Caseo, azienda vinicola e Santè Couture, brand di abbigliamento. La partnership nata per vestire letteralmente le bottiglie di vino. Non una glacette, ma un abito, una gonna, una camicia da abbinare eventualmente alla mise en place; le iconiche camicie Santè Couture, abbottonate anarchicamente a caso, o la loro firma a plissé delle gonne genderless, una stramba accoppiata che certamente fa parlare, perchè eravamo abituati a vestire le bambole da piccine, ed oggi potremmo tornare a giocare da adulte scambiandoci gli indumenti per il vino a tavola.
Irriverente questa collaborazione tra la Tenuta Caseo dell’Oltrepò Pavese della storica famiglia Tommasi e il nuovo marchio moda fondato da due giovani stilisti veronesi, Anna Michelotto e Mattia Tirapelle, che certamente di vino se ne intendono. Una capsule collection che conta solo 100 bottiglie ed è in vendita sul sito ufficiale. Vestiamo bambole, vestiamo in nostri cani, da oggi vestiremo anche il nostro vino, nelle tre versioni Caseo Metodo Classico:
Il primo, un classico per iniziare o per un welcome drink, il secondo, una eccellenza del territorio e della forma più elegante di bollicine, e un rosè per colorare le tavole e dare il benvenuto ad un nuovo modo di comunicare, che Tenuta Caseo ha certamente abbracciato.
“Siamo fedeli alla tradizione e rigorosi nella tecnica solo in vigna e in cantina!” afferma Giancarlo Tommasi, direttore tecnico di Tommasi Family Estates. “L’Oltrepò Pavese è una regione da riscoprire e rappresenta una nuova opportunità di mercato e per il Made in Italy sia per il territorio meraviglioso sia per la qualità dei vini prodotti, in particolare il Pinot Nero. La personalità di Caseo è irriverente, fuori dagli schemi, per certi versi dissacrante. Un’attitudine non convenzionale che sonda nuovi contesti e si rivolge ad un pubblico giovane. Un’anima che si immerge e si intreccia in modo fluido nel mondo dell’arte, della moda, e dell’estetica con l’obiettivo di scardinare i preconcetti e sondare nuovi linguaggi ed espressioni. Con questo progetto vogliamo che il vino parli in chiave contemporanea e creativa. Come un ready-made dadaista, l’oggetto viene estrapolato dal suo contesto originario perdendo ogni funzione pratica. Il vino “vestito” si eleva a divulgatore di nuovi significati, valori e tendenze. Indossando le creazioni di Santé Couture, Caseo sfida le norme di genere, sostiene l’inclusività e l’espressione di sé, senza curarsi dei pregiudizi, mantenendo la propria identità e suggerendo occasioni di consumo originali“.
Genius non è solo un film sul grande scrittore Thomas Wolfe o sul grande editore Maxwell Perkins, Genius è un film che parla di una grande amicizia, quella di una penna eccellente che ha ispirato scrittori della Beat Generation come Kerouac e del primo grande editor degli autori, lo scopritore di Hemingway, Fitzgerald, Wolfe e Caldwell.
Cos’è l’amicizia se non la scoperta di avere al mondo qualcuno con cui poter parlare la stessa lingua, un’anima simile che può comprendere i tuoi umori, assecondare i tuoi gusti ed esaltarli, scoprire in te le qualità più nascoste ed elogiarle, uno spirito neutro a cui poter confidare i tuoi più intimi segreti e gli stessi occhi con cui guardare le luci di un palazzo che si accendono la notte, commuovendosi per l’immensità e la potenza della vita?
E’ questo il tipo di amicizia che ha legato due grandi uomini del ‘900, in un’America fatta di sogni e speranze, di grandi autori distrutti, di vite spentesi troppo presto.
Se il genio sregolato di Thomas Wolfe non aveva mai avuto alcun amico al di fuori del suo editore, Perkins era invece noto per la sua cordialità e l’affabilità con cui trattava i suoi protetti; un legame nato sull’onda della voracità della parola. Wolfe sempre con la penna in mano a scrivere fiumi di righe, Perkins totalmente dedito al mestiere e dentro le storie che andava via via leggendo, tanto da dimenticarsi di togliere il cappello a tavola.
Chi ha aiutato l’altro? Wolfe ha dato a Perkins un grande libro da vendere, Perkins ha dato a Wolfe una carriera, la realizzazione di un sogno, la visione d’insieme che sono i libri sul mercato, fatti non solo di un unico pugno, ma della maestria di una figura che sta nel backstage, per l’appunto l’editore. Un editore che taglia, che lima, che strappa parole che hanno fatto male nel venir fuori, che “arrivano dalle budella” come dice lo scrittore nel film di Michael Grandage, ma che grazie al rimodernamento di un professionista, diventano dei bestseller.
Genius è un bel film, non solo per l’eccellenza attoriale di Colin Firth (Max Perkins), che ha anche il dono di avere un viso amabile, ma perchè ci ricorda che esistevano (ne esistono oggi? Forse un paio) ancora degli editori interessati all’arte, alla letteratura, alla forza della parola, alla speranza che un libro potesse cambiare i pensieri, e modellare le anime oggi domani e nei secoli a venire. Oggi le grandi case editrici si sono date al gossip e all’influencer marketing. Cosa insegnamo, cosa impariamo, cosa ci rimane di tutta questa carta straccia? Dove sono i nuovi Roth, le piccole Plath?
Genius è un film del 2016 diretto da Michael Grandage con Colin Firth, Jude Law e Nicole Kidman
Avete mai pensato a cosa state mangiando, mentre accompagnate il cibo alla bocca? Vi siete mai soffermati su quanto, a lungo andare, possa fare bene quell’alimento o possa, nonostante il gusto, nuocere alla vostra salute? Avete mai fatto ricerca sui paesi più longevi del mondo? E vi siete chiesti qual è la loro dieta? Se siete dei pigri, o non vi siete mai posti certi quesiti, c’è chi lo ha fatto per voi, raccogliendo tutta una serie di ricerce scientifiche e stabilendo la dieta ottimale per vivere più sani e più a lungo. Sembra un programma di Rosanna Lambertucci, e invece è il motto di Blue Taste, il nuovo bistrot milanese che ha a cuore il vostro cuore.
Blue Taste non è la patria del vegan, non è luogo di meditazione e digiuno a intermittenza, qui si mangia, ma lo si fa non solo con lo stomaco, anche con la testa! Con una scelta equilibrata dei piatti, incentrati sulla materia prima di ottima qualità (amen), sulla scelta di cotture che preservano i principi nutritivi, e sulla riduzione di spreco. E per chi come me crea una ricetta con le ultime cose rimaste nel frigo a far l’eco, è una bellissima notizia.
Ma cosa sono le BLUE ZONES a cui Blue Taste si rifà? Sono i 5 luoghi del pianeta in cui si concentrano il più alto numero di centenari rispetto alla media mondiale, zone in cui la speranza di vita è quindi più elevata.
E quali sono le BLUE ZONES? Sardegna (Italia), Icaria (Grecia), Okinawa (Giappone), Nicoya (Costa Rica) e Loma Linda (California).
La cosa veramente interessante, non è la scelta ipocalorica, la predilezione di frutta e verdura, il continuo movimento fisico, ma quello che aumenta l’aspettativa di vita e beneficia sulla salute, è la “condivisione” in forme differenti. Cosa significa? Tutte queste comunità vivono in simbiosi con l’altro, mangiano insieme, si incontrano spesso dopo il lavoro per creare e approfondire relazioni, creano legami profondi, si dedicano all’altro e alle religioni (come nell’area californiana, comunità avventista di Loma Linda, che mai avremmo pensato di trovare in questa lista, abituati al fast food americano).
“Percorro tra le sei e le otto miglia al giorno, eccetto durante il sabato sacro.La maggior parte dei miei amici è morta. Mio marito è morto. Ma mi piace parlare con le persone. Il mio motto è: ‘Uno sconosciuto è un amico che non abbiamo ancora incontrato‘”
— Marge, centenaria di loma linda in “The Blue Zones” di Dan Buettner
Blue Taste omaggia il saper vivere e propone un menu dove proteine nobili, grassi sani, vitamine e antiossidanti, fanno da padrone; privilegia la cottura sous-vide (cottura sottovuoto a bassa temperatura) e l’impegno zero-waste.
Non le classiche bowl! Eleganza nell’impiattamento, eleganza nel gusto, consiglio vivamente il polpo che si scioglie letteralmente in bocca e il salmone mango e finocchio, sapori che non vi aspettereste da piatti così semplici e sani.
I ragazzi di Blue Taste, un gruppo di amici appassionati, hanno inserito per gli amanti della bevanda del dio Bacco, una selezione accurata di vini bio e naturali, perchè anche nelle blue zones, un calice al giorno toglie il medico di torno.
Blue taste è il nuovo bistrot nel cuore di Milano, punto di riferimento dello star bene, dove trovarsi con gli amici per un calice di vino all’ora dell’aperitivo, una chiacchierata con le girls durante il breakfast, e una cena in compagnia all’insegna della socialità, che pare essere il vero toccasana per i nostri centenari. Dovremmo ricordarcene più spesso e abbandonare i maledetti cellulari.
Blue Taste si trova in Via M. Buonarroti, 15 a Milano
“La pizza di Briatore” è diventato argomento da bar, tutti devono dire la propria “Ah, è una ladrata“, “Ah, ha ragione ma pirla chi paga“, insomma ci si schiera o con lui, ma pensando che sia solo un furbone, o contro di lui, pensando che sia un truffatore. Io credo che il ragionamento corretto da fare sia sempre quello di avere davanti la fotografia totale della società in cui viviamo, una società che ha diversi ceti, diversi gusti, diverse potenzialità economiche. E Briatore, da imprenditore, ha scelto di trasformare un prodotto povero e popolare come la pizza, in un prodotto lusso che possa essere apprezzato anche dalla categoria “ricco”, che vuole la pizza gourmet in un locale gourmet con una cifra gourmet. Questo significa che il classico ambiente “pizzeria” a cui siamo abituati, un locale che sembra una fabbrica, dove il fracasso regna sovrano, dove i cameriere corrono e urlano perchè in due dovranno servire 50 coperti, può essere trasformato in un locale elegante, dove la pizza non costerà più 6 euro perchè quella pizza dovrà coprire i costi di personale, strutture, zona in cui è ubicata, arredamento eccetera eccetera eccetera.
Questa trasformazione, che in alcun modo declassifica la pizza, anzi la nobilita (perchè gli ingredienti rimangono gli stessi, è il contorno che cambia), l’ha pensata anche Modus, la prima pizzeria-ristorante che ha aperto nella città di Milano. Ma lo fa portando a braccetto il cliente in uno scenario accogliente, accomodante, caldo, dove la pizza non ha il costo briatoregno.
Quello che colpisce appena entrati è certamente il contesto, nell’immaginario collettivo (perchè ci siamo stati infinite volte) la pizzeria non ha questi magnifici colori english green abbinati all’oro dei dettagli, come gli schienali delle sedute al bancone bar, un bellissimo angolo arredato da arcate incorniciate a muro per dar spazio ad amari e distillati. Sui soffitti, quasi cadessero molli come gli orologi di Dalì, degli specchi ovali che catturano e riflettono la luce esterna che passa dalle vetrine; agli angoli e dalla zona soppalcata, una cascata di natura, piante che non solo arredano, ma rendono l’ambiente più gradevole; Modus è davvero una scoperta eccezionale, e a renderlo ancora più prezioso è il suo menu omaggio al Cilento, terra d’origine dello chef. Lui è Paolo De Simone, classe 1980 e una nonna che, come spesso succede al sud, tramanda tutto il suo sapere della tavola a Paolo, che apprende così i segreti della lievitazione naturale, la regina qui da Modus.
La goduria di una pizza qui, non ve la posso spiegare, dovete andare a mangiarla! Iniziate con degli assaggi del territorio, come le mulignane ‘mbuttunate (significa ricche si sapore!), fatte con cacioricotta, uova, pomodoro e prezzemolo, o con una parmigiana di melanzane, con fiordilatte, parmigiano, olio e il dio basilico (lodato sia). Qui ovviamente trovate anche le mozzarelle di bufala campane, la Soppressata di Gioi, presidio Slow Food, la mozzarella di mortella (che si produce nel Parco Nazionale del Cilento), le alici di Menaica, e il pane di Paolo, quello realizzato con lievito madre e farine di grani antichi cilentani, recupero di semi e grani antichi dal parco nazionale del Cilento e di Vallo di Diano.
Da Modus potete anche divertirvi a fare un pairing pizza-cocktail, perchè qui sono buonissimi! Io ho iniziato con un “Midnight In Porta Romana“, Belvedere Vodka, acqua di lavanda, bergamotto, Oxley Gin; sono partita dalla mezzanotte e ci sono rimasta, a chiaccherare con Paolo e Vincenzo, due forze della natura.
Modus si trova in Via Andrea Maffei, 12 a Milano
Ad accogliervi, il suo autoritratto, un mezzo busto dal volto coperto da una giacca, su una foto attaccata al muro con un pezzo di scotch. L’essenziale, la totale mancanza di vanità, così pare raccontarsi Piero Gemelli nella mostra fotografica “Piero Gemelli: Storie Immaginate“, alla Galleria d’arte Frediano Farsetti.
Se nella bellezza non c’è nulla di schematico e calcolato, perchè la natura opera anche per istinto, il mondo classico di Piero Gemelli ha sempre qualcosa di matematico, nelle proporzioni, nelle composizioni, nella scelta perfetta della posa di una modella, nel minimalismo calibrato e rassicurante. E’ proprio il classicismo il tema della prima sezione in Galleria, dove i nudi non sono ostentazione del corpo femminile, ma un elisio di bellezza.
Alle pareti, i pensieri scritti a mano dall’autore, ritagli di fogli a volte dimenticati in qualche libro, appunti di viaggio tenuti tra una mappa ed una guida, frasi scarabocchiate in camere d’albergo, dopo una chiamata interurbana, come nelle due foto sequenziali fatte di letti sfatti.
l’autoritratto di Piero Gemelli
Piero Gemelli è fotografo e architetto, conosciuto particolarmente per i suoi lavori nel mondo della moda e del beauty e per le campagne pubblicitarie di Tiffany, Gucci, Ferré, Lancôme, Estée Lauder, Revlon, Shiseido, ma crediamo che nello still life Gemelli esprima e racchiuda i concetti di entrambi i mestieri. Se nelle sculture da lui stesso realizzate riesce a far brillare un anello tanto da farlo sembrare un occhio, se su di un manichino avvolge un bracciale facendolo diventare un armamentario adamantino, se da un fil di ferro fa emergere un volto femminile, lo si deve non solo ad un estro e ad un talento innegabile, ma alla curiosità fresca e continua, che rende le opere di Gemelli dei pezzi immortali, dei quadri senza tempo, delle fotografie totalmente moderne.
Sì certo, troviamo una Monica Bellucci dalla straripante bellezza fotografata nel suo doppio, ed un Roberto Bolle statuario in uno scatto in movimento, ma chi riesce a rendere a rendere interessante un pezzo di vetro frantumato, trasformandolo in una scultura elegante e piena di grazia, come quei kintsugi dalle cicatrici d’oro?
Piero Gemelli costruisce grattacieli, opere architettoniche con degli scarti di metallo, rendendo il materiale povero, una vera e propria struttura urbana, con l’uso della luce e delle ombre.
“Piero Gemelli: Storie Immaginate”, è la mostra curata da Maria Vittoria Baravelli alla Galleria d’arte Frediano Farsetti appena conclusasi, ma ve n’è in arrivo un’altra, e noi saremo qui per raccontarvela.