Ma chi sono questi ragazzi? Surfer, fan di 2Pac, seguaci di un club gotico?
Bandane portate come il rapper tra i più influenti di tutti i tempi, Tupac Shakur, annodato alla fronte come un omaggio, cargo shorts tecnici abbinati a felpe brandizzate oppure a giacche dalle proporzioni over.
Le camicie in twill di seta nascondono le tasche e scoprono il corpo con l’utilizzo di vinili trasparenti effetto lente. Il surfer la sera abbandona i fiori per indossare candele effetto gothic e raccontare davanti ai falo’ storie di magia e fantasmi.
Musica, storia e sport si mescolano nella collezione Primavera Estate 2018 di Malibu che ha stretto una collaborazione con Meltin Pot per i pezzi essenziali in denim.
Proporzioni e ruoli si invertono: l’uomo indossa mini giacche in jeans che scoprono l’ombelico e le donne si danno un tono con le maxi scultoree giacche uomo. Può piacere o meno, ma come diceva il rapper 2Pac:
“Sono 100% originale ed è ciò che mi ha portato fino a qui“.
Istinto e creatività, Sulvam è il brand che rappresenta la contemporaneità e la decostruzione.
Teppe Fujita, designer ed ex produttore di modelli per Yohji Yamamoto, celebra con le sue creazioni, l’imperfezione.
Le cuciture degli abiti sono solo degli accenni, i tagli si fanno più evidenti, il navy è in contrasto con l’avorio e il rosa viene indossato con disinvoltura per questa collezione Primavera Estate 2018.
Le t-shirt assumono un ruolo preponderante e si mettono in mostra sopra le camicie, i ruoli si invertono, i tagli sono vivi e i tessuti sfilacciati, c’è una totale cura della noncuranza.
Classe 1984, il giapponese Teppei Fujita fonda il brand Sulvam nel 2014 dopo essersi diplomato al Bunka Fashion College e dopo una lunga collaborazione presso la maison Yohji Yamamoto; il suo stile fa tesoro della lezione del grande maestro, sviluppando un tailoring reinterpretato in chiave moderna e contemporanea con una particolare attenzione alle silhouette innovative e di tendenza.
Da sempre muse dei grandi uomini, le donne sono state e continuano ad essere fonte di ispirazione per artisti, pittori, registi, scultori e poeti. A loro sono dedicate le righe sofferenti di amori non ricambiati, a loro i romanzi che descrivono le grandi passioni, a loro immagine e somiglianza le perfette forme bronzee di veneri inarrivabili.
Sono diverse e pure tutte accomunate dal grande dono che la natura le ha insignite, quell’atteggiamento materno che noi tutti riconosciamo ma che non riusciamo a definire totalmente, lo abbiamo però impresso nella memoria come un odore, una sensazione familiare, come un profumo estivo o una folata di vento che arriva dal mare.
E’ a queste donne, ed in particolar modo a sua madre, che Salvatore Vignola, giovane designer italiano, ha dedicato la collezione autunno inverno 2017/18.
Ogni capo è narrazione di forza, volontà, storia, possiamo trovarvi una Giovanna D’Arco o una più leziosa Marchesa Casati, con le sue pomposità, i suoi vezzi e il suo fedele black.
Sono donne che arrivano da ogni angolo di mondo, indossano pantaloni a zampa, rimando dei ’70 o i gessati con taglio, che li rende più trendy; si copre di voile e tulle come una romantica donna rinascimentale oppure broccati dorati come una dama reale; le donne di Salvatore Vignola amano la trasformazione e non temono il cambiamento.
Niente di più contagioso del sorriso, questo lo sa bene anche Filippo Scuffi, creative director del brand Daks London che ha letteralmente trasportato il pubblico presente in sfilata, tra gli ammalianti sorrisi dei men in passerella, a quell’epoca dove la bellezza è bon ton, eleganza, cavalleria, classe, cultura, al periodo della “Social Season“.
Quel periodo dell’anno dove i membri di una élite sociale sono soliti tenere balli per debuttanti, cene, grandi eventi di carità; i figli, raggiunta l’età matura, a seguito di una adeguata educazione, fanno il loro ingresso in società; le donne sono pronte a mostrare quanto hanno appreso in fatto di grazia e buone maniere e un particolare evento sciorina gentiluomini in giacca e cravatta: la Henley Royal Regatta!
E’ a questa disciplina di canottaggio e al suo tocco elegant-chic che Daks London si ispira per la collezione Spring Summer 2018.
La Henley Royal Regatta è definita la regata più nota del mondo, una delle preferite nell’agenda sociale di coloro che amano gli inglesi. Sulle rive del fiume Tamigi, eleganti gentiluomini inglesi vivono un’autentica esperienza di vita britannica dietro un rigoroso dress code: il blazer deve avere i colori del club di canottaggio, è bene indossare il berretto, è vietato l’uso di telefoni cellulari in quanto l’atmosfera dovrebbe ricordare un “party inglese del periodo edoardiano“, sono ammesse le battute spiritose a cui le donne ricambiano con un sorriso solo perché a farle sono uomini belli da morire o perché si è già al terzo bicchiere di Pimm’s.
Guarda la collezione DAKS LONDON SPRING SUMMER 2018
Rivivere il passato con uno smalto nuovo e brillante è una caratteristica del brand Daks London, che anche con questa proposta stagionale da’ speranza alla moda maschile di tornare a risorgere con raffinatezza, con un gusto garbato, bandendo i pantaloni stracciati o le over size degli anni ’80 che hanno sfilato durante la Milano Moda Uomo.
Daks si circonda di una atmosfera retrò, dei canoisti d’occasione in giacche stemmate, in pantaloni morbidi dalla vita alta e maglia rigorosamente indossata con camicia “club collar”, il collo tondo tipico del “preppy style”.
Il profumo è quello delle campagne inglesi, delle primavere di pic-nic alla “Brideshead revisited“, tra un sorso di champagne e un giro sul Tamigi, nelle tiepide ore in cui l’allumeuse che si arriccia la ciocca con le dita si abbandona.
Da sempre la distinzione è forza in casa DAKS, soprattutto quando si parla di ricerca tessuti: pied de poule, lo spinato e rigature, varie window check e il famoso House Check, che rappresenta l’heritage del brand, cotone e naturalmente il lino irlandese. Non mancano nei dettagli borse, cinture e il tipico cappello da regata con il nastro colorato, che tanto mi rimanda a Venezia, a quello indossato da Tadzio, quel giovane fanciullo che fece gioire e patire l’autore Gustav “von” Aschenbach, quel Narciso dal sorriso ammaliante che trascinò lo spirito di Gustav dal barbiere per tingersi capelli e baffetti, gli stessi (finti) proposti in sfilata da Daks London.
Guarda la collezione DAKS LONDON SPRING SUMMER 2018 – Atmosfera
SFILATA FRANKIE MORELLO SS 2018 ALLA MILANO MODA UOMO 2017
Nelle tribù africane la pittura corporea rappresenta la massima espressione artistica dell’io. Ci si “maschera” quando si va a caccia, ci si colora il viso per festeggiare un evento, per “chiamare la pioggia“, per cacciare gli spiriti. In Niger le tribù nomadi del Sahel gareggiano con le labbra annerite di carbone e il viso coperto di ocra, per contendersi i favori delle fanciulle in età da marito; è un rito seduttivo dove vincono i colori e le complessità dei disegni.
Il marchio di moda Frankie Morello ha affascinato il pubblico della Milano Moda Uomo con una collezione che è omaggio all’ambiguità delle maschere, una celebrazione al mistero, ed esaltazione di una realtà immaginifica.
La collezione Primavera Estate 2018 di Frankie Morello disegna uno spazio dove umanoidi Avatar si mescolano con soggetti che sembrano arrivare da una realtà tribale, indossano grosse collane di legno, pietra, ossi e sugheri. E’ un uomo che si sposta dai fondali marini, camminandoci sopra come un Cristo e come Christo ha permesso recentemente con la sua opera “The Floating Piers“, la passerella gialla galleggiante sul Lago d’Iseo.
E’ un man in black tra gli extraterrestri, un agente segreto che veste materiali tecnologici quali cavi e fili elettrici accostati a ricami handmade a filo, classica stringata in cuoio o sneakers in pelle e canvas con stampe.
Una collezione-metamorfosi dalla preponderanza di neri, blu elettrici, denim, contaminazioni rock e geometriche; una visione, quella di Nicholas Poggioli, direttore artistico di Frankie Morello, che apre le acque alla maniera di Mosè, dentro puoi vederci il nulla o il tutto, il mistero della vita, della fede, dell’esistenza di esseri superiori; natura e tradizione sono un tutt’uno, l’astrattismo diventa concreto e l’impossibile diviene possibile.
Guarda la collezione Primavera Estate 2018 di Frankie Morello:
Si è appena conclusa la quinta edizione della Montecarlo Fashion Week, l’evento glamour tanto atteso con un parterre di nomi internazionali del panorama della moda: Naomi Campbell, premiata alla MCFW Ceremony Fashion Awards, Chiara Boni, designer del brand La Petite Robe riceve il Made in Italy Fashion Award e Nima Benati, la giovane fotografa italiana insignita come nuovo talento emergente.
Le sfilate, iniziate il 2 giugno in concomitanza con la Festa della Repubblica, si aprono con la pre-collezione Spring/Summer 2018 di Chiara Boni.
La Petite Robe di Chiara Boni
Boutique in Europa, Medio Oriente, Russia e Canada, il brand La Petite Robe di Chiara Boni è la risposta a chi vuole conciliare eleganza e comodità, per chi pensava fosse impossibile la designer fiorentina, attraverso l’uso sapiente della manifattura, capacità, esperienza che la contraddistingue, ha ideato abiti dalla forma a sirena utilizzando un tessuto stretch che avvolge il corpo esaltandone la sinuosità e la femminilità.
Una capsule collection Beachwear, anticipazione della Primavera Estate 2018, dove dominano i bianchi e i neri, jumpsuites con giocose maniche a sbuffo e baschine, il tocco trendy è dato da speciali turbanti, del medesimo tessuto, arricchiti da fiori stilizzati.
La moda Chiara Boni veste perfettamente ogni forma femminile, per una donna in carriera, valigia alla mano, che non vuole rinunciare ad avere l’abito da gran soirée sempre con sé.
(foto Saverio Chiappalone)
Beach & Cashmere Monaco di Federica Nardoni Spinetta
Una collezione grintosa con richiami fifties dalle gonne a ruota alle camicette allacciate in vita, una Olivia Newton-John di carattere dalla scarpetta rossa tacco a spillo. La collezione, nata dalla collaborazione tra Federica Nardoni Spinetta e Rosanna Trinchese, si arricchisce, oltre ai bikini, di miniabiti, accessori come borse dalle tracolle stellate, jeans boyish style e maxi collane.
Josephine Bonair
Mistica la collezione a partire dai colori, viola e turchese intenso, porpora e gold. L’ambientazione è quella fantastica tra un paesaggio orientale dove le donne indossano kimono abbinati a calze silver alla caviglia, e quella più fiabesca di una principessa dal lungo strascico in voile rosa e corpetto azzurro. Paricolare attenzione ai dettagli, dalle borsette con tracolla fiorata, alle calze in velo e lurex. La chicca: il corpetto dorato con ritratto di Maria Antonietta.
Luca Taiana
Alternativo il marchio Luca Taiana, che prende il nome dal suo creatore, una collection di capi in denim stretch dalle forme costruite impreziosite da lamine e glitter, i volumi sono ampi, i tessuti trasparenti, come i bomber e le camicie sportif.
Il tocco romantico che lo contraddistingue, arriva con il pizzo sangallo sui maxi cuissard e zainetti.
Quella di Luca Taiana è una donna che osa.
Istituto Marangoni Paris
L’Istituto Marangoni di Parigi sfila per la seconda volta alla Montecarlo Fashion Week; quattro sono i talenti che rappresentano la creatività francese: Sainiya He, Ophélie Berton, Hèléne Lennon, Fatima Danielsson. Quattro culture diverse provenienti da Cina, Francia e Svizzera, che raccontano la loro visione della moda con un’impronta al luxury del tutto italiana.
Fatima Danielsson propone maxi giacche strutturate, camicie dalle maniche e dai colli over, seguendo una tendenza di stagione che ha già sfilato sulle passerelle milanesi. Da tenere d’occhio.
Edda Berg
Sotto la voce melodica di Emma Morton, voce finalista del programma X Factor, giovane e fresca la collezione di Edda Berg dal tema floreale; di paglia le borse a mano tonde, i secchielli e gli zaini, le fasce colorate incorniciano il viso, la vestibilità degli abiti è fluida e non costringe il corpo, balze e pizzi per gli abiti da sera, ricami a fiori per le gonne che sembrano dei prati sbocciati di primavera.
Annalisa Queen
E’ il contrasto il tema dominante della collezione di Annalisa Queen: colori invernali mixati a tessuti dalla fluidità estiva, l’artificiale pitone ecologico avvolge il naturale sughero, elemento chiave della capsule; le tonalità più fredde si accostano a quelle calde dell’arancio. Le linee sono essenziali, declinate in mood daily fino all’abito cocktail; il total look comprende accessori come borse e bracciali, dello stesso tessuto di cui sono fatti gli abiti.
Royal Beachwear
Dopo la presentazione a Milano, il brand Royal Beachwear espone anche alla Montecarlo Fashion Week una capsule di costumi luxury dedicati al mondo maschile. Quattro le varianti: un omaggio a Santorini per il costume dalle linee bianche e blu, stemmi blasonati per la fantasia di Elba, azzurro mediterraneo per ricordare le acque cangianti di Capri e infine bordeaux acceso, dedica al lusso patinato di Montecarlo. I dettagli della linea fanno la differenza sulle altre collezioni di costumi, capo di vendita in netta crescita, con finalini personalizzati, logo ricamato e taschini con bottone. Teniamo d’occhio il duo creatore Daniele Motta Locatelli e Manuel Chisso perché sono già intenzionati ad una capsule total look uomo e perché no, al mondo infinito della donna.
Fossero ancora in vita i fratelli Goncourt, avrebbero materiale in abbondanza per i loro diari durante l’ultima edizione della Montecarlo Fashion Week 2017. Persone e atmosfera si prestano molto alle loro raffinate, succulente, pungenti, ironiche descrizioni; Montecarlo è la meta scelta per l’evento moda, la città glamourous dove tutto luccica e sfreccia alla velocità della luce, dove una perla vera si confonde con una fake, si mescolano con sapienza come insegna la “signorina Chanel”, così amava essere definita.
E si apre con una cena di Gala accompagnata dalla Fashion Awards Ceremony, che vede premiate la super top model Naomi Campbell, la designer italiana Chiara Boni e il nuovo talento fotografico Nima Benati, in una location d’eccezione – il Museo Oceanografico di Montecarlo – con ospiti tra cui spiccano Andrea Casiraghi, la moglie Tatiana Santo Domingo Casiraghi e Dana Alikhani, creatrici del brand Muzungu Sisters, la bellissima Beatrice Borromeo e il parterre della Chambre Monégasque de la mode di cui Federica Nardoni Spinetta è fondatore e presidente.
Una cerimonia dalle infinite sfumature, dalla commozione della giovane fotografa Nima Benati, reduce dall’ultima campagna di Dolce & Gabbana, che ha fatto della sua immagine un marchio di fabbrica mescolando un sapiente uso dei social network al suo lavoro d’immagine; alla premiazione MCFW Made in Italy Fashion Award a Chiara Boni, per il suo importante contributo nella diffusione dell’eccellenza, della creatività e della manifattura italiana. E la bellezza statuaria e sicura della Venere Nera Naomi Campbell, la presenza più attesa di questa Montecarlo Fashion Week, la supermodel che vanta oltre 600 cover internazionali e che ha fatto parlare di sé per i suoi flirting e le bizzarrìe della sua vita privata.
La location scelta per la 5^ edizione della Montecarlo Fashion Week, sostenuta dalla Fondazione Principessa Charlène di Monaco, è il Fashion Village di Fontvieille. Hanno sfilato 24 brand ed ha aperto il defilè Chiara Boni con La Petite Robe il 2 giugno in occasione della Festa della Repubblica.
Non solo evento mondano e improntato a far conoscere i nuovi talenti della moda nel fashion biz, la Montecarlo Fashion Week è impegnata anche nel sociale, sono stati infatti raccolti fondi da destinare alla Fondation Princesse Charlène de Monaco, grazie alla vendita di stampe di tre nomi importanti nel panorama fotografico: German Larki, Gabriele Rigon e Daniele Guidetti.
Per poter insegnare e spiegare un argomento ad altri, è necessario conoscerlo profondamente.
Per argomentarlo con discussioni, è utile averlo masticato; per accettarlo e riconoscerlo, bisogna averlo vissuto. Forse è questo il ragionamento che sta alla base della scelta della curatrice Cecilia Alemani, quando ha pensato al tema del rito e della magia come filo conduttore del Padiglione Italia alla57^ Biennale di Venezia.
“Il mondo magico”, questo il titolo, dove superstizione, religione, rito e magia si mescolano, terre che l’italiano conosce bene, nel suo profondo e scaramantico sud, nella forza centrata della fede, nel suo infinito mondo di streghe, cartomanti, fattucchiere, corni rossi e Cristi crocifissi.
Cecilia Alemani ha invitato gli artisti scelti, solo tre per questa edizione, a confrontarsi con il fantastico, con il favolistico, con il vasto immaginario che la nostra cultura porta con sé, per la creazione di un padiglione che ha riscosso solo pareri positivi. L’ispirazione della curatrice arriva dal libro di Ernesto de Martino, etnologo, antropologo e storico delle religioni italiano, “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del maoismo” del 1948.
Ciascun artista ha raccontato, attraverso il proprio mezzo espressivo, come le culture e le popolazioni, soprattutto quelle del Sud Italia, reagiscono a situazioni di crisi attraverso lo studio, la pratica e l’immersione nella magia. L’ignoto come risposta, il mistero della fede come salvezza.
Il Padiglione ci accoglie con l’installazione di Roberto Cuoghi, un tunnel onirico, un’isola dei morti bockliniana, dentro cui trovarci faccia a faccia con il corpo di Cristo mummificato e in decomposizione, un passaggio dantesco dove ci attende la figura di Caronte, una “Imitatio Christi” di forte impatto visivo ed emotivo:
« Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “Guai a voi, anime prave! » (Inferno III 82-84)
Roberto Cuoghi, da sempre interessato al tema della metamorfosi, sviluppa un’opera di altissimo livello concettuale, un’officina che crea corpi per poi distruggerli, nella quasi totale oscurità degli spazi, un mondo ir-reale dove un Dio comanda la fabbrica dell’umanità, per poi vederla deteriorarsi, lentamente, sotto gli occhi impressionabili dei suoi simili.
I corpi sono composti da una sostanza gelatinosa chiamata agar-agar e vengono sottoposti ad un processo di decomposizione come fossero esseri umani, una decomposizione che avverrà per tutta la durata della mostra; il primo processo è quello dell’asciugatura con il natron, un sale già usato dagli Egizi per le mummificazioni; altro sistema è quello della liofilizzazione attraverso una macchina: I corpi preparati vengono come “asciugati”e perdono acqua, materia di cui siamo composti al 70%. Si vocifera che un’azienda norvegese già proporrebbe una simile mummificazione al costo di qualche migliaia di euro.
Costantemente avvolti dalle tenebre, obbligati ad una concentrazione riflessiva, si arriva all’intervento dell’artista italo-libica Adelita Husni-Bey, classe ’85.
“The Reading / La Seduta” è un video didascalico-scolastico che restituisce un’immagine molto chiara dell’incertezza umana. Un gruppo di persone si interroga su questioni delicate come razza e genere, rapporto uomo-terra, accompagnati dalla pratica “magica” della lettura dei tarocchi.
Da sempre sensibile ai conflitti sociali e politici, Adelita Husni-Bey sviluppa le sue opere con un processo di realizzazione collettiva, riunendo gruppi di diverse comunità tra i quali compaiono studenti, attivisti, disoccupati. La riflessione del gruppo, tra i movimenti rituali e di suspance della lettura delle carte, del loro capovolgimento e della loro apparizione, nei significati più reconditi e profetici, tocca i temi della tecnologia, dello sfruttamento, della minaccia politico-religiosa.
A svelare il linguaggio poetico tra umano e divino, l’immensa opera di Andreotta Calò ci disorienta nella sua oscura impenetrabilità.
L’aspetto ambientale qui gioca un ruolo fondamentale: camminiamo tra freddi tubi di ponteggi, in uno spazio buio e inquietante, dove riconosciamo solo in lontananza un piccolo “spiraglio di luce”, dall’alto, a cui è possibile accedere solo dopo aver salito una rampa di scale. Un passaggio metaforico dell’aldilà? Un messaggio di speranza di una vita oltre la morte? E’ come se ci dicesse “Viviamo ciechi e proseguiamo a tentoni, con gli occhi socchiusi e gravi alla ricerca della luce“. Chi riesce a superare questo passaggio scoprirà, accedendo al “piano superiore”, una “nuova dimensione”, lo sguardo è preda di un profondo specchio d’acqua su cui si riflette la superficie, un mondo capovolto che ci ricorda la laguna veneziana, terra natale dell’artista.
In “Senza titolo (La fine del mondo)“, più che una fine l’opera ci ricorda un inizio, forse la più poetica e profonda di questa 57^ edizione, dove l’acqua, elemento caro ad Andreotta Calo’ si imprime nella nostra mente carica di simbolismo e di forza.
Si esce quasi accecati dalla luce tiepida di Venezia, ormai avviluppati dentro la ragnatela dei perché, coscienti dei propri limiti, dentro una verità spirituale che è tutta italiana e arcaica e primitiva, così statica da obbligarti a tornare lì dentro, perché i passi si sono fatti pesanti, le gambe sono come ancorate a terra da radici, si è imprigionati da quel buio inquieto e silenzioso e misterioso della “fede” umana.
Quando siete in una galleria d’arte, in un museo e sentite esclamare “Oh, bello”, “Bellissimo” ,”Wow”, “Aaaah questo sì!”, state certi che si tratterà di quel genere umano capitato lì per caso, perché “fa figo”, per sentirsi “in”, ed è un po’ lo scenario di questa Biennale arrivata alla 57ma edizione dove, durante la vernice, veri e presunti addetti al settore si spintonano alle file o davanti a un’opera.
Più dignitosi sono i coniugi Remo e Augusta Proietti in “Le vacanze intelligenti“, interpretati da Alberto Sordi e Anna Longhi, una verace coppia popolana in visita alla Biennale di Venezia. Ve lo ripropongo qui perché è davvero spassoso e purtroppo non così distante dalla realtà.
Ma venendo a noi, qui cercherò di riassumere i maestosi dubbi sull’arte proposta alla Biennale, curata da Christine Macel, una manifestazione in cui le kermesse non sono mancate, tra accuse di plagio, remix e mashup.
Alle corderie Peter Miller propone una pellicola dal titolo “Stained Glass“; dovrebbe rappresentare un buco nero ipnotico, ed è un’immagine fissa creata da diversi supporti fotografici. “Il buco nero è per definizione invisibile, eppure gli scienziati ne sono venuti a conoscenza“. L’artista vuol dirci che “vediamo le cose invisibili ma non quelle invisibili“. Io qui ci vedo un punto nero. Nient’altro.
L’artista ecologa Bonnie Ora Sherk porta un progetto ambientale fatto di disegni, fotografie, collage, poster, creato nelle città di San Francisco e New York consistente nella valorizzazione di un’area sterile di circa tre ettari che l’artista stessa trasformò in uno spazio dedicato all’arte e all’agricoltura urbana. Ottima iniziativa, ma questa è “arte” o forse più “progetto sociale”?
Al padiglione belga le immagini fotografiche di Dirk Braeckman: una ventina di opere per lo più sui toni del grigio, spazi vuoti, corpi nudi, onde su cui la luce si riflette. Le descrivono come “monumentali, originali, immagini dove trovare sempre storie nuove, dove l’artista si dilunga nello sviluppo in camera oscura con piacere.” Dilunghiamoci meno e passiamo ad altro.
La camera sonora del padiglione francese, signur, un boato di strumenti che stridono tutti insieme, lasciati andare come gatti randagi, sembrano creare una colonna sonora per un film horror. Se ne esce con le mani alle orecchie. Di Xavier Veilhan.
I giganteschi gomitoli di lana, alle Corderie, di Sheila Hicks. Piuttosto decorativi per una parete, potessi arredare la stanza di mio figlio, avessi un figlio, chiamerei la Hicks al posto di Philippe Starck. Forse.
Continuando nella passeggiata della Biennale, svestita di nomi importanti, ci troviamo al padiglione spagnolo con l’opera di Jordi Colomer, leggete qui: “Un’installazione di installazioni” – già l’inizio promette bene – “una successione di gesti poetici che sono un movimento urbano, uno scambio essenzialmente collettivo” – quali sono i gesti POETICI URBANI???? Lo sfrecciare nevrotico delle auto? I clacson che danno alla testa? I pedoni che corrono da una parte all’altra? E continua “una finzione utopica suscettibile di influenzare la realtà“. UNA FIN-ZIONE UTO-PICA SU-SCETTI-BILE DI INFLUENZARE LA REAL-TA’. Io mi metto nel gruppo di Sordi e compare. Ci rinuncio.
Padiglione Giappone. Takahiro Iwasaki porta con sé un po’ di cianfrusaglie, roba che regaleresti al rigattiere, panni da cucina, vecchie t-shirt logore, le mini sorprese che trovi nell’ovetto Kinder, quelle che puntualmente il cane si infila in bocca per poi passare, ben sbavate, tra le mani del tuo bimbo. Iwasaki ci gioca un po’, crea delle montagne giapponese, quelle che tanto gli mancano, la silhouette delle città con torri e grattacieli. Ma poverino, diamoglieli questi Lego, che almeno sono colorati e si diverte di più!
Padiglione Corea – Lee Wan, da una porticina che ricorda quella dello studio di D’Annunzio, ci introduce in una stanza asettica, bianca, un quadrato con appesi 600 orologi che segnano le differenti ore dei paesi del mondo; nomi, nazionalità, occupazioni di persone da lui intervistate che attendono l’ora del pasto, dopo quella del lavoro. Già vistoooooo!
Ma sono davvero tutti così entusiasti di questi oggetti aggregati come paccottiglia, ingombranti come i ninnoli sui caminetti?!
L’associazione di una forza profonda – e qui parte una lista di giornalisti leccapiedi- ad un’opera che è un deja vu’ segna, a mio parere, un regresso piuttosto inquietante. Siamo alle solite stupide affermazioni “E’ stato fatto già tutto” – “I grandi sono solo del passato”. Diamo delle facile risposte anziche’ continuare a farci delle domande, che sono l’area in cui l’artista si muove da quando gli abbiamo affibbiato questo termine e questo ruolo di grande responsabilità. E’ all’artista che ci rivolgiamo per sciogliere qualche dubbio: che senso ha la vita?Come affrontare l’oggettività della morte?Cos’è il tempo?Quanto dura l’amore?
L’estrema monotonia del “copia e incolla” mi porta a pensare che forse l’artista pensa di meno oggi. Forse l’intento narcisista di comunicare “chi è” – è più forte della comunicazione di “cosa si vuole esprimere” . L’-io esisto- è più aggressivo dell’-io faccio- . Quindi noi spettatori siamo costretti a sorbirci delle produzioni in serie, più o meno colorate, più o meno decorative, ma che ci lasciano ben poco, perchè mancano di drammaticità, mancano di pathos, mancano di quell’ingrediente che, quando aggiunto, trasforma un piatto tradizionale in un piatto gourmet: la sofferenza.
“IL CAPRICCIO E LA RAGIONE – ELEGANZE DEL SETTECENTO EUROPEO”
Il bagaglio che ci portiamo addosso, tutti i giorni, è l’abbigliamento. Il biglietto da visita che parla per noi, che racconta chi siamo e da dove veniamo, svela i nostri gusti e i nostri interessi culturali, nonché la nostra classe sociale.
Dedito al piacere dei sensi e dotato di buon gusto, Luigi XIV conosciuto a tutti come il Re Sole, si fece promotore della magnificenza in fatto di moda a corte. Una corte giovane, infiocchettata, ingioiellata, fiera di essere all’avanguardia dell’eleganza a confronto della vecchia monarchia spagnola malinconica e ieratica vestita di nero.
Tanta tracotanza e opulenza di tessuti e decori rispecchiava esattamente la personalità del Re, indolente, amante delle donne, curioso, infantile, il più infedele dei mariti. E con lui la moda divenne ossessione e manìa non solo a corte, ma tramandata in quella che poi sarebbe stata la nuova borghesia, che prese a “copiare” gli usi e i costumi dell’aristocrazia.
A questo viaggio evolutivo dello stile, il Museo del Tessuto di Prato ha voluto dedicare una preziosa mostra intitolata “Il capriccio e la ragione – Eleganze del Settecento Europeo”. Una mostra che raccoglie i più grandi patrimoni della moda italiani ed europei, la più importante collezione di abiti, accessori, costumi, dal Rinascimento al contemporaneo.
Una collaborazione, quella del Museo del Tessuto, che vanta unioni con le prestigiose Gallerie degli Uffizi di Firenze, Museo Stibbert di Firenze, Fondazione Antonio Ratti di Como, Museo Ferragamo, da cui provengono alcuni dei capi presenti presso la sala dei tessuti antichi a Prato.
La sala è uno spazio di grande fascino con copertura a volte a crociera di cca 400 mq, contenitore ideale per l’esposizione di materiali delicati come i tessuti e gli abiti antichi.
Il percorso, curato da Daniela Degl’Innocenti, racconta la trasformazione stilistica di un secolo, il Settecento, tra abbigliamento, accessori e arti decorative.
Tema ricorrente del ‘700 è l’esotismo, che descrive le esplorazioni, i viaggi, i territori degli abitanti delle Indie Orientali, è qui che nascono i manufatti che generano interesse: porcellane, lacche, tessuti, dipinti su carta, un nuovo linguaggio che porterà il pubblico al consumo dei beni di lusso. La nuova palette cromatica sarà riconoscibilissima: bianca e azzurra, bianca e rossa, con uno stile inedito e pittoresco. La Francia sarà la prima nazione a innescare una filiera organizzata di saperi che si declinano in tutti i settori delle arti, con l’obiettivo assoluto di promuovere bellezza e qualità.
Seguiranno in terra nostra le botteghe veneziane, impegnate a mantere alto il livello della produzione da cui nasceranno esuberanti esempi di naturalismo con paesaggi e nature morte
Nonostante il ‘700 venga nominato come il secolo della leggerezza – ricordiamo che gli abiti delle donne a corte iniziano a scoprire i seni, le feste diventano importanti quanto la messa della domenica per un cristiano, la libertà sessuale sfocia in episodi orgiastici e promiscui – l’abbigliamento ha invece un aspetto leggero solo in apparenza. I tessuti operati, le sete policrome, i filati metallici oro e argento, vengono impreziositi da una miriade di fiocchi e merletti e guarnizioni di fiorellini in seta.
Solo dopo la Rivoluzione Francese, che aveva causato la crisi delle manifatture seriche lionesi, cambieranno i tessuti, sostituiti da leggere mussoline di cotone. Al bando corsetti che stringevano la vita e impedivano i facili movimenti come le guaine e i paniers, il nuovo modello in voga è la robe en chemise. Un essenziale abito a vita alta, dallo scollo squadrato, accompagnato da preziosi scialli cachemire. Si guarda all’antichità greca e romana convinti della relazione tra bellezza e classicismo, come se quest’ordine, questa “pulizia dei dettagli” potesse purificare delle “scorribande” precedenti. Come se il secolo del Marchese de Sade si potesse cancellare con un colpo di spugna – e di reni!
Il Capriccio e la Ragione. Eleganze del Settecento Europeo
14 maggio 2017 – 29 aprile 2018 Museo del Tessuto, via Puccetti 3 Prato