Cavallino Classic Modena 2024, ecco la Ferrari più bella del mondo

Cavallino Classic Modena 2024


L’eleganza è una stella sita in quelle persone definibili “eccezionali”, ha a che fare con la grazia, l’educazione, un certo savoir-faire, una noncuranza dell’essere eccezione, si sposa assai spesso all’etichetta, al bon ton, a quel che Giovanni Della Casa scrisse nel 1558 nel primo Galateo.
Ma si rifà ad altre opere “eccezionali”, come alcune statue di Canova, che nella loro nudità conservano tutto il fascino del pudore e della riservatezza; lo sono, alcuni esemplari di auto classiche, vissute in epoche passate, intrise di storia e tradizione, di quelle nostalgiche atmosfere riportate in vita una volta messo il piede sull’acceleratore.

Ed è per questo che nasce Cavallino Classic Modena, il Concorso Internazionale d’Eleganza, che ogni anno premia il culto dell’auto storica, il modello più bello nella sua originalità, un evento straordinario che raccoglie collezionisti di tutto il mondo, e che si svolge dal 2021 presso la prestigiosa dimora Casa Maria Luigia di Massimo Bottura, chef nel gotha dei 50 Best Restaurants, dopo aver guadagnato il primo posto per ben 2 volte.

Il parco di Casa Maria Luigia diventa così per 3 giorni, dal 17 al 19 maggio, un bellissimo salotto espositivo per le auto più iconiche del marchio Cavallino, dalla 275 GTS, versione spider con cerchi in lega, ruote a raggiera, oggi restaurata dopo un lavoro certosino di circa 6 anni, e un tempo appartenuta al calciatore e dirigente sportivo italiano, Gigi Riva. O alla Ferrari Testarossa del 1989 che ha segnato l’era del design automobilistico sposato all’esperienza di guida. Un motore da 390 CV totalmente esibizionista, che definisce per sempre il ruolo da protagonista della Ferrari, che negli ’80 presenzia nelle più importanti produzioni cinematografiche e televisive. Oggi il contachilometri segna solo 32.000 km.
Ma fu Ralph Lauren ad accaparrarsi per primo la mitica 288 GTO, leggendario stile Pininfarina, una potenza inesauribile, presentata da Enzo Ferrari nel lontano ’84 al Salone di Ginevra.

Un evento davvero raro Cavallino Classic Modena, esclusivo e riservato solo su invito, dove giudici provenienti da ogni parte del mondo, si sono scrupolosamente riuniti per eleggere la Ferrari classica più bella in assoluto.
Se li trovate in silenzio con l’orecchio poggiato accanto al finestrino, stanno religiosamente ascoltando il suono del tergicristallo, o quella che loro chiamano “melodia” del clacson, perchè per dei devoti come loro, è timbrica se firmata dal marchio di fabbrica. Una fotografia biblica per il brand che, dopo l’acquisizione del 2020 della Holding Canossa di Luigi Orlandini, oggi Chairman e CEO Cavallino, ha aizzato un’altra bandiera d’eccellenza, quella degli eventi luxury.

Un passato nel mondo dei software e una passione innata per quello dell’automobile, Luigi Orlandini oggi conta un team di 60 dipendenti, oltre 300 collaboratori continuativi, un team positivo ed esplosivo che fa di Cavallino Classic Modena un evento boutique.

Ho acquisito Cavallino durante il Covid, da una società americana che dal ’78 pubblica la rivista omonima, prettamente specializzata ma che oggi possiamo dire è diventata anche una rivista lifestyle. Portiamo il brand in giro per il mondo, pur non avendo bisogno di presentazioni, per il nome che porta e il prestigio che si trascina con sé, abbiamo aggiunto quell’ingrediente che fa un piatto eccezionale, quello che lo definisce per gusto, ed è il lusso dell’accoglienza e del dettaglio. Scegliamo sempre location d’eccezione, qui dallo chef Bottura nulla è lasciato al caso, e soprattutto omaggiamo il brand nella terra dove tutto è nato.

Una sorta di “spada nella roccia”, l’evento rispetta le rigide procedure di restauro delle Ferrari, raccolte da una specie di disciplinare che Enzo Ferrari ha sviluppato, un patrimonio unico di educazione e cultura della grande bellezza italiana del marchio, eredità che ha portato il nostro bel paese in tutto il mondo.

  • 365-GTB4-1971
  • F50-1997
  • 250-Monza-1954
  • 1512-F1
  • 288-GTO
  • Testarossa
  • 275-GTS
  • 288-GTO

Durante un défilé presso lo storico MEF – Museo Casa Natale di Enzo Ferrari, le premiazioni alle auto.
Il Best of Show Competizione va alla Ferrari 250 Monza del 1954, con telaio #0466, mentre la Best of Show Ferrari Classiche Certified, è stato assegnato alla Ferrari F50 del 1997 con telaio #107125; il Best of show Gran Turismo è stato assegnato alla 365GTB4 del 1971 con telaio #14405, un’evoluzione della 275 GTB4, pietra miliare nella storia del brand. Linee eleganti e ultra moderne di Pininfarina, abbinate ad un motore V12 e un’esperienza di guida unica; molti fan la ricordano per il suo soprannome “Daytona”. Questo particolare telaio ha tutti i numeri corrispondenti e la carrozzeria non è mai stata riparata o restaurata.



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La Genisia, le esperienze enologiche nell’Oltrepò Pavese, eccellenza del Pinot Nero

APRE LA NUOVA CANTINA LA GENISIA 
DEGUSTAZIONI, ABBINAMENTI, ESPERIENZE: UN CENTRO MULTIFUNZIONALE DEDICATO ALLE ECCELLENZE DELL’OLTREPÒ PAVESE 


Lev Tolstoj scrisse che “felicità è trovarsi con la natura, vederla, parlarle“, se esiste un luogo dove questo l’ho visto succedere, anche ai malati delle comodità urbane, quel luogo è l’Oltrepo’ Pavese, terra italiana vocata anche per la produzione del divino vino.

In queste terre ha inaugurato non molto tempo fa una cantina, che chiamarla cantina è assai riduttivo, La Genisia, è piuttosto un appuntamento da darsi costantemente, per godere delle cose meravigliose che la vita ci ha donato: una natura rigogliosa, di un verde brillante che non sente il grigiore dei fumi delle auto; del cibo sano e contadino, che ci ricorda le nostre radici; la vicinanza con gli animali, perchè il linguaggio universale è quello dell’istinto e dell’amore incondizionato; e dell’ottimo vino, che questa terra fa crescere della miglior specie.

E’ qui infatti che nascono il PINOT NERO CENTODIECI NATURE D.O.C.G. METODO CLASSICO, il PINOT NERO BRUT D.O.C.G. e il PINOT NERO ROSÉ BRUT D.O.C.G., dove il Pinot Nero sta ovviamente al centro dell’attenzione, attraverso un prezioso percorso di riscoperta di uno dei vitigni nobili internazionali; vitigno che in Oltrepò Pavese ha trovato terreno fertile per esprimere al meglio le sue potenzialità attraverso un terroir ricco di peculiarità, versatile e lavorato sia in bianco che in rosso, da cui si possono ottenere importanti vini fermi e strutturati e bollicine altrettanto prestigiose. 

La Genisia inaugura quindi un punto di riferimento per amanti del vino e nuovi appassionati, dove poter fare degustazioni guidate, scoprire l’approccio enologico della cantina guidata dall’enologo Simone Fiori, fare attività dedicate alla scoperta del territorio, una passeggiata a cavallo tra le vigne, arrivare al punto più alto di Codevilla, città in cui è ubicata, e assaporare i prodotti tipici del territorio godendo di un panorama mozzafiato.

Le vigne La Genisia sono situate nelle zone di Codevilla, Torrazza Coste e dintorni. 
Attraverso i nostri vini lasciamo parlare il terroir ed il vitigno – spiega l’enologo Simone Fiori il Pinot Nero vitigno unico e prezioso, viene qui esaltato al massimo, cercando di addolcirne le spigolosità. L’obiettivo è sempre quello di raggiungere la massima espressione e qualità del terroir. Per farlo, è necessario innovare, per questo abbiamo acquistato una pressa di ultima generazione, altamente sofisticata e finalizzata alla miglior lavorazione possibile per l’estrazione delicata del mosto per il Metodo Classico.
Oltre a questo la ricerca è continua, ed il nuovo progetto di zonazione ci ha permesso di individuare i terroir di provenienza delle etichette La Genisia, territori che differiscono tra loro per altitudine, esposizione e densità, caratteristiche che possono essere ritrovate all’interno dei vini, proprio grazie alla ricerca messa in atto in cantina percepibile ad ogni sorso.


Da La Genisia le esperienze non si leggono su carta, ma si vivono personalmente, intensamente, e questa apertura è solo l’inizio di un lungo percorso, dove il turista può godere appieno dell’ospitalità del nostro paese; wine experience per singoli, gruppi e famiglie, visite in cantina, esperienze incredibili (che troppo spesso dimentichiamo) nella natura. Qui si organizzano eventi, percorsi e-bike con guida turistica, e si finirà sempre (per fortuna), con un calice La Genisia a cui brindare, davanti ai tramonti oltrepadani, sulle colline rigogliose di vigneti e dove il Monte Rosa di colora del suo cognome.

Il whisky in edizione limitata, nel ristorante cinese di Milano, Bon Wei

Zhang Le, proprietario di Bon Wei, presenta la sua speciale selezione di 5 Whisky Single Cask in edizione limitata

Oggi più che mai il cliente è sempre più esigente e pretenzioso, tanto da scegliere non solo un ristorante dove sia ineccepibile il servizio e coerente il rapporto qualità-prezzo, ma anche dove vivere un’esperienza che altrove non troverebbe. L’effetto sorpresa e l’unicità di un luogo, sono gli ingredienti che oggi fanno la differenza.
E’ il caso di Bon Wei, ristorante di alta cucina regionale cinese che ha come specialità l’anatra laccata alla pechinese, e una carta di 24 ricette regionali selezionate all’interno degli 8 territori che compongono la “badacaixi”.

Fondato da Yike Weng e Chiara Wang Pei con lo chef Zhang Guoqing nel 2010, oggi è proprietà dello chef insieme al figlio Zhang Le che lo dirige, un locale che mescola una modernità elegante e confortevole, all’estetica tradizionale della Cina, un progettato dall’architetto Carlo Samarati.

Ma il vero plus qui arriva a fine pasto, perchè Zhang Le, appassionato conoscitore del distillato più amato dagli uomini ed oggi sempre più richiesto dalle donne, propone una selezione preziosissima di 5 Whisky Single Cask, (presentati in location da Dario Crisci, whisky selector di Cuzziol Beverage, importatore di prodotti Uk).

La “Zhang Le Selection“, un servizio eccellente e riservato a chi ama il whisky quanto Zhang Le che già nel 2016 selezionava nello Yorkshire la sua prima botte del pregiato distillato che avrebbe aperto, una volta imbottigliato come Filey Bay – Yorkshire Single Malt Whisky – Single cask “Bon Wei Selection”, in occasione del 12° compleanno del suo locale. Una botte di Sherry Pedro Ximénez (cask #294), da cui dopo 5 anni di invecchiamento sono state ricavate 305 bottiglie.

Filey Bay, la distilleria scelta da Zhang Le, si trova nello Yorkshire nel nord dell’Inghilterra, ed è la prima distilleria della regione dedicata ai single malt whisky: la sua filosofia è quella del field-to-bottle, secondo tradizione.
Orzo ed acqua della famiglia Mellor, sono gli ingredienti principali per ogni bottiglia di Filey Bay Single Malt Whisky, nessun processo di filtratura a freddo, mantenendo così il colore naturale ed il profumo inebriante di frutta matura, appassita e cioccolato fondente.

A questa botte ne sono seguite altre tre, di cui una scelta in Scozia nella distilleria Caol Ila, una botte di Bourbon che ha regalato 361 bottiglie. Dallo stretto tratto di mare dove si affaccia la distilleria, i whisky si arricchiscono di preziose e fini note affumicate; al naso sprigionano aromi di zucchero di canna che poi danno spazio alla torba; in bocca sono ricchi e affumicati, con note di erbe officinali, goudron e camino spento.

Lungimirante collezionista, sommelier Fisar (presente in carta una selezione di vini italiani e stranieri, da Chateau Pétrus al Domaine de la Romanée-Conti, dal Masseto al Grange Penfolds), ma soprattutto imprenditore capace di leggere le esigenze dei clienti, Zhang Le ha scelto di portare a Bon Wei la buona usanza (oggi costante anche in Asia) di chiudere i pasti con un rito, come il tè inglese delle cinque, qui si sceglie un whisky speciale, edizioni limitate, bottiglie numerate, disponibili alla vendita o da condividere con gli amici. E se la Cina si distingue per la ricercatezza ed il buon gusto del servizio, e dell’estetica (pensate all’arte dell’ikebana, o all’estrema cura che le geishe ponevano nel versare una tazza di tè, ruotando il polso con dolcezza per accompagnare il suono del liquido nella tazza), da Bon Wei il whisky viene servito su di un piccolo vassoio di legno, in un tumbler dedicato, accompagnato da acqua, ghiaccio e un cioccolatino fondente.

BON WEI si trova a Milan in Via Lodovico Castelvetro, 16/18

Max Papeschi, arte pericolosa

MAX PAPESCHI – ARTE PERICOLOSA

Ha venduto sua madre all’asta, ha deflorato Minnie lanciandone il video integrale su YouPorn per poi ricorrere al matrimonio riparatore, ha ricoperto il ruolo di Ambasciatore Culturale della Corea del Nord, se pensate di aver vissuto un periodo pulverulento dell’arte, allora non conoscete Max Papeschi, il genio del marketing.

Artista italiano tra i più conosciuti all’estero, Max Papeschi ha un passato da autore e regista teatrale, cinematografico e televisivo; buca il mondo dell’arte contemporanea nel 2008 per lasciare il segno. Per sempre.

Racconta le sue marachelle artistiche in “Vendere Svastiche e Vivere Felici” l’autobiografia edita da Sperling & Kupfer (Gruppo Mondadori) uscita nel 2014. Che è matto da legare lo ammette, forse non si rende ancora conto del clangore che risuona oggi, dopo aver lanciato sul mercato l’Eau de Parfum Hitler n.5, vestito Topolino con la divisa fascista, beffeggiato il leader nordcoreano Kim Jong-un, dissacrato ogni simbolo della storia, esorcizzandone il significato attraverso l’uso delle arti.

Max Papeschi

Non ti manca tua madre, dopo averla venduta all’asta per due spicci?

Quello è stato il momento più divertente. Era un periodo di grande successo, titoli di giornale da ogni parte del mondo, rientravo dal successo mediatico della deflorazione di Minnie su Youporn, durante una cena dico al mio agente “Ma sì, in fondo chi se ne frega della notorietà” e lui mi risponde “Ma se venderesti tua madre per avere un altro anno così“.

Nasce quindi da una battuta.

Esatto, ma tutto il polverone mediatico di news è stato realissimo, giornalisti che chiamavano a tutte le ore e da ogni parte del mondo, nessuno a cui interessava smentire la notizia, piuttosto era importante che i giornali per cui lavoravano facessero clickbait.

Ma tua madre come l’ha presa?

Mia madre si è rifiutata di interpretare mia madre in galleria (ride), al Rinascimento Contemporaneo di Genova, per cui ho dovuto ingaggiare un’attrice datata che sedesse su una sedia, con accanto un trolley e un cartello che citava così “Mamma di Max Papeschi”. E’ stato divertentissimo. In Italia mi chiamò anche Giancarlo Magalli per invitarmi alla trasmissione I Fatti Vostri, ovviamente accompagnato dalla mia vera madre e lei ha risposto “Neanche morta”.

Ma qualcuno l’ha comprata?

L’abbiamo messa fuori a un milione di Euro per essere certi che nessuno la comprasse veramente. (ride)

E se si fosse presentato uno sceicco per riscattarla?

Pensa che imbarazzo, avrei dovuto dire all’attrice “Scusi signorina, mi spiace ma deve seguirlo”.

NaziSexyMouse, Max Papeschi artwork

Perchè non hai lasciato Minnie alla sua illibatezza?

Volevo fare sesso con uno dei miei personaggi, e ho scelto Minnie. Ha seguito le stesse orme di Paris Hilton e Pamela Anderson, sai quelle scelte di marketing studiate a tavolino, lanciate quasi per caso sui canali porno per poi regalare al personaggio notorietà e visibilità immediate, contratti, e lavoro. Abbiamo caricato un video integrale su YouPorn, (la Minnie reale era un’attrice porno), abbiamo pensato che Disney, una volta uscito il video, l’avrebbe licenziata poverina, così sono stato costretto a sposarla, per ridarle onestà e dignità.
Ultimamente ho ricevuto una mail di una pagina e mezzo di un fan che elogia il progetto e che mi chiede di spedirgli il video perchè non lo trova più su Youporn, proverei su Redtube.

Un mockumentary?

Esattamente, come quando nel 2016 sono stato nominato Ambasciatore del Ministero della Propaganda Sociale e Culturale della Repubblica Popolare Democratica di Corea del Nord da Kim Jong Un in persona. Si sono scomodati tutti i giganti dell’arte per omaggiarlo, Marina Abramovic, Banksy, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Lucio Fontana, Piero Fornasetti, Damien Hirst, Jeff Koons e Andy Warhol.

E sei ancora vivo?

Il Consolato della Corea del Sud ha richiesto subito un incontro, mi hanno confiscato il cellulare per evitare che registrassi. Sul tavolo la console aveva un dossier grosso quanto una casa, con su il mio nome.
La foto di Kim Jong Un che mi stringe la mano era su tutti i giornali sudcoreani che dicevano “Artista italiano finge di essere l’Ambasciatore della Corea del Nord”. Mi sono divertito un sacco.

Avrai dei legali che ti tutelano in casi come questi?

No. Io sono proprio spericolato.

Sei matto. Ma quante volte sei finito nei casini?

Dipende cosa intendi per casini, perché quei casini sono gli stessi che mi divertono.

Casini economici, anche.

Nessuno. La Corea del Nord non ti fa causa per una buffonata. Al massimo ti fa ammazzare.

The Leader is Present

Hai fatto niente che fosse realmente pericoloso per la tua incolumità?

Il grande vantaggio dell’ arte contemporanea è che si ha la possibilità di utilizzare brand, loghi, personaggi noti, per il tuo racconto, per giocare su una realtà distopica. Anche se le minacce, mi sono arrivate eccome.

Minacce da chi?

Nazisti polacchi. Si sono offesi perchè ho denudato Minnie che posa davanti ad una svastica. “Quando vieni in Polonia, vedrai”. Insomma in Galleria avevo le guardie del corpo.
Ma si è offesa anche la comunità ebraica perchè “usi la svastica per le tue cazzate”. Poi i patrioti americani che hanno detto “non è una svastica, stai dicendo che gli americani sono dei mezzi nazisti”. E la pagina di giornale “Max Papeschi must die.” Un pochino fa paura, ho pensato, potrebbe spararmi uno psicopatico con disturbi mentali durante una mostra.

Just Married 2008

Il tuo linguaggio è la provocazione?

Il mio linguaggio è racconto. E’ satira. Io arrivo dal teatro, ho giocato sulle nevrosi e sulle ipocrisie della civiltà occidentale. Erano gli anni ’90, periodo di grandi pubblicità e consumismo; la tv era l’Internet di oggi, dove c’è sempre qualcuno che ti indirizza ad una scala valoriale che gli porta soldi.

“Extinction”, il tuo ultimo lavoro artistico, sta toccando diverse tappe, dalle gallerie di Milano alla “Soglia Magica” di Malpensa. 54 statue con il corpo dei guerrieri di Xi’an e le teste di nani da giardino scoperti da una razza aliena. E’ un monito contro il rischio di estinzione della razza umana?

Io credo che la razza umana tenderà sempre a cavarsela, ma non senza aver subìto sofferenza, così come ci insegna la storia. La povertà che ci toccherà non sarà solo economica, ma culturale, e la stiamo già vivendo.

Max Papeschi artwork, cover creata appositamente per il numero cartaceo di SNOB


Credi che l’AI aiuterà la razza?

Credo che il 50% della popolazione perderà il proprio lavoro e faticherà ad arrivare a fine mese, oltre a perdere stimoli intelligenti. L’AI entrerà senza dubbio nella vita di tutti i giorni, i cellulari l’avranno integrata, i taxi si guideranno da soli (A San Francisco è già realtà), soppianterà le macchine e i lavori noiosi che possono logorare l’essere umano, come quello del mulettista, del corriere o del magazziniere. Se queste persone, una volta perso il mestiere, saranno in grado di soddisfare i bisogni secondari e terziari altrove, quindi gratificandosi, allora sarà meraviglioso, in caso contrario ci sarà una grande crisi e senza dubbio un’evoluzione della razza.
Spero solo che non entri di petto nella creatività.

Perchè?

Perchè è tutto troppo perfetto e noioso.
Anche io ho iniziato a studiare le dinamiche di Midjourney, un’estetica effetto marmellata, dieci macro categorie
che si ripetono. L’AI deve essere un mezzo per elaborare tempi complessi, diventa uno strumento meraviglioso solo se lo guidi tu, non se lo lasci all’anarchia.

Domanda di rito. Quanto sei snob?

Comincio a soffrire il disinteresse dilagante alla cultura, la totale ignoranza della storia e del tempo presente, arma utilissima per la risoluzione dei problemi, la comprensione dei macrofenomeni e dello spirito del tempo, il concetto di zeitgeist. Se tutto questo manca, si rimane totalmente indifesi.
Questo snobismo culturale, ti devo dire la verità, ce l’ho.

Rien 2023, seconda cover del numero cartaceo di SNOB 2024

Tenute Tomasella in degustazione al ristorante Joia, il primo stellato vegetariano

TENUTE TOMASELLA 

Un esperimento dove si sono incontrati la cucina etica e sana di Joia, ed il vino sostenibile di Tenute Tomasella, un esercizio di gusto e rispetto per il Pianeta. Joia, il primo ristorante vegetariano a ricevere la stella sotto la guida di Pietro Leemann, Chef, scrittore e sostenitore della cultura vegetariana e della filosofia naturale, e i vini di personalità di chi dal ’65 è tornato alla terra per regalarci una produzione vinicola diversificata e di carattere, Tenute Tomasella sceglie la semplice e complessa cucina verde per una degustazione che mira ad esaltare ogni piatto.

Luogo straordinariamente vocato e al contempo assediato da controversie e contraddizioni, Tenute Tomasella ha radici a Mansuè, nella provincia di Treviso, a cavallo tra la DOC Friuli e la Prosecco DOC Treviso. Due terre di confine, il Friuli ed il Veneto, da cui i vini trarranno il meglio, 50 ettari vitati dove rispetto per il territorio e amore per la diversità, regaleranno un prodotto enologico per definizione ricco di storia.

Se dalla proprietà arriva la loro definizione “Siamo diretti come il nostro vino, pane e salame“, la degustazione dei vini Tomasella al Joia regala invece qualcosa di più della semplicità (anche se gustosissima) di pane e salame, perchè ogni bottiglia ci racconta un pezzo di storia e una sorprendente e potente personalità nei merlot, in terra di prosecchi. L’orgoglio della distinzione laddove il prosecco è scontato, anche se mai demodè.

Ad “Anima Mundi”, un risotto, piatto al centro di ogni cultura internazionale, mantecato vegetale, carote novelle, asparagi alla brace, olio all’aglio orsino (raccolto a mano in montagna dallo Chef), spuma di cavolfiore arrostito e curry, viene abbinato un Bastiè Bianco Friulano Friuli Grave Doc riserva 2016, prodotto di punta dal profumo fine e intenso, ottima persistenza con ricordo di vaniglia, e un finale avvolgente con note mielose.

Altra punta di diamante di Tenute Tomasella, il Pinot Bianco Rigole, Spumante Brut dai sentori fioriti, pieno e avvolgente al palato, perfetto in abbinamento con i germogli brassicales con farina di carrube e maionese vegetale, ma anche con cecina, maionese al curry, pak-choi.

Con un capolavoro della cucina vegetariana di Joia, il tempè fermentato e glassato con riduzione salsa ponzu in purezza (lenticchie e semi zucca), un cubetto laccato di un marrone puro che tanto ricordava una glassa di vino rosso, arriva nel suo mantello rubino intenso il Bastiè Rosso 2016, un Merlot Friuli Grave DOC che diventa protagonista tra le bottiglie che lo han preceduto. Raffinatezza nel profumo, ribes rosso, spezie, caffè, prugna secca, muschio, pepe nero, corpo generoso e persistente, un vino vellutato che non si fa dimenticare, di quelli con cui andresti a braccetto anche senza cena.

E sempre a base di Merlot, il Chinomoro, un merlot chinato da fine pasto, 20 erbe aromatiche tra cui il cardamomo, il coriandolo, l’assenzio, perfetto con il cioccolato, e qui in abbinamento con il cubo di cocco, cuore di infusione di vaniglia, lime, cioccolato, menta, basilico, ciliegia e frutto passione. Di quei vini ricchi, habillè da grand soirée, che leniscono ogni male, da bere anche soli in meditazione.

Se Charles Baudelaire, tra i più celebri lodatori del vino, a cui dedicò vari componimenti ne “Les fleurs du mal” ci ricorda:

Dio aveva creato il sonno, l’uomo vi aggiunse il vino

pur per ragion di santità come soleva fare Tommaso, dovreste recarvi nelle Tenute Tomasella, e scoprire a pieno i valori di quest’azienda, che nel 2026 avrà totalmente raggiunto la conversione al biologico. Fare un tour della cantina, una passeggiata tra le vigne, vivere la tradizione a scoprire il territorio attraverso la voce degli esperti, e soprattutto portare a casa, non solo il ricordo vibrante e indelebile degli assaggi, ma il dono di Dionisio, che dispensa allegrie e libera dalle preoccupazioni. Un vero rimedio passe-partout!

MARIO SCHIFANO. COMPAGNI IN UN’OASI SOTTO IL CIELO STELLATO

Un vero atto di mecenatismo come non si vedevano ai tempi della Guggenheim, la mostra “Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato”, è il vero regalo che dovreste farvi in questa quanto mai caotica Milano Design Week, uno spazio surreale dove per la prima volta in assoluto, avrete l’occasione unica di vedere le opere mai fotografate e mai esposte prima, del grande artista Mario Schifano.

La location, un ex convento ristrutturato e oggi adibito a spazio multifunzionale, head quarter di Hopafin S.P.A., società specializzata in rent luxury appartment, è aperta al pubblico fino al 19 maggio 2024 ed ospita ben venti tele realizzate dal maestro della Pop Art negli anni Sessanta.
“Inevitabile viaggio a Marrakesh” – “Compagni” (bacio), del 1968 – Oasi (o Palme) – e 8 incredibili tele “Tutte stelle”  del 1967 – che furono le pareti della stanza di Patrizia Ruspoli, principessa la cui dimora romana fu dipinta da Mario Schifano con stelle realizzate a stencil spray.

La mostra è forse un evento che non si ripeterà mai più nella storia, una chicca dal cogliere al volo per poter rivivere il percorso artistico e il pensiero di Mario Schifano, che fu il primo vero sperimentatore delle tecniche pittoriche; opere provenienti da collezioni private e proprietà di Roseto, vi faranno viaggiare nei luoghi deserti in cui Schifano riproduceva le famose palme. Di ogni dimensioni e colore, le palme forse sono il ricordo lontano delle radici d’infanzia, quelle libiche della nascita, zone di luce e d’ombra attaccate all’artista come una sorta di nostalgia, la dolce-amara melanconia che cercò di scacciare con le cattive abitudini. Ma lo sanno bene le nature saturnine, che è in questi anfratti che si sveglia la coscienza e l’intuizione, lì dove il dolore non passa.

Di rosso e nero laccata, l’opera “Compagni Compagni” cattura magneticamente l’attenzione; qui c’è tutto il pensiero politico di Schifano e la cronaca del suo tempo, una tela coperta da una lastra di plexiglass che riflette il paesaggio circostante (una scelta voluta?).

Non c’è mai in me il desiderio di ricreare la realtà, le cose sono tutte diverse tra loro ed io voglio rappresentarle nella loro diversità; la mia maniera è guardare.”

In questa affermazione, Schifano ci accompagna alla visione di una realtà personale e personalizzata, il nostro sguardo all’interno della mostra converge nell’esperienza che abbiamo dell’arte e nella conoscenza della vita dell’artista ma, se rispettiamo il suo concetto di “reale”, allora, forse, avremo la possibilità di viaggiare in quei luoghi che egli stesso ha voluto immortalare per donarceli. E allora una palma non sarà una semplice palma, ma una fotografia di Marrakesh che lo ha fatto innamorare. E il gesto di una bomboletta spray non sarà un semplice schizzo istintivo, ma la padronanza della tecnica che viene semplificata e modernizzata dal presente, un presente che Mario Schifano viveva come fosse l’ultimo presente, assorbendone tutta l’energia e la vitalità.

Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato” è una mostra promossa da Roseto e Harves, nuova società specializzata nell’intermediazione di proprietà di pregio del segmento luxury real estate sostenuta da Hopafin, holding leader in Italia e una delle più importanti in Europa a governo di un gruppo con core business nel settore immobiliare e creditizio.

Curata da Monica De Bei Schifano e Marco Meneguzzo, e organizzata da Art Relation di Milo Goj, società leader nella consulenza per il mondo dell’arte, in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano, la mostra ripercorre temi importantissimi della narrazione d’artista, dal periodo musicale psichedelico (è nel 1966-67 in collaborazione con Ettore Rosboch che Schifano forma la band “Le stelle di Mario Schifano”) ai movimenti della contestazione politica.

La mostra riguarda un periodo breve e intenso di Schifano, che lo vedeva da un lato impegnato a vivere, a condividere e a registrare in pittura i cambiamenti nel costume – a partire dalla conquistata libertà nelle relazioni e dalla liberazione sessuale” afferma il curatore della mostra, Marco Meneguzzo. “Inoltre costituisce un unicum e una prospettiva assolutamente nuova nella pur vastissima serie di mostre su di lui. In mostra sono esposte opere di grandi dimensioni, realizzate appositamente per personaggi che come lui stavano vivendo le stesse sensazioni, e mai più esposti da allora, come la stanza “Tutte stelle” – dal pavimento al soffitto un ambiente psichedelico – realizzato per Patrizia Ruspoli”.

Siamo orgogliosi di ospitare questa mostra nel nostro spazio, un ex convento, gioiello nascosto nel cuore di Milano. chiostro diventato oggi uno spazio privilegiato per sviluppare connessioni tra l’universo artistico e il contesto cittadino – afferma Andrea Pasquali, Amministratore Delegato di Hopafin S.P.A.

E la sensazione che vi porterete addosso, dopo la visita alla mostra, è di leggerezza autentica, un riassunto di tutta la sua vita, dagli incontri al Caffè Rosati di Roma, con gli altri Fellini, Moravia e Pasolini, ci si ritrova l’eco di quelle conversazioni; dai colori della Factory di New York, si sente il profumo della psichedelia e tutto quell’apparente caos della sperimentazione ossessiva e assetata che l’immensa e numerosa produzione artistica può confermare.

Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato” è forse quella cuspide di civiltà che gli affamati d’arte e di vita come noi aspettavano.

MARIO SCHIFANO. COMPAGNI IN UN’OASI SOTTO IL CIELO STELLATO
DATE: 17 aprile – 19 maggio 2024
LUOGO: SPAZIO ROSETO, corso Garibaldi 95, Milano
Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00

Chiara Boni Collezione Fall Winter 2024/25

MILANO FASHION WEEK
CHIARA BONI FALL WINTER 2024/25


Piratessa, condottiera, cavallerizza, gran dama, la donna Chiara Boni per questa collezione Fall Winter 2024/25 ha la grinta, la verve, la passione di chi sta andando in battaglia, si tratti di un business appointment o di una sfilata da grande soirée.

La notte si trasforma in un bellissimo fiore, dai toni accessi e brillanti, come il blu notte al chiaro di Luna dai drappeggi a tulipano, o il rosso indimenticabile di una rosa, elegantissima.

Gioca con gli accessori che prende da epoche e luoghi lontani, come il chocker vittoriano con cammeo, simbolo di saggezza e protezione, nato come pegno d’amore e il cui artigianato minuzioso si tramandava di generazione in generazione; e le preziose spille che sorreggono drappeggi e arricchiscono il look sui colletti e in vita.

Austera sia negli abiti bustier che nei long dress in velluto porpora dallo scenico voile che la trasforma in una farfalla notturna, la donna Chiara Boni detta un nuovo must have del guardaroba: il frustino!
Onnipresente accompagnato da guanti in pelle nera, il frustino si fa spazio accanto ai completi scozzesi e sull’iconico tessuto del brand, il jersey, perfetto per assecondare le linee femminili.

Quella di Chiara Boni è un’eleganza senza tempo, che abbraccia le mode con leggerezza, regala alla donna un’allure francese, richiama i tessuti britannici (come lo spigato, il Principe di Galles), l’arricchisce dei colori della natura, dal mirtillo al muschio, dal blu artico al viola lavanda, ma l’attitude, la fierezza, quella è decisamente Made in Italy.

Guarda tutti i look della collezione Fall Winter 2024/25 Chiara Boni




Calcaterra Fall Winter 2024/25

Matèria

Calcaterra Fall-Winter 2024/25

Se esiste un capospalla perfetto, è certamente firmato Calcaterra, che in questa collezione Fall Winter 2024/25 lo rende il protagonista del guardaroba.

Dalle misure over e dalle strutture geometriche, il caposcala si fa comodo, dalle lunghezze maxi, lasciando libero il corpo e arricchendosi di dettagli femminili, come i maxi fiori applicati o lasciando uscire i fiocchi e le stoffe della camicie.

Chic, mai costretta in abiti seconda pelle, la donna Calcaterra è libera dalle costrizioni, gioca con le forme maschili, gli accessori come le borse diventano dei maxi contenitori dalle forme geometriche, rotondi, rettangolari e trapezoidali, quasi degli origami che aprendosi svelano uno spazio nascosto.

Notte o giorno non ha più importanza, bisogna essere sempre pronte ed eleganti, per cui il raso e le sete si coprono di pellicce e le giacche si scoprono con tagli alla Fontana.

Se il look è sciolto, i capelli sono perfetti, impomatati in un’acconciatura con riga laterale e dal taglio maschile, corto sempre più corto, per non doversene preoccupare.

Pantaloni con riga perfettamente stirata, dalla vita alta, altissima, sì ai guanti e meno ai gioielli, pochi ma dalle stesse linee dell’outfit, con cerchi e catene maxi; i colori sono quelli caldi dell’autunno, perfetti per un genere “autumn deep warm“, ruggine, bordeaux, zafferano, torba, bianco latte, dattero, rosa antico, geranio, verde bosco, tabacco, un bellissimo bouquet che scalda.

La collezione di Daniele Calcaterra è ricca della materia di cui è fatta la terra, dei suoi colori e delle sue profondità; sceglie i tessuti più pregiati, lane, sete, shetland, cotoni preziosi, alpaca e upcycled fur. I veri gioielli sono i fiori, che ritornano su capispalle e scarpe, il giglio pure e la peonia.

Antonio Marras FW24/25, il legame indissolubile con la sua terra e un omaggio alla forza delle donne

Antonio Marras FW24/25, il legame indissolubile con la sua terra e un omaggio alla forza delle donne

Teatrale e poetico come sempre, Antonio Marras omaggia nella collezione autunno inverno 2024/25 un personaggio femminile che ha difeso i diritti delle donne, Eleonora d’Arborea, Principessa 👑 medievale di Sardegna.

Vissuta tra la metà del 1300 e i primi ‘400, la Judicissa si è battuta per le ingiustizie e ha redatto trattati a favore del “sesso debole”; sudditi e regnanti si mescolano in questa sfilata, dove compaiono cavalieri e dame, cotte di maglia e copricapi danteschi, acconciature prese direttamente dal ritratto “Dama con ermellino” di Leonardo da Vinci (1452-1519), testi scritti sui volti femminili che sembrano veli, maschere di perle, donne in armature dorate. 

Qui Marras accarezza ancora una volta la donna, ne sottolinea il carattere e la forza, l’intelligenza e la perseveranza, un atto di amore a cui ci ha abituati, insieme ad una scenografia e ad un mini spettacolo teatrale che tiene incollati e che invoglia a vederne il finale.

(foto Alessandro Lucioni)

Flower Burger festeggia 8 anni di colore e gusto

Se avete visto una vetrina di panini colorati, è certamente quella di Flower Burger, che ha fatto del colore il suo tratto distintivo. Ma non solo, perchè Flower Burger ha da sempre sostenuto la cucina vegan, con un approccio inclusivo. Una strategia che abbraccia tutti i gusti e tutte le scelte, accompagnando anche l’onnivoro in quello che per Flower Burger è etica con gusto.


Il primo Flower Burger è nato a Milano nel 2015 ed oggi è diventato il primo vegan fast food per punti vendita al mondo; conta infatti 20 store tra Italia, Francia e Olanda, sviluppando un marchio inclusivo plant-based attraverso proposte di colorati hamburger e gustosi dessert vegani.

Founder è Matteo Toto, imprenditore under 40 che comprendendo la forte assenza sul mercato italiano di proposte vegan di fast food, concretizza passo dopo passo il nuovissimo concept, dalla prima apertura in Porta Venezia fino al suo modello odierno di business, suddiviso in tre unità:

– la Flower Factory, centro produttivo dei core ingredients
– i punti vendita diretti situati in luoghi strategici a favore di mercato
– e i franchising.

La mission è dimostrare come si possa mangiare vegano senza rinunciare a gusto e divertimento, responsabilizzando il consumatore a un’alimentazione sana in locali rispecchianti la brand image colorata e frizzante. Pane colorato, salse artigianali, contorni sfiziosi, un menù di ricette studiate minuziosamente per rendere ciascun piatto unico, in equilibrio tra lo spirito salutista e l’amore per il fast food: un’offerta ricca e in continua evoluzione, capace di stupire anche i carnivori più scettici.

La visione positiva delle diversità si riflette così nel motto dell’azienda, “Different by nature”, valorizzando le differenze con elementi di originalità e unicità: amante e amato da una clientela sempre più variegata e diversificata, il brand diventa punto d’incontro per tutte le comunità.


Tutti i preparati sono fatti artigianalmente, dalle salse ai contorni, ai burger, non vengono usati coloranti o conservanti, il colore stesso dei panini è ottenuto dalle farine di carote viola, barbabietole e altri cibi che hanno naturalmente quel dato colore. Le bottiglie utilizzate in qualsiasi punto del mondo F.B. sono in PET 100% riciclabili e composte interamente di plastica riciclata. Ma la grande forza del progetto Flower Burger, che l’ha portato al successo, è l’abolizione di ogni stereotipo sul veganesimo. Quanti onnivori non sono mai entrati in un ristorante vegan? Moltissimi, spesso con l’unica ragione di avere il pregiudizio che vegan sia uguale ad assenza di gusto o carenza di scelte alimentari. Al contrario, da Flower Burger, vi accorgerete di quanto le verdure ed ogni singolo alimento acquisti sapore, proprio perchè cucinato con ingredienti naturali. Mangiare un panino qui significa provare un’esperienza nuova di gusto, che prima di tutto rallegra gli occhi.

Noi consigliamo il Cherry Bomb (l’impasto di farina di tipo 1 viene mixato alla polvere color rosa derivante dal succo di barbabietola chiarificato e concentrato; a tali pigmenti, l’estratto di ciliegia contribuisce alla tonalità finale del bun; con semi di sesamo), con pomodori confit, salsa rocktail (la sua realizzazione passa dalle salse più celebri al mondo: ketchup, senape e Flower Mayo, arricchite dal sapore marino dell’alga nori e dalla nota alcolica del brandy), flower cheddar (fette vegetali con gusto aromatico che richiama il tipico cheddar inglese, senza lattosio né latticini), burger di lenticchie (prima lessate, vengono poi mescolate con riso basmati e verdure tritate per dare vita ad un patty compatto e di sostanza), insalata gentilina e germogli di soia.


Festival di Sanremo, la parola agli stylist

Mai come in queste serate, la televisione ha la funzione del caminetto, tutti intorno ben disposti a riscaldarsi“,

Carlo Giuffrè in merito al Festival di Sanremo.

E lo è tutt’oggi un evento che unifica l’Italia, pronta a votare la canzone migliore, a giudicare i cachet da capogiro, a riconoscersi in un brano, ma soprattutto a valutare il look che si potrà copiare o fucilare fino al prossimo Sanremo.

Una corsa allo stylist più bravo, più inserito nel contesto moda, un palco a metà dove il cantautore si affida a quel ruolo oggi più che mai sotto i riflettori, lo stylist.

Li abbiamo intervistati per comprendere meglio cosa c’è dietro le loro scelte d’immagine.



SUSANNA AUSONI

Stylist di Annalisa

Questo è il Festival della canzone italiana o il Festival dello Stile?

E’ una domanda che rimando a te. Il disequilibrio tra musica e stile è stato creato dai giornalisti.
Il Festival dagli anni 2000, quelli dei miei inizi, ad oggi, è certamente cambiato, anche se è sempre stato un grande evento attenzionato, dove i contenuti sono sempre più importanti.
Oggi i giornali fanno le pagelle, è una moda che copiano tutti, spesso senza conoscere il lavoro che sta dietro al personaggio, voti dati a casaccio in maniera poco obiettiva. I social fanno il resto, un altro luogo di democraticizzazione del giudizio senza conoscenza. Sembra di vivere gli ’80, l’epoca dei paninari che compravano le Timberland omologandosi per sentirsi parte di un gruppo.

C’è una corsa al brand lusso acchiappalike?

Purtroppo sono in tanti a trincerarsi dietro il marchio, il pensiero è “piacere alla Milano fashionista per essere cool”; la verità è che si è perso il coraggio, quello che aveva Loredana Bertè nel lontano ’86 quando fece scandalo indossando sul Palco dell’Ariston un finto pancione.
E’ un vero peccato perchè il lavoro più interessante dello stylist sta nella ricerca, ma le famigerate pagelle fucilano i colleghi se scelgono brand minori, anche sconosciuti, ma che alle spalle hanno importantissimi uffici stile, notizia nota solo agli addetti al settore.

Quest’anno è il brand Dolce & Gabbana a vestire Annalisa, una scelta che esalta il made in Italy, perfetto per lei e coerente con il dna del Festival, per l’appunto Italiano.

Quanto è importante per la carriera di uno stylist, vestire un cantante ad un evento di portata nazionale?

C’è chi firma lavori anche senza avere una lunga esperienza, non sempre la competenza è sinonimo di successo.
Certo il Festival è un palco importante ma rischioso per chi fa questo mestiere, perchè si è sotto i riflettori, oggi più che in passato, e sbaglia anche chi ha tanti anni di lavoro alle spalle.
Il Festival regala uno spettacolo meraviglioso, dove per noi stylist si è però persa oggettività e freschezza.

FLORIANA SERANI

Stylist di Fred De Palma


Quanto lavoro psicologico, oltre che di ricerca stilistica, c’è nell’approccio al personaggio?

Personalmente cerco sempre di conoscere la persona prima del personaggio.
Chiedo di essere coinvolta nell’ascolto della canzone in gara, e di costruire intorno a questa, un immaginario visivo che dia forza al suo mondo musicale, partenza sempre dal cantante.

In queste tue scelte, la casa discografica e l’ufficio stampa del cantante, sono coinvolti?

Non in questo caso, anche se per alcune attività ad un certo punto del lavoro ci si confronta sempre.

Hai mai ricevuto richieste strambe da parte dei cantanti?

Spesso succede che richiedano stili non ancora sviluppati da designer, sembra assurdo ma la fantasia è tanta; e in questi casi si passa ad un lavoro di custom creativo, con l’appoggio di sarti. E’ la parte divertente del lavoro, creare ciò che ancora non esiste sul mercato.

Quanto coraggio hanno oggi gli stylist al Festival?

Dipende molto anche dal rapporto tra stylist-artista.
Conoscendo Fred De Palma da diversi anni, so che per lui è importante mantenere la sua identità, rispettando anche le “etichette” d’eleganza del Festival. Il mio lavoro è non snaturare l’artista e portare avanti il suo linguaggio streetwear che nel brand Ssheena ha avuto un buon alleato.

Che cosa fa la differenza in un lavoro di styling, rispetto ad un altro, al Festival di Sanremo?

L’essere di supporto all’artista, alla canzone, allo show. In sintesi lo chiamerei lavoro di coerenza.

GIUSEPPE MAGISTRO

Stylist dei The Kolors

Come si prepara uno stylist ad un Festival di Sanremo?

Con i The Kolors il lavoro è iniziato sei mesi fa, siamo partiti dalle ispirazioni anni ’80, dalle forme, dalle strutture delle giacche, dai gruppi funk come gli Spandau Ballet, ai look del cantante britannico Nick Kamen, cercando di sintetizzare quel periodo fantastico per la moda e attualizzandolo, semplificandolo. Il minimo comune denominatore trovato, ci ha portato alla pulizia e all’eleganza di Armani. Ne è uscita un’immagine dei The Kolors pulita e senza fronzoli, in target con Sanremo e soprattutto che ha saputo valorizzare tutti e tre i musicisti.

Quanto conta il loro gusto personale e quanto la visibilità che regala un determinato marchio?

Fondamentale per me è rispettare il dna dell’artista, perchè sul palco c’è un essere umano.
Io cerco di sapere il più possibile di loro, dei loro gusti, delle loro preferenze, andando a togliere il superfluo, puntando sulla qualità di certe scelte, sui tessuti, sulla sartorialità. Con Maison Armani, nella serata finale, ci saranno ricami, punti vita, pantaloni a palazzo vita alta, per un effetto wow. La fortuna con i The Kolors è che hanno non solo una grande passione per la moda, ma una fisicità adatta a supportare ogni tipo di richiesta.

Quanto ancora lancia icone di stile il Festival di Sanremo?

Oggi ci sono delle scelte nteressanti, il Festival è certamente un palco dove si sta tornando a sperimentare, ed è una bella sorpresa ripensando a 15 anni fa quando la ricerca andava scemando. Se anche i brand internazionali decidono di rappresentare i cantanti in gara, questo dovrebbe farci pensare che si è sulla giusta strada, che stiamo lanciando messaggi universali.