Il diktat della Milano Fashion Week 2018, lo hanno capito anche i muri, è lo sport!
E Philipp Plein ci invita ad un fashion show che è il Beverly Hills Tennis Club, con l’intenzione di trasformare i modelli in talentuosi Björn Borg, con le palle di John McEnroe!
Una collezione che veste i campi da tennis, con tanto di visiere e fasce, leggins e polsini.
Incarnare lo stile di Billie Jean King, ex tennista vincitrice di 12 titoli singolari, 16 titoli di doppio e 11 titoli di doppio misto del Grande Slam è un’ardua impresa, ma il team Plein Sport è coraggioso, soprattutto quando mette in campo, prima della fine della partita, una Paris Hilton che poi salirà sul podio per far quello che sa far meglio: spruzzare champagne sulla folla.
La primavera / estate 2019 #PLEINSPORTCUP ha i colori dell’Italia, bianchi e azzurri, verdi e rossi.
I pezzi chiave sono le giacche leggere con dettagli a pipa, le tute a blocchi di colore, i maglioni con scollo a V, le polo chevron, gli shorts al ginocchio e le minigonne a pieghe.
La Plein Sport lancia anche lo speciale simbolo presente sulle polo, sugli asciugami e sui costumi da bagno: due racchette da tennis incrociate. Una collezione fruibile anche per i giocatori di smash-volley.
Era il tempo dei colori sgargianti, delle fantasie psichedeliche, dell’allegria dei figli dei fiori, era l’epoca di Verushka e Pat Cleveland, degli occhioni di Twiggy e del sorriso imperfetto di Lauren Hutton, erano gli anni ’70 che ritornano sulle passerelle della Milano Fashion Week 2018, compresa quella di Daks.
La Primavera Estate 2019 di Daks è multivitaminica, ha i colori dei frutti e il tocco british che da sempre contraddistingue il brand diretto dall’italiano Filippo Scuffi.
Sfila ancora una volta in co-ed, con collezioni uomo e donna che guardano verso la stessa direzione, tanto da contaminarsi e confondersi, ma l’effetto gender piace dai tempi di Katharine Hepburn, prima donna del cinema a indossare i pantaloni.
Torna il pantalone a zampa di elefante, che dei ’70 ha fatto la storia, il dolcevita sotto la giacca dalle ampie spalline, le fantasie dentro cui non può mancare il color senape, e primeggia l’Anniversary Check, una speciale stampa creata appositamente per festeggiare il 125mo di Daks.
Gli accessori, che dei ’70 erano protagonisti, con Daks aumentano di volume: i maxi cappelli a falda larga, i bracciali large in resina colorata, gli occhiali over con foulard sui capelli a fare da cornice.
L’uomo veste i colori pastello, il rosa confetto, il verde acqua, il giallo limone, la donna, nei suoi stivali alti, indossa i pregiati chiffon, georgette, sete e cachemire. Orecchini, borse, cappelli e bijoux sono abbinati alle stampe della collezione e le bag realizzate con pellami esclusivi degli stessi colori.
Sfoglia l’intera collezione Uomo Donna Spring Summer 2019 di Daks:
Torna con molte novità l’edizione del WHITE MAN & WOMAN, il “WHITE SHOW“, la fiera che si occupa della ricerca di talenti emergenti e dello scouting di brand internazionali.
Quest’anno, tema delicato che ha toccato un po’ tutti i settori, si focalizza sulla “sostenibilità“.
Identità forti per i brand presenti al WHITE, con caratteristiche che li contraddistinguono nell’esposizione e incentrati sull’avanguardia e la sperimentazione.
Dagli accessori alla maglieria, i nomi più interessanti del momento per gli addetti al settore che, ogni anno, accrescono all’evento, dando possibilità a consumer e buyer di comunicare senza fili, ma direttamente allo show-room.
Vediamo insieme alcuni dei brand selezionati:
SPECIAL GUEST – MATTHEW MILLER
Matthew Miller x K-Swiss Redux:
Matthew Miller presenta una moderna collaborazione di streetwear riciclato. La nuova K-Swiss Redux è una collezione innovativa prodotta dal merchandising della vecchia band, riciclata al 100% e con una filosofia zero rifiuti. Redux è una dichiarazione di entrambi i marchi per dimostrare che il design e la produzione possono essere realizzati all’interno del mondo tessile in modo socialmente e ambientalmente responsabile.
Questa innovativa collezione utilizza le ultime tecnologie per unire tessuti antichi con materiali sostenibili, dando vita a una collezione streetwear di alta qualità che riflette l’eredità musicale degli anni ’90 di K-Swiss che non scende a compromessi in fatto di stile o impatto ambientale!
Peli X Matthew Miller:
Le custodie della gamma Peli Protector sono realizzate in polipropilene copolimerico utilizzando un nucleo cellulare a celle aperte e una solida struttura a parete, garantendo la massima resistenza e durata che dovrebbe durare una vita
Le custodie protettive sono state sottoposte a severi test di protezione contro l’ingresso di acqua e polvere per ottenere il loro grado di protezione IP e la certificazione Stanag 4280 / Defstan 81-41.
XUAN PARIS
Crescere tra le stoffe di un’azienda tessile segna, non c’è dubbio!
Xuan-Thu è figlia della moda e fonda Xuan Paris nel 2004 a Parigi, anche se le sue origini sono vietnamite; si laurea nel 1999 al prestigioso Amsterdam Fashion Institute ed esprime il suo talento attraverso le collezioni pret-à-porter vendute a Parigi, Berlino, Barcellona, Milano, Los Angeles, New York e Tokyo.
Nel 2017 XUAN presenta la sua prima collezione Couture Primavera Estate come membro invitato della Fédération Française de la Haute Couture et de la Mode.
Sono capi portabili e di prezzo accessibile, ma con quel gusto romantico e sofisticato dal tocco couture.
SALVATORE VIGNOLA
Dalle antiche origini di Matera, arrivano gli abiti della collezione Salvatore Vignola, un’ispirazione che parte da molto lontano, tra quegli enormi sassi dove la comunità tutta al femminile, chiamata “il vicinato” dava luce e colore al piccolo teatro cittadino.
Donne che andavano e venivano dalle piccole abitazioni fatte di occhi, occhi che spiavano i movimenti di tutte, strade che vociferavano pettegolezzi e invidie scagliate per infangare il nome di qualche figlia in età da marito.
Sembrano favolette e invece la vita a Matera si svolgeva esattamente in questo modo, in una cruda realtà di miseria e piccineria, di bugie e finzioni, di comunicazione tra donne costrette a rimanere all’interno del “vicinato” solo quando non erano al lavoro tra i campi.
Gli abiti sono complessi nella struttura e nei tagli, i tessuti pregiati vengono mixati agli ecosostenibili, seta, lane, tulle di soia, denim di canapa.
La creatività del designer è solo il mezzo per approcciare temi più importanti, considerazioni personali, ricordi, dna.
WRAD – GRAPHI-TEETM
GRAPHI-TEETM è il progetto Made in Italy di WRAD, start-up che vince il RedDot Design Award per l’innovazione sostenibile nel settore fashion grazie alla t-shirt Made in Italy che recupera la tradizione puntando all’economia circolare.
Premio ricevuto per i messaggi di cui si fa portavoce e per la tecnologia circolare che lo caratterizza, sviluppata per offrire una risposta innovativa all’utilizzo di sostanze chimiche nei processi di tintura e funzionale a dare una seconda chance ad un tipo particolare di scarto industriale – la grafite.
Gli obiettivi sono riportare attenzione e rispetto per la forza lavoro e mettere il pianeta al centro del fashion business, settore che attualmente sta al secondo posto come il più inquinante dopo quello petrolifero.
GRAPHI-TEETM ha un design ispirato alla tradizione grazie al processo di tintura che riprende una tecnica tramandata nei secoli dagli abitanti di Monterosso Calabro. Nel piccolo centro in provincia di Vibo Valentia, infatti, è ancora viva la memoria di una antica usanza romana che sfruttava la grafite naturale, ricavata dall’unica miniera presente in Italia e qui situata, per tingere i tessuti.
Il risultato è GRAPHI-TEETM, la prima t-shirt in grado di recuperare fino a 10 grammi di grafite di scarto. Non solo un’alternativa innovativa alle dannose tinture chimiche utilizzate dall’industria tessile ma anche una soluzione circolare per uno scarto industriale.
GIUSEPPE BUCCINA’
Analisi sociologiche e uno sguardo all’attualità sono le ispirazioni Giuseppe Buccinna’ che fa del made in Italy il suo punto di forza.
L’intera produzione ha carattere italiano, dal più piccolo lavoratore, fino alla fase finale, sono fornitori e collaboratori scelti sulla base di obiettivi condivisi, sull’affidabilità e sull’etica eco-friendly.
“Ho amato una donna ma lei mi ha lasciato. Speravo fosse nel 2046. E quindi sono andato a cercarla lì. Ma non c’era. Da allora non riesco a smettere di chiedermi se mi abbia mai amato. La risposta è un segreto che nessuno conoscerà mai.”
2046 – Wong Kar-wai
C’è chi trova l’amore e, perdendolo, viaggia in lungo e in largo, alla sua continua ricerca. Chi lo brama nelle persone sbagliate, forzando caratteri e personalità inesistenti, chi vede negli occhi del/della compagno/a del momento, il riflesso di un ricordo passato, chi arriva a viaggiare nel tempo, nel 2046, come il protagonista dell’omonimo film di Wong Kar-wai.
E’ questa l’atmosfera della collezione Fall Winter 2018/19 di Gilberto Calzolari, un futuro dall’amore incerto, ma in cui la donna è, ça va sans dire, preparatissima. Habillè negli abiti kimono, comoda nei pantaloni samurai, tutta la collezione è pervasa da un gusto orientale, con un tocco romantico e un’aria ultra-moderna.
La collezione Fall Winter 18/19 di Gilberto Calzolari racconta quel 2046 ma con un piede nel presente, una combinazione fresca ma ricercata, mantiene quella grazia e quella “castità” tipica della donna orientale, abiti che si alzano fino ad avvolgere il collo, qui in reti elasticizzate.
Veste una donna dal gusto distinto, che sceglie le sete per abiti color caramello, impreziositi da leziose sciarpe con ricami a contrasto.
Le giacche couture hanno maniche a farfalla, gli accostamenti sono ambiziosi, vinile e velluti, jacquard e macramè, eco-pellicce e neoprene.
I colori sono eleganti come gli interni delle case del Sol Levante, melanzana, melograno, mandorla verde, pesca, caramello e l’effetto optical del bianco e nero.
I materiali sono hight level, così come la manifattura, l’eccellenza del Made in Italy, che Gilberto Calzolari, dopo 15 anni nel mondo della moda, ha deciso di portare a bandiere aizzate col suo nome.
Un brand dallo stile riconoscibile e con una specifica identità, contraddistinta dai dettagli retro’ e da combinazioni nuove e inaspettate, tutto quello che il fast fashion non ha.
Sfoglia qui l’intera collezione Gilberto Calzolari Fall Winter 2018/19:
Escono dal mare, tra la schiuma e l’andirivieni delle onde, sono le ninfe, che il brand Clara AEstas omaggia con i suoi preziosi costumi.
“Vestire” con un bikini oggi è possibile, quando a realizzarli sono il gusto, l’eleganza e la voglia di unicità.
Clara AEstas propone una collezione ricca e di pregiati dettagli, come le lavorazioni in pizzo e gli inserti in seta, disegni che riportano alle forme dell’antica Grecia, al suo stile architettonico, ai capitelli con le foglie di acanto.
Chi sono le donne che indossano i costumi Clara AEstas? Sono romantiche e creative, come le dee greche, cercano un look elegante anche per la spiaggia e sofisticato ma con un tocco trendy. Il classicismo è un evergreen.
Le tinte dei bikini sono delicate come i cieli di Tiepolo, vanno dal rosa antico all’azzurro carta da zucchero, le lavorazioni vengono applicate a contrasto sulle scollature, come delle piccole ali di angelo.
Sono creature oniriche e incantate coloro che scelgono Clara AEstas, vestono il corpo femminile omaggiando le loro antenate, gli accostamenti tra tessuti e pizzi ricordano le vesti di Cerere, dea della nascita, poi identificata come Demetra nella cultura greca. In sé tutto il principio, i fiori, la frutta e gli esseri viventi sono tutti suoi doni.
Una collezione che omaggia in toto la femminilità, per donne che finalmente possono avere un bikini che le contraddistingua, un pezzo unico e simbolico.
Si è appena conclusa la mostra “Frida. Oltre il mito” con un record di presenze per il Mudec di Milano: oltre 360.029 visitatori per la monografica che entra nella top ten delle mostre più visitate di sempre a Milano, inserendosi al terzo posto.
La mostra ha registrato inoltre un altro primato: è stata per ben 11 settimane al primo posto tra quelle più visitate in Italia. L’esposizione ha raccolto, per la prima volta in Italia e in un’unica sede, tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie collezioni di Frida Kahlo al mondo, e ad accrescere la sua importanza, la presentazione di inediti tra dipinti, disegni, fotografie e documenti epistolari.
La si odia o la si ama, ma Frida Kahlo è (e questo non ha zone d’ombra) un’icona di stile e un personaggio che ha lasciato delle impronte in ambito artistico, stilistico e politico.
Tutto il corpo della sua opera è di natura irriducibilmente politica, anche quella giovanile, persino i suoi disegni (i più interessanti), ogni immagine si fa veicolo della resistenza sociale e dell’opposizione. Tutta la tensione a cui la vita l’ha obbligata, a partire da quel terribile incidente che l’ha costretta a sottoporsi a ripetuti interventi nel corso della vita, diventa energia vibrante nei suoi quadri. Quadri che hanno il linguaggio del surreale, che possiedono ogni sorta di simbologia, che rimandano ai terribili episodi della sua vita. Sfortunata, per quanto ricca di incontri importanti e di amicizie influenti, perché il dolore fisico l’ha sempre accompagnata, come un’ombra, come un macigno da cui è impossibile separarsi, come quel palo nell’incidente in autobus, che le ha attraversato schiena e vagina. L’evento che accosterà, come malefico, all’incontro con Diego Rivera, l’uomo che sposerà.
Il suo corpo si fa, da subito, veicolo di messaggi, manifesto di protesta , usato per contestare ingiustizie, malvagità, delinquenza, controllo, a partire dai suoi autoritratti, il suo inizio, l’immagine riflessa allo specchio che l’ha accompagnata nelle ore agonizzanti bloccata a letto. Frida fece installare uno specchio sul soffitto per potersi guardare e dipingere la propria figura, da allora, quelli che noi oggi chiamano “selfie” sono stati le pagine di diario che ci raccontano il suo carattere psicologico. Nel 1948 ne dà alla luce uno, il suo secondo, in cui appare indossando il copricapo tradizionale da Tehuana, che Diego Rivera (il grande pittore messicano, suo marito) amava tanto. Qui Frida appare sofferente, intrappolata, prigioniera del suo stesso dolore. Gli occhi, lacrimanti, non dissimulano la tristezza, ma al contrario la amplificano recuperando l’iconografia mariana della Vergine Addolorata. I contorni del viso sono marcati e i baffi induriscono il volto conferendole l’aspetto maschile che Frida non nascondeva. Sono gli anni in cui Frida reclama un po’ di pace, qui equivocata dalla paloma de paz (la colomba) posta al centro del medaglione.
Imperfetta o tecnicamente sbagliata, la pittura di Frida Kahlo si fa potente nelle immagini, che hanno forza espressiva e oratoria. Si muove tra la realtà e la metafora, creando storie torturanti, disturbanti, necessarie per mandare in frantumi l’indifferenza e il generale senso di impotenza. E trova sempre, anche in questo quadro che racconta un episodio di cronaca, “Qualche colpo di pugnale”, un’attinenza alla sua vita privata. Qui una donna ricoperta di sangue giace sulle lenzuola completamente nuda, indossando solo una calza con giarrettiera scivolata alla caviglia e una scarpa. Accanto alla vittima, il carnefice, una mano d’indifferenza nella tasca, e l’altra colpevole con un pugnale alla mano; Frida lesse la storia dell’omicidio su un giornale, un raptus di gelosia dell’uomo che si difese davanti al giudice dicendo: ” Sono solo pochi colpi di pugnale”. Proprio come Rivera, accanito donnaiolo, giustificava i suoi innumerevoli tradimenti: “E’ solo sesso, non significa niente”. Frida ha in quel momento ha il cuore spezzato, ha appena scoperto la relazione extraconiugale tra Diego e sua sorella Cristina, ma il dolore è talmente forte da non riuscire a dipingerlo in prima persona, usa così la proiezione della sua digrazia in un’altra donna.
Frida Kahlo ha utilizzato tutti i mezzi che aveva a disposizione per esprimersi, lo ha fatto attraverso l’arte pittorica e tramite l’uso del suo corpo, vestendosi di grandi collane e abiti tradizionali, e agghindando le sue acconciature con fiori freschi e nastrini colorati. Le trecce facevano da corona intorno alla testa, il classico scialle messicano copriva le spalle o veniva usato intorno alle ampie gonne, le sopracciglia erano folte, nere e unite al centro, il suo tratto distintivo insieme alla peluria sopra la bocca e agli abiti maschili che amava spesso indossare, a volte per provocazione, altre perché non amava le etichette; noi oggi la chiameremmo gender, lei è arrivata prima di noi!
422 BAUME CONFORT REFLET D’OR, la crema gold di Maria Galland Paris in edizione limitata
L’estate arriva quando meno te lo aspetti, e in questi casi c’è sempre quel miracoloso prodotto che ti soccorre. Noi lo abbiamo trovato, è 422 BAUME CONFORT REFLET D’OR, già best seller di Maria Galland Paris.
422 BAUME CONFORT REFLET D’OR è una crema utile per diverse occasioni:
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2. quando ti sei già esposta al sole, ma il rossore e le prime esposizioni non sono abbastanza per arrivare a quel colorito che tanto ti piace, effetto “un mese alle Barbados”, è allora che 422 BAUME CONFORT REFLET D’OR lenisce e rigenera grazie ai principi attivi dell’acido ialuronico e grazie all’estratto di radice di liquirizia che calma anche i rossori e attenua le irritazioni
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Il pratico tubetto di piccolo formato (150 ml) è ideale da portare in viaggio, anche nel bagaglio a mano, o nella borsa da spiaggia, da avere sempre con sé in vacanza quando appena dopo una giornata al mare ci si prepara per un drink sulla spiaggia.
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Confezione da 150 ml prezzo di vendita consigliato: 35,00€
Si è conclusa con grande successo la sesta edizione della Monte-Carlo Fashion Week. I temi di quest’anno sono stati l’ecosostenibilità e l’innovazione, e per diffondere il verbo diversi brand hanno presentato la propria collezione presso lo Chapiteau de Fontvieille, location ricca di eventi tutto l’anno, dell’eccellenza internazionale in sede monegasca.
Inaugurata con la Fashion Awards Ceremony & Gala Dinner, la Montecarlo Fashion Week ha dedicato spazi a conferenze e dialoghi Face to Face con i leader della moda al Salle Bellevue del Café de Paris nella Piazza del Casinò di Monte-Carlo per poi presentare i 40 designers provenienti dai quattro continenti e le loro collezioni.
MAISON GENNY, grazie all’impegno di Sara Cavazza Facchini ha sfilato con la Green Special Edition di Genny. Sara Cavazza Facchini, Creative Director della maison di prêt-à-porter Genny, continua il suo impegno a tutela dello sviluppo sostenibile della moda e, in occasione di Milano Moda Donna crea una special edition per la collezione primavera-estate 2018. Questa speciale selezione di capi è stata realizzata con tessuti eco nati dalla collaborazione con l’azienda Taroni, secondo quanto definito dalla campagna Detox di Greenpeace e nel rispetto dei severi requisiti richiesti dalla certificazione GOTS – Global Organic Textile Standards. Donna e madre, prima ancora che Creative Director Genny, Sara Cavazza Facchini è da sempre impegnata in prima persona in progetti legati alla sostenibilità. Un percorso che ha avuto inizio con l’adesione a Fashion4Development nel settembre 2015 e che è proseguito con la nascita dell’etichetta dei valori, subito tradottasi in azioni concrete. Sotto la sua direzione artistica infatti la maison Genny ha conosciuto un crescente impegno per limitare l’impatto sull’ambiente nella realizzazione di ogni singolo passaggio del processo produttivo. L’approccio sostenibile, nella visione di Sara Cavazza Facchini, interessa ogni livello della filiera produttiva: dalla creatività al modello organizzativo.
Una collezione proiettata nel futuro, perché il futuro è già adesso, ma del futuro ha in sé il concetto di spazio e di tempo, ne acquisisce i colori, i silver e i metallizzati, le forme spigolose e le strutture rigide, i triangoli che si allungano verso l’alto, verso lo spirito, e i cerchi applicati sulle maglie, il simbolo dell’infinito, della perfezione.
I seventies sono tornati e con loro le atmosfere “Happy days”, le cucine con le pareti giallo ocra e i pantaloni in velluto a coste. Ci fanno compagnia i maglioni over size e vecchie lettere d’amore, quelle che cantava la Mannoia ma che nessuno scrive più.
La nostalgia del passato si fa sentire e torna, come succede spesso nell’ambito moda, come tutti gli ex, con una vena nuova, più moderna, adeguata ai trend e Momonì ne fa una collezione, quella autunno inverno 2018-19.
Lo fa su due pilastri importanti della maison, qualità e ricerca:
“Il nostro punto di forza sono la qualità e la ricerca. Molte delle stampe che trasferiamo sui vestiti, sono quadri, tappezzerie, disegni, che ritroviamo nei nostri innumerevoli viaggi intorno al mondo. Un giorno, durante un pomeriggio parigino, mi ritrovai in un caratteristico negozio vintage, a sfogliare un libro di botanica. Quei meravigliosi intrecci di foglie e fiori, oggi sono le stampe Momonì” (Michela Klinz – designer)
I tagli hanno una linea sartoriale di gusto maschile, comoda, un look casual per una donna impegnata, ma che non rinuncia allo stile.
I dolcevita, quelli tanto amati dagli uomini come sottogiacca, si fanno a righe colorate e scaldano con il cashmire. I tessuti classici sono in lana tartan, i velluti profilati con dettagli tecnici, i capi legati in vita con cinture marsupio multitasking.
Momonì racconta uno stile urban miscelato all’avant-garde con dettagli parisienne, la stessa finta noncuranza, l’essenzialità, la comodità dei capi.
LA MAISON
Momonì nasce nel 2009 da un’idea di Alessandro e Michela Biasotto, è un marchio di pret à porter femminile che unisce lo stile italiano con il fascino e lo charme parigino. L’evoluzione del brand si completa con il debutto del concept store Momonì – presente a Parigi e in Italia a Milano, Bologna, Verona, Vicenza, Padova, Treviso e Firenze.
La distribuzione del brand è basata su una rete wholesale che conta un ampio network di clienti di livello medio-alto non solo a livello Europeo ma anche oltre Oceano e la collezione è presente nelle più belle vetrine internazionali.
E’ uscito nelle sale dei cinema italiani, in anteprima mondiale lo scorso aprile, “Van Gogh tra il grano e il cielo“, un docufilm che ripercorre la storia del grande pittore olandese, attraverso le opere raccolte dalla sua più grande collezionista, Helene Kröller-Müller.
Dato il successo al box office (420.000 euro di incassi e 50mila spettatori in soli tre giorni), 3D Produzioni e Nexo Digital (specializzata nella produzione di film su arte e musica) propongono la replica per le date 22 e 23 maggio 2018.
Helene Kröller Müller era una mecenate olandese dei primi ‘900. Affascinata dall’opera di Vincent van Gogh, acquistò circa 300 pezzi tra dipinti e disegni, convinta che un giorno avrebbero scritto la storia dell’arte:
“La gente parlerà di van Gogh per molto tempo e ci saranno due correnti principali nell’arte: una basata su di lui e una che segue la tradizione“.
La donna, sposata a un uomo che non amava per volere della famiglia e per ragioni di interesse (Anton Kröller era socio di suo padre), era di natura malinconica, ricercava “altrove” la felicità che le era stata negata. Scriverà in una delle innumerevoli lettere inviate a Sam van Deventer, amore platonico di vent’anni più giovane, che nei quadri di Vincent van Gogh ritrovava una serenità e una calma mai avute in vita. Ringrazierà van Gogh di questo regalo, costruendo il museo Kröller-Müller di Otterlo che ospita alcuni dei quadri più importanti dell’artista, come “Terrazza del caffè la sera”, “Seminatore al tramonto” e i disegni di inizio carriera.L’edificio dista un’ora da Amsterdam ed è costruito nel cuore di una riserva naturale, che il regista pesarese Giovanni Piscaglia ha illustrato attraverso le corse dei cervi tra le distese dei campi verdi bagnati dalla luce del sole, un modo per accompagnarci nei luoghi del pittore, coi suoi stessi occhi.
Quella che riusciamo a vedere, così da vicino, attraverso questo docufilm è la pennellata di van Gogh. Sono immagini tridimensionali, riusciamo quasi a toccare la pastosità dei colori ad olio e a riconoscere la profondità del tratto. Come sei riuscito, perché ci sei riuscito, a commuovere il pubblico?
“Credo che il rapporto tra cinema e spettatore si giochi principalmente in un territorio di comunicazione non verbale: quelle dell’immedesimazione, della suggestione, dei sentimenti. Nel girare il film ho pensato che non avrei potuto emozionare senza emozionarmi io stesso e non sarei mai riuscito a restituire un sentimento senza sentirmi coinvolto in esso proprio nel momento della ripresa. Cercavo quindi di rendermi aperto rispetto ai contesti in cui giravo, le città, i luoghi di Van Gogh, chiedevo alla troupe di comunicare piano, mantenere il silenzio, mi concentravo per cercare di catturare nell’inquadratura il mio stato emotivo del momento.
Accadeva questo anche quando filmavo i dipinti, il movimento ravvicinato sopra di essi è stato per me un mezzo di indagine, una sorta di analisi autoptica – eppure emotiva – alle radici di Vincent, del suo tratto, del suo pensiero, della sua interiorità, abbattendo ogni filtro per cercare il minimo comun denominatore del genio.
Il cinema è un mondo che racchiude tanti livelli complessi in cui nulla è lasciato al caso. Nel mio approccio alla regia passa anche da una forte idea delle strutture profonde della narrazione, per questo durante il lavoro è stato molto importante la collaborazione con Matteo Moneta assieme al quale decidevamo di volta in volta quali temi (dei tantissimi possibili) trattare più nello specifico e quali trascurare, la divisione dei blocchi narrativi.
Per ogni scelta mi faccio guidare dal mio gusto. Mi preparo molto per tutto il tempo prima delle riprese, salvo poi abbandonarmi all’improvvisazione nel momento delle riprese. Il bello è che quando a fine giornata torno a casa e riguardo gli storyboard mi accorgo di aver girato le stesse inquadrature che avevo immaginato anche se in maniera inconsapevole. Ne deduco che lo strumento più affidabile che ho a disposizione è il mio gusto, fatto di pensieri stratificati, che nei miei lavori creano unità a più livelli: discorsiva, visiva, narrativa, ritmica.”
Helene Kröller Müller era così ossessionata dalla persona di Van Gogh, che emulò il suo stile di vita, scegliendo di dormire in un letto molto più piccolo del normale o andando al fronte durante la Grande Guerra a curare i feriti, spinta dallo stesso spirito umanitario che ebbe van Gogh quando fu predicatore laico tra i minatori della regione belga del Borinage.
Entrambi cercarono nella religione una consolazione al senso di fallimento, tu che rapporto hai con la fede?
“Credo nella trascendenza, qualcosa di ineffabile che possiamo solo percepire e che domina l’andamento dell’universo in qualche arcana, lontana maniera. Credo nella validità dei principi di Cristo come esempi di moralità e solidarietà. Credo nel senso del sacro che accomuna culture diverse attraverso la storia e che è stato per tutte un impulso insostituibile per la filosofia, per l’arte, per l’evoluzione del pensiero sotto tanti aspetti. Ma credo anche nella finitezza dell’uomo e che sia nella conoscenza dei propri limiti che risiede la chiave per arrivare al proprio Dio.”
“I mangiatori di patate” rappresentano una sintesi di molti temi cari a van Gogh: la dignità della vita povera, l’oscurità, l’umiltà, attraverso l’uso dei colori della terra, così come Tolstoij la trascrisse tramite Lèvin, il personaggio legato alla vita rurale in “Anna Karenina”. Quale invece, la tua opera preferita?
“Oltre ai tanti capolavori impossibili da non amare, nel corso delle riprese ho avuto occasione di fermarmi spesso davanti ai “Quattro girasoli appassiti”. Lo trovo un dipinto atipico per Van Gogh sia per il formato che per il trattamento differente di un soggetto così iconico per l’immaginario di Van Gogh. Sono girasoli morenti riprodotti su scala gigantesca, lo sfondo è piatto, astratto, fuso col soggetto, guardarlo da vicino è come sorvolare una città bombardata, è impressionante come ad una tale febbrile stesura corrispondano accostamenti cromatici così precisi, tratti immaginifici e realistici allo stesso tempo. Ma più che il dato visivo mi colpisce quello simbolico, legato al periodo che Vincent sta vivendo in quel momento, a Parigi nel 1887. In quei due anni parigini vive la massima esposizione alla vitalità del mondo, alla mondanità, al fermento artistico: è qui che diviene il pittore geniale che conosciamo e scopre il suo tratto inconfondibile, eppure in questo quadro percepisco chiaramente il lato oscuro della sua esistenza in una città che da una parte lo inebria e dall’altra lo avvilisce: i “Quattro girasoli appassiti” sono un memento mori in cui Van Gogh dimostra il suo autentico interesse per un mondo interiore al quale solo lui poteva accedere.”
Bresson comincia spesso le scene dei suoi film inquadrando porte e fibbie di cinture. La tua prima inquadratura è sì il soggetto del film, ma hai scelto di utilizzare una statua rappresentante van Gogh in mezzo alla natura, natura che egli stesso ci rappresenta con sembianze miracolose. Quanta importanza ha la bellezza e il rapporto con la natura nella tua vita?
“Sono una persona totalmente votata all’osservazione e la bellezza ha un ruolo cruciale nella mia vita. Talvolta mi trovo ad utilizzare il mio gusto estetico come una bussola, applicandolo anche in cose apparentemente marginali della vita quotidiana. La natura mi interessa in quanto alter ego ideale dell’essere umano, mi attrae e mi inquieta allo stesso tempo.
La prima inquadratura del film riunisce proprio queste idee, c’è la natura e c’è l’uomo, c’è il divenire del vento e il tempo del movimento di macchina, infine ci sono la cultura e la storia cristallizzate nella statua che ritrae Van Gogh e che lo proietta su un piano intermedio di presenza e assenza, umanità e santità.”
Truffaut scriveva che “tutti i registi girano film che gli assomigliano, perché esprimono allo stesso tempo le loro idee sulla vita e la loro idea del cinema”. In che modo questo film parla di te?
“In questo film sento di avere espresso diversi aspetti di me che convivono e a volte confliggono. Da una parte mi piace spiegare e raccontare storie, dall’altra mi piace abbandonarmi al sogno ed esprimere l’inspiegabile.”
“Quando si cammina per ore e ore attraverso questa campagna, davvero non si sente che esiste altro se non quella infinita distesa di terra, le verde muffa del grano e dell’erica, e quel cielo infinito”
Conosciamo Vincent van Gogh grazie alle 900 missive spedite al fratello Theo, suo interlocutore privilegiato, dopo un’amicizia con Gauguin finita in tragedia, con il taglio del lobo dell’orecchio e l’inizio della malattia mentale. Un sentimento, quello che lo legava all’amico Gauguin, su cui aveva puntato molto e che condusse il pittore a un punto di non ritorno.
Il suo dolore lo ascoltiamo in queste lettere, lette nel docufilm da Valeria Bruni Tedeschi, un grido di disperazione che torna sulla tela con paesaggi di una natura maligna, dove alle verdi distese dei campi si sostituiscono le ombre della notte.
“Quello che voglio esprimere non è una malinconia sentimentale, ma il dolore vero.”
Il docufilm “van Gogh tra il grano e il cielo“, è la testimonianza di un amore tra due persone che non si sono mai incontrate: Helene Kroller Mullerriuscì a dare a Van Gogh quello che non aveva avuto da vivo: rispetto (lo consideravano un pazzo), amore (rifiutato da sua cugina, aveva avuto una sola relazione con una prostituta), riconoscimento (ha venduto una sola opera in vita). I due personaggi hanno condiviso gli stessi tormenti interiori e la stessa visione di Dio e della fede. Attraverso i suoi quadri, che Helene portava con sé nei suoi lunghi viaggi, Vincent riuscì a darle la serenità mancata, un dono universale per tutti noi. E lui già lo sapeva.
Vincent van Gogh taciterà quella tristezza all’età di 37 anni, con un colpo di pistola alla tempia.
“Van Gogh tra il grano e il cielo” sarà in cartellone in 50 paesi dopo l’anteprima italiana, che replica nelle sale i giorni 22 e 23 maggio. Diretto da Giovanni Piscaglia, sceneggiatura di Matteo Moneta, colonna sonora di Remo Anzovino, consulenza scientifica di Marco Goldin, e l’insostituibile voce narrante dell’attrice Valeria Bruni Tedeschi, che ha regalato enfasi, forza e personalità alla narrazione filmica.
Produzione: 3D Produzioni e Nexo Digital.
Si è tenuto in data 8 maggio l’incontro internazionale che il Centro di Firenze per la Moda Italiana organizza sul tema della Formazione di Moda: “Moda. L’Italia fa scuola“.
Un convegno che ha messo il tema della Formazione Moda al centro del dibattito, in cui figure istituzionali si sono confrontate con alunni e addetti al settore. L’obiettivo è quello di creare trasparenza sui problemi e sulle potenzialità che il settore Moda ha nel nostro paese, un settore in crescita del 9% negli ultimi 4 anni.
Il centro di Firenze per la Moda Italiana, dopo due anni di lavoro come coordinatore della Commissione Formazione del Tavolo Moda e Accessorio, ha posto all’attenzione del Governo e dell’opinione pubblica una serie di punti, che sono stati riportati in questa sede:
1. la necessità di costituire un organismo permanente di osservazione, consultazione, indirizzo e proposta operativa sulle tematiche dell’Alta Formazione Moda in Italia
2. stabilire un budget specifico per un programma di promozione dedicato alla Formazione di Moda, destinato alla realizzazione di eventi nazionali ed internazionali, incontri annuali di confronto e di lavoro, progettazione di un sistema di valutazione europeo per l’offerta nel campo moda
3. sviluppare e valorizzare la Formazione di Moda nei molteplici ruoli professionali, al fine di garantire l’effettiva qualità dell’offerta formativa e del corpo docente
4. migliorare un sistema legislativo rigido e complesso, che rende laboriosa l’accettazione e la permanenza nelle Scuole e nelle Università in Italia di studenti provenienti da paesi extra-europei (permessi di soggiorni etc.), limitando e penalizzando la loro permanenza con conseguenza di reprimere lo sviluppo e la partnership internazionale della nostra industria.
Ma qual è il punto che mette tutti d’accordo? Qual è la forza indiscutibile della nostra Italia?
Senza ombra di dubbio risulta essere l’artigianalità, punto di forza su cui bisogna far leva spingendo i giovani talenti all’approfondimento di certe discipline e mestieri. Artigianalità che unita all’industria crea prodotti di qualità.
“Siamo il paese del saper fare e del saper fare bene” dice Carlo Capasa (Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana) “ed è importante rafforzare le nostre peculiarità“.
Ma quali sono i cambiamenti dell’Industria italiana ad oggi?
“La manifattura ha sentito l’influenza del digitale, le tecnologie di produzione non sono più le stesse, alcune aziende trovano difficile abbandonare modelli che in passato hanno sempre portato risultati , si sente una certa nostalgia dei disegnatori (oggi i tessuti vengono prodotti e stampati con tecnologie digitali), tutta l’organizzazione industriale in campo manifatturiero sta cambiando. Oggi le aziende sono sempre più produttori di contenuti, con figure professionali nuove in aumento e sempre meno figure leader (punto debole del nostro repertorio italiano, che ci vede quarti nel campo manageriale, dopo gli inglesi, gli americani e i francesi al terzo posto).”
Di cosa necessita la Formazione di Moda in Italia?
Lo sintetizza molto chiaramente in pochi punti Andrea Cavicchi, Presidente del CFMI:
“Manca un referente nazionale che relazioni e metta a contatto il Ministero dello Sviluppo Economico con quello Statale, le scuole locali fanno ognuno per sé, è bene quindi creare degli eventi che mettano in relazione questi Istituti, promuovere le nostre scuole nel mondo è uno dei punti fondamentali, aumentare i corsi di moda, selezionare docenti di livello, istituire programmi di qualità, rilanciare gli eventi moda su Milano, creare pochi progetti ma buoni, con criterio e giudizio, semplificare l’attività burocratica che rende difficoltosa la permanenza in Italia di studenti extra-europei“.
Il libro “White Book. Imparare la moda in Italia” (Marsilio, 2017) racchiude tutte queste problematiche e i cambiamenti strutturali in ambito moda. Il libro nasce dal lavoro che la Commissione Formazione coordinata dal Centro di Firenze per la Moda Italiana ha svolto all’interno del Tavolo Moda e Accessorio.
A discutere di questi temi sono intervenuti, oltre ai sopra citati, Sara Kozlowski (Director of Education and Professional Development del CFDA), Martyn Roberts (Managing & Creative Director della Graduate Fashion Week – UK), Maria Luisa Frisa (direttore del corso di laurea in design della moda e arti multimediali dell’Università Iuav di Venezia e curatrice del White Book), Marco Ricchetti (consulente di Blumine srl), Laura Lusuardi (Max Mara) e Giovanni Battista Vacchi (consulente di Ernst Young).
In Inghilterra la regina Elisabetta è in prima fila ad assistere ad una sfilata di moda durante la London Fashion Week, accanto ai maxi occhiali sempre presenti di Anna Wintour, a Parigi i coniugi Macron ricevono tutti i designer a Palazzo dell’Eliseo, selfie e foto di gruppo compresi, insomma passi avanti se ne sono fatti, la moda è stata umanizzata, democraticizzata in qualche modo, ma questo è successo all’estero. Cosa ci riserverà la nostra amata Italia, che ha in Milano il centro della moda, del buon gusto e dello stile? Attendiamo fiduciosi.