Torino, sotto sequestro la casa a luci rosse delle sex dolls

Ha avuto vita breve la casa a luci rosse torinese con bambole in affitto, la LumiDolls è stata messa sotto sequestro a pochi giorni dall’inaugurazione. Polizia e Asl hanno fatto irruzione con conseguente ammenda di 3000 euro perché l’attività pare non sia a norma di legge e il livello di igienizzazione delle bambole è stato giudicato insufficiente.

Insomma gli ipocondriaci che pensavano di stare tranquilli facendo sesso con una bambola, devono tenere a mente che il rischio di malattie non è da escludere.
La pulizia interna ed esterna delle signorine di plastica spetta ad un addetto, lo stesso che si occupa della cassa (di questi tempi bisogna essere versatili), il costo del giro in giostra vale 80 euro per mezz’ora, 100 euro se si ha un’ora in cui potersi dilungare in un monologo post coito…qui chi sognava di avere una donna muta accanto a sé, è accontentato.

I gestori del marchio LumiDolls promettono la riapertura a breve, giustificando gli accaduti con “una svista”.

Siamo pieni di prenotazioni per settimane, salvo qualche piccola eccezione. Abbiamo clienti che hanno prenotato anche dal Veneto (da Torino, Venezia dista 400 chilometri, ndr) e la maggior parte ha scelto la mattina o il pomeriggio per l’appuntamento. Anche per questo motivo per il momento non terremo aperto di notte. Abbiamo richieste anche per degli addii al celibato



Il bordello del silicone è quindi sold out fino ai primi di novembre, frequentato da uomini di tutte le età, chi spinto dalla curiosità, utilizzando la bambola come un vero sex toys, solo più grande, chi come succedaneo di una donna in carne ed ossa, quindi accomunandole alla prostituta.

La scelta si fa su sette bambole, si può scegliere la favorita tra Kate, Molly, Arisa, quindi tra la Principessa del Galles, un cane e la cantante stramba dai capelli corti, perché sono i primi collegamenti che vengono alla mente o no?! – e altre donne dal seno più o meno grande e un signorino dalle dimensioni perfezionabili, a seconda dei gusti. Ah, si chiama Alessandro! Si sa mai che durante l’atto sbagliaste il nome provocando in lui l’ira funesta.

L’indirizzo della casa per appuntamenti è segreta, fino alla sottoscrizione sul sito web, il pagamento avviene in loco, se invece siete timidi potete addirittura comprare la signora sul sito dell’azienda catalana, ad una cifra che va dai 700 ai 2000 dollari. Non è nemmeno cara, pensate a quanto spendete per la vostra fidanzata!)

Ecco cosa pensa la gente:

Le opere di Lorenza Pasquali in mostra ad Arona

La cittadina aronese è ricca di eventi e attività culturali, tra queste la collettiva di Paolo Bazzarri, Daniela Castellin e Lorenza Pasquali, sita in Piazza del Popolo 33 (accanto Hotel Florida) e visitabile fino al 23 settembre 2018.

La stanza d’entrata è dedicata all’artista Lorenza Pasquali, milanese d’origine, ex grafica pubblicitaria e un passato nel mondo delle calzature e della moda.
Se preponderanti sono i paesaggi urbani milanesi, nello spazio della mostra troviamo l’elemento “acqua”, la cui forza espressiva risalta la tecnica pittorica dell’artista, attraverso l’uso di colori cristallini e brillanti.

Più introspettive le opere paesaggistiche, dove l’ombra prende il posto della luce, dove le figure si stagliano in proiezioni misteriose, siano esse statue che uomini soli.
Una Milano vista attraverso il silenzio delle notti, quando il fuggi fuggi generale si è calmato, quando si accendono le luci della città illuminando un maestoso Castello Sforzesco e dando forma ai monumenti allora dimenticati.

Lorenza Pasquali rivela il suo prossimo progetto, la sua città vista attraverso l’abbraccio della neve. Se risultano piccoli lavori in cui l’elemento compare, la prossima mostra lo avrà come unico tema. Tutto si ammanta di una certa nostalgia e questo piace – ci fa notare l’artista – forse perché la neve assume quel fascino romantico e fiabesco che ci ricorda Lewis Carroll:



Mi chiedo se la neve ama gli alberi e campi, che li bacia così dolcemente. E li copre come con una morbida trapunta bianca; e forse dice “Andate a dormire, cari, finché non arriva l’estate di nuovo.”



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“Sforzesco di notte, Milano” acquerello 35×50




Orari di apertura:
Da martedì a venerdì 15.30 -18.30
Sabato e domenica 10.30 – 12.30 / 15.30 -18.30

Ingresso libero

Piazza del Popolo 33 accanto Hotel Florida

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BIENNALE ARTE DI VENEZIA 57^ EDIZIONE – IL PEGGIO

Venezia 75 – Il film “Suspiria” di Luca Guadagnino svela la vera natura delle “madri”

75^ MOSTRA INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI VENEZIA

Siamo in metropolitana, una ragazza cerca l’uscita, in lontananza si legge una fermata:”Suspiria“. Quanti sguardi attenti lo hanno notato?!
Fuori l’aspetta una Berlino in pieno autunno tedesco, con la città scossa dalle azioni terroristiche della banda Baader-Meinhof. Siamo nel 1977 e Susie Bannon (Dakota Johnson) sogna di diventare una grande ballerina, diventa quindi una componente della scuola di danza di Madame Blanc (Tilda Swinton).

Chi di voi ha visto il “Suspiria” di Dario Argento, può facilmente concludere che la versione di Luca Guadagnino è molto lontana dall’originale, e ci tiene a sottolinearlo anche il re dell’horror, che ha rifiutato all’ultimo minuto l’invito al Festival del Cinema da parte del regista.

Suspance e brivido che l’immaginario collettivo ricorda nella versione di Dario Argento, in Guadagnino semplicemente non esistono.
La scuola di danza di Madame Blanc è un covo misterioso e conserva antiche e oscure presenze, ma se in Argento si riempie di citazioni (come le immagini ispirate a Escher sulle pareti), in Guadagnino si fanno estetizzanti, minimaliste come gli abiti indossati da Tilda Swinton, lontana dalla matrigna super accessoriata che fu Joan Bennett.

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Tilda Swinton in “Suspiria”


L’espressione artistica delle insegnanti (che si riveleranno essere delle streghe), cela la loro crudeltà, sono le “madri non buone” della teoria di Donald Winnicott, psicanalista britannico, quelle che portano alla creazione del “falso sé“, ex bambine vittime ma mai del tutto vittime.

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Tilda Swinton è Madam Blanc


Dakota Johnson, che era già poco convincente nei panni della verginella in “Cinquanta sfumature di grigio“, qui mostra forza attoriale solo nelle scene del ballo. La danza, che in Guadagnino assume un ruolo fondamentale, diventa rito magico, richiamo di entità oscure e profonde; ipnotiche le coreografie di Volk, balletto ideato da madame Blanc, accompagnate dalla musica di Thom Yorke dei Radiohead, in esclusiva per il film.



Più che un horror “Suspiria” di Luca Guadagnino sembra un dramma psicologico.


Una madre può prendere il posto di chiunque altro, ma nessuno può prendere il posto di una madre” è la scritta che troviamo nella casa natale di Susie. Le madri di Luca Guadagnino sono generatrici di vita e di morte, ci accolgono in un nuovo mondo ma ci umiliano, ci regalano il potere dell’arte ma ci nascondono il nostro triste destino, ci amano e ci odiano e parafrasando da una scena: “hanno bisogno della colpa e della vergogna“.

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Dakota Johnson in “Suspiria”




 

«Il film parla della madre terribile», ha spiegato Guadagnino. «È un film sul terribile che segna i rapporti umani, così come la Storia».




Difficile rievocare la magia, le superstizioni, la paura, la fotografia del primo Dario Argento, ma il remake (e guai a chiamarlo “remake”) è da premiare anche per il solo coraggio di mettere mano a un’opera già perfetta com’era, anche se in verità si è voluto raccontare la storia in un altro modo: pensiamo a quante versioni ha avuto l’Odissea di Omero!


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una scena del film


Omaggi alla fotografia di Francesca Woodman nel film di Guadagnino e citazioni simboliche come la falce utilizzata dalle streghe per uccidere e la presenza parallela di una figura che risuona come la nostra coscienza: il dottor Jozef Klemperer, psicologo a cui una ragazza della scuola si era rivolta in cerca di aiuto.

Un cast tutto al femminile, soffocante, materno ma senza vere madri, che rivelerà la natura dell’essere femminino, ma anche in questo caso Lars Von Trier rimane imbattuto con Antichrist.


L’uscita americana è prevista per il 2 novembre, distribuito da Amazon Studios.

Guarda il trailer ufficiale:


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Venezia 75 “The Sisters Brothers” il nuovo western di Jacques Audiard

75^ MOSTRA INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI VENEZIA 

Uscita dalla sala ho chiesto a un uomo se ai western si piange.

Perché quella del western è solo una scusa, il regista francese Jacques Audiard prende in prestito il genere per raccontare qualcosa di diverso da colpi di pistola, whisky ingollati, corse a cavallo, eroi machi e sporchi di terra. Tutto questo rimane una bella cornice intagliata nel legno, ma dentro c’è un bellissimo dipinto che raffigura due fratelli e i loro desideri.

Prendiamo due cowboy fuorilegge, Charlie (Joaquin Phoenix) e Eli (John C. Reilly) che lavorano per un ricco boss dell’Oregon, il Commodoro; i due sono fratelli e soci in affari, il loro compito è sempre e solo uno: uccidere. I killer danno la caccia a Herman Warm, un colto chimico al galoppo per la ricerca dell’oro (siamo nel 1851), possessore della formula per farlo brillare nei torrenti, l’obiettivo dei furfanti è rubargliela e farlo fuori.

All’inseguimento del chimico Morris (Riz Ahmed) c’è anche un detective, Mr. Warm (Jake Gyllenhaal); il suo compito è bloccare l’uomo e condurlo ai fratelli Sisters. Mr. Warm finirà col farci squadra, rapito dalle sue ideologie politiche, che sognano una Dallas fondata sulla democrazia e il mutuo sostegno.

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Riz Ahmed e Jake Gyllenhaal in una scena del film


Il titolo “I fratelli Sisters”, insomma i “fratelli sorelle“, la dice lunga sulla natura del loro rapporto, un legame di sorellanza che contempla il gesto femminile di prendersi cura l’uno dell’altro (i due si tagliano vicendevolmente i capelli) e il più forbito tra i due (surreale tanta grazia per un cowboy) è Edi, cui tocca far da balia al più rude Charlie, sempre preso da alcol e testosterone.

The Sisters Brothers. Day 35.
The Sisters Brothers


Parodico, carico di humor e avventure selvagge, il western di Audiard ci spiazza; a volte freddi e privi di rimorsi, i personaggi si rabbuiano davanti alle loro azioni, o si rattristano per la morte del loro cavallo.

John Morris (Jake Gyllenhaal) e Herman Warm (Riz Ahmed) incarnano l’onesta’ e la sapienza, i fratelli Sisters sono la prepotenza e l’avidità. Audiard ce li presenta attraverso le proprie debolezze e i propri feticci: Eli è il romantico che chiede ad una prostituta di recitare una frase, anziché concedersi senza domande. E’ colui che piega ogni notte, prima di addormentarsi, una coperta rossa regalatogli da un’amante passata, la annusa e fantastica, per poi masturbarsi stringendola a sé. Charlie invece è istintivo e vive dell’oggi, beve con piacere e si lascia andare al vizio. (Un Joaquin Phoenix totalmente a suo agio nella parte).

Svuotato della crudeltà del western, “The Sisters Brothers” parla di umanità e di sogni, di un’America che corre verso la ricchezza e che finisce in mano agli avidi e non agli uomini di intelletto, ma lo fa giocando ogni tanto con la pistola e con le corse al galoppo.


Guarda qui il trailer ufficiale:


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Venezia 75 – “Charlie Says”, il film su Charles Manson, da assassino a guru hippie

MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA:

Orge tutte le sere, natura selvaggia, nessuna regola, droghe a profusione, sesso libero, nudismo, condivisione, “amore”. No non è il Paradiso, ma la “Famiglia” di Charles Manson, un gruppo di cinquanta ragazzi che avevano come loro unico dio Charles Manson, il macabro assassino che ha sconvolto la Hollywood degli anni ’70 con l’uccisione di Sharon Tate (allora moglie del regista Roman Polansky incinta di 8 mesi e mezzo) e quattro dei suoi amici durante una festa privata.

La strage messa a frutto dalla mente di Charles Manson la conosciamo tutti purtroppo, cinema e tv continuano a farne dei film (a breve ne uscirà uno firmato Quentin Tarantino), famose rock star ne prendono il nome, non ultimo il commercio in nome del dio denaro continua a fabbricare magliette con il suo faccione.  Il male possiede un grande fascino, inutile negarlo, e non sono solo le menti deboli ad esserne attratte, una statistica fatta da psicologi e medici rivela che un alto numero di donne istruite e di ottima famiglia sono affette da quella che chiamano “ibristofilia“, ovvero l’attrazione morbosa verso il mostro.

In questa pellicola di Mary Harron (regista di American Psycho) intitolata “Charlie Says“, la storia è raccontata dal punto di vista delle tre ragazze, condannate a morte, che hanno preso parte agli eccidi di  Cielo Drive e della coppia Leno e Rosemary LaBianca.


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Le tre ragazze protagoniste di “Charlie Says”


Leslie (Hannah Murray), Patricia (Sosie Bacon) e Susan (Marianne Rendón) sono in carcere (la condanna a morte sarà trasformata in ergastolo) e ripercorrono la storia della “Family” attraverso flashback che iniziano con “Charlie Says” – “Charlie dice“. E’ la psicologa (Merritt Wever) ad ascoltarle, l’educatrice che ha il compito di riportarle a contatto con la vita reale tramite il dialogo e la lettura.

Quasi l’80% del film riporta il vivere felice della “Family” allo Spahn ranch di Manson (Matt Smith), un vecchio set di film western abbandonato; quasi il 90% del gruppo è composto da donne problematiche, fuggite da mariti o dalla loro famiglia di origine; la comune si ciba di avanzi trovati nei cassonetti della spazzatura, non sono permessi orologi né giornali, le donne non possono avere soldi e sono destinate ai lavori più umili, devono essere pronte ai bisogni primitivi dell’uomo e non devono in alcun modo controbattere la “verità” del leader, che si sente la reincarnazione di Satana e Gesu’ Cristo insieme.

Ci si chiede come sia possibile che dei ragazzi intelligenti possano essere manipolati fino a cancellare definitivamente la propria individualità, e la risposta la si trova negli studi durante gli anni di carcere di Manson (prima della strage) passati sui libri di ipnotismo, esoterismo, motivazione subliminale, magia nera, chirosemantica, massoneria, negromanzia. Il leader della “Family” ha fascino da vendere, adesca seguaci in nome della condivisione e del rifiuto di una società di plastica, è carismatico ed estremamente intelligente e, al contrario di quanto i componenti pensano, ha già disegnato il suo piano diabolico. Il perenne uso di sostanze stupefacenti fa il resto.

A scatenare la sua ira repressa è il rifiuto di un produttore discografico di Los Angeles (Manson aveva sempre sognato di diventare una rock star), è l’inizio della fine, un crescendo di odio e frustrazione che da’ vita ad una teoria: “Helter Skelter“, la profezia segreta che, secondo Manson, avrebbe portato a un nuovo ordine, ma per cui era necessario accendere uno scontro tra bianchi e neri, con una serie di delitti a caso.


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una scena del film


Sarebbe risultato più interessante il viaggio nell’abisso della mente di Manson, cui nessuno specialista è riuscito ad oggi a dare un tracciato preciso circa i suoi disturbi mentali. Qualcuno ipotizza che Manson fosse ossessionato dalla fama, e non essendo riuscito a catturare l’attenzione pubblica tramite la musica, ci provo’ con il mestiere dell’assassino. Altri credono che una vita vissuta in povertà e in mezzo alla strada (la madre era una prostituta alcolizzata e il figlio visse tra il riformatorio e la casa dei nonni, con una figura maschile violenta) lo abbia portato a covare odio verso i ricchi e i famosi.

Marry Harron percorre invece una strada più difficile, forse, in cui i dialoghi più fitti vanno a Leslie o Lulù (come verrà soprannominata dal leader), una ragazza dolce ed intelligente, la prima cui si risveglierà la coscienza, che la metterà di fronte, con una trasparenza pungente, all’atrocità degli atti compiuti.

Una scelta strana quella della regista, che ci porta all’immedesimazione nelle ragazze, quasi volesse giustificarle, quasi fossero loro vittime e non carnefici. Le efferatezze compiute passano quasi in secondo piano, Charles Manson sembra più un santone hippie che un cruento assassino (anche se non si è mai sporcato le mani di sangue, ma è stato solo il mandante), la violenza è crescente ma occupa una parte marginale, mancano i furti e altri atti illegali che la family compiva per procurarsi il denaro. Nella prima parte del film la congrega è pulita, amorevole, ci chiama a sé, Manson siede in mezzo alle sue discepole come ad un’Ultima cena, le tre ragazze sono dei docili micini quando ricordano i fatti, ma la realtà dice questo:

Sharon Tate (26 anni incinta di 8 mesi e mezzo) implora ancora qualche giorno di vita, prima di morire.

Senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido” .

Sono queste le parole agghiaccianti di Susan Atkins, che pugnala l’attrice 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale.

Una clip dal film “Charlie Says”:




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Venezia 75 – una bellissima donna senza contenuti il film “The mountain” di Rick Alverson

Avete presente quando di tutta risposta ad un colloquio vi viene detto: “troppo referenziato per questo lavoro” ? Ecco, “The mountain” potrebbe equivalersi a questa frase, perché il film dell’americano Rick Alverson potrebbe risultare troppo ambizioso e il detto ci fa credere che “Chi troppo vuole, nulla stringe“.

Siamo negli anni ’50, Andy ha perso il padre, e la madre è ricoverata in un istituto psichiatrico chissà dove. A fargli da tutore il dott. Wally Fiennes, palesemente ispirato alla figura di Walter Jackson Freeman II, primo medico statunitense ad aver introdotto il metodo della lobotomia.

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una scena di “The Mountain”


Andy è un ragazzo timido, apatico, silenzioso, problematico, si potrebbe dire in perenne stato vegetativo, non esprime il minimo interesse nei confronti della vita né delle sue attività; viaggia con il dottore, da un manicomio all’altro, Polaroid alla mano, ritraendo i pazienti sottoposti allo strazio della lobotomia transorbitale, tecnica che, combinata all’elettroshock, avrebbe dovuto guarire dalle malattie mentali.

Andy (Tye Sheridan) è ormai vittima di un labirinto malato, dove la pazzia è la normalità e la sua routine. In un copione praticamente assente, volge al cambiamento quando prende coscienza della rudimentalità dei mezzi e della totale mancanza di partecipazione emotiva del dottore durante le infinite operazioni.

Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) è lo scienziato pazzo interessato solo all’universalizzazione della sua pratica, anziché alla guarigione dei malati, accanito bevitore, si lascia andare senza pudore al vizio e alla promiscuità.

A Denis Lavant spetta invece vestire i panni del personaggio più folle, guru della new age, a cui si lasciano bizzarri monologhi, crisi schizofreniche, folleggiamenti senza senso. Peccato perché con quel bel faccione poteva regalarci un tuffo nell’abisso della follia, e invece la sceneggiatura sembra mancante, come un ponte rotto a metà, dove le auto si fermano prima del precipizio, ma da cui in lontananza si vedono ancora scorrazzare.

E’ doloroso sapere che “avrebbe potuto essere”, perchè la pretenziosità lo rende inaccessibile, anche se perfettamente impacchettato nella sua fotografia nostalgica alla Erwin Olaf, vellutata nei verdi, morbida come panna montata ma estremamente fredda, un corpo pallido sotto le luci di un obitorio. Un 4:3 di estrema bellezza, una bellissima donna senza contenuto. E a un certo punto della storia, con questa donna, si ha bisogno di parlarci, altrimenti subentra la noia.

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La storia rivela che quelli che ce l’hanno fatta avevano una gran fame. Di popolarità, di vendetta, di rivalsa. Pensiamo agli inizi di Coco Chanel, una povera orfana che si era costruita un personaggio su mattoni di bugie, un padre commerciante che non esisteva (il padre aveva abbandonato sia lei che le sorelle in un orfanotrofio), un passato da cantante di successo (in realtà arrotondava in un locale di second’ordine dove alcuni ufficiali di cavalleria trovavano “ristoro”), una lista infinita che potrebbe essere raccolta in un libro: “le menzogne di Chanel”. Ma tutto questo aveva uno scopo e, senza alcun dubbio questo scopo è stato raggiunto: diventare parte della storia. Chanel sapeva perfettamente cosa voleva e aveva in sé tutta la rabbia per farcela e quella voglia di rivalsa che ha solo chi arriva dal basso.

Il film “The favorite” (La favorita) ci riporta un altro caso della storia in cui una donna utilizza tutte le sue armi (intelligenza, astuzia, fascino) per ottenere i favori della regina.

Siamo nel 1700 nella corte di Inghilterra, Anna Stuart è la regnante dal carattere debole, incerto, capriccioso, infantile, ed è quindi facile preda delle più astute dame di corte intorno a lei, a partire da Lady Marlborough, ovvero Sarah Churchill, moglie del generale e politico John Churchill.
Sarah, interpretata da Rachel Weisz, è nota per essere schietta e diretta, e lo è anche con la regina, che la accoglie come la sua più cara confidente, divenendo così anche consigliera politica. Nelle notti in cui il marito di Sarah (John Churchill) è al fronte a combattere la guerra (Francia e Inghilterra sono in lotta), le due donne si consolano nello stesso letto. La regina Anna ha perso il marito e 17 figli, nati morti o nei primi anni di vita, soffre di gotta e di sindrome di Hughes, questo la rende insicura, depressa e bisognosa di cure, che cerca invano nell’amica Sarah impegnata spesso in ambito politico (Sarah appoggia il partito dei Wighs a favore del marito) e decisamente cinica e calcolatrice.  Fino a quando arriva a palazzo una nuova figura: Abigail Masham, cugina di Sarah caduta in disgrazia a causa della dipendenza al gioco del padre. Abigail è dolce, intelligente e premurosa ed entrerà presto nelle grazie della regina, che troverà in lei la sensibilità assente in Sarah. Abigail, che ha il volto di Emma Stone, diviene presto la protagonista della pellicola di Yorgos Lanthimos; ha il volto di chi ci si può fidare, di chi accoglie i nostri segreti e li tiene in cassaforte, di chi comprende, è la spalla su cui piangere, l’amica che vorresti, ha la bellezza che irradia, la bontà matura, è la compagna che vorresti. E presto è facile dimenticarsi che è anche una ex dama, una donna astuta, che ha perso il suo rango ed ora si trova costretta alla servitù. E la rabbia e il bisogno di proteggersi faranno di lei una giocatrice vincente.


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Emma Stone in una scena del film


The favourite” è un film sul potere, sulla dignità, sulla moralità. Fino a che punto siamo disposti a cedere il nostro corpo, il nostro nome, il nostro rispetto?

Quando sarò per le strade a vendere il culo ai malati di sifilide, di questa moralità non me ne farò niente e la mia coscienza riderà di me”

Questo è il pensiero di Abigail quando si rende conto che nella posizione della “sguattera” non ha sicurezza, denaro, protezione e che l’unico modo per “sopravvivere” è “vendersi” alla regina.
E’ l’inizio dei giochi, in cui le concorrenti (Abigail e Sarah), si contendono le attenzioni di Anna, tra una masturbazione e un litigio, nell’atmosfera squallida e superficiale di corte, dove il tempo viene perso gettando arance su un valletto vestito solo di una parrucca pidocchiosa. Un tempo che ha il ritmo e il tono divertente mai visto prima in un film in costume. Lanthimos rende questa gara una scommessa, in cui si patteggia e ci si diverte, colora ogni personaggio con irriverenza, crudeltà, ridicolaggine.

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Olivia Colman in una scena del film


Olivia Colman nei panni della regina è la più buffa e quella dall’interpretazione più credibile; Rachel Weisz sarà il simbolo della verità o dell’ipocrisia, dipende da come la si vuol leggere; sarà lei a metterla in guardia dalle intenzioni della cugina:

Oh regina sembrate un angelo caduto dal cielo. No! Non è vero. A volte sembrate un tasso. Io non mento. Questo è amore!”

Emma Stone  nei panni di Abigail è protagonista delle scene più divertenti e pungenti:

Samuel entra nella camera di Abigail

Lady Abigail “Oh santo cielo signore, siete venuto a sedurmi o stuprarmi?
Samuel Masham (Joe Alwyn) “Sono un gentiluomo
Lady Abigail “Quindi a stuprarmi


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Rachel Weisz in una scena del film


Eccelsa la fotografia di Robbie Ryan che ci accompagna nel castello a luce di candela, con ritratti dal nero rembrandtiano e intensi i rallenty sulle nature morte e sui banchetti, rendendo ancora più disgustosi i modi e le eccentricità di corte, perditempo nella corsa delle aragoste e delle oche.

La scena finale è la voce della coscienza, ci ricorda che quando si prende in prestito la cattiveria per raggiungere il proprio scopo, utilizzando ogni bassezza, il conto che ci si presenta è assai caro ed è in fondo quello da cui Abigail voleva scappare, infangandosene.

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una scena dal film “la favorita”


“The favourite” approderà nei cinema statunitensi il 23 novembre 2018 e a gennaio 2019 in quelli italiani.

Trailer ufficiale:


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Doubles vies” di Olivier Assayas è un film sulla conversazione, dialoghi fittissimi e ritmi serrati, quasi la sceneggiatura fosse destinata al teatro.

Quello che racconta il regista è nient’altro che quello che conosce: l’ambiente parigino, fatto di dialoghi ping-pong, calici di vino alla mano, sigarette alla bocca, salotti borghesi, cafè caotici e pasti consumati nella zona living.

Lo spazio è ristretto, gli amici fanno tutti parte dell’editoria francese, ma spicca Alain (Guillame Canet), editore di successo che deve scontrarsi con l’evoluzione digitale. Questo è il tema su cui si concentrano gli infiniti dialoghi, briosi, accesi, che innescano alcuna risposta ma infinite domande.

Se qualcuno rimane legato alla cara vecchia carta, altri come Laura (Christa Theret), giovane imprenditrice nel campo dei media e amante di Alain – sì perché tutti, nessuno escluso, hanno una doppia vita – tenta di portarlo nelle new era, convincendolo con citazioni dai grandi classici, da “Il Gattopardo“di Giuseppe Tomasi

Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi“.

Fulmini e saette i dialoghi, zampillano da un salotto alla maison degli amici, i personaggi hanno sempre quell’aria noncurante, ma così borghesemente intellettuale, un poco dirty, può essere il capello arruffato o una briciola a terra, un dito succhiato tra un Bordeaux e una omelette o una shirt stropicciata, ma questa è Parigi, ça va sans dire.

Voluta forse la superficialità contenutiva, scandita da cliché e concetti ripetuti all’infinito, una leggerezza che rispecchia i personaggi, traditori (anche Selena, la moglie di Alain interpretata da una brillante Juliette Binoche, ha una storia con Leonard, lo scrittore depresso e a tratti infantile), bugiardi, menzogneri, ma per necessità (Leonard è in grado solo di raccontare storie autobiografiche, portando così la sua vita privata sulla bocca di tutti, intervistatori ambigui e compagna consapevole). Quest’ultima, un personaggio che Assayas vuol renderci antipatico dalle prime scene, cinico, distaccato, calcolatore, risulta invece essere l’unico a non fare il doppio gioco. Lei, che deve destreggiarsi tra i disastri dell’uomo politico che assiste per lavoro, è invece una compagna fedele, che ama incondizionatamente i difetti di Leonard, quelli che lo rendono poi così buffo e facile preda, lei che ama senza chiedere niente in cambio, regalerà la scena più toccante del film, annunciando che, dentro di sé, attende una nuova vita.

‘Doubles vies’ uscirà in Italia a gennaio 2019 distribuito da I Wonder Picture.


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Venezia 75, Roma di Alfonso Cuarón candidato al Leone d’Oro

C’è sempre qualcosa che manca ad un film: una goccia d’acqua di un rubinetto che perde, l’insieme di cocci rotti a terra, l’attardarsi sul pavimento bagnato seguendo l’acqua sporca che entra in un tombino.

C’è sempre qualcosa che manca ad un film ed è forse quello che noi pubblico cerchiamo: verità, essenzialità, realtà. Perché anche se guardiamo la riproduzione di un fatto che può essere realmente accaduto, sappiamo che dietro quella scena si nasconde una telecamera, un attore, una parte, una costumista, un microfono. In “Roma” ce ne si dimentica. Totalmente.


Roma“, al contrario di quanto si pensi, non è la nostra capitale, bensì il nome di un quartiere del Messico. Siamo nel 1971, in una casa borghese composta da un padre medico assente, una madre severa e un poco melodrammatica, quattro figli dai cinque ai quattordici anni, una nonna presente, una tata di origine mixteca, Cleo (Yalitza Aparicio) e una domestica che si occupa della casa.

Cleo è la protagonista del film, anche se il suo personaggio è l’esatto opposto dell’egocentrico, dell’individualista, dell’esclusivista. Al contrario Cleo è una ragazza umile, buona, rispettosa verso i padroni di casa, e sinceramente affezionata ai bambini che cura come fossero suoi fratelli minori, compreso Paco, il più pestifero, il suo favorito.

Roma” il film candidato al Leone d’Oro di questo 75mo Festival di Venezia, diretto dal regista Alfonso Cuarón, è il racconto intimista del regista messicano, è l’insieme dei suoi ricordi di infanzia, dai mobili appartenuti alla sua famiglia (il 70% di questi è originale), al luogo del massacro di quel lontano ’71. E’ la fotografia in cui le donne sono protagoniste perché forti, capaci di superare un tradimento (quello della madre ad esempio – il padre abbandona la famiglia senza spiegazioni per una ragazza più giovane), piene di vita, anche se alcune di queste ci lasciano per volere di Dio (Cleo partorisce una figlia morta), coraggiose nei momenti che temono di più (Cleo salva i due bambini che rischiavano di affogare travolti da una corrente).

Una pellicola dallo sguardo femminile, delicatissimo, a partire dalla scelta del bianco e nero, da quel tratto gentile e mansueto di una donna che offre tutta la sua vita alla vita di un’altra famiglia, per cui il lavoro diventa l’esistenza stessa. A quei bambini non suoi dedica l’amore, la dedizione, la preoccupazione, le rinunce di una madre. Un film sulla solidarietà tra donne, questa sconosciuta, uno specchio dall’immagine chiara e nitida di quella che era la società nei ’70 messicani, la distinzione di classi sociali così perfettamente rappresentata attraverso immagini. La raffigura la scena dell’incendio nel bosco, durante la notte di Capodanno, quando i domestici si precipitano prontamente armati di secchi d’acqua per spegnere il fuoco, mentre i padroni di casa, perfettamente habillè, sono accanto a loro, calice alla mano, pettinatura artificialmente composta, nei loro cappotti di cashmire, scambiandosi poche parole senza il minimo accenno di ansia o paura.

Quale regista è capace di tanta grazia? Truffaut, ma è più cavilloso, Fellini, che è più elegante, Visconti, che è più perfezionista. Alfonso Cuarón è nato per un nuovo genere. A lui spetta il Leone d’Oro di questa 75ma Mostra di Venezia.


Roma uscirà su Netflix il 14 dicembre.

Trailer ufficiale:


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Forse “Alive” avrebbe reso il senso di questa grande impresa, che è l’allunaggio del 20 luglio 1969, perché la storia del primo uomo a sbarcare sulla Luna è la somma di tragedie, morti, perdite e sconfitte. Così Damian Chazelle, regista dei 5 Premi Oscar con “La La Land“, ha voluto raccontare più la sofferenza umana e la fatica dell’uomo Neil Armstrong, che l’eroica missione Apollo 11.

La prima scena è già un avvertimento, suoni metallici come di bulloni e tintinnìi meccanici di manopole e comandi che sembrano staccarsi, la sensazione claustrofobica di una navicella spaziale piccola “come una lattina volante“, le vicende di un uomo che come molti ha una moglie e due figli e che, di questi due, ne vede morire la più piccola per un tumore incurabile.

Damian Chazelle ci porta a casa Armstrong, facile entrare in empatia con il personaggio, la storia è quasi sempre raccontata dal protagonista e intervallata dallo scenario familiare, con una moglie pronta e intelligente, Janet (Claire Foy) e un Neil, un Ryan Gosling che non sbaglia una parte, severo, cupo, umile, introverso, ossessivo, metodico. Un uomo, quello che il regista vuole presentarci, che perde figlia, colleghi e amici durante le missioni infinite che hanno portato alla famosa impronta sulla Luna voluta da J.F. Kennedy, dall’incendio di una navicella, agli atterraggi finiti male.

La dimensione in “First man” non ci lascia scampo, siamo sempre dentro quella navicella, in perenne stato di ansia, vediamo lo stesso buio che ha visto Armstrong, quei piccoli punti di luce dei comandi, viviamo il dolore della perdita, il senso di impotenza e il coraggio di un grande uomo, divenuto un eroe americano, che invece sentiva solo il dovere di portare a termine un compito.

“First man”, nonostante la maestria riproduttiva delle missioni e delle stesse navicelle, è più un fatto personale, è la storia di un uomo, un uomo che vede la Luna su cui posa il bracciale della figlia scomparsa. E’ una storia di sacrificio e dolore, più che di vincita e trionfo.

“First man” – official trailer

La rivoluzione delle donne – collezione Salar FW 18/19

SALAR COLLEZIONE AUTUNNO INVERNO 2018/19 


Ogni nascita corrisponde ad una data e il femminismo si accosta al ’68.

E’ la rivoluzione delle donne iniziata dalle donne e che ancora oggi ne porta lo strascico, un poco zoppicando, ma sempre un passo avanti.

Era l’anno dell’illuminazione, l’anno in cui la donna inizia a domandarsi la sua posizione all’interno del matrimonio, nella società, al lavoro, nel sesso. Ed è forse su quest’ultimo argomento che si sono più battute, tutte, madri, mogli, figlie, ragazze che lavoravano nei campi, borghesi e proletarie, ottenendo quella che oggi è forse la conquista più umana; il suo slogan era “L’utero è mio e lo gestisco io“. Il movimento urlato nelle piazze era l’autodeterminazione sul proprio corpo, avere finalmente la possibilità di scegliere se essere madre oppure no; scegliere, era questa la vera conquista. La libertà.

Dedica agli anni della rinascita la collezione Autunno Inverno 2018 il brand Salar, con una quantità di prodotti unici, per tutte le donne che sentono l’importanza di quel cambiamento e sono felici di viverlo, portarlo avanti.

Salar Bicheranloo e Francesca Monaco, i fondatori, chiamano REVOLUTION la collezione dove vediamo mixati linguaggi e parole, nuovi tessuti e sperimentazioni materiche.




Le forme sono inedite, le linee definite, sono modelli destinati a diventare iconici perché di personalità forte; REVOLUTION compare come un promemoria sulle borse in pelle, le chiusure diventano cinture vere e proprie, alte e spesse come quelle indossate dalle donne nei primi ’70, assieme al pantalone a zampa.

E’ l’anno dell’autodeterminazione e dell’affermazione di se stesse, il ’68 si respira in tutta la collezione F/W 18/19, alcuni pezzi sono dotati di cintura, per lasciare più movimento, lo stile è glam-rock, il modello “Mirror” ha dei veri e propri specchietti applicati, i manici diventano bracciali, le dimensioni si riducono anche per le minimaliste, per chi non ha bisogno di nient’altro che della propria libertà.

Sfoglia tutta la collezione Salar Autunno Inverno 2018/19:



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