FIFTY SHADES OF PINK – FASHION EDITORIAL
Photographer & Stylist @Miriam De Nicolo’
Model @Chiara Veronese
Agency @Wonderwall Management Milan
Make up/ Hair @Antonia Deffenu
FIFTY SHADES OF PINK – FASHION EDITORIAL
Photographer & Stylist @Miriam De Nicolo’
Model @Chiara Veronese
Agency @Wonderwall Management Milan
Make up/ Hair @Antonia Deffenu
Azienda di famiglia da tre generazioni, European Culture porta avanti le idee innovative e controtendenza che ne hanno fatto la firma.
Nati nel 1955, tra i primi in Italia a produrre jeans, European Culture rimane coerente e fedele allo slogan “Created for urban artist“, linee comfort dal gusto sportivo e di tendenza.
Presenti in maniera capillare sul territorio internazionale, European Culture presenzia alle fiere più importanti del mondo anche con eventi speciali, come l’evento videomapping nel centro di Firenze, durante la Fiera di Pitti Uomo, presso la boutique Gerard Loft.
David Peppicelli, Ceo e designer è oggi al timone dell’azienda.
Qual è il vostro punto di forza?
Il “tinto in capo” senza dubbio. European Culture propone 25 colori per ogni singolo capo, dal 1999 ad oggi questo è sempre stato l’iter dell’azienda. Difficile trovare un altro brand che proponga così tante colorazioni per ogni modello, ma in noi la “coerenza etica”, sottolineata anche dalla produzione totalmente made in Italy, rimane il punto di forza.
Quali tessuti privilegiate?
Soprattutto materiali sportivi. Ricordiamo che siamo stati tra i primi a creare le giacche in felpa negli anni 2000, quando ancora in Italia erano un capo forse troppo “alternativo”, questo tipo di prodotto è stato apprezzato prima all’estero e successivamente in Italia. Abbiamo sempre svolto una grande ricerca di materiali pregiati e sportivi insieme creando fitting comodi, sporty ma allo stesso tempo inserendo sempre più spesso dettagli femminili e alla moda.
Quali sono le novità della collezione Fall Winter 2019/20?
La creatività si mescola al design, l’idea si fonde con la capacità del nostro saper fare. Rimanendo nell’ottica del capo comodo e mettibile, abbiamo inserito pezzi ispirati al comfort ma con inserti ultra femminili, come il bomber dalla manica ampia e collo in velluto.
Dove trova ispirazione per disegnare le nuove collezioni?
Sono nato in quest’azienda, in famiglia si è sempre respirata aria di “moda”, dalla scelta dei tessuti, alla fase iniziale del disegno, alla fattibilità del progetto, tutto in me è talmente orecchiabile che basta seguire i consigli appresi fino ad ora e stare sempre attenti alla risposta del consumatore.
European Culture e le influencer
Oggi abbiamo la fortuna di comunicare con molti mezzi, tra cui i social network e non vedo perché non sfruttarli. Il rapporto tra il brand e le influencer si basa su una stima reciproca, ma soprattutto sull’onestà di indossare un capo che piace e che porteremmo di giorno al lavoro o la sera ad una cena con le amiche. European Culture è destinato a tutte quelle donne che amano vestire comodo ma che non rinunciano al gusto e all’estetica.
Quali sono i progetti futuri di European Culture?
Siamo lontani dalle tendenze che, per natura, oggi esplodono e domani sono costrette a scomparire. Il nostro simbolo è dal lontano ’55 un unicorno, strano animale leggendario che sta spopolando oggi. Ecco cosa significa “guardare al futuro”.
GAVAZZENI – COLLEZIONE PRIMAVERA ESTATE 2019
Un abito di ottima fattura, si riconosce dal bottone pregiato. E’ da questo prezioso dettaglio che inizia la storia di Sergio Gavazzeni, quando aiutava l’azienda del padre produttrice di bottone. Cresciuto in un ambiente dove la moda diviene argomento quotidiano, fonda nel ’79 il primo laboratorio di produzione accessori, sostenuto dall’esperienza della moglie, Katia Orlandini, che lavora per il prêt-à-porter di Max Mara.
Tutta la famiglia, i figli Elena e Pietro compresi, sostengono con passione ed abilità l’azienda nata, che produce sempre quell’elemento distintivo, il dettaglio, l’accessorio, il prodotto indispensabile, che da Gavazzeni viene reso unico ed originale.
Tutti in pelle e sacramente Made in Italy, i prodotti Gavazzeni cambiano a seconda delle tendenze e delle stagione; per la Primavera Estate 2019, i colori tenui dell’azzurro fiordaliso e del rosa cipria sono i padroni, proposti su maxi bag con manico o marsupi con cintura lavorata.
Colori che ricordano i paesaggi delle stampe giapponesi “ukiyo-e“, movimento artistico nato in Giappone e che ha il massimo sviluppo nella metà dell”800, stampe che raffigurano paesaggi in genere, ma anche soggetti teatrali e quartieri di piacere. Gavazzeni sceglie gli stessi rosa tenui delle opere di Hiroshige, la stessa tonalità di azzurro delle sue acque calme e limpide.
Immagini del mondo fluttuante in cui natura e paesaggio permangono sereni, anche al variare degli elementi atmosferici. Una scelta sensibile quella della collezione Primavera Estate 2019, attratta dall’inconsueto colore e dal rimando esotico.
Tutta la gamma colori, anche nella produzione delle cinture, è un apprezzamento all’effimera bellezza, alla gioia e al festeggiamento della stagione in cui tutto rinasce, sotto l’energia potente del Sole.
Anche Van Gogh rimase affascinato dalla produzione di Hiroshige, scrisse infatti al fratello Theo:
“Qui mi sento in Giappone; invidio ai giapponesi l’estrema nettezza che tutto ha di loro; compongono una figura con pochi tratti essenziali, con la stessa semplicità con cui uno si abbottona un gilet“.
E’ con lo stesso spirito di semplicità e devozione, che Gavazzeni continua il lavoro familiare.
Scopri qui tutta la collezione borse SS2019:
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Piace sempre più il concetto di spazio, quasi si pensasse alla fuga della realtà come unica via di scampo. Una realtà inventata, un poco surreale dove ci catapulta Biuu per la collezione Fall Winter 2019/20.
Wu Hao, fondatore e creative director del brand, ipotizza un luogo futurista in cui uomini e donne (per la prima volta presenta in collezione 10 capi femminili) si incontrano lontani dalle fonti di luce solare; necessitano quindi di materiali che catturino quella lunare, il vinile, il lurex argenteo, le sete cangianti e i colori fluo giallo e arancio.
Quasi come dei piloti professionisti, vestono tute intere bicolor con zip o jumpsuit stampate in un 3D di un universo parallelo. Dotati di infinite tasche e comparti, l’uomo BIUU porta nello spazio una maxi shopper multicolor, sempre utile per raccogliere meteoriti o riportare sulla Terra qualche prezioso ricordo.
Le forme sono grafiche e i volumi generosi, i lampi di luce sono violacei e i collage dei materiali materici. La fantasia è protagonista così come i tessuti che, come nella direzione alla fotografia di un film, ci raccontano uno stato d’animo…
Sfoglia qui l’intera collezione Biuu Fall Winter 2019:
BIUU
Fondato a Parigi nel 2016 dal fondatore e creative director Wu Hao, BIUU è un luxury brand di menswear con sede a Shangai, attivo con due boutique monomarca nelle vie dello shopping più esclusive, principalmente rappresentate da Shangai. Dopo il debutto a Milano, il marchio punta a consolidare la sua presenza a livello internazionale nella regione dell’Asia-Pacifico e in Europa, grazie al branding e design headquarter con sede a Parigi e allo sviluppo di partnership a lungo-termine con l’Italia.
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Pare che l’inverno non voglia accettarlo il designer portoghese Miguel Vieira, che propone una collezione fall winter 2019/20 all’insegna del colore e della leggerezza!
Oltre ai tenui beige e ai greige, il designer propone capi in carta da zucchero, che fanno pensare più ad una giornata primaverile che a una notte fredda e tempestosa.
Simbolo di questa collezione, presente su giacche e pantaloni, pare essere un particolare tipo di crisantemo che, nel linguaggio dei fiori e in particolari parti del mondo, Italia lontanissima, è sinonimo di amore e prosperità. Che sia quindi di buon auspicio?!
L’uomo Miguel Vieira indossa in questo anomalo inverno, freschi canvas, bombazine, velluti stampati, velluti vinilici, tessuti trapuntati e borse in pelle e stampate pitone, delle maxi shopper che si confondono con la fauna africana. Insomma un uomo che predilige il caldo, il sole, i climi temperati, i luoghi selvaggi e i panorami vasti ed infiniti, quelli per cui l’orizzonte non arriva mai e i viaggi non hanno mai fine.
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Ha cambiato per sempre il concetto di performance, contribuendo a creare un forte legame tra artista e pubblico: Marina Abramovic è la protagonista della più grande retrospettiva italiana a lei dedicata presso Palazzo Strozzi di Firenze, “Marina Abramović. The Cleaner”.
La mostra ripercorre le tappe più importanti dell’esperienza dell’artista serba, riunendo oltre 100 opere dagli anni Settanta agli anni Duemila, tra cui fotografie, installazioni, oggetti, dipinti e mettendo in scena la riesecuzione di sue celebri performance da parte di un selezionassimo gruppo di performer istruiti appositamente per l’evento.
Attraverso questa esposizione, si ha la fortuna di camminare lungo il sentiero della sua vita artistica, dalle prime esecuzioni sottopagate nel periodo in cui la performance art non era ancora riconosciuta e anzi veniva giudicata con sufficienza e a tratti derisa, quasi fosse un ramo dell’arte inventato ed inutile, fino alle ultime apparizioni in “The artist is present” del 2010. Al MOMA di New York (Museum of Modern Art), Marina Abramovic starà seduta su una sedia al centro di una sala, immobile e in silenzio, senza poter mangiare, bere, fare pipì per più di settecento ore nell’arco di tre mesi, 8 ore tutti i giorni e 10 di venerdi. Siederanno di fronte a lei milleseicentosettantacinque persone, con cui manterrà il contatto visivo per tutto il tempo che vogliono, persone che rideranno o piangeranno o le daranno le spalle carichi di dubbi e domande; l’intento è quello di dare un valore alla comunicazione energetica e spirituale che si instaura tra artista e pubblico, elemento fondamentale nella ricerca della Abramovic. Alla fine di questa esperienza l’artista si dichiarerà molto provata, di una stanchezza fisica e mentale mai sentita, cambiata nei gusti e nelle scelte della vita quotidiana.
Ad accoglierci nel cortile di Palazzo Strozzi, il furgone Citroën, ex cellulare della polizia, che sarà il mezzo d’unione tra Marina Abramovic e l’artista tedesco Ulay, alcova di una vita nomade passata viaggiando incessantemente per tre anni in Europa, tra una performance e l’altra. Vita e Arte si uniranno nel manifesto unitario “Art Vital“:
Nessuna dimora stabile
Movimento permanente
Contatto diretto
Relazione locale
Autoselezione
Superare i limiti
Correre i rischi
Energia mobile
Nessuna prova
Nessun finale prestabilito
Nessuna replica
Vulnerabilità estesa
Esposizione al caso
Reazioni primarie
Nel 1974 Marina Abramovic si trova in Italia, allo Studio Morra di Napoli con la sua performance più estrema, Rhythm 0.
L’artista mette a disposizione del pubblico, su un tavolo, settantadue oggetti utilizzabili a loro piacimento tra cui: un martello, una sega, una piuma, una mela, del pane, una forchetta, un’accetta, una rosa, un paio di forbici, degli aghi, una penna, del miele, un coltellino, uno specchio, del vino, degli spilli, un rossetto, un boa di struzzo, una torta, una frusta, delle catene, del cotone, una macchina Polaroid, un libro, una pistola e un proiettile. Per sei ore si assisterà a quella che chiamiamo la “nascita nel peccato“. L’uomo è un essere crudele, la Abramovic verrà ferita, umiliata, le taglieranno i vestiti, le verrà puntata una pistola alla gola, carica…e solo una piccola parte di pubblico la salverà, contribuendo alla realizzazione del suo lavoro:
“In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti. […] Quello che era successo, molto semplicemente, era la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e il performer realizzano l’opera insieme.”
Nello stesso anno, alla Galleria Diagramma di Milano, Marina presenta un’altra opera scioccante, Rhythm 4:
“Ero nuda e sola in una grande stanza, accovacciata sopra un potente ventilatore industriale. Mentre una videocamera trasmetteva la mia immagine al pubblico nella stanza di fianco, spingevo la faccia contro il vortice che usciva dal ventilatore, cercando di inspirare nei polmoni più aria possibile. Nel giro di un paio di minuti, l’impetuoso flusso d’aria all’interno del mio corpo mi fece svenire. […] la cosa più importante era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima.”
La consacrazione internazionale avviene nel ’97, con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia Marina Abramovic è chiamata a rappresentare ufficialmente la Serbia e il Montenegro alla Biennale, ma il progetto si interrompe bruscamente a causa del soggetto sensibile trattato dall’artista. Invitata da Germano Celant allestisce la ritualità sacrificale di Balkan Baroque in un sottoscala del Padiglione Centrale ai Giardini, scioccando pubblico e critica:
“ero seduta sul pavimento […], su una catasta di ossa di vacca: sotto ce n’erano cinquecento pulite, sopra duemila sanguinolente, con attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfregavo le ossa sanguinolente fino a farle diventare pulite, mentre su due schermi alle mie spalle venivano proiettate – a intermittenza e senza sonoro – immagini delle interviste a mio padre e a mia madre: Danica che ripiegava le mani sul cuore e poi si copriva gli occhi, Vojin che brandiva la sua pistola. In quel locale senza aria condizionata, nell’umida estate veneziana, leossa sanguinolente marcirono e si riempirono di vermi, ma io continuavo a strofinarle: il lezzo era tremendo, come quello di cadaveri sul campo di battaglia. I visitatori entravano in fila e osservavano, disgustati dalla puzza ma ipnotizzati dallo spettacolo. Mentre pulivo le ossa, piangevo e cantavo canzoni popolari jugoslave della mia infanzia. Su un terzo schermo passava un video in cui io, vestita da tipico scienziato slavo – occhiali, camice bianco, grosse scarpe di cuoio – raccontavo la storia del ratto-lupo […]. Per me quello era il barocco balcanico.”
Per natura effimera, la Performance Art per essere conservata necessita di documentazioni d’archivio. Al fine di far rivivere le proprie opere, Marina Abramovic, dagli anni Duemila, usa la “reperformance”, un metodo di lavoro in cui si ripropone la stessa ma con performer diversi e pubblico diverso. “The cleaner” a Palazzo Strozzi, propone un calendario fitto ricco di sollecitazioni in cui poter partecipare all’opera, come per “Imponderabilia”, performance realizzata la prima volta nel 1977 presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, dove Marina Abramović e Ulay trascorsero novanta minuti in piedi uno di fronte all’altro, immobili e nudi in uno stretto passaggio d’ingresso, costringendo i visitatori che volevano entrare nel museo a passare in mezzo a loro. La performance doveva durare sei ore, ma fu interrotta dalla polizia. Per fortuna oggi a Palazzo Strozzi, nella prima sala del Piano Nobile, questo non succede, ma il visitatore può scegliere anche il passaggio laterale, evitando purtroppo il coinvolgimento emotivo e spirituale dell’opera stessa.
“Avevamo concepito l’idea romantica di percorrere a piedi la Grande Muraglia cinese otto anni prima, nell’outback australiano, sotto la luna piena. L’idea aveva preso prepotentemente forma nella nostra immaginazione condivisa. Allora pensavamo che la Muraglia fosse una struttura continua e ancora integra, e che non avremmo incontrato problemi; la sera ci saremmo accampati lì sopra. E dopo essere partiti dalle estremità (la testa a Oriente, la coda a Occidente) ed esserci incontrati a metà, ci saremmo sposati. Per anni, il titolo provvisorio di questa nostra opera era stato The Lovers. Adesso amanti non eravamo più. […]. Ma non per questo volevamo rinunciare alla nostra marcia. Invece di camminare da soli, ciascuno sarebbe stato accompagnato da un drappello di guardie e da una guida-interprete. […] Quanto alla Grande Muraglia, la colossale struttura a forma di drago visibile dallo spazio era in gran parte in rovina, soprattutto a Ovest, dove lunghi tratti erano scomparsi sotto le sabbie del deserto. Ma anche a Est, dove attraversava una serie di catene montuose, gli inverni e il passare del tempo avevano portato a termine la loro opera di distruzione: in molti punti, la Muraglia era solo un mucchio di sassi pericolanti. E la nostra motivazione iniziale non c’era più. Noi non c’eravamo più. […] Camminare una verso l’altro aveva un certo impatto… era quasi la storia epica di due amanti che si incontravano dopo tante sofferenze. Poi questo aspetto è scomparso. Mi sono confrontata solo con me e la nuda Muraglia. [..] Sono molto contenta che abbiamo comunque deciso di realizzare questo lavoro, perché avevamo bisogno di una qualche conclusione. E questa è rappresentata da tutta la strada che facciamo camminando l’una verso l’altro, e non per incontrarci gioiosamente, ma solo per pronunciare la parola “fine”. È una cosa molto umana, in un certo senso. Ed è molto più drammatica della semplice storia dei due amanti. […] Ero affascinata dal rapporto tra la Grande Muraglia e le ley lines, le linee di energie della terra. Al tempo stesso mi rendevo conto di come cambiava la mia energia a seconda dei diversi tipi di terreno. A volte camminavo su argilla, a volte su ferro, quarzo o rame. Volevo cogliere le connessioni tra l’energia umana e quella della terra. In ogni posto in cui mi fermavo, chiedevo sempre di incontrare le persone più anziane. Alcune avevano centocinque, centodieci anni. Quando chiedevo loro di parlarmi della Grande Muraglia, mi raccontavano sempre di draghi: un drago nero che lottava contro un drago verde. Mi resi conto che quei racconti epici si riferivano puntualmente alla conformazione del terreno: il drago nero era il ferro, il drago verde era il rame. [..] Alla fine ci incontrammo il 27 giugno 1988, tre mesi dopo avere iniziato, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi. Solo che il nostro incontro non fu quello che avevamo immaginato. Invece di vedere Ulay venirmi incontro dalla direzione opposta, lo trovai ad aspettarmi in un punto altamente scenografico, tra un tempio confuciano e uno taoista. Era lì da tre giorni. Si era raccolta una piccola folla ad assistere al nostro incontro. Io scoppiai a piangere, e lui mi abbracciò. Un abbraccio da compagno, non da amante, privo di qualunque calore”.
La mostra è visitabile fino al 20 gennaio 2019 e, oltre alle video-installazioni esposte, propone delle opere in cui il pubblico diviene protagonista, come l’attualissimo “COUNTING THE RICE” in cui a ciascun partecipante viene dato un foglio di carta e una matita. Davanti a sé trova mucchi di riso che deve prendere, contare e annotare. In questo modo Marina Abramovic ci da’ l’opportunità di riflettere sul tempo, sull’importanza dello spazio, sperimentandolo con un gesto semplice e con oggetti di uso quotidiano.
(in copertina Marina Abramović The Onion 1995, video, 20’03”. Amsterdam)
Collezione Autunno Inverno 2019/20 Eleventy
Edoardo VII, re del Regno Unito, di Gran Bretagna e Irlanda, re dei Dominion britannici e imperatore d’India, pare fosse stato il primo ad aver adottato l’orlo ai pantaloni. Siamo tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, Edoardo è figlio della regina Vittoria, che ha regnato per oltre 63 anni, il regno più duraturo dopo quello dell’attuale Elisabetta II; ha una passione per l’abbigliamento maschile e, pur contro i consigli del padre che lo incita alla discrezione, Edoardo VII sceglie le stoffe più pregiate presso la sartoria Henry Poole & Co., la più rinomata di Savile Row, strada di Londra sede dei sarti che hanno reso la sartoria maschile inglese la più apprezzata nel mondo.
Edoardo inoltre è un abile dongiovanni e si destreggia tra le numerose amicizie femminili, sempre di corsa, forse è per questo che l’orlo gli fa gioco, per non sporcare i calzoni tra un appuntamento fugace e l’altro!
Torna anche oggi nella moda maschile la tendenza dell’orlo di 4 cm, misura che non dovrebbe essere superata se non si raggiunge oltre il metro e ottanta di altezza.
Eleventy lo ripropone in chiave moderna sui pantaloni classici stile british -Galles Chevron Piedepoule, ma anche, azzardatissimo, sul denim con le pinces.
Marco Baldassari, fondatore e direttore creativo del brand Eleventy, rimane coerente con le precedenti collezioni, mixando come un vero funambolo il saper fare bene, quindi il know how del made in Italy, l’eccellenza delle materie prime, e la portabilità del capo che, probabilmente, ricopre un ruolo fondamentale nella scelta etica Eleventy, una scelta dove la comodità corre a pari passo con la ricercatezza ed il gusto.
La linea P L A T I N U M di Eleventy raccoglie maglie e giacche di lane pregiatissime e sono completamente de-costruite e cucite a mano, risultando più leggere e meno rigide. I pullover garzati in lana-cashmere con il loro “magic touch” effetto nuvola, sono caldi e voluminosi, ottenuti tramite un’antica tecnica di aspatura e garzatura della lana, che estrae le fibra più bella e la porta in superficie all’esterno. Come i vecchi cappotti dei nostri nonni, le maglie vengono trattate ad effetto “casentino”, la velata vena nostalgica di Eleventy, che invece guarda sempre al futuro ed è sempre attento alle tendenze. Come per la scelte delle freschissime cuciture “a vivo”, tipiche della giovane cultura della moda, ma utilizzate su capi casual.
E sempre sul filone dei rubacuori, le “divise” sportive che ricordano il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi, Babe Ruth, l’ex bambino mascalzone che marinava la scuola e masticava tabacco a 6 anni.
Un guardaroba per ogni occasione, per l’uomo dallo spirito volitivo e fugace, che ama viaggiare e cambiare, che non si lascia cogliere alla sprovvista, portando con sé pochi pezzi tutti mixabili tra loro, nel maxi borsone firmato Eleventy.
Sfoglia la collezione Eleventy Fall Winter 2019/20:
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Sempre fedelmente british, di un’eleganza nostalgica che viene dalla campagna, dagli uomini politicamente impegnati, ma ancora legati alla propria terra, DAKS celebra la sua collezione FW 2019/20 che compie oggi 125 anni.
Oltre un secolo di coerenza e classe, una collezione Autunno Inverno dal forte carattere inglese, dalla compostezza rigorosa e raffinata dei tessuti, una stagione fredda che si lega al grande romanzo dello scrittore britannico Kazuo Ishiguro, “Quel che resta del giorno” (The Remains of the Day, 1989), vincitore del Premio Booker, premio miglior romanzo scritto in lingua inglese.
Siamo quindi in Gran Bretagna negli anni ’20 e ’30 , gli uomini passano dalla caccia alla volpe al bicchiere di whisky e chiacchiere di Stato; nelle loro stanze private indossano giacche da camera e fumano la pipa. Il cappello ha il pregio di valorizzare tutta la ricchezza degli abiti, che sono necessariamente sartoriali, i pomeriggi sono freddi e nebulosi, i colori che l’uomo indossa sono quelli della terra, il ruggine delle foglie quasi morte, il verde dei boschi, il grigio della bruma.
DAKS, con la stessa compenetrazione del protagonista di “The remains of the day“, interpretato nel film di James Ivory dal grande Anthony Hopkins, propone per questa speciale collezione fibre nobili come il merinos, il cashmere e uno speciale mohair con particolare trattamento di garzatura volto a creare un effetto maggiormente soffice, caldo ed avvolgente.
Le stoffe utilizzate sia per l’uomo che per la donna DAKS, arrivano dai ricercati archivi dei fornitori inglesi, che rispecchiano il gusto e il carattere del tocco british DAKS.
Si torna indietro nel tempo indossando un gessato DAKS, ma si rimane eleganti nel presente, nel particolare tocco twenty, nelle strutture, nei tagli, resi moderni e di tendenza.
Must have della collezione Fall Winter 2019/20 Daks, l’Anniversario Check: uno speciale disegno ideato appositamente per celebrare questa importante ricorrenza e che ritroveremo sviluppato tanto nei capi spalla quanto nella maglieria.
Le maglie ricordano, nel disegno, l’intramontabile “argyle”, l’iconico tratto grafico della maglieria inglese. Le borse, pensate sia per l’uomo che per la donna, sono realizzate in pelle mat e nei tessuti dei capi di collezione.
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Le ore che precedono la visita mi fanno rimbalzare il cuore al petto. Ogni volta che attraverso quella porta la immagino venirmi incontro con il suo sorriso contagioso o con qualche strambo occhiale creato da qualche strambo artista, poi mi prende per braccio come una vecchia amica e inzia a raccontarmi con l’entusiasmo di una bambina qualche sua marachella amorosa, il dettaglio divertente di un nuovo amante, la smorfia di sdegno dell’amata mogliettina. Mi invita a prendere il tè su un divano che dà le spalle a un’opera di Chagall e che fissa un Boccioni; quando gesticola, gli orecchini dipinti con minuzia da Yves Tanguy sprigionano una luce che mi commuove; poi mi sveglio da questo sogno ricorrente ogni qualvolta i miei piedi toccano Venezia, e più precisamente i pavimenti di Palazzo Venier dei Leoni, la casa che abitò Peggy, Peggy Guggenheim, quella figura che io vedo come una cara amica pur non avendola mai conosciuta.
In questo anno ricorre un evento importantissimo, si omaggia il 70mo anniversario della Peggy Guggenheim collection alla Biennale di Venezia. Era il 1948 quando espose per la prima volta, quando dopo una vita dedicata all’arte decise di approdare su quel romantico pezzo di terra avvolto dalla laguna ed esporre la sua intera collezione, tenuta insieme con fatica, con lacrime e tanta passione.
Fu Santomaso a darle il benvenuto, un artista veneziano che era solito pasteggiare nel ristorante “Angelo”, pagando il conto con un quadro e raccontando le più belle storie di Venezia. Fu lui a incoraggiare Peggy a esporre l’intera collezione alla XXIV Biennale di Venezia. E Peggy non se lo fece ripetere due volte, già affascinata dal clima dell’Italia, dal profumo degli alberi di cedro in fiore, dai possenti palazzi veneziani e da quella laguna calma che sembrava avvolgere tutto e riflettere una città inventata, un po’ fuori dal mondo.
Peggy espose il frutto del suo amore, la sua unica ragione di vita, opere di artisti che aveva scovato e allevato come fossero figli suoi, ma innamorandosene come un’amante capricciosa. In Italia allora non si era ancora sentito parlare di surrealisti, di Giacometti, di Brancusi, di Arp e Pevsner e l’aria bigotta della Biennale di Rodolfo Pallucchini, segretario generale, l’aveva obbligata a togliere un disegno molto sensuale di Matta, che rappresentava Ninfe e Centauri. Il disegno se ne andò offeso di sua iniziativa, cadendo per terra e frantumando il vetro in mille pezzi, prima dell’arrivo dei preti che avrebbero urlato allo scandalo.
Ma l’esposizione di Peggy Guggenheim ebbe un successo inaspettato e straordinario, Pollock e Max Ernst le opere più apprezzate, tutti volevano vendere qualcosa alla mecenate americana, i giornali parlavano di lei e si organizzarono nuove mostre e si scrissero nuovi cataloghi.
Il legame con la città sull’acqua era nell’aria, presto Peggy si sistemo’ a Palazzo Venier dei Leoni, quell’edificio bianco che si affaccia sul Canal Grande, un tempo abitato dalla misteriosa Marchesa Casati che offriva feste alla Diaghilev e passeggiava con due leopardi al guinzaglio. Oggi Palazzo Venier ospita la collezione Guggenheim, e in alcune di queste sale è stata allestita la mostra omaggio a quel lontano e fortunato ’48. Una maquette al centro della sala mira a ricreare l’ambiente del padiglione e ne ricostruisce l’allestimento originario del ’48; sono state raccolte lettere e inviti originali inviati alla Signora in persona, sui muri foto in bianco e nero la ritraggono insieme ai partecipanti, alle figure istituzionali e agli artisti che ha amato e voluto con sé.
Peggy Guggenheim rimane la più grande talent scout di arte contemporanea, è a lei che dobbiamo dire grazie se oggi possiamo gioire di tanta bellezza.
Immagine di copertina: Lionello Venturi, Carlo Scarpa e Peggy Guggenheim al padiglione greco, XXIV Biennale di Venezia, 1948 /
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Rovista tra le stanze del nonno scomparso e trova chilometri di stoffe pregiate, un’eredità scritta nelle stelle quella di Sofia Alemani, che fonda la sua prima linea con l’omonimo marchio, dal carattere fortemente retrò.
Linee twenty della Nuova York in cui il charleston impazzava nelle sale da ballo, abiti ricamati a mano e impreziositi da perle e paillettes, che regalano movimento ad ogni passo.
Forti le tinte del rosa, scintillanti i lurex dell’oro accostati al gobelin, il romantico tessuto che veniva usato per tappezzare i divani in stile.
Ogni dettaglio è fondamentale per Sofia Alemani, che unisce una vera e propria passione per i tessuti, all’originalità delle loro interpretazioni, anche se derivano dal mondo del design e dell’arredamento.
L’abito Sofia Alemani sarà quindi marchiato dall’unicità, dall’estro e dalla creatività, come l’abito da sera realizzato con la tecnica del “piccolo punto”, con gonna in tessuto tecnico effetto spalmato, abbinato alla cintura-tapparella!
O come l’abito in rete con lavorazioni “a tombolo”, una particolare lavorazione del pizzo fatto a mano e realizzato da uno strumento che prende lo stesso nome. Un pizzo delicato e raffinato che richiede grande abilità ed esperienza, che Sofia Alemani possiede perché produttrice di ogni singolo capo.
Inutile chiederle da cosa trae ispirazione, Sofia Alemani potrebbe sedere nel salotto di casa vostra per un tè e, il tempo in cui voi portiate i biscotti, aver levato le tende, ma nel vero senso della parola!
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60 ANNI DI PASSERELLE PER LES COPAINS – COLLEZIONE SPRING SUMMER 2019
Les Copains festeggia una carriera lunga 60 anni e lo fa con una collezione “gold” ispirata alla storia di “Orlando“, protagonista del magico romanzo di Virginia Woolf e interpretato su pellicola dalla magnetica Tilda Swinton.
Un héritage Made in Italy, maison presente nei più prestigiosi department store del mondo tra cui Saks Fifth Avenue, Harrods, Takashimaya e Isetan e con negozi monomarca a Roma, Milano, Firenze, Mosca, Almaty, Les Copains festeggia la new opening in Via Manzoni 21, nel cuore del quadrilatero della moda.
La collezione Spring Summer 2019 è un ritratto muliebre illuminato dal lurex oro, da bagliori metallici, dalla lucentezza dei tessuti e dai simboli araldici che compaiono su giacche e accessori.
La Creative Director Stefania Bandiera e il Ceo Alessandro Mariani, hanno scelto di far sfilare i capi iconici del brand rendendoli contemporanei attraverso l’utilizzo di materiali e tecnologie innovative; una visione orientata al futuro in cui sono stati coinvolti gli studenti dell’Istituto Marangoni.
Il progetto prende il nome di “It’s my Dream”, ed è una capsule collection di 12 outfit selezionati tra le migliori proposte dei giovani designer, in concomitanza con la sfilata primavera-estate 2019 di Les Copains.
Tre sono gli allievi che hanno espresso la “new vision” Les Copains : Orkut Sevin, Junjie Liu, Eva Adamyan, che hanno giocato su armonie geometriche, sul romanticismo cinematografico di “Amelie” e sull’atmosfera marinara del mondo yatching -engineering.
Un viaggio all’insegna della sperimentazione e lungo 60 anni, che ha permesso a Les Copains di affermarsi come brand del made in Italy nel mondo. Un connubio dove tradizione e innovazione si fondono perfettamente, regalando alle donne una collezione unica, portabile e femminile!
Sfoglia tutta la collezione Spring Summer 2019 Les Copains:
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