I registi più coraggiosi della storia? Quelli che si mettono a nudo

Credo che un buon film possa definirsi “riuscito” solo quando il regista si mette a nudo. Senza pregiudizi. Succede la stessa cosa in fotografia, può esistere un ottimo scatto, tecnicamente perfetto, ma se non parla in qualche modo dell’autore, sarà un’immagine senz’anima e non racconterà nulla.

I registi che nella storia del cinema hanno o stanno lasciando il segno, sono esattamente queste figure coraggiose, che ci hanno aperto le porte del loro passato, o della loro mente, o delle loro curiosità, spesso parlandoci di perversioni, di ossessioni, di manìe, di complesso edipico, con una verità che può aver causato repulsione da parte del pubblico; mi viene in mente “Salò o le 120 giornate di Sodoma“, 1975 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Un’opera su-bli-me che meriterebbe centinaia di volumi per poter essere esplicitata, una geografia dantesca dell’Inferno, governato dai violenti. Scatologia, l’orrore del fascismo, il potere del sesso, sadomasochismo, necrofilìa, sono solo alcuni dei temi trattati dal regista; nell’estremizzazione della brutalità dei De Sade protagonisti, c’è tutto un codice societario che i telegiornali ci sbattono in prima pagina tutti i giorni.

“Il Portiere di notte” di Liliana Cavani (1974) segue il filone di quello che venne definito, insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma, il cinema nazi-erotico, un amore per il mostro, è la storia di una ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, che incontra il suo aguzzino (finito a fare il portiere di notte) per venirne di nuovo risucchiata e sedotta, perdendosi in un rapporto morboso sadomasochistico.


Ma di attrazioni e dello svelamento delle proprie ossessioni, Roman Polański è in cima alla lista con “Venere in pelliccia” (2013), perchè credo che quando la spinta e il desiderio di esprimere un concetto, una idea, sullo schermo o sulle pagine di un libro, sia così forte e così ben riuscito, allora quel pensiero è così radicato dentro di noi da rappresentarci. E sul regista la cronaca ha scritto di cause in attesa di giudizio (fissate per il 4 agosto 2025) per abuso su minori (ma questa è un’altra storia e non possiamo scriverla noi). Ci limitiamo ad esprimere giudizi sul mestierante, non sull’uomo, anche se ci chiediamo: “Possono essere scisse le due cose?


Sempre sull’onda del feticcio non posso non citare Alfred Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte) del 1958, il regista vojeuristico per eccellenza, attratto dalle bionde glaciali ma soprattutto da quell’acconciatura a spirale che scopre della donna, la parte più vulnerabile: il collo. In una scena del film il protagonista chiede alla figura femminile di raccogliere i capelli in uno chignon, ecco il totem del regista che più di chiunque altro è riuscito a mettere su pellicola patologie, schizofrenie, fantasmi.

E per chiudere una prima parte dei registi che si sono messi a nudo, Lars von Trier in “Melancholia” del 2011 ci ha permesso di partecipare ad una seduta psicanalitica, perchè Melancholia è la vivisezione della depressione in immagine cinematografica. In una scena Kirsten Dunst, la protagonista, in un rallenty che dura oltre i cinque minuti, cerca di camminare ma viene ostacolata dalle radici che escono dal terreno, viene attratta verso il basso, bloccata (la perdita del piacere, il declino psico-fisico), l’aria si fa rarefatta (l’ansia, il panico), sulle note del Tristano di Wagner, e non poteva esserci colonna sonora più calzante, d’altronde von Trier non ne sbaglia una.
Un genio? No, ha solo avuto la grande sfortuna di conoscere la depressione. Solo chi ha vissuto, può spiegare.


Chiara Boni, vera rivoluzionaria della moda

INTERVIEW BY MIRIAM DE NICOLÒ

Vera rivoluzionaria della moda

Una donna dalla vita affascinante come quelle che si leggono nei libri di Giuseppe Scaraffia, un’esistenza sociale come solo nei salotti di Madame Verdurin, il personaggio proustiano de “La Recherche”, esempio di snobismo ottocentesco, fautrice di eventi mondani, finestre di importanti connessioni artistiche e politiche.

Lei è Chiara Boni, figlia dell’aristocrazia fiorentina e madre di una grande rivoluzione della moda: il jersey per gli abiti da sera. Dalla castità morale dell’Italia in cui è nata, vola in una Londra folle e irriverente; tornerà alla terra d’origine in minigonna e stivali in latex alti al ginocchio, un nuovo stile anticonformista e tante idee, compresa quella di aprire una boutique.

Tra amori intellettuali come quello con Vittorio Sgarbi che la portava nei Musei a notte fonda, a quelli più maturi con Angelo Rovati, politico e imprenditore italiano, allora consigliere di Romano Prodi, a cui Chiara Boni farà da infermiera fino alla fine dei suoi giorni, la stilista italiana fondatrice dell’omonima casa di moda, scrive un pezzo di storia e decide di imprimerla in un’autobiografia al compimento di 50 anni di carriera, “Io che nasco immaginaria”, un libro a cura di Daniela Fedi, sua carissima amica. Perchè le amicizie, per Chiara Boni, sono come le stelle comete, le indicano il cammino e l’accompagnano nei giorni più bui.

Oggi il brand Chiara Boni (La Petite Robe) veste Ophra Winfrey, prima grande fan degli abiti stretch che vestono e illuminano ogni tipo di corporatura femminile, dalle più magre alle più formose; lo abbiamo visto sui set di The Loudest Voice con Naomi Watts e Russell Crowe, sui red carpet più importanti, indossato agli eventi della NBA dall’ex cestista del Maryland Monica McNutt, scelto da figure politiche ed imprenditoriali, Chiara Boni non è solo il sogno di chi l’ha creato, l’abito del millennio, leggero, che occupasse poco spazio in valigia, da non stirare e iperfemminile, ma anche il desiderio di ogni donna, che regala grazia ed eleganza a qualunque taglia e qualunque età, una specie di bacchetta magica per ogni occasione.

La incontro nello showroom di Milano, dove disegna e crea le collezioni che portano il suo nome, inizia a raccontarmi di lei bambina, con ricordi così nitidi e dettagliati, che si fanno più cristallini quando parla dei tessuti che indossava e dei modelli che collezionava.

Chiara Boni and Eleonora Gardini in 1999

Cosa ricorda della sua infanzia?

Sono nata per scelta. Di una donna. Mia madre si sposò a vent’anni, vergine, continuando a rifiutare mio padre fino al giorno in cui s’accorse di desiderare una figlia. Tornò da lui, si fece mettere incinta, si separò nel ‘49, ed eccomi qui. Si risposò in seguito due volte.

Cosa indossava da bambina?

Solo il bianco era concesso, banditi i colori che mia madre trovava meno eleganti.
Nell’armadio solo cappottini color neve, vestitini di lana color batuffolo di cotone, ghette al massimo panna.

E sua madre come vestiva?

In sartoria, a Parigi da Balenciaga, da Givenchy, da Philippe Venet, il fidanzato di Givenchy che all’epoca aveva un atelier, e da Mila Schon a Milano. Anche io avevo tanti abiti firmati Mila Schon.

E i colori quando sono iniziati?

Sono passata dal bianco al blu allo scozzese; solo d’estate mi portava dal marchese Emilio Pucci nel suo palazzo a Firenze dove mi faceva confezionare completino in popeline turchesi o gialli.
Sarà poi Fiorucci a rivelarmi il mondo del colore, aveva un fantastico negozio a Milano, il paese dei balocchi dove acquistai dei cuissard in latex alti fino al ginocchio, che mia madre mi proibirà severamente d’indossare. Con la scusa di perfezionare le lingue partii per Londra, accompagnata dalla tata, una Mary Poppins in carne ed ossa che mi voleva molto bene, ma che facevo disperare perchè Londra mi si offriva in tutta la sua bellezza, perdizione, stranezza e soprattutto mi faceva scoprire le tendenze più strambe in ambito stilistico. Proprio qui, nel ‘67, frequentai Biba, il negozio di una donna polacca dallo stile Maleficent; le clienti sembravano tutte dei personaggi di Tim Burton, le commesse avevano gli occhi viola e grandi ciuffi di ciglia, la pelle diafana e la bocca dipinta di vino. Io, arrivata in kilt, gemello di cachemire, borsa di Gucci e foulard di Hermes, dopo tre giorni ebbi la trasformazione.

Il primo periodo di ribellione?

Sì, ribellione, ero irriconoscibile. Infatti al mio ritorno, boa in struzzo, minigonna, cappello a fiori, stivali sopra il ginocchio, mia madre si vergognava così tanto che mi camminava dietro, per poi riportarmi tutti i commenti dei passanti. A cui non facevo minimamente caso, per me era importante il messaggio di quel pezzo di stoffa che si era accorciato grazie a Mary Quant, cosa rappresentava realmente per la società: la libertà.

Cosa porta con sé di quel periodo?

Le cene a San Lorenzo, un ristorante italiano gestito da due bagnini di Forte dei Marmi, Mara e Lorenzo, i cui clienti erano i Rolling Stones, Marianne Faithfull, Twiggy, Gigi Rizzi che allora aveva un flirt con Brigitte Bardot, un parterre di playboy italiani e un gruppo di ragazze ancora vergini, quando ancora la verginità era un valore. Loro la notte andavano a caccia di inglesi, più spregiudicate, e noi italiane uscivamo con due amici gay fantastici, eravamo una compagnia affiatata e ci divertivamo moltissimo.

Chaira Boni with Roberto D’Agostino presenting her first fashion show

Com’ è cambiata la moda dagli anni ‘70 a oggi?

I veri cambiamenti non sono stati tanti.
Chanel ha liberato le donne dal busto e da tutti quegli ammennicoli sui cappelli, inserendo nella moda il tailleur con tessuti maschili; nei ‘70 Mary Quant si fa portavoce di un grande movimento femminista attraverso l’uso della minigonna, vera grande rivoluzione non solo stilistica ma politica; la prima vera passerella fu Kings Road di Londra, dove nel ‘67 gli stravaganti sfilavano per farsi fotografare dai turisti, e dove David Bowie prendeva ispirazione per i suoi look eccentrici. Erano davvero anni diversi, potevi scontrarti con Julie Christie che aveva appena vinto l’Oscar, vedere una Bentley con due enormi alani e uomini dai lunghi capelli vestiti di fiori.

Erano gli anni del fermento artistico intellettuale e culturale. Allora anche Milano poteva essere definita una città europea, dove alle feste a cui partecipavo con mio padre (anche se non ho mai avuto un grande legame affettivo con lui) potevo incontrare Gio’ Pomodoro, scultore e fratello minore di Arnaldo; Giorgio Bocca, grande scrittore e giornalista; dove al bar Oreste che stava in Piazza Verdi giocavamo a biliardo con Umberto Eco, chiacchieravamo con Tobia Scarpa e un gruppo di giovani architetti; dove incontrai un sessantottino rivoluzionario radicale, Vittorio Maschietto che sposai, con cui ingabbiai il Duomo di Firenze in un gonfiabile, prima ancora di Christo, insieme al gruppo di sperimentazione radicale Ufo, object di un momento irripetibile della storia culturale fiorentina e internazionale.
Milano cresceva ed aveva le braccia aperte.

Intende dire che oggi Milano è una città chiusa?

Molto di più. Oggi è diventato più importante il denaro, come a New York la prima volta che ci misi piede e la prima persona che incontrai mi chiese “Quanto guadagni al mese”?

Che volgarità.

In quella città non lo è, è un modo di presentarsi, e Milano ha preso un po’ la stessa brutta abitudine. Ci si frequenta per ceti sociali.

Quindi si è amici per interesse?

Secondo me sì.
Un tempo gli amici si riunivano ai Cafè des Artists, o a Firenze al Caffè Letterario Le Giubbe Rosse, luoghi di cultura dove autori diversi si impregnavano delle idee di altri artisti, per poi immergersi nella loro arte, con quel filo d’Arianna. Oggi gli artisti lavorano in solitaria e mancano i vasi comunicanti che hanno fatto di quei periodi, i più prolifici della storia dell’arte e del pensiero.

Perché ognuno pensa al proprio orticello?

Perchè i social network hanno sostituito il rapporto interpersonale. Mia nipote Bianca ha otto anni, una bambina molto intelligente a cui stiamo insegnando l’importanza delle relazioni, molti suoi coetanei però passano la giornata a guardare la tv o davanti ad un cellulare. Un giorno mi ha detto una cosa molto interessante sul futuro della moda “Nonna, la moda sarà sicuramente una seconda pelle, e ognuno di noi potrà ornarsi di tatuaggi e collane come nelle tribù africane”. Un senso di inversione causato dai disastri climatici che percepisce già anche lei.

Viviamo un periodo di grandi brutture culturali e la moda ne subisce le conseguenze?

Sì. Credo che nella moda ci sia una grande confusione in questo momento. Non ci sono vere rivoluzioni dopo la nascita del prèt-a- porter, che ha reso in un certo senso democratico un certo modo di vestire, prima destinato solo agli aristocratici. Ora la moda è per i narcotrafficanti, me lo raccontava un amico che ha fatto le vendite per tre giorni ai top clients di brand super loggati, gente che fa un poco paura.

E chi sono?

Un pò narco, personaggi dei cui denari non si conosce la provenienza, gente che spende 500 mila euro in due giorni per dimostrare di aver raggiunto un certo successo.

Fiction e Reality della moda.

La moda è un mondo che si frequenta molto poco. Ci si incontra alle grandi feste con i giornalisti, amici, addetti al settore, ma tra stilisti non si è mai fatto squadra. In passato sono stata una grande amica di Enrico Coveri e amica d’infanzia di Egon von Fürstenberg, ma oggi sembra una cosa impossibile. Una Milano disunita insomma, tanto è vero che non c’è più la Fiera, luogo perfetto per sfilare.

Me la ricordo molto bene, era così comodo dover solo salire e scendere le scale mobili e ritrovarsi tutti i brand nello stesso spazio, evitandoci così il traffico e i ritardi obbligati dei ping pong in Fashion Week.

Esattamente, le giornaliste sono stressate, non hanno il tempo di farti una domanda vera, i taxi sono pieni, si corre da una parte all’altra della città nelle solite dieci location. Noi quest’anno siamo tornati a sfilare alla Scuola Militare Teulié in Corso Italia, uno spazio che contiene mille persone, ma in questo modo si toglie il tempo agli addetti di confrontarsi, concentrarsi, elaborare pensieri su ciò che hanno appena visto. Si è un po’ perso il sapore di un tempo.

Chiara Boni

Per Gianni Berengo Gardin una buona foto è una foto che è riuscita a rappresentare la realtà, congelandola nel tempo. Per lei cosa rappresenta un buon abito?

Ho sempre pensato che un buon abito potesse essere più terapeutico di una seduta dallo psicologo. Quando ci si sente belle e confident, la vita risulta meno dura.

Cosa la rende veramente felice?

Il mio lavoro mi rende felice. Mi ha aiutato a superare momenti di grande dolore, la morte di mio marito, il fallimento di GTF (Gruppo Finanziario Tessile) da cui ho ricomprato il mio marchio, e la libertà di espressione, che ho portato in passerella già nei ‘90 facendo sfilare transessuali, ragazze curvy e una Moana Pozzi vestitissima.

Tiziano Terzani scrive “La natura ci dà spettacoli gratis meravigliosi”, come un bel tramonto e paesaggi fioriti. Mi rendono felici i miei cani, esseri dall’animo puro, come i bambini. Sono una donna senza pregiudizi, capace di guardare oltre l’apparenza delle cose, e per questo libera. Una libertà che devo a mia madre, che per me è stato un grande esempio di etica e dolcezza, fermezza ed educazione.

Quanto è SNOB Chiara Boni?

Snobbissima.
In questo le radici fiorentine sono assai profonde, come per l’usanza di non indossare niente che sia di tendenza, rimandi delle famiglie nobili che facevano portare le scarpe al cameriere perchè guai a metterle nuove. Se a Firenze si annuncia un regista internazionale, non importa a nessuno, lo snobismo lì è essere disinteressati ad ogni strabilia che fa gola a tutti gli altri, tranne allo snob, per l’appunto.

Cena fine dining al Visteria, il ristorante vista lago dell’Hotel Royal Victoria

VISTERIA, IL RISTORANTE FINE DINING DELL’HOTEL ROYAL VICTORIA 

Era il 1838 quando la Regina Victoria decise di soggiornare all’Hotel Royal, lontana dagli impegni di corte, per fare lunghe passeggiate sulle sponde del lago e sorseggiare il migliore dei tè nella sua stanza prediletta. Da quella data, la struttura situata nel centro di Varenna, decise di rendere omaggio alla regina e ribattezzarlo così Royal Hotel Victoria.

Un edificio storico del XIX secolo che conserva ancora il fascino di quel tempo, preservando i preziosi elementi architettonici dopo un attento lavoro di restauro, la magia del lago che ha abbagliato personaggi illustri come il musicista Charles Gounod, più volte ospite, e il romanticismo del panorama unico, l’affaccio diretto sul noto Lago di Como.

Il Royal Hotel Victoria è un elegante hotel che offre i migliori servizi in fatto di accoglienza, comfort, eleganza e cucina, perchè con Visteria, il suo ristorante fine dining, oggi diviene punto d’incontro per appassionati e curiosi.

La brigata è capitanata dallo Chef Francesco Sarno, origini campane e, buon sangue non mente, una ricerca costante del gusto al centro di ogni piatto.

Il menù à la carte propone una raffinata selezione di piatti o percorsi di menù degustazione da 4 o 6 portate, tra i quali anche una esclusivamente vegetariana. La materia prima è di altissima qualità e dialoga con il territorio con scelte di ingredienti mediterranei a base di carne, pesce o verdure. Tra i piatti rappresentativi dello Chef Sarno, il risotto limone, scampi e bufala, il bottone bufala e melanzana, il carciofo parmigiano e tartufo o lo scenografico cotto e crudo di verdure. Le composizioni sono dei dripping pollockiani quando la ricerca e le contrapposizioni di sapori si fanno più intense ed azzardate, mentre permane semplicità quando il piatto racconta le radici dello chef, piatti di grande gusto e dove la materia prima rappresenta le eccellenze italiane, come nello spaghetto ai quattro pomodori.

28 coperti, un design moderno ma caldo con scelte interessanti dei materiali, che combinano marmo e legno per i tavoli, velluto dai toni terrosi per le sedute, vetrate luminose che regalano una vista del lago piena e un’atmosfera romantica.

Visteria (in inglese wisteria) significa glicine, e omaggia la cornice che rende unico e caratteristico questo luogo, il pergolato reso vivace dai colori della pianta, toni pastello del lilla, del bianco e del rosa, un angolo pittoresco dove è possibile prendere un aperitivo, sull’unico tavolino a disposizione, obbligatoriamente per 2, il luogo poetico per eccellenza dove fare rivelazioni, confessioni e proposte di… a voi la scelta!



28 Posti, il ristorante sostenitore dell’artigianato locale

Il ristorante 28 Posti inaugura una collaborazione tra arte, cucina e design con le creazioni firmate Esperia di Luisa Bertoldo e Ramiro di Alessandra Modarelli.


L’eleganza qui ha il nome della semplicità, da 28 posti, ristorante di Milano sito in via Corsico 1, l’ambiente intimo e accogliente del locale si fa ancora più caloroso con le creazioni di Ramiro ed Esperia.

Collaborazioni tutte al femminile, delicate quanto l’ambiente e la mise en place fatta di ceramiche Esperia firmate Luisa Bertoldo. Progetto ispirato al nome con cui greci e latini indicavano l’Italia, Esperia crea oggetti unici e in quanto tali imperfetti, realizzati totalmente a mano nel laboratorio milanese.

Piatti piani e fondi del colore della terra, dal Siena bruciata per esaltare il piatto con “linguina, brodetto di lische, alloro”, al bianco panna con sfumature di beige per il “pesce bianco, rrbette, molluschi, cipollotto in carpione”, un colore neutro base perfetta per sottolineare il verde della salsa e quella croccantezza della pelle di pesce che richiama i puntini dell’oggetto. Insomma tutta la mise en place parla lo stesso linguaggio della cucina, firmata per l’occasione speciale di presentazione della collab, dagli chef Andrea Zazzara e Franco Salvatore.

Le tovaglie firmate Ramiro di Alessandra Modarelli, sono l’abito perfetto per vestire una tavola che ha il calore di casa, di un cotone pregiato, ricami del passato, inamidata ma comodamente stropicciata, in perfetta sintonia con un artigianato forse purtroppo dimenticato, puro e non artefatto.

Dai piatti alla cucina, dal tovagliato al vino (un interessante bianco non filtrato del piacentino, fatto con uve Ortrugo al 90% e Chardonnay, il Foglianella di Marinferno), tutto viene celebrato con amore del mestiere.

L’ssparago verde con latte di rafano e olio al dragoncello, rimane il nostro piatto preferito, potrete gustarvelo da giugno per tutta l’estate e scoprire questa bellissima collaborazione tutta al femminile, nella location che fa di 28 posti non un semplice ristorante, ma una tavola creativa sostenitrice di piccole realtà artigianali.

Miracolo a Milano 

INTERVIEW BY MIRIAM DE NICOLO’

PHOTOGRAPHY MARCO ONOFRI

Se “le amicizie non si scelgono per caso, ma secondo le passioni che ci dominano“, come affermava il grande scrittore Alberto Moravia, questo trio colorato ne è certamente l’esempio. Nina Zilli, Alvin e King Raptuz, sono tre amici che hanno fatto del sentimento più nobile, l’amicizia, un progetto artistico: Miracolo a Milano! 
Una mostra itinerante che toccherà diverse tappe delle più importanti città italiane dove esporranno le loro opere, così diverse eppure così accomunate dalla passione e dall’entusiasmo per la vita, che il successo popolare della tv non poteva raccontare. 
E siamo così abituati a collegare l’immagine mondana che lo schermo riflette, da dimenticarci che dietro quella parete si celano  esseri umani con paure, fragilità, e sogni! 
Percepisco immediatamente che in Nina, Alvin e Raptuz, qualcosa di importante li accomuna: l’umiltà. Ah, quale piacere conversare con persone che vestono solo i panni della loro vitalità, i colori che li descrivono, che rispettano le loro radici, abbracciandole, ma soprattutto che conservano quella parte fanciullesca dal fascino esotico. E’ la scintilla che non muore mai, la si legge dallo sguardo, dal sorriso onesto, dalla bonarietà di concedersi agli altri; è una dote superiore, imparagonabile ad altri talenti. 

 

Nina Zilli, pseudonimo di Maria Chiara Fraschetta, cantautrice dalla voce potente, veejay, conduttrice televisiva, disco di platino con il brano “Per sempre”, è influenzata dalle sonorità dei ’40, Nina Simone, Etta James; l’immagine di una pin-up che ha sempre qualche dettaglio rock e deliziosamente femminile, la grinta di una vichinga e l’aria di chi guarda solo alla sostanza. Nina Zilli è l’elemento magnetico del trio. 

Alvin, pseudonimo di Alberto Bonatoamato dal grande pubblico italiano per aver ricoperto il ruolo di inviato nel noto programma televisivo “L’Isola dei Famosi”, è un presentatore e conduttore radiofonico. Un passato da cantante e compositore, Alvin è di quelle personalità che non possono non piacere, è il perfetto vicino di casa, è il prediletto della maestra, il cocco di mamma, insomma possiede quell’aria da bravo ragazzo a cui non si riesce mai a dire “NO”. Doti innate? Io credo piuttosto che dietro quel sorriso generoso ci sia un lavoro enorme di autodisciplina, che ha alla base educazione e grande senso civico. Scusate se è poco!

King Raptuz, pseudonimo di Luigi Maria Muratore, il più affermato tra i writer italiani, fonda la  TDK (The Damage Kids, 1990), il più importante collettivo della disciplina. Più di 30 anni di carriera alle spalle, Raptuz è membro della storica crew di West Hollywood “CBS”; amico dei rapper J-Ax e Space One, fonda il collettivo Spaghetti Funk, con Gemelli Diversi, DJ Enzo e Chief. Espone nelle più importanti gallerie del mondo e collabora con importanti aziende sia in performance live che in qualità di grafico.
Il suo stile è diretto e apparentemente caotico, proprio come la sua personalità; gioca sugli accostamenti di colori e grafiche, non mi stupisce abbia scelto il writer come mestiere, la timidezza è forse il lato che prova a celare dietro grandi e scuri occhiali da sole, lavora quando tutti dormono, lascia il segno con bombolette spray, vernici, smalti, è un grande osservatore, parla solo la mattina, la notte gli è sacra. Ah, è un purista dell’arte. 

Che cosa vi accomuna, oltre l’amicizia? 

A: Le colazioni a casa di Nina.  Tutto è partito da lì.

NZ: E Milano, la città delle grandi opportunità, quella che realizza i sogni dei giovani ragazzi come in “Miracolo a Milano”, il film di Vittorio De Sica. “La storia si ripete, ma cambia il contesto“, lo diceva anche Giambattista Vico.

Milano come le Americhe?

NZ: Arriviamo tutti e tre dalla provincia, quella cosa noiosissima, si sa.

A: Una provincia che può schiacciare o lanciare. La capacità è sapersi aggrappare a tutto ciò che luccica in qualche modo. E così Milano diviene il sogno americano di tre ragazzi che hanno la stessa passione per l’arte e per la musica. 

E la tua passione per l’arte quando è nata?

A: Intorno al 2018 ho sentito l’esigenza di circondarmi di colore tra le mura di casa, vivevo un momento molto difficile della mia vita. Quelle tele mi hanno riportato ai 12 anni, i primi pastelli, gli aerografi, la creatività istintiva e naturale.

Difficoltà che possiamo raccontare? 

A: Il Covid che ha intaccato gli equilibri lavorativi, la scomparsa prematura di persone a me care,  sono stati anni di grande dolore, ma che hanno portato in seguito anche grande gioia, una personale a Modena e molte collaborazioni, anche se il mio principale lavoro rimane quello del presentatore. 

Il rimando delle tue opere è Banksy. Ti ispiri a lui?

A: Diciamo che lui è il più riconosciuto e facilmente riconoscibile, ma esistono numerosi street artist a cui mi ispiro. 
A questo proposito mi è parso d’obbligo creare un quadro che recita così “Assomiglia a Banksy, ma non lo è”. 

In una tua serie c’è un cuore che cola…

A: Il cuore che cola è un po’ il centro di tutta la mia idea dell’arte, richiama il dolore, la passione, è interpretabile a seconda della propria storia, e tutti ne possediamo uno. 

Nina, qual è invece il tuo concetto artistico?

NZ: Da bambina disegnavo, scrivevo canzoni, suonavo il pianoforte, fino a quando il rock’n’roll si è impossessato di me, ma quelle passioni non le ho mai perse, pensa che tutte le grafiche dei miei dischi le firmo io. Un bel giorno una giornalista che lavora per la casa Editrice Rizzoli, mi ha detto “Dobbiamo fare un libro di illustrazioni”. Io ho pensato fosse pazza e ho risposto “I miei disegnini?” Ne è nato un volume bellissimo, si chiama “Dream city”, una città con le distruzioni per l’uso dove si possono scardinare le leggi della fisica di Einstein, viaggiare nello spazio, acquistare boule de neige nel negozio di una certa Amy Winehouse che le riempie delle sue lacrime. 

“Dream city”, ma tu hai un sogno non realizzato che hai impresso in questo libro?

NZ: Ho volato per la prima volta all’età di cinque anni, da quel momento ho sempre sognato di mangiare le nuvole, quelle che potevo guardare dal minuscolo finestrino senza poterle toccare. In “Dream City” quindi esiste una gelateria, e il gusto più delizioso è ovviamente quello alla nuvola!

C’è una parte fanciullesca fortissima in te.

NZ: Io credo in tutti noi.

A: La difficoltà sta nel mantenerla viva.

NZ: La vita talvolta ti tira bastonate. Sta a noi metabolizzarle e trasformarle in qualcosa di buono e sano. La noia è qualcosa di sano.

A: Non ci si annoia più oggi, si entra direttamente in depressione.

NZ: Mi chiedo spesso:”Avrei studiato così tante ore pianoforte a otto anni se avessi avuto a disposizione la Pay tv, Internet, un cellulare?” All’epoca era una conquista andare a cercare il film che volevi vedere, lo daranno al cinema? Me lo presterà un amico? C’era il piacere dell’attesa. 

A: Il mio sogno di dj era invece avere tutta la musica con me, senza trasportare scatole di dischi pesantissimi. 

Un sogno realizzato con l’avvento del digitale. In merito a questo, ha ancora senso l’arte oggi?

KR: Lo ha sempre, anche se è cambiato il modo di fruirne e le gallerie d’arte si sono dovute adattare.

Oggi anche le opere d’arte sono divenute digitali.

KR: Gli NFT, hanno cambiato il mercato dell’arte, ma non la spinta e la passione di chi la crea, di chi vuol dipingere a colori la propria vita. 

Raptuz, qual è il messaggio delle tue opere? 

KR: Dipingo da che ho memoria, ma il grafit artist un tempo era considerato solo un vandalo, non un professionista, era un mestiere non ancora riconosciuto. 

Perché hai iniziato dalla strada? 

KR: Perché i muri delle città sono i fogli bianchi più grandi dove far conoscere velocemente la tua arte, condividendola con chiunque. E’ per tutti. Poi lo ammetto, ero un po’ scapestrato; ci si nascondeva, si faceva arte sui treni, nelle metropolitane; con il tempo sono arrivate le prime commissioni, le prime mostre, le illustrazioni, i lavori per la Disney con i titoli di Topolino, e i lettering che adoravo, perchè oltre alla Scuola del fumetto ho frequentato l’Accademia Disney con il maestro Giovan Battista Scarpa. Oggi invece vedo solo marchette tra street artist. Dov’è finita quella forza vitale che ci spingeva per le strade la notte? Dove, la voglia di comunicare e farsi sentire? E’ deludente, e quando oggi mi definiscono “street artist” mi incazzo.

Come vuoi essere definito?

KR: Artista urbano, pittore, imbianchino, ma non street artist. Ho vissuto tutte le varie fasi di questa evoluzione, e so riconoscere chi lo fa per vocazione e chi per business. 

Alvin: E’ questa la nostra fortuna, sceglierci per passione, non per dovere. 

La vostra prima mostra “Miracolo a Milano” nella bellissima location “Cittadella degli Archivi”. In quali case sperate arrivino le vostre opere?

A: In quella di Bill Gates. Sempre puntare in alto (ride). 

KR: Io spero sempre tra le mura di chi apprezza veramente quello che facciamo, non destinato a chi manda il proprio architetto che vuole tappezzare i muri perché “fa figo”. 

A: Io in casa di chiunque. Anche se uno manda l’architetto va bene. (risate)

NZ: Un amico durante il vernissage ha nascosto un mio quadro e mi ha detto “Ue’ Nina, va che ti hanno rubato il quadro” e io non ho sclerato, ho subito pensato “Eh, che buon gustaio“. Voleva farmi uno scherzo e mi dice:  “Ma non sei impazzita? Guarda che gli artisti perdono la ragione per molto meno“.

Raptuz, c’è un’opera a cui sei particolarmente legato? 

KR: “Just Love”. Rappresenta il mio cane, è l’unico quadro della mostra non in vendita. Sulla tela c’è sempre la mia vita, i miei sentimenti, le mie città, Los Angeles e Milano, perchè alla fine faccio giri immensi ma torno sempre qui.

Perché torni sempre a Milano?

KR: C’è l’ho dentro, Milano. I miei sono di zona Loreto, via Popoli Uniti, Greco, quando sono nato hanno deciso di trasferirsi a Pioltello, vissuta fino alle superiori, poi sono passato in una zona migliore, via Padova (ride), e ci sono rimasto per quindici anni, da un ghetto all’atro, me li sono fatti tutti. Ma Milano è Milano, ogni volta mi ripromettevo “stavolta non torno più” e invece eccomi qua. E’ questo il vero Miracolo di Milano, una nostalgia che ti si attacca dentro.

Aperitivo vista lago al Mandarin Oriental Lago di Como, il viaggio italiano della nuova drink list

CO.MO. Bar & Bistrot presenta la nuova drink list, un viaggio intorno ai tesori d’Italia


“I saggi, dopo che hanno ascoltato le leggi, diventano sereni, come un profondo, liscio e calmo lago.”

Siddhārtha Gautama Buddha



Da sempre il lago ha ispirato artisti, poeti e scrittori, le sue placide acque fungono da rilassante, e al di là delle sponde si possono intravedere ancora case e villaggi, oltre la foschia, luoghi che fanno da sfondo ai racconti tramandatici dai grandi pensatori della storia.

Elegante e romantico, il Mandarin Oriental Lago di Como, posa su queste acque, che regalano agli ospiti tranquillità, bellezza e un’intimità unica.

Servizio d’eccellenza per il bien-vivre, il CO.MO Bar & Bistrot che gode di una vista meravigliosa all’interno della storica Villa Roccabruna, dove nella terrazza esterna la sera viene animata di musica dal vivo jazz/swing o djset, un’atmosfera perfetta per un aperitivo in dolce compagnia o per provare la nuova drink list con gli amici.

Bar Manager del CO.MO Bar & Bistrot, Gabriele Contatore, vi farà viaggiare con cocktail dedicati alle regioni italiane, con gusti curiosi e appassionanti abbinamenti.

Il nuovo Menu illustrato è un piccolo gioiello ispirato a George Bradshaw, cartografo inglese autore della primitiva Lonely Planet dell’800, itinerari da raggiungere su rotaie. Voi potrete viaggiare invece comodamente seduti sui divanetti fronte lago e deliziarvi con un “Piemonte”, signature cocktail omaggio alla terra, dai sapori di cioccolato e funghi. Il Bulleit Rye (whiskey di segale) viene infuso con un olio di sesamo dalla nota speziata e miscelato con distillato di funghi e cacao, cordiale di acqua di cocco e maracuja, finito con due gocce di bitter al coriandolo.

“Non perderti, viaggia con spirito, bevi con testa e ridi di cuore”.


Così vi accoglie la mappa disegnata della nostra bella Italia, con tutte le tappe che il menu tocca, regione per regione. E allora come un Jacques-Yves Cousteau avrete voglia di esplorare ancora e ancora, andrete in “Campania”, con un twist sul Daiquiri servito in coppetta, Veritas Rum e rosolio di bergamotto Italicus, fiori di osmanto infusi con un cordiale alle albicocche. Un distillato speciale di porro e menta finisce il sorso con note verdi e balsamiche. E non ancora stanchi partirete per la “Lombardia”, per un aperitivo milanese incravattato. Base alcolica Roku Gin, estratto di rabarbaro fresco, limone del Garda salato, qualche goccia di Brancamenta, sorso balsamico e fresco.


Artista delle 10 illustrazioni dedicate, Valeria Romeo, con le sue donne in abito grande soirée davanti ad un tramonto italiano, o in costume e cappello di paglia come le ospiti asiatiche del Mandarin Oriental nella piscina a sfioro dell’hotel.

Sono poche le strutture dove tante eccellenze si fondono, servizio, vista, location, food & beverage, e qui al Mandarin, a partire dalla calorosa accoglienza firmata made in Italy, l’eccezione si colora di rosa Tiepolo e blu come le acque del lago, che resta placido e superbo, nonostante i continui viaggi alcolici!


Mandarin Oriental Lago di Como si trova in Via Caronti, 69 Blevio (CO)

Waby Restaurant e la tradizione dei Donburi con anguilla laccata

Il perfetto business lunch da Waby Restaurant, ai piedi dei grattacieli di Gae Aulenti, un ristorante che riporta a tavola la tradizione dell’anguilla laccata

Immaginate un teatro giapponese dove la geometria e il minimalismo degli interni fanno da cornice ad uno spettacolo seguito in rigoroso silenzio. Gli spettatori ora hanno appetito e, come sempre nella tradizione giapponese, il cibo diventa protagonista di ogni momento della giornata, è un elemento di condivisione, di scambio, di seduzione, di magnetismo e anche “mezzo d’affari”. Per discrezione e facilità, viene servito un “donburi“, un piatto a base di riso e anguilla, un piatto tradizionale giapponese che ha però origini antichissime, quando tra il 1330 e il 1570 sotto il periodo Muromachi, veniva condito con 5 particolari verdure di colori diversi, bianco, giallo, rosso, verde e nero, seguendo il principio energetico e armonico dello Yin e dello Yang. Allora il suo nome era houhan.

Oggi sono molte le varianti del donburi, dove l’anguilla viene sostituita con ingredienti freschi e di stagione, e il ristorante Waby ne propone 10.

In Corso Como, zona dedita alla movida delle notti milanesi e centro nevralgico delle sedi d’affari, Waby è il ristorante giapponese di Matteo Zhu, elegante e con elementi di design, dai toni caldi della terra alle pareti, agli ocra dei tendaggi, a quelli rasserenanti del blu per sedute e tavoli. Il cerchio, figura che rappresenta la perfezione ed il divino, torna nei riquadri alle pareti, negli specchi a soffitto che catturano la luce, nelle appliques e lampadari.

Waby è ił luogo perfetto per un business lunch, un pranzo con le amiche dopo lo shopping in C.so Como, o dopo la visita ad una mostra in Galleria (oggi è ancora aperta quella su Yamamoto, con allestimenti degli abiti più significativi), o una cena di coppia.
Ma per un pranzo speciale Waby ha pensato a 10 tipi diversi di Donburi, serviti su un vassoio di legno e accompagnati da una miso soup, un benvenuto dalla cucina e combinazioni succulente a base di carne o pesce.
La mia preferita è senza dubbio la Lobster Moriawase, un sashimi d’astice, gambero rosso di Mazara del Vallo, capasanta, ikura e scampi serviti su riso, wasabie salsa di soia, un piatto pregiato di di freschezza e sapore.

Per gli amanti della carne invece la proposta verte su Wagyu Don, una carne pregiata scottata su carbonella e accompagnata da verdura di stagione, riso bianco, kizami wasabi e salsa di soia, oppure stufato con tofu, cavolo cinese e uovo poché (Sukiyaki) o ancora nella versione Wagyu Steak cotto a bassa temperatura.

Raffinati l’Hoseiki Don, un classico che comprende 15 tesori freschi del mare, ogni giorno diversi secondo mercato, del quale esistono versioni più semplici come lo Zenbu Don (tonno e ventresca di tonno con kizami wasabi serviti su letto di riso, zenzero e salsa di soia) e l’Akami Sake Tartare (tartare di tonno e salmone); Miso Cod con carbonaro d’Alaska marinato nel miso e avvolto nella pasta kataifi, astice, ikura,

Se invece volete sentirvi come a teatro, e le vetrate sul via vai sotto i grattacieli di Gae Aulenti in qualche modo lo permettono, siate tradizionalisti e puri ed ordinate la Una-Ji: l’anguilla laccata cotta su carbonella, finita al vapore, con guarnizione di tsukemono (cetrioli in salamoia) e riso bianco.

WABY Restaurant si trova in Via Carlo de Cristoforis 2 a Milano, ed è aperto dalle ore 12:30 alle 14:30 e dalle 19:00 a mezzanotte.

Grand Hotel Bristol, la Dolce Vita in Riviera

Grand Hotel Bristol, la Dolce Vita in Riviera

Se i più grandi scrittori di tutti i tempi usavano ritirarsi di fronte al mare per trovare ispirazione, forse dovremmo anche credere nella verità assoluta di Irène Némirovsky, grande autrice francese, che diceva:

Non si può essere infelici quando si ha questo: l’odore del mare, la sabbia sotto le dita, l’aria, il vento.

E questi preziosi tesori della natura, il Grand Hotel Bristol di Rapallo li ha tutti.
Membro di Small Luxury Hotels of the World, il lifestyle hotel a cinque stelle situato nella esclusiva Portofino Coast, si apre ad un pubblico dallo spirito romantico, capace di cogliere i veri lussi della vita, regalando un’accoglienza ricca di comfort, valorizzando i plus della struttura in quanto a posizione, offerta dei servizi, scelta delle experience da vivere.

Perchè Grand Hotel Bristol non è solo una struttura stellata, ma quel luogo habituel dove ci si sente “a casa”.

Guardando la facciata vi verrà subito alla mente la locandina di Grand Budapest Hotel, il film Gran Premio della Giuria al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, premio ai Nastri d’Argento e al David di Donatello, diretto da quel genio di Wes Anderson. Le vicissitudini all’interno sono assai diverse per fortuna, anche se i “personaggi” dei grandi alberghi sono tutti delle caricature dannatamente reali, affascinanti per mistero, quasi protagonisti di un mondo racchiuso sotto una campana di vetro, o come quei villaggi innevati delle boule de neige. Perchè la vita dei 5 stelle sono un mondo a sé, una coccola continua; qui ad esempio il fiore all’occhiello è la grande Erre Spa, la più grande della Liguria con 2000 metri quadrati e premiata nel 2023 come Best Luxury Spa in Italia e Best Luxury Destination Spa – Global Winner dai World Luxury Awards.

Un’area relax composta da sauna, bagno mediterraneo, percorso kneipp, aree multisensoriali e spazi relax a tema con sapori e aromi, una piscina coperta e cabine massaggio private. Le zone umide si alternano con i benefici passaggi alla fontana di ghiaccio, che riattiva la circolazione, donando alla pelle luminosità e un effetto rigenerante; e per chi desidera una maggiore privacy, la Private Spa Suite è su prenotazione ed è dotata di sauna, bagno turco, doccia emozionale, per coppie o eventi privati.

Sono quasi sempre i profumi ed i sapori a legarci ad un territorio, e qui, nell’elegante architettura a cupola da cui prende il nome il ristorante, per l’appunto Le Cupole, con una impareggiabile vista mare e quella luce calda che le acque riflettono, lo chef Andrea Cannalire vi farà viaggiare su e giù per l’Italia con piatti contaminati dai sapori internazionali. Gamberi rossi, cioccolato bianco e albicocca, lime e geranio al limone; risotto all’arancia, prescinseua e carpaccio di ricciola al peperoncino e salicornia; Sogliola cime di rapa, croccante di spirulina, limone, Umibudo; cucina creativa e prodotti freschi del territorio il cui comune denominatore è freschezza e contemporaneità.

Eccellenti le scelte della Pastry Chef Ilaria Castellaneta, che propone a Le Cupole tartelletta di mais con caramello al frutto della passione e namelaka al cioccolato bianco, croccante al latte di cocco, crumble all’olio evo e sorbetto al mango.

Le Cupole è il ristorante fine dining del Grand Hotel Bristol premiato nel 2023 come Best Panoramic Views in Europa e Best Luxury Hotel Restaurant in Italia dai World Luxury Awards.

Per vivere a pie’ polmoni la Dolce Vita, il Bar Manager del Grand Hotel Bristol, Erwan Garofalo, vi stupirà con cocktail d’autore, nella sala bianca e rossa arredata con elementi di design, quadri dallo stile contemporaneo, eleganti lampadari, classici divani capitonnè ed un terrazzo che affaccia sulla piscina esterna panoramica con area idromassaggio. The Silk Lounge Bar prende il suo nome dalla via in cui è situato che porta alle storiche seterie di Zoagli, tutt’oggi sede di produzione di sete e velluti.

Grand Hotel Bristol ha da poco inaugurato una galleria d’arte al suo interno, un luogo multifunzionale dove esporre opere d’arte acquistabili dal cliente stesso, mostre itineranti, collettivi o personali, uno spazio con attività di live painting e scambi culturali.

Per tutta la stagione primavera-estate inoltre, è la musica che accompagnerà ogni esperienza vissuta al Grand Hotel Bristol, un programma ricco di eventi e serate a tema dedicate alla musica, saranno la colonna sonora del viaggio nella Portofino Coast. Accompagneranno aperitivi in piscina, con Dj set internazionali, artisti da ogni parte del mondo grazie alla partnership con il festival Sibelius, un brindisi al tramonto, una cena a lume di candela sul mare che culla.

Il segreto custodito nella ricetta perfetta del pesto ligure, vi sarà svelata dallo chef Andrea Cannalire, che nella Masterclass dedicata al food, preparerà con voi il gioiello a base basilico; e ancora degustazioni di vini pregiati e olio extra vergine d’oliva, con l’esperta guida del sommelier Andrea Levaggi


Ludovica Rocchi, Brand Director sottolinea: “Il nostro obiettivo è garantire un modello di ospitalità esperienziale all’ospite in sintonia con l’anima, la storia, i profumi e i sapori del territorio con proposte esclusive che possano sorprenderlo. La centralità dell’ospite è il tratto distintivo della nostra ospitalità. La nostra accoglienza è italiana e su misura. Vogliamo trasmettere lo stile di R Collection Hotels, il “True Italian Heritage”. 

Ma la grande novità del 2024 è Marina di Bardi Beach Club, la spiaggia privata del Grand Hotel Bristol che rappresenta uno degli angoli più esclusivi della costa di Portofino.

A soli 3 minuti d’auto dall’hotel e con servizio navetta gratuito, è l’unico angolo intimo e riservato della costa di Portofino, una vera chicca, un’area totalmente esclusiva dove godere di mare, spiaggia, lettino e ombrellone con servizio attento, una piscina idromassaggio, una vista del golfo unica.

Questo è quel che si chiama Dolce Vita, ma in Riviera, sembrava fosse utopico rivivere un’epoca passata, ma da Marina di Bardi Beach Club, senza eccessiva nostalgia, si gioisce delle bellezze naturali. Qui in questa insenatura, regna solo il suono delle onde, potreste vedere qualche pescatore rientrare a riva e le casette arroccate in cima alla collina, dei colori della primavera.

Sunset Bar per un cocktail Martini ghiacciato o un calice di Champagne perfetto a tutte le ore, Dolce Vita in Riviera è il Beach Club dotato di tutti i lussi, per regalare agli ospiti momenti di grande comfort ed un soggiorno indimenticabile.

La spiaggia è pet-friendly, per cui possiamo portare con noi i nostri amici a quattro zampe, e rilassarci nella piscina vista mare prima di un’aperitivo in dolce compagnia.

Il ristorante “pieds dans l’eau” è il cuore gastronomico della Marina di Bardi, un tributo alla ricchezza e alla freschezza dei frutti del mare, con i plateau Royal di crudi con gamberi rossi di Mazara del Vallo, canocchie, tartare di salmone, branzino, selezioni di tonno e assortimenti di ostriche. Una gioia per il palato e per gli amanti del crudo che vivono a pieno l’esperienza del mare, dalla spiaggia alla tavola.

Qui l’atmosfera è veramente estranea al caos delle strutture in città, raffinata negli arredi dove il legno è protagonista, con sedute in velluto verde e dettagli oro, elementi marini alle pareti, e una cucina a vista.
Non resta che tornare a godersi la pace, dei momenti per sé, un regalo al partner, una vacanza con gli amici che amano il buon cibo, il buon vino, il mare e un’ottima compagnia!

Conclude Riccardo Bortolotti, General Manager Grand Hotel Bristol “Al Grand Hotel Bristol ‘La Dolce Vita’ è un mood of life – senza tempo, che abbraccia generazioni, che racchiude il meglio dell’espressione italiana per la ‘bella vita‘. Vivere ‘La Dolce Vita‘ significa svegliarsi con il suono delle onde rilassanti e lo stridio dei Gabbiani e delle cicale, salpare dalla marina e navigare lungo la costa del Mar Ligure e lasciare che lo sguardo vada sull’incredibile vegetazione mediterranea, con i suoi profumi, di pino e oliva. Godere il tramonto del sole a picco sul mare. Perdersi nella piazzetta di Portofino tra le sue boutique glamour e ristoranti alla moda o nella ricca storia e cultura della regione”.


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Cavallino Classic Modena 2024, ecco la Ferrari più bella del mondo

Cavallino Classic Modena 2024


L’eleganza è una stella sita in quelle persone definibili “eccezionali”, ha a che fare con la grazia, l’educazione, un certo savoir-faire, una noncuranza dell’essere eccezione, si sposa assai spesso all’etichetta, al bon ton, a quel che Giovanni Della Casa scrisse nel 1558 nel primo Galateo.
Ma si rifà ad altre opere “eccezionali”, come alcune statue di Canova, che nella loro nudità conservano tutto il fascino del pudore e della riservatezza; lo sono, alcuni esemplari di auto classiche, vissute in epoche passate, intrise di storia e tradizione, di quelle nostalgiche atmosfere riportate in vita una volta messo il piede sull’acceleratore.

Ed è per questo che nasce Cavallino Classic Modena, il Concorso Internazionale d’Eleganza, che ogni anno premia il culto dell’auto storica, il modello più bello nella sua originalità, un evento straordinario che raccoglie collezionisti di tutto il mondo, e che si svolge dal 2021 presso la prestigiosa dimora Casa Maria Luigia di Massimo Bottura, chef nel gotha dei 50 Best Restaurants, dopo aver guadagnato il primo posto per ben 2 volte.

Il parco di Casa Maria Luigia diventa così per 3 giorni, dal 17 al 19 maggio, un bellissimo salotto espositivo per le auto più iconiche del marchio Cavallino, dalla 275 GTS, versione spider con cerchi in lega, ruote a raggiera, oggi restaurata dopo un lavoro certosino di circa 6 anni, e un tempo appartenuta al calciatore e dirigente sportivo italiano, Gigi Riva. O alla Ferrari Testarossa del 1989 che ha segnato l’era del design automobilistico sposato all’esperienza di guida. Un motore da 390 CV totalmente esibizionista, che definisce per sempre il ruolo da protagonista della Ferrari, che negli ’80 presenzia nelle più importanti produzioni cinematografiche e televisive. Oggi il contachilometri segna solo 32.000 km.
Ma fu Ralph Lauren ad accaparrarsi per primo la mitica 288 GTO, leggendario stile Pininfarina, una potenza inesauribile, presentata da Enzo Ferrari nel lontano ’84 al Salone di Ginevra.

Un evento davvero raro Cavallino Classic Modena, esclusivo e riservato solo su invito, dove giudici provenienti da ogni parte del mondo, si sono scrupolosamente riuniti per eleggere la Ferrari classica più bella in assoluto.
Se li trovate in silenzio con l’orecchio poggiato accanto al finestrino, stanno religiosamente ascoltando il suono del tergicristallo, o quella che loro chiamano “melodia” del clacson, perchè per dei devoti come loro, è timbrica se firmata dal marchio di fabbrica. Una fotografia biblica per il brand che, dopo l’acquisizione del 2020 della Holding Canossa di Luigi Orlandini, oggi Chairman e CEO Cavallino, ha aizzato un’altra bandiera d’eccellenza, quella degli eventi luxury.

Un passato nel mondo dei software e una passione innata per quello dell’automobile, Luigi Orlandini oggi conta un team di 60 dipendenti, oltre 300 collaboratori continuativi, un team positivo ed esplosivo che fa di Cavallino Classic Modena un evento boutique.

Ho acquisito Cavallino durante il Covid, da una società americana che dal ’78 pubblica la rivista omonima, prettamente specializzata ma che oggi possiamo dire è diventata anche una rivista lifestyle. Portiamo il brand in giro per il mondo, pur non avendo bisogno di presentazioni, per il nome che porta e il prestigio che si trascina con sé, abbiamo aggiunto quell’ingrediente che fa un piatto eccezionale, quello che lo definisce per gusto, ed è il lusso dell’accoglienza e del dettaglio. Scegliamo sempre location d’eccezione, qui dallo chef Bottura nulla è lasciato al caso, e soprattutto omaggiamo il brand nella terra dove tutto è nato.

Una sorta di “spada nella roccia”, l’evento rispetta le rigide procedure di restauro delle Ferrari, raccolte da una specie di disciplinare che Enzo Ferrari ha sviluppato, un patrimonio unico di educazione e cultura della grande bellezza italiana del marchio, eredità che ha portato il nostro bel paese in tutto il mondo.

  • 365-GTB4-1971
  • F50-1997
  • 250-Monza-1954
  • 1512-F1
  • 288-GTO
  • Testarossa
  • 275-GTS
  • 288-GTO

Durante un défilé presso lo storico MEF – Museo Casa Natale di Enzo Ferrari, le premiazioni alle auto.
Il Best of Show Competizione va alla Ferrari 250 Monza del 1954, con telaio #0466, mentre la Best of Show Ferrari Classiche Certified, è stato assegnato alla Ferrari F50 del 1997 con telaio #107125; il Best of show Gran Turismo è stato assegnato alla 365GTB4 del 1971 con telaio #14405, un’evoluzione della 275 GTB4, pietra miliare nella storia del brand. Linee eleganti e ultra moderne di Pininfarina, abbinate ad un motore V12 e un’esperienza di guida unica; molti fan la ricordano per il suo soprannome “Daytona”. Questo particolare telaio ha tutti i numeri corrispondenti e la carrozzeria non è mai stata riparata o restaurata.



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La Genisia, le esperienze enologiche nell’Oltrepò Pavese, eccellenza del Pinot Nero

APRE LA NUOVA CANTINA LA GENISIA 
DEGUSTAZIONI, ABBINAMENTI, ESPERIENZE: UN CENTRO MULTIFUNZIONALE DEDICATO ALLE ECCELLENZE DELL’OLTREPÒ PAVESE 


Lev Tolstoj scrisse che “felicità è trovarsi con la natura, vederla, parlarle“, se esiste un luogo dove questo l’ho visto succedere, anche ai malati delle comodità urbane, quel luogo è l’Oltrepo’ Pavese, terra italiana vocata anche per la produzione del divino vino.

In queste terre ha inaugurato non molto tempo fa una cantina, che chiamarla cantina è assai riduttivo, La Genisia, è piuttosto un appuntamento da darsi costantemente, per godere delle cose meravigliose che la vita ci ha donato: una natura rigogliosa, di un verde brillante che non sente il grigiore dei fumi delle auto; del cibo sano e contadino, che ci ricorda le nostre radici; la vicinanza con gli animali, perchè il linguaggio universale è quello dell’istinto e dell’amore incondizionato; e dell’ottimo vino, che questa terra fa crescere della miglior specie.

E’ qui infatti che nascono il PINOT NERO CENTODIECI NATURE D.O.C.G. METODO CLASSICO, il PINOT NERO BRUT D.O.C.G. e il PINOT NERO ROSÉ BRUT D.O.C.G., dove il Pinot Nero sta ovviamente al centro dell’attenzione, attraverso un prezioso percorso di riscoperta di uno dei vitigni nobili internazionali; vitigno che in Oltrepò Pavese ha trovato terreno fertile per esprimere al meglio le sue potenzialità attraverso un terroir ricco di peculiarità, versatile e lavorato sia in bianco che in rosso, da cui si possono ottenere importanti vini fermi e strutturati e bollicine altrettanto prestigiose. 

La Genisia inaugura quindi un punto di riferimento per amanti del vino e nuovi appassionati, dove poter fare degustazioni guidate, scoprire l’approccio enologico della cantina guidata dall’enologo Simone Fiori, fare attività dedicate alla scoperta del territorio, una passeggiata a cavallo tra le vigne, arrivare al punto più alto di Codevilla, città in cui è ubicata, e assaporare i prodotti tipici del territorio godendo di un panorama mozzafiato.

Le vigne La Genisia sono situate nelle zone di Codevilla, Torrazza Coste e dintorni. 
Attraverso i nostri vini lasciamo parlare il terroir ed il vitigno – spiega l’enologo Simone Fiori il Pinot Nero vitigno unico e prezioso, viene qui esaltato al massimo, cercando di addolcirne le spigolosità. L’obiettivo è sempre quello di raggiungere la massima espressione e qualità del terroir. Per farlo, è necessario innovare, per questo abbiamo acquistato una pressa di ultima generazione, altamente sofisticata e finalizzata alla miglior lavorazione possibile per l’estrazione delicata del mosto per il Metodo Classico.
Oltre a questo la ricerca è continua, ed il nuovo progetto di zonazione ci ha permesso di individuare i terroir di provenienza delle etichette La Genisia, territori che differiscono tra loro per altitudine, esposizione e densità, caratteristiche che possono essere ritrovate all’interno dei vini, proprio grazie alla ricerca messa in atto in cantina percepibile ad ogni sorso.


Da La Genisia le esperienze non si leggono su carta, ma si vivono personalmente, intensamente, e questa apertura è solo l’inizio di un lungo percorso, dove il turista può godere appieno dell’ospitalità del nostro paese; wine experience per singoli, gruppi e famiglie, visite in cantina, esperienze incredibili (che troppo spesso dimentichiamo) nella natura. Qui si organizzano eventi, percorsi e-bike con guida turistica, e si finirà sempre (per fortuna), con un calice La Genisia a cui brindare, davanti ai tramonti oltrepadani, sulle colline rigogliose di vigneti e dove il Monte Rosa di colora del suo cognome.

Il whisky in edizione limitata, nel ristorante cinese di Milano, Bon Wei

Zhang Le, proprietario di Bon Wei, presenta la sua speciale selezione di 5 Whisky Single Cask in edizione limitata

Oggi più che mai il cliente è sempre più esigente e pretenzioso, tanto da scegliere non solo un ristorante dove sia ineccepibile il servizio e coerente il rapporto qualità-prezzo, ma anche dove vivere un’esperienza che altrove non troverebbe. L’effetto sorpresa e l’unicità di un luogo, sono gli ingredienti che oggi fanno la differenza.
E’ il caso di Bon Wei, ristorante di alta cucina regionale cinese che ha come specialità l’anatra laccata alla pechinese, e una carta di 24 ricette regionali selezionate all’interno degli 8 territori che compongono la “badacaixi”.

Fondato da Yike Weng e Chiara Wang Pei con lo chef Zhang Guoqing nel 2010, oggi è proprietà dello chef insieme al figlio Zhang Le che lo dirige, un locale che mescola una modernità elegante e confortevole, all’estetica tradizionale della Cina, un progettato dall’architetto Carlo Samarati.

Ma il vero plus qui arriva a fine pasto, perchè Zhang Le, appassionato conoscitore del distillato più amato dagli uomini ed oggi sempre più richiesto dalle donne, propone una selezione preziosissima di 5 Whisky Single Cask, (presentati in location da Dario Crisci, whisky selector di Cuzziol Beverage, importatore di prodotti Uk).

La “Zhang Le Selection“, un servizio eccellente e riservato a chi ama il whisky quanto Zhang Le che già nel 2016 selezionava nello Yorkshire la sua prima botte del pregiato distillato che avrebbe aperto, una volta imbottigliato come Filey Bay – Yorkshire Single Malt Whisky – Single cask “Bon Wei Selection”, in occasione del 12° compleanno del suo locale. Una botte di Sherry Pedro Ximénez (cask #294), da cui dopo 5 anni di invecchiamento sono state ricavate 305 bottiglie.

Filey Bay, la distilleria scelta da Zhang Le, si trova nello Yorkshire nel nord dell’Inghilterra, ed è la prima distilleria della regione dedicata ai single malt whisky: la sua filosofia è quella del field-to-bottle, secondo tradizione.
Orzo ed acqua della famiglia Mellor, sono gli ingredienti principali per ogni bottiglia di Filey Bay Single Malt Whisky, nessun processo di filtratura a freddo, mantenendo così il colore naturale ed il profumo inebriante di frutta matura, appassita e cioccolato fondente.

A questa botte ne sono seguite altre tre, di cui una scelta in Scozia nella distilleria Caol Ila, una botte di Bourbon che ha regalato 361 bottiglie. Dallo stretto tratto di mare dove si affaccia la distilleria, i whisky si arricchiscono di preziose e fini note affumicate; al naso sprigionano aromi di zucchero di canna che poi danno spazio alla torba; in bocca sono ricchi e affumicati, con note di erbe officinali, goudron e camino spento.

Lungimirante collezionista, sommelier Fisar (presente in carta una selezione di vini italiani e stranieri, da Chateau Pétrus al Domaine de la Romanée-Conti, dal Masseto al Grange Penfolds), ma soprattutto imprenditore capace di leggere le esigenze dei clienti, Zhang Le ha scelto di portare a Bon Wei la buona usanza (oggi costante anche in Asia) di chiudere i pasti con un rito, come il tè inglese delle cinque, qui si sceglie un whisky speciale, edizioni limitate, bottiglie numerate, disponibili alla vendita o da condividere con gli amici. E se la Cina si distingue per la ricercatezza ed il buon gusto del servizio, e dell’estetica (pensate all’arte dell’ikebana, o all’estrema cura che le geishe ponevano nel versare una tazza di tè, ruotando il polso con dolcezza per accompagnare il suono del liquido nella tazza), da Bon Wei il whisky viene servito su di un piccolo vassoio di legno, in un tumbler dedicato, accompagnato da acqua, ghiaccio e un cioccolatino fondente.

BON WEI si trova a Milan in Via Lodovico Castelvetro, 16/18