Oggi ha 85 anni, un caschetto rosso fiamma con una frangia liscia, gli occhi vispi e curiosi di una brillantezza adamantina, tendenti verso il basso, come nascondessero un velo lucido di tristezza. Letizia Battaglia è la fotoreporter italiana che ha raccontato meglio di chiunque altro la mafia palermitana attraverso le immagini. Immagini che non ti lasciano scampo, ti buttano al muro con violenza e ti attaccano quello stordimento che precede la luce; guardi le foto di Letizia Battaglia e piangendo capisci “questa è mafia”.
Nasce il 5 marzo del ’35 ed è, come tante, destinata ad essere donna, donna palermitana, tutta pentoloni e bimbi e pannolini, padri ossessivi e morbosi che vedono nell’altro uomo lo spodestamento del potere di padre di famiglia, destinata ad un marito geloso che minaccia violenza se abbandona il tetto coniugale. La Battaglia, come chi porta in sé dei semi molto grandi, è destinata alla pazzia, che la costringe un anno in istituto psichiatrico, una reclusione che invece sarà la sua salvezza, la placenta di una forza creatrice che la porterà ad essere chi è ora, quella donna con in grembo la macchina fotografica a raccontare la verità.
Nel documentario “Shooting the mafia” del 2019 diretto da Kim Longinotto, la grande fotografa si racconta con onestà intellettuale, con una dolcezza emotiva di chi ha imparato a conoscersi e accettarsi, di chi ha fatto quello che la sua natura le imponeva di fare; una donna che, una volta ottenuta la libertà, ha preso il volo. Via dalle costrizioni ignoranti, via dalle limitazioni aspre, via dalle forzature, ha trovato la strada, quel grande seme che implorava di germogliare dentro di sé è fiorito, e noi ringraziamo per averci regalato pagine di storia, fonti memorabili e indelebili che raccontano le gesta e la lotta di grandi eroi: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Letizia Battaglia inizia la sua carriera per “L’Ora” di Palermo, quotidiano in cui il suo sesso è ancora il sesso debole. A forza troverà lo spazio dignitoso e meritato, quando sui luoghi del delitto, quelli che percorreva non senza paura per fotografare i fatti, urlerà contro poliziotti, carabinieri e colleghi che la spintonano e l’allontanano umiliandola, che anche lei è lì per una causa nobile e giusta, anche se è nata donna.
Sarà spettatrice dei fatti più truci della storia, di una Italia corrotta e mangiata dallo schifo della mafia, soffrirà le ingiustizie che si trova costretta a fotografare, innocenti morti perchè testimoni di assassinii, presenti quando non avrebbero dovuto esserci, messi lì per sfortuna di vita; ragazzi sterminati con un colpo alla testa; madri disperate e senza forza che piangono la morte dei figli, portati via da un cancro che lo stato non riesce a debellare. Sono immagini che Letizia Battaglia ha scattato ma che sente con più struggimento e tristezza dentro i suoi ricordi, sono le foto che hanno fatto il giro del mondo sui giornali, ma che lei spesso non avrebbe voluto scattare, come segno di rispetto verso le famiglie dei defunti, come successe alla morte di Falcone e Borsellino:
“Ero sul luogo dove esplose la bomba, vedevo un’auto che era volata sopra un albero e i pezzi del corpo di Borsellino sparsi sulla strada. C’era la pancia lì di fronte a me e non ho fotografato, non ho potuto. Oggi mi pento e non voglio pensarci. Mi pento delle fotografie che non ho fatto. La gente non capiva che noi eravamo lì per amore, a immortalare il dolore ma per amore del nostro paese.”
“Ed è per amore del mio paese che decisi di entrare in politica. Ma una deputata guadagna molti soldi per accettare di avere le mani legate. Non potevo fare niente, avevo assistito a tutte quelle morti e non potevo fare niente.”
Letizia Battaglia è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985 il Premio Eugene Smith, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il fotografo di Life. Nel 1999 riceve il Mother Johnson Achievement for Life. Ha esposto in Italia, Francia, Gran Bretagna, Brasile, America, Canada, Svizzera; la sua ultima mostra risale al 2019 ed è una monografica di tutta la sua carriera, esposta alla Casa dei Tre Oci di Venezia.
“Shooting the mafia” è il documentario di Kim Longinotto (2019) che ripercorre la sua vita di fotoreporter e gli amori che l’hanno accompagnata in questo doloroso/amorevole compito.
2013, una foto come tante dove una ragazzetta fa finta di leccare un simil pugnale di Final Fantasy, la lingua di fuori che mostra il piercing, un tatuaggio sulla faccia, insomma una bulla che vuol provocare. Lei è Joanna Dennehy, un’infanzia tranquilla, un padre guardia giurata, madre commessa, una piccola città nell’Hertfordshire.
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A 13 anni gli ormoni fanno il loro corso e avviene la trasformazione: Joanna scappa con un ragazzo di 19, partorisce due figli ma inizia a bere e picchiare Treanor, il compagno, dentro e fuori dal letto. Più tardi un amante svelerà del suo desiderio di travestirsi ed essere stuprata.
Dopo esser stato minacciato con un coltello, Treanor la lascia e porta i figli con sé; durante una condanna per aggressione Joanna viene visitata da uno specialista che le diagnostica un disturbo antisociale di personalità.
Il primo omicidio avviene il 19 marzo del 2013, un magazziniere polacco, lo pugnala al cuore con un coltellino; il suo cadavere, posto in un cassonetto dell’immondizia, verrà mostrato come trofeo ad un’amica. Dieci giorno il secondo omicidio verso il padrone di casa, che aveva iniziato a frequentare e non contenta, lo stesso giorno, decide di reiterare quell’emozione cercando una terza vittima, un ex membro della Marina militare: sei coltellate e una chiamata ad un amico in cui canticchiava la canzone di Britney Spears : “Oops, I did it again”.
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Oggi Joanna Dennehy sta scontando l’ergastolo nel Regno Unito, anche se continua a dichiararsi innocente. Chi l’ha conosciuta la descrive come un’ammaliatrice, una donna camaleontica che sapeva cambiare personalità a seconda di chi le stava di fronte; flirtava con tutti e in modo schietto e diretto.
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Secondo la psicologa clinica Elie Godsi è impossibile che una donna così violenta anche sul piano sessuale, non abbia mai subìto abusi; se non in famiglia, sarà stata vittima di qualcuno che non ricorda, ma è quasi certo che i gravi disturbi abbiano un passato collegato all’infanzia.
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“Ho ucciso per vedere cosa avrei provato, per vedere se ero davvero fredda come pensavo. Poi ci ho preso gusto.”
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Rosemary West
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Nasce il 29 novembre 1953, padre affetto da schizofrenia con tendenze paranoiche, abusa sessualmente di lei; madre vittima di un marito dispotico e violento, viene colpita da una profonda depressione patologica che la obbliga a subire trattamenti di elettroshock terapeutico durante la fase di gravidanza in cui attende Rosemary. I fratelli di Rosemary sono le vittime sacrificali della rabbia e delle punizioni del padre; la piccola della famiglia riesce invece a sfuggire con la docilità, la remissività del carattere e la componente incestuosa; talvolta si infila nel letto dei fratelli e si masturba su di loro. Più tardi la moglie lascia con coraggio il mostro e porta con sé i figli tranne la piccola Rosemary, costretta a condividere ancora il letto con il padre geloso e ossessivo che le proibisce di frequentare ragazzi della sua età, veto che le farà sviluppare interesse verso gli uomini più grandi di lei.
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L’incontro con Fred West darà le ali al diavolo che cova dentro, scappa di casa all’età di 15 anni e condivide perversioni e due figli con il giovane 28enne; figlie del precedente matrimonio di lui, di cui una, Charmaine, uccisa per mano di Rosemary. Primo omicidio che sara’ una vera dichiarazione d’amore tra i due assassini, legati l’un l’altra dalla follia sadica, dalle fantasie di stupro, violenza, prostituzione.
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I due sono soliti attirare adolescenti nella propria casa con la scusante di cercar baby sitter, che vengono drogate, fatte ubriacare, quindi stuprate, torturate e sepolte in giardino o sotto il garage di casa. Anna Marie, la piccola di 8 anni figlia del precedente matrimonio, viene usata come bambola per i loro giochi perversi, fino a quando scappa di casa; la seconda, la 16enne Heather prenderà il suo posto e sarà la gravidanza a incastrarli, quando confesserà a un suo compagno di classe di essere violentata dal padre. La ragazza verrà uccisa per metterla a tacere ma dopo sette anni d ricerche verranno rinvenuti tutti i corpi e gli scheletri sotto la casa degli orrori. Rosemary si dichiarerà sempre innocente.
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Aileen Wuornos
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Nata il 29 febbraio del 1956 a Rochester da padre schizofrenico e molestatore di bambini e una madre che abbandona i figli nelle mani di nonni aggressivi e alcolizzati. Alla morte della nonna, il nonno la sbatte fuori casa e Aileen è costretta a prostituirsi. Rapina negozi, falsifica assegni, minaccia clienti con una pistola calibro 22 e cambia nome infinite volte. Nell’86 conosce una cameriera, Tyria Moore, in un locale gay; tra le due inizia una storia d’amore e confidenze. Tyria sarà il prete confessore dell’assassina che le sciorinerà ogni vittima: clienti uccisi a colpi di pistola durante l’amplesso, derubati e lasciati in auto in qualche campo sperduto. Le pallottole ritrovate nelle vittime apparterranno ad una calibro 22, un’indagine della polizia che richiede una task force, elabora presto il profilo di una prostituta; la Wuornos viene incastrata dalle impronte che lascia su una videocamera appartenuta ad una delle sue vittime che deposita al banco pegni. Verrà arrestata per porto d’armi abusivo ma incastrata durante delle telefonate in cui rivelerà a Tyria alcuni particolari degli omicidi, consapevole di essere sotto sorveglianza e disposta poi a confessare.
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La difesa porta in tribunale il comportamento violento e ubriaco dei clienti che la costringevano a rapporti anali, mentre lei per divincolarsi e difendersi reagiva costretta con un colpo di pistola.
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Sono 7 gli uomini uccisi dalla Wuornos, che viene condannata a morire sulla sedia elettrica. Davanti alla giuriasi dichiareràinnocente e, sentita la condanna, andrà in escandescenza augurando a ciascuno di loro una vita uguale alla sua, cosparsa di abusi sessuali e violenze. Durante le numerose interviste rilasciate, tenderà a sottolineare il suo odio per la vita e il continuo desiderio di fare del male.
Qui il profilo di 3 tra i più noti serial killer della storia, un percorso di paura e infinite domande
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Quasi tutte le religioni affermano che dentro ogni essere umano alberga un lato maligno ed uno benevolo, pensiamo alla caduta degli angeli nel Cristianesimo, i buoni rimango in Cielo e gli assetati di potere cadono sulla Terra, coloro i quali avrebbero voluto usurpare il trono del Signore. La psicanalisi è d’accordo ed esplica il concetto attraverso l’esempio di un romanzo popolare che è diventato un modo di dire: “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde”; la letteratura esprime il suo parere con un romanzo piuttosto significativo: “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello, il teatro che è la vita e gli infiniti ruoli che interpretiamo. Un altro che tocca il tema dell’omosessualità prima e dopo la consapevolezza acquisita è “Confessioni di una maschera” di Yukio Mishima, lo scrittore che lotta per la scoperta della sua vera natura, tra menzogne, risvegli, torture interiori. Mishima morirà suicida.
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Il tema della maschera, della finzione, nasce con la nascita dell’uomo; quanti di noi portano dentro di sé delle ombre che nascondono socialmente, quanti vestono panni che non sono i loro per farsi accettare, quanti fingono felicità per paura della solitudine, quanti reprimo i propri impulsi? Ma l’istinto molto spesso prevale sulla ragione, perchè in fondo siamo bestie, chi più, chi meno intelligente di altri, ma guidati anche da impulsi, che gareggiano tra ragione e follia, apatia e socievolezza, violenza e gentilezza, ombra e luce. Quando la lancetta della bilancia si rompe, ecco nascere un killer, o un santo. Oggi parliamo dei killer, i santi non vogliamo disturbarli.
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TED BUNDY
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Tra i più noti ricordiamo sicuramente Ted Bundy, il serial killer statunitense dotato del fascino del playboy e di una intelligenza superiore alla media, che gli permise di rimandare per tre volte la pena capitale difendendosi da sé durante il processo, ma che gli fece sfuggire un dettaglio importante che lo avrebbe incastrato per sempre: i morsi lasciati sul corpo di una delle 30 vittime assassinate. .
Non siamo qui a stilare il profilo psicologico di Ted Bundy né di altri assassini, esperti del settore ci hanno già pensato ovviamente, ma è interessante capire cosa spinge un uomo apparentemente innocuo all’omicidio, quali sono le cause di “trasformazione” di un individuo, quali i traumi ad esempio, come poterli individuare e come concepiscono il bene ed il male.
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Ted Bundy sorride alle donne prescelte, come un gentiluomo al bancone di un bar mentre le offre da bere, recita la parte del poliziotto o dell’uomo ingessato che ha bisogno di aiuto per caricare pesi sulla sua auto; il fascino lo aiuta, è magnetico, nessuna gli resiste; una volta portate in luoghi appartati, picchia le vittime, le uccide quasi sempre strangolandole, e talvolta stupra il cadavere anche dopo diversi giorni fino alla decomposizione del corpo.
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Ma cosa spinge un uomo di bell’aspetto, diventato promessa del Partito Repubblicano e studente di psicologia e legge a pieni voti, a nascondersi nel buio della notte per uccidere delle giovani studentesse bionde? Per non dilungarci troppo nei fatti, Ted Bundy scopre tardi di essere figlio di padre anonimo e che la ragazza lui credeva fosse sua sorella, in realtà è sua madre. Questa menzogna tenutogli nascosta lo segnerà per sempre; i nonni che lo crescono come genitori sono, lui un tiranno violento razzista antisemita e anticattolico e lei una depressa sottoposta al vecchio metodo dell’elettroshock. Non un ambiente tranquillo se si aggiunge che la fidanzata di allora, nel periodo in cui Ted scopre la verità, lo abbandona. Saranno i suoi capelli scuri con la riga centrale, la corporatura esile e sottile e la sua giovane età, che Ted Bundy cercherà fino a quando potrà uccidere, una specie di “vendetta simbolica”. Non una giustificazione alla crudeltà la situazione familiare, ma quasi certamente se quel nonno fosse stato amorevole, se entrambi i nonni avessero parlato con maturità e intelligenza a quel bambino così sensibile, forse, e diciamo forse, tutta quella rabbia repressa non si sarebbe trasformata in violenza priva di scrupoli ed empatia. Ma queste sono solo ipotesi, la mente umana è un universo ancora inesplorato.
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Su Youtube esistono numerosi filmati che documentano le mirabolanti arrampicate di Bundy in nome della sua difesa durante i processi, scene in cui vittime scampate alla sua furia sono ancora prigioniere del suo sguardo come delle giovani donzelle innamorate. Teatrale com’era, Bundy chiese la mano alla sua fidanzata chiamata a testimoniare, durante un processo; dalla stessa donna ebbe un figlio, ma tutte queste messe in scena non ebbero alcun appiglio alla decisione del giudice, che lo condanno’ alla sedia elettrica, nello stato della Florida. Un passo falso fu quello di reiterare le domande che lui stesso fece ai poliziotti presenti sul luogo del delitto, in cui chiedeva dettagli espliciti sulla posizione del cadavere e sulle ferite presenti, risposte che gli prolungavano lo stato di eccitamento provato al momento dell’omicidio.
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“E’ tragico per questa corte assistere a un tale spreco, penso alla capacità che lei ha mostrato in quest’aula, lei è un giovane brillante, avrebbe potuto essere un avvocato e sarei stato felice di vederla esercitare di fronte a me, ma ha sbagliato strada amico.” – le parole del giudice al momento della sentenza.
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LEONARDA CIANCIULLI, LA SAPONIFICATRICE DI CORREGGIO
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Un metodo bizzarro di una serial killer di sesso femminile è quello di Leonarda Cianciulli, meglio nota come “saponificatrice di Correggio”. Nata da un abuso subìto dalla madre a fine ‘800, vive in condizioni di miseria e perde in tutto 13 figli, di cui 3 con aborto spontaneo e 10 appena nati, perdite che ricorderà per tutta la vita nei suoi incubi peggiori. Leonarda soffre di epilessia, tenta più volte il suicido ed è convinta che la madre le abbia cacciato una maledizione; il suo sostentamento arriva dai servizi di chiromanzia e astrologia. Se fosse vissuta ai tempi dell’Inquisizione sarebbe già stata bruciata viva come tutte le streghe, mentre allora, siamo nel 1939, la donna ha un solo desiderio: mantenere in vita il figlio maschio sopravvissuto, ad ogni costo, anche attraverso la magia, unico mezzo di una donna semianalfabeta, anche a costo del sacrificio umano.
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Alla cattura dirà “Non ho ucciso per odio o avidità, ma solo per amore di madre”. Insomma una donna totalmente segnata dalla morte dei suoi piccoli, che sceglierà tre prede facili, delle vedove solite farsi leggere i tarocchi dalla Cianciulli, le ucciderà a colpi di ascia, fatte a pezzetti e sciolte nella soda caustica. Il sangue veniva raccolto e lasciato coagulare, fatto seccare al forno e poi mischiato a farina, cioccolato, latte, uova, margarina, e impastato per fare dei biscotti che venivano offerti al figlio per salvarlo dalla maledizione. Una delle vittime, dichiarò l’assassina, aveva la carne grassa e bianca, cosicchè il liquido raccolto, aggiunto a della colonia, venne bollito per essere trasformato in saponette cremose regalate a vicine e conoscenti.
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Gli esperti hanno dimostrato dai documenti originali che la donna soffriva di “disturbo istrionico e narcisistico di personalità con tratti sadici, schizoidi e paranoidi”, malattie mai curate che hanno lasciato la follia in libertà.
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Nel Museo criminologico di Roma, sono custoditi gli strumenti usati dalla Cianciulli e le foto delle vittime.
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JOHN WAYNE GACY
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John Wayne Gacy è il prototipo del vicino di casa americano, una grassezza alla McDonald’s, una generosità da grigliatore professionista, e una socievolezza ben esibita; inoltre, per aizzare lo stendardo della generosità, John Wayne Gacy faceva il pagliaccio negli ospedali per bambini malati, spettacoli comici in nome della bontà e molti di beneficienza. Se non bastasse, era un grande lavoratore, 16 ore al giorno sempre indaffarato, un piccolo imprenditore volenteroso nel settore della ristorazione e un buon padre di famiglia. Come può destar sospetti un soggetto del genere, con tutte le carte in regola? Eppure, questo simpatico grassoccio, nascondeva un terribile segreto. Gacy uccise 33 vittime, ragazzini tra i 15 e i 17, studenti universitari, giovani che prestavano servizio presso le sue attività. Coperto da un’ottima reputazione, Gacy attirava le vittime presso la sua abitazione, le ubriacava, abusava di loro sessualmente, le seviziava, per poi ucciderle e sotterrarle nella cantina e nel giardino accanto al barbecue.
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Dal primo omicidio Gacy capì che “non esisteva emozione più forte della morte”, che gli procurò un orgasmo completo e intenso. I primi segni di omosessualità li ebbe dopo il matrimonio, quando iniziarono le avance nei confronti dei colleghi, che ritrattava se questi reagivano con sdegno, e le prime aggressioni nei confronti del figlio di un suo amico, un quindicenne che obbligo’ ad una fellatio.
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Gacy da bambino, esattamente all’età di nove anni, fu molestato sessualmente da un amico di famiglia; il padre era un alcolizzato che passava il tempo a deriderlo per la sua obesità e i suoi modi effeminati, un uomo violento che lo puniva con la cintura di cuoio. Come può sviluppare l’idea di amore un bambino che si sente dare dello stupido, che viene picchiato, che subisce un danno psicologico la cui grandezza è inspiegabile e indicibile e che lui stesso per la tenera età non può capire? E’ possibile riconoscere un potenziale serial killer? E in quel caso, a chi si può chiedere aiuto, se egli stesso non riconosce il problema? Come fermare la nascita del male? E’ utopia o aprendo gli occhi ci possiamo proteggere? Se quell’ombra compare dentro di noi, esiste una categoria di medici disposti ad aiutarci, sono gli psichiatri; perchè una specie di pensieri che si insinuano nel sottostrato della nostra coscienza, quelli che Freud chiama “voci del desiderio”, quelli che si depositano in luogo fatti di ricordi rimossi e traumi, sono solo dormienti, non morti. E sono quelli più veri ma anche più pericolosi in certi casi.
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Nel 2003 il regista Clive Saunders ha girato il film “Gacy”, basato sulla storia vera del serial killer.
Vanessa e Roland sono una coppia in crisi, lui uno scrittore fallito che cerca le parole nell’alcool, lei una ex ballerina che sente il peso del tempo. Nel tentativo di recuperare i cocci del rapporto, i due decidono di passare del tempo presso un elegante albergo nell’isola di Gozo, a Malta, un luogo dove le ore scorrono placide e lente, dove l’eleganza degli arredi e la bellezza degli ospiti dovrebbe portare la mente al riposo. Ma Roland, dall’aspetto trasandato e accompagnato sempre da un bicchiere di gin, trascorre le sue giornate nel bar dell’albergo, a scribacchiare qualcosa che dovrebbe restituirgli dignità e rispetto verso se stesso, mentre la moglie, di una bellezza e di una grazia che si distaccano da ogni altra donna che le passa accanto, nei suoi abiti casti e svolazzanti ben attenti a coprire un corpo che si è spento, lo attende chiusa nella stanza dorata, distesa su una sdraio a contemplare l’andirivieni delle onde, sempre uguali, sempre le stesse, mentre accolgono l’arrivo di un pescatore che parte al mattino e rientra al tramonto, anche lui, alla stessa ora, tutti i giorni, sempre a mani vuote.
Nella camera accanto, due sposini novelli in luna di miele; sono giovani francesi che hanno ancora accesa la fiamma del desiderio, fanno l’amore giorno e notte e questo lo scopre Vanessa, che li spia quotidianamente da un buco del muro nascosto dietro un secrétaire. Questo fatto spezza momentaneamente l’apatia di Vanessa, chiusa a riccio nel suo corpo e nella mente, un’agonia riuscitissima nella pellicola di Angelina Jolie, scritta, diretta e da lei interpretata, lo strazio e il senso di impotenza di chi teme non riuscire a cambiare nulla, l’abbandono di chi si arrende alla propria tristezza e la rabbia repressa di chi sa di non poter essere compreso.
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Presto anche Roland scoprirà quella piccola finestrella sul mondo felice di un’altra coppia, e i due si ritroveranno spettatori di una felicità che a loro non appartiene più, di una gioia fisica di tempi che sembrano lontanissimi e ormai riposti nell’angolo dei ricordi; perchè Vanessa è una donna frigida, dopo “quel fatto”, l’episodio che il marito promette di non raccontare sul suo libro.
Accecata dalla gelosia, Vanessa accusa il marito di desiderare quella giovane sposa francese, da cui accetteranno inviti a cene e gite in barca a quattro, come se la vicinanza di un’altra donna potesse dimostrare a se stessa le sue fragili paure, come se il suo desiderio fosse quello di portare un corpo vivo e pulsante di vita in dono a Roland, per poi soccombere alla tentazione del suicidio e mettere fine a tanta sofferenza.
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Ma la mente di una donna è così complessa che pensare al banale tradimento sarebbe poca cosa: Vanessa infatti, interpretata da una Jolie dall’emotività instabile che si rivela con coraggio (perchè tutto fa credere che il racconto sia autobiografico), sapendo che il marito dall’altra parte della parete avrebbe spiato i fatti, orchestra una sonora vendetta, flirtando con il giovane sposo che le slaccia la camicetta rivelando l’intimo rosso, simbolo del fuoco che dentro non si è mai spento, prima che il marito la soccorra sferzando un carico di pugni al rivale per poi ricreare il frastuono, che lei da tempo attendeva, il rumore che avrebbe sputato fuori la verità, gli strattoni che avrebbero fatto uscire l’invidia che lei covava nei confronti di una coppia felice in attesa di un bambino, mentre lei, sterile, era costretta a guardare.
L’attenzione nella scelta dei costumi, sempre impeccabili per la Jolie, raccontano una perfezione apparente; la fotografia, calda e minimale, rappresenta una calma fittizia; tutto fa pensare di questa sceneggiatura che sia come una lettera di sfogo della misteriosa attrice le cui fragilità vengono spiattellate da tutti i giornali di gossip, un coraggioso atto di analisi e forse un’ultima e disperata richiesta di aiuto nei confronti del marito, un Pitt che di alcolismo ne sa qualcosa.
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La stessa Jolie, in passate interviste, aveva dichiarato che “dovevano dirsi delle cose”, che quel senso di pesantezza voluto nel film si sentiva sul set anche tra di loro.
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Quello che noi vediamo dei personaggi che il cinema ci propina, sono solo fantasmi immaginari, né la Lara Croft di Tomb Raider, né la strega di Maleficent, Angelina Jolie sembra dirci piuttosto d’essere la Lisa di Ragazze interrotte, una donna sola che ha solo bisogno di aiuto.
Gli amori platonici non sono nuovi nell’Inghilterra primi ‘900; pensiamo al matrimonio tra Virginia Woolf, scrittrice lesbica, sposata a Leonard Woolf, editore omosessuale; nella Bloomsbury intellettuale non era così desueta la relazione tra amori impossibili, o meglio, impossibili da consumare fisicamente. Similare il caso della pittrice Dora Carrington, raccontato nel 1995 dal regista Christopher Hampton nel film “Carrington “, 2 premi al festival di Cannes tra cui “miglior attore” a J. Pryce.
Dora è un’artista vivace che dipinge per il piacere di farlo, non ha come fine ultimo la mostra o il denaro; è una ragazza dal fisico androgino e dal carattere irrequieto, e il suo motto è “libertà”. Scoprirà tardi i piaceri del sesso, rifiutando per quattro anni le avances fisiche del suo fidanzato di allora Mark Gertler, pittore inglese molto lodato dalla critica del tempo. Dora nel frattempo ha già conosciuto Lytton Strachey, scrittore, critico e saggista del gruppo di Bloomsbury, pacifista e omosessuale dichiarato. Lytton è un uomo barbuto, porta occhiali da gran pensatore, possiede la calma di un vecchio saggio, l’intelligenza del lettore e inevitabilmente Dora se ne innamorerà, lasciando Mark e iniziando, in una nuova casa, un periodo di promiscuità e triangoli amorosi.
Nonostante le prime reticenze di Lytton, che pensa alla convivenza come causa della fine di tutti gli amori, i due andranno a convivere; negli anni susseguiranno le intermissioni di altri uomini a partire da Ralph Partridge, ex ufficiale tutto d’un pezzo che Dora sposerà per tenerlo legato a Lytton, per amor suo, al loro fianco nel viaggio di nozze a Venezia.
In un percorso Ivoryano, nelle immense vallate di Brenan dove la pittrice ritrarrà i suoi uomini, irrompe una nuova figura maschile, si tratta di Gerald Brenan, romantico personaggio, amico di Ralph, che diviene presto amante di Dora. I tradimenti della pittrice sono solo accenni di una instabilità e di una fragilità che non tarderanno a presentarsi; gli uomini sono interscambiabili, le permettono di sentirsi viva e giovane, come nella relazione con Beacus Penrose, un aitante capitano che la prende con forza e con virilità, il primo a farle notare il suo lato maschiaccio, chiedendole di “indossare reggicalze e calze nere o testa di moro, per risaltare la forma delle gambe”.
Tutti si innamorano di Dora, ma il suo cuore è rapito dallo spirito di Lytton, che morirà di cancro allo stomaco, lasciando Dora in una profonda depressione. Gli uomini che l’hanno amata vorranno salvarla ma lei, dopo un primo tentativo di suicidio, riuscirà a lasciare tutti con un colpo di pistola, raggiungendo Lytton in un luogo dove forse, il loro amore, potrà essere esclusivo, lontano dalla gelosia a cui nessuno dei due ha mai creduto.
“Nelly e Monsieur Arnaud”, un film di Claude Sautet
Nelly vende baguette, è di una bellezza dolce e sensuale, di quelle bellezze che vestono chi non sa d’esserne portatrice, difatti Nelly, come molte donne inconsapevoli, ha sposato un fannullone, un uomo che passa le giornate sul divano a guardare la tv, in attesa che la mogliettina torni a casa e adempia pure ai suoi obblighi da coniugata.
Nelly presto riceve, da un conoscente di una sua cara amica, la somma di denaro che coprirà tutti i suoi debiti, come dono, come un regalo, un gesto di quelli che, anche alla più ingenua delle donzelle, lascia il punto di domanda e molti puntini di sospensione.
Il gentiluomo è un ex magistrato che ha avuto fortuna negli affari immobiliari, le proporrà di fargli da dattilografa, offrendole una fissa retribuzione, dettandole il libro che avrebbe sempre voluto scrivere e avendo così l’opportunità di starle accanto ogni giorno. Troverà il tempo di sedurla con lo sfoggio del potere, con le parole, con cene sontuose, con l’eleganza di un uomo d’altri tempi.
Alla bella Emmanuelle Béart hanno consegnato un copione bianco con moltissimi “OUI” e “NO”, detti a labbra serrate, alla francese, ma forse a lei basta presenziare in questa pellicola di Claude Sautet, che lascia alla donna il ruolo misterioso e magnetico, persuasivo e sfuggente.
Non uno dei suoi film migliori, ma di Sautet sappiamo che il silenzio è una componente onnipresente, nei suoi personaggi distaccati, introversi, guardinghi, come in Stéphane, il liutaio di “Un cuore in inverno”.
Piuttosto noioso se non fosse per il magnetismo della Béart che ci attacca allo schermo a seguire ogni suo movimento, e per una scena rivelatrice che Sautet descrive in maniera eccellente:
Una sera Nelly e Monsieur Arnaud cenano insieme in un ristorante stellato, l’età media della clientela è molto alta e la ragazza non passa certo inosservata accanto all’anziano signore, che tutti conoscono per fama. Lei indossa un tubino nero, degli orecchini di perle e un disinvolto chignon (ça va sans dire); l’alcool, uno Chateau d’Yquem del ’61, fa il suo gioco, e i due si ritrovano a flirtare scherzosamente per le insistenti occhiate dai tavoli vicini: tutti pensano che lei sia una prostituta e questo la diverte. Salutato Monsieur Arnaud, Nelly chiama in piena notte l’uomo che da tempo la corteggia, l’editore di Arnaud, a cui, fino a quella sera, non si era mai concessa, e si lascia andare ad un gioco che era già stato iniziato da un altro uomo.
Ecco, questa scena descrive perfettamente la donna dal punto di vista della donna, le bugie, le contraddizioni, i capricci, i desideri. Nelly sa che può trovare un corteggiamento antico, maturo ed elegante da Mr Arnuad e sa che può rivelare il suo lato istintivo con Vincent, l’editore, che l’accoglierà con l’ardore di un giovanotto. Nelly, dopo aver lasciato il marito, prende tutto, ma dovrà fare i conti con i sentimenti, quelli che fanno radici con lo stesso silenzio con cui lei si burla degli altri, per poi fare rumore quando sta per perderli.
In “La sirène du Mississipi” di François Truffaut, Julie ne indossa uno casto, dalle linee semplici, fattezze usate per confondere la vittima; in “Melancholia” di Lars von Trier è avvolto da veli che fluttuano nell’acqua, citazione a Ophelia di Millais; mentre “La bisbetica domata” di Zeffirelli (tratto dall’opera di Shakespeare) ne veste uno con ampiezze cinquecentesche e i colori che fanno brillare gli occhi viola di Elisazeth Taylor. Stiamo parlando dell’abito da sposa, quell’oggetto che ha il compito di rapire al primo sguardo, come una Sirena fa col suo canto.
Melania Fumiko, giovane brand della designer omonima, presenta una collezione dedicata agli abiti da cerimonia e da gran sera, e una linea Sposa “Yuki”, dallo stile elegante, sobrio, raffinato, capi sartoriali che rispondono alle esigenze e ai gusti di ciascuna futura sposa, per rendere il loro giorno indimenticabile e ricco di bellissimi ricordi.
La Collezione Yuki, che nella lingua giapponese significa “neve”, raccoglie tutti gli elementi dei numerosi viaggi della designer, e racconta la ricerca di una perfezione graziosa e rispettosa della donna, rispettosa di un’estetica femminile e raffinata. I tessuti sono i veri gioielli della linea: sete di kimono antichi, ikat turchi tinti a mano, sete vegetali marocchine, pizzi o piccole perle giapponesi; ciascuno di essi porta con sé una storia diversa.
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Melania Fumiko Benassi, la stilista italo-americana completa il lavoro di ricerca con una collezione di alta gioielleria, che risponde ai valori di riflessione e dedizione che hanno spinto la nascita del marchio nel 2015. Una bellezza armoniosa e in perfetto equilibrio che si sposa con la filosofia zen, gioielli in oro bianco, giallo e rosa 18 carati. Realizzati a mano, con pavé di pietre preziose, zaffiri gialli, smeraldi, diamanti che rappresentano la foglia di Ginkgo Biloba, simbolo della maison e sinonimo di rinascita, vitalità, immutabilità delle cose.
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L’atelier milanese di Melania Fumiko è sito nel cuore della città, in Via Chiossetto 10, a pochi passi da piazza San Babila e dal Quadrilatero della moda.
GLI INTERVENTI DI 6 INFLUENCER CON PSICOLOGI, PERSONAL COACH, SCRITTORI, IMPRENDITORI
Si dice che la disperazione crei delle occasioni, o forse è meglio dire che nella disperazione c’è chi sa utilizzare le proprie risorse per trovare soluzioni al problema. L’emergenza Coronavirus sta colpendo tutti, indistintamente, tutti i mestieri, tutte le classi sociali, tutte le razze, ed è inevitabile che in momenti come questi emergano le persone in grado di fare qualcosa di utile, mentre la massa rimane nell’ombra. Anche i social network fanno sentire la loro voce, luogo in cui le tendenze, fino a ieri, volgevano al brutto, al volgare, al superficiale. Isocial network, frittata di influencer che si pasticciano il corpo mostrando solo una reale assenza di contenuto che è diventata una moda, oggi paiono rifiorire. E siamo certi che ci sarà da domani una inversione di tendenze, una nuova primavera che guarda al bello, al contenuto di qualità, alla condivisione intelligente e matura. E allora chi ha qualcosa da dire finalmente oggi può contribuire alla causa ognuno con le proprie velleità; quindi non solo tutorial che mostrano come inserire un bottone dentro un’asola, ma interventi concreti con psicologi, sportivi, imprenditori.
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Dall’agenzia Venicemesh 6 influencer hanno cercato di dare il proprio contributo intelligente per alleggerire questi giorni di quarantena forzata. Abbiamo fatto una chiacchierata con ciascuno di loro: c’è chi ha discusso con psicoterapeuti che danno consigli alle coppie su come affrontare le distanze obbligate; chi ha registrato interventi con agricoltori che hanno mostrato le reali difficoltà del settore e le misure da adottare; ci sono studenti costretti a utilizzare nuovi metodi di studio per portare avanti tesi ed esami, e sportivi senza attrezzi che si ingegnano nella creazioni di strumenti per l’allenamento.
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6 personalità diverse, 6 mestieri diversi, 6 modi di sfruttare al meglio il nostro tempo e trasformarlo da difficoltà a risorsa.
Ambra Ronconi @ab_ambra
Ambra è una psicologa ipnoterapeuta che durante la quarantena ha avuto modo di fare una chiacchierata con una collega psicoterapeuta familiare.
Qui alcuni consigli per coppie e famiglie, a partire dal servizio gratuito che offre l’ordine degli psicologi, disponibili per video-chiamate e assistenza in un periodo di forte stress.
Per la coppia che vive nella stessa casa:
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Rispettare gli spazi: “imparare a bussare”, accettare i momenti della giornata in cui ciascuno dedica il proprio tempo in linea alle esigenze e ai gusti. Gli spazi sono intesi come “aria vitale” dell’individuo.
Ritagliare i momenti di condivisione: decidere insieme lo spazio della giornata in cui concedersi tempo, può essere una cena, il momento del pranzo, la visione di un film insieme.
Per le coppie distanti: .
Prima regola: Congelare ogni sorta di conflitto. Per le coppie separate in questo momento è opportuno non rimuginare il passato, perchè non potersi vedere e risolvere quindi la questione vis a vis, porta a rancori e accumuli di rabbia.
Non colpevolizzare l’altro: Evitiamo frasi del tipo “Tu hai detto … Tu hai fatto”, sostituendole con “Io mi sento…” Raccontiamoci imparando a cambiare la prospettiva dello stare insieme, raccontiamoci per conoscerci.
Condivisione: possiamo fare delle video-chiamate che accorciano le distanze, vedere delle serie tv nello stesso momento per poi discuterne, leggere un libro insieme e parlare dei temi, cenare insieme in video-chiamata, per rendere la vita di coppia il più normale possibile. La condivisione nella coppia è fondamentale e rinforza il rapporto. Un buon dialogo è un ottimo inizio.
Consigli su come affrontare l’epidemia: .
Seguire le informazioni da fonti attendibili, evitare le fake news, che creano ansia e smarrimento.
Strutturare la giornata in modo che la settimana sia una settimana lavorativa, quindi mettere la sveglia, lavarsi, truccarsi, vestirsi esattamente come se ci si appropinquasse al luogo di lavoro. Tenere il pigiama tutto il giorno allunga la percezione del tempo e ci si affatica più facilmente. Organizzare il tempo significa anche concedersi il riposo, per cui il fine settimana è dedicato al relax.
Gestire la fame: avere molto tempo a disposizione porta alla noia, che crea spazi vuoti spesso riempiti dalla corsa al frigorifero. Impariamo a controllare la fame e a regalarci solo piccoli sfizi all’ora dello snack, una volta al giorno.
Tenere un diario. Questo consiglio è valido soprattutto per le persone ansiose. Permette di scaricare tensione e di allenare la mente all’operazione; è inoltre un valido modo per imparare a conoscerci meglio e più profondamente.
Gloria Bombarda @gloriabombarda .
Gloria ci porta nel mondo dei libri insieme alla scrittrice Felicia Kingsley. Per Gloria i libri sono come un biglietto gratis per fare il giro del mondo. Leggere permette di viaggiare con la fantasia senza limiti di spazio. In questo periodo sta leggendo “Un albero cresce a Brooklyn”, della scrittrice statunitense Betty Smith, una New York inizi ‘900 dove i piccoli negozianti, il macellaio di fiducia, il barbiere, le bancarelle, sono i luoghi abitudinari che creano l’atmosfera del romanzo. .
E allora il consiglio è quello di essere positivi e leggere libri che aiutino a questa attitudine, un modo valido per concedersi distrazione e momenti di gioia. .
E-book o cartaceo? Qui sta a voi, c’è il classicista che ama ancora sentire il profumo della carta e tastarne la ruvidezza tra le mani; avere il piacere di sottolineare le frasi che tornerà a leggere chissà quando nella vita, scrivere degli appunti a margine, collezionare pezzi della propria crescita intellettuale/culturale. In questo caso aiutiamo le piccole librerie, che in alcuni paesi fanno anche consegne a domicilio. .
Per gli spiriti innovativi, gli e-book sono un’ottima soluzione risparmio. Costano meno, non occupano spazio, e soprattutto sono soggetti a continue promozioni. Essere una booklover, ci confida Gloria, avvicina ai follower e crea un legame di credibilità e durevolezza.Previous
Paola Bettinaglio @paola_bet .
Paola ha tenuto una diretta Instagram con Elisa Vianello, che si occupa di psicologia infantile e psicoterapia. Il tema è la filmografia, in che modo influenzano le pellicole in questo momento di difficoltà e panico e i consigli sui film da vedere.
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NO: ai film che argomentano guerra e pandemie, rischiano solo di creare ansie e preoccupazioni. Tutte le informazioni che la nostra mente raccoglie durante la visione, le portiamo a letto con il rischio di creare disturbo al sonno. SI: alle commedie, ai film leggeri e a quelli che ci riportano all’infanzia. Italia 1 a questo proposito ha inserito nel palinsesto tutta la Saga di Harry Potter. .
Consigli utili: l’App SimulWatch è la nuova applicazione che permette di trovare in modo semplice, all’interno di un sistema di ricerca avanzata, tutti i migliori film in streaming disponibili sulle principali piattaforme quali Netflix, Infinity, CHILI; Amazon Prime Video, iTunes, Rakuten, Google Movie. La cosa divertente è che gli utenti possono chattare tra di loro e commentare i film in diretta!Previous
Andrea Dal Corso @andreadalcorso
Lo ricordiamo tutti nel ruolo di corteggiatore a Uomini e Donne, ma Andrea Dal Corso è anche uno spumantista, cioè colui che si occupa della produzione di vini spumanti. E la chiusura di ristoranti, e grandi catene alberghiere ha vanificato gli sforzi di aziende i cui prodotti vanno deteriorandosi, come per alcuni vini il cui consiglio è quello di berli entro breve tempo per mantenere gli standard di qualità e gusto. Per fortuna, ci confida Andrea, gli e-commerce stanno di contro, alzandosi in richiesta, come rivela Tannico, l’enoteca online di vini italiani più grande al mondo.
E il made in Italy è l’altro tema su cui Andrea pone l’attenzione, consapevole di essere un portavoce digitale e di avere la possibilità, se non altro, di influenzare in maniere consapevole e utile le masse che lo seguono, i follower. Le aziende vinicole si stanno rendendo conto che il passaggio immediato dalla vendita usuale a quella alternativa, cade sui social network, la comunicazione diventa digitale, gli influencer diventano il mezzo per vendere, il tramite con cui comunicare un prodotto in maniera diversa e innovativa.
Consigli: prediligete vini italiani, Lugana, Chiaretto, Prosecco… Mai come ora serve aiutare il nostro paese a una rinascita più florida. Inoltre non siamo secondi a nessuno in fatto di vini!
Dove acquistare:Www.cortilia.it è il selezionatore dei migliori prodotti italiani dove poter far la spesa online, e dove trovare frutta, verdura, carni, pesce, pasta, uova, scelti da produttori amanti della natura e del nostro territorio.
Anselmo Prestini @anselmoprestini_
Come vive uno studente ai tempi del Coronavirus? Come organizza la sua giornata in assenza delle lezioni in aula? Ci risponde Anselmo, 24 anni, studente all’ultimo anno di magistrale allo IULM. .
Se pensavate di trovare un allievo allo sbaraglio che festeggia l’assenza di esami vi sbagliavate: Anselmo è lo studente modello, studia come ogni mattina, ascolta la lezione dal pc dove dall’altra parte dello schermo si collega il professore, oltre ad altri 70 ragazzi che nel frattempo mangiano, giocano col gatto, fanno una partita alla PlayStation. Perchè perdere la concentrazione è un attimo, e a questo proposito viene in soccorso Carlo Merli, psicologo e psicoterapeuta che ci porta all’attenzione della “tecnica del pomodoro“, ovvero quell’oggetto che funge da timer in cui calcolare 20 minuti di totale concentrazione, per poi concedersi 5 minuti di pausa. E’ un tecnica efficace inventata da Francesco Cirillo, sviluppatore di software e utlizzata da molti imprenditori di successo.Previous
Federico Corvi @federicocorvi
Federico è una di quelle anime avventuriere e spericolate che scelgono lo sport come stile di vita. Federico è uno sciatore professionista del mondo freeride, quei matti che piroettano sulla neve ad altezze folli e una personalità simile non poteva che farci divertire con la sua creatività: infatti, non potendosi allenare nella sua palestra ed essendo costretto alla quarantena a Cortina d’Ampezzo, tra monti e vallate, Federico si è costruito una palestra con le sue mani.
Attrezzi alla Flintstones, ciocchi di legno come pesi di un bilanciere uniti da una lunga trave, anch’essa di legno; corde fatte di spaghi con un sasso legato al centro che faccia da peso; bottiglie d’acqua per i bicipiti; allenamento su per le montagne trainando una carriola carica, Federico non si ferma e di diverte a creare con la fantasia. Federico Colli, tecnico federale di sci alpino e suo preparatore atletico, gli ricorda che alle porte lo aspettano le gare e che è importante mantenere la forza fisica.
Consigli: se non avete una palestra in casa, usate la fantasia e create pesi con i mezzi disponibili
Se avete uno spazio tipo un piazzale, fate dei segni con dello scotch a terra e allenatevi con scatti, percorsi e attività aerobica. Bastano 40 metri quadri. .
Secondo Carl Rogers, psicologo statunitense fondatore della “terapia non direttiva”, il concetto di “empatia” non sta solo alla base della tecnica terapeuta, ma è fondamentale all’ esistenza stessa.
L’empatia è quel sentimento indispensabile alla relazione umana, permette di entrare in connessione con gli altri, di capire i loro sentimenti, di identificarcisi, immedesimarsi, più specificatamente la derivazione dal termine greco significa “entrare nella sofferenza”.
Mai come in questo momento storico, molti di noi stanno entrando in “empatia” con le migliaia di famiglie che hanno perso i loro cari a causa di questa bestia di nome COVID-19, il virus che sta uccidendo senza distinzione di razza e classi sociali. E c’è un modo concreto per dimostrare il sentimento dell’empatia, ed è l’aiuto. I più validi rappresentanti sono i medici e tutto lo staff ospedaliero che ogni giorno mettono a rischio la propria vita per salvare quella degli altri; sono i volontari, le sarte che lavorano giorno e notte per cucire mascherine ormai introvabili sul mercato, sono gli autisti che non si fermano per rifornirci dei beni di prima necessità, e poi ci sono quelli che nel mondo digital ci lavorano e stanno dimostrando di saperlo utilizzare nel migliore dei modi e per cause nobili. A partire dalla raccolta fondi lanciata da Fedez e Chiara Ferragni che ha permesso l’apertura di un nuovo reparto di terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano.
Ma il web non si ferma e un’altra corsa all’empatia arriva da Perimetro, il community magazine fondato da Sebastiano Leddi che, insieme alla Onlus Liveinslums, hanno lanciato l’iniziativa “100 fotografi per Bergamo”. L’obiettivo è quello di raccogliere fondi per rinforzare la terapia intensiva dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, nella città più colpita d’Italia che si trova oggi in una situazione drammatica.
Il mondo della fotografia tende la mano e mette a disposizione 100 foto d’autore acquistabili a questo sito:https://perimetro.eu/100fotografiperbergamo/ al costo di 100 euro l’una. Tutto il ricavato sarà interamente devoluto all’ospedale per potenziare il reparto di terapia intensiva attraverso l’acquisto di attrezzatura specialistica.
Tra gli autori rappresentanti la fotografia artistica, ristrattistica, paesaggistica, di moda, ci sono Paolo Roversi, Mario Sorrenti, Maurizio Galimberti, Oliviero Toscani, Toni Thorimbert, Settimio Benedusi, Davide Monteleone, Michelangelo Di Battista, Giampaolo Sgura, Alex Majoli, Marco Onofri, Francesco Jodice, Alessandro Furchino Capria, Mario Zanaria, Paolo Zerbini, Mattia Balsamini, Fabrizio Albertini, Piero Percoco, Andy Massaccesi…
La raccolta è iniziata il 27 marzo e terminerà il 3 aprile; in 48 ore ha già raggiunto quota 200.000 euro grazie alla viralità della notizia e grazie all’unione degli amici del web che l’hanno condivisa.
In “Love is a many-splendored thing” la dottoressa Han Suyin ne indossa uno intero di un giallo canarino che ne accentua la pelle candida e sottolinea la folta chioma scura: è il costume, complice di quello che sarà il primo bacio della coppia protagonista del film.
Una bella Romy Schneider, tra le infinite effusioni con Alain Delon ne “La piscine”, luogo di baci appassionati, ne sfoggia di interi e due pezzi nelle tinte decise del bianco e del nero.
La statuaria Ursula Andress ha invece lanciato la tendenza del due pezzi a vita alta, in quella che fu l’uscita dall’acqua da venere combattiva, del famoso film “Agente 007- Licenza di uccidere”, nel primo capitolo della serie.
Il costume è quindi protagonista di film cult che hanno reso le attrici delle icone di sensualità e di stile, indossando i bikini che da quel momento in avanti avrebbero dettato tendenza.
Il brand Elisabetta Sammarco, sulle onde dell’elegante nudità da spiaggia anni ’70, ha realizzato una collezione costumi per la stagione estiva di questo 2020.
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I colori sono delicati e vanno dal cipria al rosa confetto, dal pesca al malva, per spaziare nei brillanti due pezzi multicolore a righe. Sono prodotti totalmente Made in Italy e l’effetto cangiante della lycra cattura la luce rendendoli iridati e perlati; i tessuti velvet stretch regalano a chi l’indossa un’allure sofisticata e di classe.
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I costumi Elisabetta Sammarco sono destinati a donne che amano “vestire” anche in spiaggia, che dedicano cura e stile anche al capo che per natura meno abbiglia. Le varianti dei modelli, gli interi dalle spalline sottili, gli olimpionici con scollo all’americana, i crop top, i bottom e le culotte a vita alta, permettono a ogni donna di sceglierli in base ai loro gusti e alla loro personalità, anche se, come diceva il giornalista americano Irving R. Levine : “le statistiche sono come i bikini: ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante”.
Se la cultura è un bene di tutti, ora più che mai i paesi si uniscono per dire che è anche accessibile a tutti.
Causa emergenza COVID-19, anche i Musei e i luoghi di culto hanno chiuso le porte ma non l’accesso virtuale; la cosa bella è che comodamente sdraiati sul divano di casa, possiamo prendere un aereo immaginario e volare fino a New York o a San Pietroburgo per visitare il MOMA e l’Hermitage. Niente code, nessuna folla davanti ai quadri, niente commenti sciocchi alle vostre spalle: “Oh bello, Oh meraviglioso, Oh cos’è sta roba?!”… Potrete goderveli e studiarveli dimenticandovi del tempo, soffermarvi sui dettagli quanto vorrete, esplorare le opere d’arte ad alta definizione, camminare verso le stanze vuote.
Qui alcuni tra i musei nazionali e internazionali che offrono il servizio online e altri su cui potrete finalmente dedicare il vostro tempo ad imparare l’arte, e a metterla da parte.
1. MUSEO DEL PRADO
Una delle opere più significative dell’arte figurativa europea è il “Saturno che divora i figli” di Francisco Goya (1821-23), conservato al Museo del Prado di Madrid. Secondo la mitologia greca Crono, il più giovane dei Titani, il protagonista del dipinto, sapeva che sarebbe stato privato del potere da uno dei suoi figli, cosicche’, preso dalla rabbia, iniziò a divorarli tutti uno ad uno. La foga, la pazzia, il cannibalismo di Crono è in netto contrasto con la debolezza del piccolo corpo deturpato e sanguinolento; il piccolo non può nulla contro l’esplosione cieca della violenza. E’ un’opera cruda di una ferocia che si legge sulle mani dure e nervose di Saturno che non allenta la preda di quel corpicino innocente. Immerso nel buio più nero, la scena potrebbe significare il conflitto tra vecchiaia e gioventù, oppure il ritorno di un assolutismo in Spagna che limitava ogni forma di libertà intellettuale.
Mai quadro fu così adatto a dare speranza agli italiani come il famoso Bacio di Francesco Hayez. Un inno alla gioia, un simbolo di speranza e di patriottismo, il quadro icona della Pinacoteca di Brera. Il capolavoro più copiato e ristampato nella storia, è stato realizzato nel 1859 e ripercorre i fatti nel periodo in cui l’Italia venne suddivisa in tanti piccoli stati sotto il dominio degli Asburgo d’Austria. Periodo nel quale gli italiani, uniti nonostante la divisione, crearono dei gruppi, delle piccole società segrete che avevano lo scopo di restituire dignità al paese. Mi sembra ci sia una forte attinenza col periodo che stiamo vivendo. Un popolo che canta l’inno di Mameli in questi giorni di reclusione forzata, un popolo che si abbraccia da lontano, che col canto e con la musica regala speranza e la voglia di farcela, nonostante tutto.
“Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet riprende una serie di ponti che l’artista si accingeva a dipingere in diverse ore del giorno. La luce, questa era la migliore amica di un grande pittore, per conoscerla, per riconoscerla, bisognava studiarla notte e dì, quando era calda di Sole o fredda di Luna. Il ponte da lui stesso costruito nei giardini della sua abitazione, taglia a metà la ricca vegetazione che da un lato si erge verso il cielo e dall’altro si specchia nelle acque. Quei dolci e sussurranti fiorellini che sono ninfee dai toni pastello, ricordano tanto i giardini giapponesi e le sue rappresentazioni. In un morbido letto di verde, spuntano come piccole vite capaci di donare gioia e speranza.
7. LE GALLERIE DEGLI UFFIZI – GIARDINO DEI BOBOLI – FIRENZE
Chi ha avuto la fortuna di vagare attraverso il Giardino dei Boboli sa che un tour viruale non potrà regalare la stessa sensazione di immersione totale in un mondo astratto e ovattato.
Lo visitai per la prima volta dodici anni fa, di fronte a Palazzo Pitti esisteva ancora un Internet Point, dove mi recai per aggiornare il mio stato Facebook e raccontare del mio viaggio in solitaria a Firenze. Uno dei ragazzi del negozio mi si avvicinò e mi dette un consiglio molto prezioso, e cioè quello di non attraversare il percorso visibile dei Giardini, quello a linea retta tagliato al centro dai gradoni, ma di prendere le vie laterali e immergermi totalmente nel verde. Lo ascoltai e se potessi rintracciarlo lo ringrazierei perchè quella passeggiata nell’arte mi ha regalato non poche emozioni.
Il Viale dei Cipressi è un tunnel di arbusti fitto fitto che parte da terra e si riunisce sopra la tua testa; in piena estate creava un nido buio e silenzioso che mi proteggeva dal brusìo e dal cicaleccio dei turisti; ed erano tanti. D’improvviso, nel fruscìo delicato dalle foglie mosse da qualche animaletto indiscreto, vidi comparire dietro di me un gatto, nero, che mi fissava immobile. Non appena riprendevo a camminare, lui da dietro mi seguiva, in modo felpato, per poi rifermarsi quando dalle spalle gli mostravo il volto. Non ho mai capito cosa significasse quella strana presenza, in certi casi le domande non servono e le risposte non le vogliamo, ma so una cosa: so che quell’esperienza diede vita ad una lunga serie di viaggi in solitudine di cui rimangono un bellissimo diario, e una foto di me in lacrime con quel misterioso gatto dagli occhi gialli e il pelo nero.
Su Google Arts & Culture esiste uno strambo video che rappresenta il quadro di Pieter Bruegell il Vecchio datato 1562, la “Caduta degli angeli ribelli”, una realtà aumentata che ci porta faccia a faccia con i mostri più mostri della storia della pittura. Il quadro racconta un episodio biblico, la caduta degli angeli che si sono ribellati a Dio per sete di potere, uno scivolone lento e indimenticabile in cui dall’alto vediamo gli angeli che suonano il trionfo, biondi come fanciulli, degli uccelli del Paradiso, dei putti vestiti e senza vizio. Al centro l’Arcangelo Michele che combatte il drago dell’Apocalisse a sette teste; e verso il basso delle diapositive precise e dettagliate dei mostri di fattura Boschiana. Sono metà pesci e metà volatili; hanno il ventre squarciato a mostrare uova già marce; sono giganteschi e sproporzionati insetti; gli orifizi in mostra e le bocce avide e dai denti appuntiti e radi. E’ una scena spaventosa che rappresenta la fede da una parte e l’avidità dall’altra.
Il quadro è custodito presso il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio