“Non tutti i mali vengono per nuocere” recita un vecchio proverbio, niente di più vero per raccontare quello che il dolore, ingrediente fondamentale (purtroppo) per realizzare cose grandi e nobili, ha instillato nella mente di Massimiliano Minorini, fondatore di “Same but different”.
E’ “Same but different” il frutto di questo dolore, una voce sul mondo che vuole urlare la nostra unicità ma anche la nostra uguaglianza. “Uguali ma differenti”, rispettarci accettando le diversità altrui, grande dono e mezzo d’ insegnamento per tutti. Vittima di abusi e bullismo, Massimiliano Minorini ha avuto il grande cuore e il grande coraggio di realizzare qualcosa per tutti, un mezzo tangibile e fruibile a chiunque, ma carico di significato, che in fondo è un messaggio di amore e di rifiuto della violenza e dell’inutile odio.
“Same but different” è il brand di Minorini, che ha un passato d’eccellenza nel settore della cosmesi: art director di Pupa per diversi anni, ha poi collaborato con Aqua di Parma, Cesare Paciotti, Replay, Naj Oleari Beauty, Merchant of Venice come creator campagne e prodotti.
Il fondatore decide, con questa linea beauty, di aiutare il Centro Nazionale contro il bullismo, BULLI STOP, a cui verrà devoluto parte del fatturato.
“Same but different” è differente sul serio, perchè si compone di una linea di profumi che possono essere miscelati tra di loro, senza per questo risultare sgradevoli, anzi, dandosi forza e carattere a vicenda, proprio come succede tra esseri umani. Una bella metafora!
Oltre ad una coloratissima palette ombretti, con pigmenti glitterati e irriverenti, per serate speciali, per brillare di luce anche al buio, una Shine On Baby! con dodici colori perlati, metallizzati e cangianti di tutti i colori dell’arcobaleno.
Due bambini con problemi da grandi: lui una mamma con un cancro, lei un’immigrata derisa ed emarginata. Come chi soffre si cercano dandosi forza e allontanando il peso della sofferenza con il gioco: fanno scommesse bizzarre dal ridicolo fino a al crudele. Si passano di mano in mano un barattolo di metallo che rappresenta una giostra, chi la possiede deve pagare una sorta di penitenza: presentarsi con mutande e reggiseno sopra i jeans ad un esame, dire parolacce a lezione, fare pipì davanti al preside, tirare schiaffi ai fidanzati di turno, e poi, poi arrivano i sentimenti, poi si cresce e il gioco si fa duro, ed è allora che il riso diventa ghigno.
Farsi male con la scusa del gioco non è poi differente da quello che succede in banalissimi rapporti; “Amami se hai il coraggio” (Jeux d’enfants) di Yann Samuell all’esordio nella regia, viene additato come surreale e sciocco quando, a pensarci bene, rappresenta molto più da vicino le difficoltà di comunicazione che hanno gli incompresi.
Julien e Sophie sono tra questi, due animali feriti, due anime sole che vorrebbero leccarsi a vicenda le ferite e invece per difesa non fanno che farsi male. Se Sophie diviene gelosa lo sfida a duello, perchè a esprimere la propria debolezza si perde il gioco. Se Julien capisce d’amarla sposa un’altra, perchè prende la palla, e di rimbalzo Sophie si allontana per 10 anni.
Farsi male è il loro grido d’aiuto, il loro destino solitario e imperituro; si strazieranno stracciandosi il cuore, sempre nell’attesa dell’altro, del suo ritorno, fino a quando la possibilità della morte li mette davanti all’evidenza dell’amore. E’ allora che si prometteranno di non lasciarsi più, e sarà davvero per sempre, uniti corpo a corpo sotto una montagna di cemento.
In “La morte ti fa bella” di Robert Zemeckis esiste un elisir di lunga vita che le donne prese da una crisi di mezza età bevono per ringiovanire di trent’anni. Sono Meryl Streep e Goldie Hawn a interpretarle, i due premi Oscar della commedia, una donna depressa per la decadenza del suo aspetto fisico e una diva assetata di fama e gloria.
La fialetta di elisir costa uno sproposito, ma gli effetti sono miracolosi: già al primo sorso le rughe si appianano, i seni tornano turgidi, il viso è steso come quello di un’adolescente, la pelle è subito rimpolpata. La giovinezza eterna a cui ogni singola donna ambisce, ammettiamolo, ed è per questo che la ricerca ossessiva di prodotti efficaci ha portato ad una formula unica nel suo genere, la Formula TRI-MOLECOLARE, il cui creatore è Josè Eisenberg, fondatore dell’omonima casa cosmetica. E questa non è commedia ma realtà!
Formula TRI-MOLECOLARE è una speciale miscela di principi attivi associati, che viene studiata in laboratorio da anni, rivoluzionaria perchè diretta sull’azione combinata delle molecole attinte dalla natura. Sono tre le molecole che lavorano in sinergia tra di loro: gli Enzimi, le Citochine, le Biostimoline.
Gli Enzimi hanno effetto rigenerante, aiutano e aumentano l’assimilazione dei principi attivi; le Chitochine, estratte dal latte e purificate bio-tecnologicamente, agiscono sul rinnovamento cellulare rendendo così la pelle subito più luminosa e hanno effetto energizzante, regalando un aspetto tonico e rimpolpato; le Biostimoline, estratte dai germogli di faggio, favoriscono l’ossigenazione delle cellule, quelle che danno turgore alla pelle e sono una grande risorsa per favorire la proteina “collagene”, presente nel tessuto derma, fondamentale per sostenere la cute e renderla resistente ed elastica.
Insomma il collagene dovrebbe diventare il nostro miglior amico e in ogni prodotto Eisenberg, sono 97 allo stato attuale, è presente nella speciale Formula TRI-MOLECOLARE.
Per una perfetta beauty routine noi consigliamo tre prodotti della linea: una maschera liftante, un serio da usare mattina e sera e una crema Hydra Lifting.
La maschera è un valido plus per le occasioni speciali, quando volete apparire subito più rilassate e fresche anche se avete avuto una giornata infernale! E’ magica perchè elimina ogni segno di stress e fatica e dura tutto il giorno. Contiene vitamina A ed E, oli di semi d’uva ed estratti di tè verde che eliminano le macchie di iper-pigmentazione.
Ricordiamo che il siero è la parte liquida/acquosa che va applicata prima della crema e dopo una lozione tonica. Il Face Refining Serum di Eisenberg è un vero e proprio trattamento lusso cosmetico: grazie al’estratto di cacao le zone in cui la pelle tende a rilassarsi, tipo sotto mento e guance, vengono tonificate nell’utilizzo quotidiano lavorando in sincro con la Glaucina che inibisce la maturazione dei grassi e aiuta la produzione di collagene. I sieri vanno applicati con costanza mattino e sera, e sono super efficaci se uniti ad un massaggio viso che parte sempre dalla parte bassa e centrale, per poi stendersi lievemente verso l’esterno. Il nostro bagno può diventare una vera spa di lusso se sappiamo scegliere i prodotti validi e se vogliamo dedicare quei 15 minuti al giorno alla cura della nostra pelle.
Per finire, lo step successivo è la parte fluida e cremosa, data da una crema che può essere la base per il nostro make up. Eisenberg ne ha creata una dalla consistenza leggera che assorbe facilmente ed è molto adatta alle pelli che necessitano idratazione. Si applica sempre mattina e sera e può anche essere miscelata insieme al siero per un effetto strong e più veloce. L’Hydra Lifting è un trattamento Protezione Capitale Giovinezza, il vero fiore all’occhiello di Eisenberg che assicura risultati spettacolari!
Oggi basta un clic per aggiudicarsi il premio dell’eterna giovinezza, scegliendo i prodotti Eisenberg più adatti alla nostra pelle; non invidiamo la divina Cleopatra che invece doveva riunire un gregge di pecore per potersi immergere nel loro latte appena munto. Altri tempi!
Curiosità ci dicono che anche il gin, come altri distillati, nasce quale rimedio contro dolori e malesseri fisici; cure da marinaio a cui veniva aggiunta acqua di chinino per smorzarne il pessimo sapore. Ma le gole assetate degli uomini duri hanno trasformato questo liquido alcolico fatto di cereali ed essenze naturali, in una eccellente bevanda dal proprio gusto caratteristico.
Tra tutti, Monkey 47 ha una storia davvero speciale: lo si deve a Montgomery Collins, il comandante della Air Force che nel ’45 si trova nella Berlino occupata, a ricostruire lo zoo della città. Qui scopre un’amica, una simpatica scimmietta di nome Max a cui dedicherà “The Wild Monkey”, l’albergo che costruisce nel ’51 nella regione della Foresta Nera; nello stesso periodo, in memoria di Max, produce un gin davvero speciale che contiene l’esotismo delle spezie indiane, le erbe e l’acqua della Black Forest e gli ingredienti della tradizione britannica.
La storia poi racconta che durante la ristrutturazione dell’hotel di Collins venne ritrovata una piccola scatola in legno contenente lo schizzo di una scimmia, le parole “Max The Monkey” e dettagli di botanicals originali del gin; difficile non restarne affascinati, tant’è che un grande imprenditore, Alexander Stein manager di Nokia in USA, ne rileva la proprietà e mette un fuoriclasse quale Christoph Keller a occuparsi della distillazione.
Al sogno, alla magia, al rapporto speciale tra uomo e animale, dobbiamo un Gin unico al mondo con ben 47 botanicals, il Monkey 47. Ginepro, lavanda, coriandolo, cardamomo, liquirizia, bergamotto, citronella, mandorle, noci, chiodi di garofano, fiori di sambuco, cannella, zenzero, hibiscus, melissa, rosa canina, angelica, fiori di acacia selvatici, sono solo alcuni degli aromi che caratterizzano la personalità di Monkey 47, un gin così completo e complesso che risulta piacevole a tutti i palati.
La bottiglia classica è scura per proteggere il distillato dalla luce, l’etichetta vi presenta Max, su un design che ricorda i francobolli dell’era vittoriana coloniale; piccola chicca l’anello metallico sul collo della bottiglia, forgiato a mano, che riporta la dicitura “Unum ex pluribus” (Da molti, uno), concetto di unione e rarità, giochetto utilizzato dai barman che regalano l’anello alle clienti più fidate.
Ma la grandezza di Monkey 47 si dimostra anche in ambito ambientale, per festeggiare i 10 anni di anniversario lancia infatti delle “special edition” e la mostra all’Isola Design District di Milano, “Can creativity save animals’ lives?”.
la special edition Monkey 47
Nelle sei bottiglie in edizione limitata ogni etichetta riporta l’illustrazione di uno dei 6 primati in pericolo di vita: Milton’s Titi, Roloway Monkey, Western Gorilla, Bornean Orangutan, Golden Lion Tamarin, Proboscis Monkey.
La mostra vuole sensibilizzare al cambiamento, alla salvaguardia delle specie in via d’estinzione e si compone di 6 progetti internazionali di 6 talenti emergenti tra cui il panda guerriero di Elena Salmistraro x Bosa (in ceramica simbolo e icona del WWF, a cui andrà una quota del ricavato); lo squalo bianco di Porky Hefer in collaborazione con l’artista tessile Ronel Jordaan (delle alcove in tessuto la cui vendita andrà in beneficio della Leonardo Dicaprio Foundation); i 100 elefanti di argilla della ceramista inglese Charlotte Maty Pack (creati in 24 ore, pone l’attenzione sulla stima che si fa dell’uccisione di 100 elefanti le cui zanne giornalmente vengono utilizzate per il mercato illegale dell’avorio). .
Per cui il gin non passa solo tra le mani di un grande glamourous come Gatsby, ma anche nelle menti di chi lo nobilita, un bagliore speciale che gli ha donato Monkey 47!
Qui vi consigliamo due cocktail freschi a cui Monkey 47 si sposa perfettamente:
BREAKFAST MARTINI:
50ml Monkey 47 15ml Cointreau 20ml Limone fresco 1 spoon di Marmellata d’arancia amara Garnish: Zest di Arancia Bicchiere: Coppetta martini Metodo: Shaken
BASIL SMASH:
50ml Monkey 47 20ml Limone fresco 10ml Sciroppo di Basilico Home Made 12 foglie di Basilico Garnish: Foglia di Basilico Bicchiere: Rock Glass (bicchiere basso) on the rock (con ghiaccio a cubi) Metodo: Shaken
Sciroppo di Basilico:
100ml di acqua 10/15 foglie di basilico 100gr di zucchero Portare l’acqua ad ebollizione, levare dal fuoco. Aggiungere il basilico e lasciarlo in infusione per 5/10minuti. Filtrare, aggiungere zucchero e mescolare fino a scioglimento.
Cosa rappresenta un libro? Alcuni ci vedono un tesoro, una risorsa, un vecchio saggio, altri della carta, farfugliamenti, tempo perso. Chi davvero entra dentro un libro ne percepisce il vero significato, sa che da quel piccolo rettangolo che si tiene tra le mani può coglierne ispirazione, pensieri, insegnamenti. Ce lo spiega con l’amore di un padre Roberto Cotroneo che in “Se una mattina d’estate un bambino” dedica una meravigliosa e lunghissima lettera a suo figlio sulla gioia della lettura.
Essere genitori è il mestiere più difficile del mondo immagino, lo immagino perchè non sono un genitore (anche essere figli è difficile, ma meno), Cotroneo genitore sceglie di indottrinare il figlio al mondo della letteratura. C’è chi insegna alla prole l’arte dell’arrangiarsi, chi a tenere in mano martello e scalpello, chi ad accontentarsi, ci sono quelli che spingono i figli alla corsa all’oro, Cotroneo inizia invece il figlio a quel percorso difficile dell’insegnamento che è portare qualcuno in un punto, senza averlo indicato col dito. Lo racconta lui stesso nel libro ricordando il suo vecchio insegnante, ed è nella passione delle sue parole che instilla la curiosità. Pensiamoci: la maggior parte dei libri del nostro periodo scolastico, quelli obbligati, li abbiamo detestati. Solo quelli scelti li abbiamo amati. Ecco Cotroneo spinge il figlio a “scegliere”. E quel bambino di due anni a cui è dedicato questo libro sceglierà di leggerlo, e sarà lui a chiederlo.
Ma a cosa servono i libri?Perchè sono così importanti? Lo scrittore, critico, genitore Cotroneo lo spiega con semplici parole: servono a cancellare i luoghi comuni, a elaborare giudizi e pensieri propri, servono a difendersi, a fuggire dalla mediocrità, a fare collegamenti tra le arti, servono a spiegare la complessità in modo semplice e ad apprezzare la grandezza nelle piccole cose.
Attraverso l’approfondimento di alcuni libri, tra cui “Il giovane Holden”, “L’isola del tesoro”, alcuni poemetti di T.S. Eliot, lo scrittore spiega al figlio “le cose della vita”, il talento, l’essere e non l’avere, il genio, l’invidia, l’umiltà, lo aiuta a distinguere i buoni dai cattivi con la storia dei pirati, lo allerta del potere infimo e nascosto e lo mette in guardia, lo esorta a diffidare di quelli che pensano troppo ai soldi, e a non cedere alla tentazione dell’ammirazione. “Si cresce sempre da soli Francesco”, ma i libri, aggiungo io, ti faranno compagnia.
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“Se una mattina d’estate un bambino” è un libro-manuale, di quelli da rileggere, di quelli da prendere in mano quando pensi “vorrei spiegare una certa cosa in modo semplice e chiaro come fa Cotroneo”, che l’ha detta benissimo, che la pensa come me; hai sottolineato frasi per ogni capitolo, hai fatto a margine i tuoi simboli perchè sai che ci tornerai, che non lo riporrai in libreria ma sarà sempre lì sul tavolo a portata di pensieri, di quei libri che ti fanno piangere perchè parlano di te, perchè ti capiscono. Quella lettera scritta al figlio Francesco è un atto d’amore verso tutti i suoi figli, noi lettori, noi che i libri li compriamo perchè senza libri, chi ce la spiega la vita?
Che cos’è la politica? Per definizione si intende “la scienza e la tecnica, come teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”. Quale percezione collettiva pare che la teoria sovrasti di gran lunga la pratica, cioè la prassi, e che la politica venga avvertita come un concetto impalpabile, come un’insieme di idee irrealizzabili, come un’utopia. A confermarlo è il mockumentary di Alberto D’Onofrio “Il sogno dell’alieno”, sceneggiato insieme a Carlo Fabrizio ed Alessandra Ugolini e prodotto da Zodiack Active; un documentario finzione che ha intento parodico e satirico, uno sbeffeggiamento al mestiere del politico, uno sfotto’ a cui tutti, parlamentari e media, hanno abboccato.
Il regista Alberto D’Onofrio ha selezionato un team di artisti, quattro per l’esattezza, che hanno inscenato un fasullo partito politico manifestante per la durata di un anno intero; 365 giorni di proteste, manifestazioni, striscioni presentati in mutande, sì perchè il primo slogan è “Siamo giovani in mutande e cresceremo in mutande”, una frase pessimistica che contesta la mancanza di sostegno al lavoro per i giovani e le continue fughe di cervello all’estero.
Quattro attori si sono immersi nella parte di giovani rivoluzionari con l’impegno comune di cambiare l’Italia, di farla diventare un paese libero e concreto, ragazzi che vorrebbero una politica di fatti e non di parole ma che, grazie a questo esperimento sociale, hanno di fatto dimostrato quanto invece la parola sia l’unico mezzo utilizzato nel grande show che è la politica stessa.
Dai primi blocchi e infiniti controlli della Polizia e delle Forze dell’Ordine, il “gruppo di alieni” si fa strada nei comizi e sui giornali. Le immagini dei rivoluzionari in boxer e giacca nera fanno il giro del web; i giornalisti iniziano a intervistarli, la stampa ne pubblica il manifesto, addirittura le loro maschere maxi da alieni nuotano oltre il confine italiano e “Il sogno dell’alieno” diventa un’ eco, che sarà poi la base di un ipotetico partito politico.
Andrea Amaducci è la voce grossa, è lui che parla in pubblico, un artista di strada ferrarese dai grandi occhi indagatori, uno di quelli a metà tra il folle e il bravo ragazzo; Matteo è un cuoco e un rapper italiano che scriverà delle proteste in rima; Paola è una performer milanese e Marta è una studentessa iscritta a Farmacia. Le loro facce saranno stampate su tutti i rotocalchi italiani, anche quando si presenteranno vestiti da mummie per ironizzare su un titolo francese che faceva riferimento al ritorno in campo di Berlusconi. Li vedremo colorati da capo a piedi a mo’ di bandiera italiana durante il Festival del Cinema di Venezia quando, i paparazzi in attesa di Ben Affleck, si ritroveranno questi folli mezzi nudi trasportati da una imbarcazione per le merci.
D’altronde la politica è piena di performer, pensiamo a Beppe Grillo che è un ex comico, a Ilona Staller, alias Cicciolina, ex porno attrice, e la lista è lunga; pensiamo a dei concetti basici, banali, talvolta privi di significato e a frasi fatte, componiamo in questo modo il linguaggio della politica ed il gioco è fatto; con questi pochi ingredienti è sufficiente prendere tutti per il naso! Non è quello che vediamo e di cui siamo spettatori da secoli?!
Ed ecco che dalle grandi piazze italiane ai comizi pubblici, i ragazzi alieni col sogno della politica raccolgono le firme degli esponenti di PD, Rivoluzione civile, Scelta Civica; sottoscrivono l’Agenda anche Daniela Santanchè, Matteo Salvini, Ignazio La Russa, Vittorio Sgarbi che corregge un punto dell’agenda trasformando un “L’Italia può diventare il primo paese per la produzione di cultura” in “L’Italia E’ il primo paese per la produzione di cultura”; uno Sgarbi coinvolto che scommette su questi smutandati dalla volontà di ferro e che ricorda un Renato Guttuso politicante e spera in un Picasso parlamentare.
“Via la SIAE” dice Salvini; “Spazio ai giovani e più diritti per tutti” grida Alessandra Moretti del PD; “Più lavoro ai giovani” sottolinea Lara Comi; Federico Bocci incita all’aumento delle nascite; “Più Nord Italia” sottoscrive la Santanchè; “Diffondiamo l’amor di patria” inneggia La Russa. Un elenco di ovvietà condito da una sottile ironia, fa notare Massimo Giannini, vicedirettore de La Repubblica, e una grande promozione di utopie riferisce Renato Mannheimer, sociologo italiano. In fondo sono artisti questi quattro di noi, e gli artisti non favoleggiano sulle nuvole inseguendo un goal? Ma quanti segnano e quanti invece rimangono in mutande?!
Come fece Joaquin Phoenix nel mockumentary “Io sono qui” interpretando un rapper e abbandonando i panni dell’attore, gli alieni de “Il sogno dell’alieno – Storia di un grande bluff” si sono calati nella parte per un intero anno, il 2012, per poi rivedersi dal divano di casa nel febbraio 2013 su Sky Cinema.
Il finale rimane aperto con una domanda: “E se Amaducci si fosse candidato?” A voi rispondere!
Vi capita mai di tornare in un negozio ad acquistare solo perchè la commessa è particolarmente simpatica? Vi capita mai di evitare un centro estetico super attrezzato con macchinari di ultima generazione, ma di evitarlo perchè le addette sono scorbutiche e fredde? Ecco, per i film avviene la stessa cosa, li si guarda fino alla fine, anche se la trama traballa, perchè gli attori sono fenomenali; oppure, al contrario, i protagonisti mancano di personalità ma i costumi, la fotografia e le conversazioni sono così brillanti che non puoi fare a meno di vederli. Insomma in entrambi i casi un oggetto giustifica la visione e “Dead Reckoning” (in italiano tradotto in “Solo chi cade può risorgere”) è tra questi, perchè quando sullo schermo hai Lisabeth Scott è davvero difficile stancarsene.
La storia è quella che è, un noir come tanti, un reduce di guerra che tenta di far luce alla scomparsa di un ex commilitone, piccoli salti nei bassifondi, apparizioni di volti loschi e gente immanicata in giochi d’intrighi e misteri e bugie. Night club dalla sordida reputazione, bicchieri colmi di whisky avvelenati e Royal Gin Fizz accompagnati da sigarette fino all’ultimo respiro; John Cromwelldeve tutto ai suoi due protagonisti, che hanno regalato infinite sfumature di colore a questo bianco e nero del ’47.
Humphrey Bogart interpreta Rip Murdock, capitano paracadutista ed ex detective che indaga sulla scomparsa dell’amico: il carisma, la presenza scenica, il fascino dell’uomo cui nulla scalfisce e nulla può turbare, accompagnato dalle brevi frasi a due “Il pericolo più grande è la tua bocca”, riescono a rendere intenso anche il più banale dei corteggiamenti.
Ma la vera regina è lei, Lisabeth Scott, la bionda di ghiaccio dagli occhi cerbiatto, la figura ambigua e ammaliatrice, la pungente vedova che può trasformarsi in un docile capretto impaurito, è lei a riempire la scena, lei con i suoi languidi gesti, lei che ha personalità anche sulla punta delle dita mentre tese raccolgono una sigaretta dall’accessorio d’argento e lentamente la portano alla bocca; lei che recita come se respirasse, lei, la Coral Chandler che riesce a catturare ogni uomo col suo profumo di gelsomino.
Cora è quel genere di donna che piace tanto ad Hitchcock, di quelle che fanno male ma che vengono giustificate per i traumi subìti, la donna sirena che riesce a rendere vera la più perfida delle bugie. Le braccia avvolte da lunghi guanti neri, i capelli arrotolati da morbide onde che le incorniciano il viso, le sopracciglia perfettamente disegnate che si increspano quando le spire si fanno più strette intorno alla vittima; Lisabeth Scott non poteva essere più perfetta per interpretare l’immorale fanciulla ferita. Basta lei per questi 100 minuti.
Lo sfondo è una Torino bene dei primi ’50, un gruppo di amiche impellicciate si scambia consigli su creme di bellezza e su luoghi di villeggiatura. Sono donne il cui unico pensiero è cosa indossare al primo appuntamento o scegliere se tornare col marito ricco e assente oppure vivere una vita sole, questo almeno apparentemente. Fino a quando una di loro tenta il suicidio. Il suo nome è Rosetta, una bella ragazza timida e discreta, che a differenza del gruppo ciarliero è più taciturna e più schiva. I motivi di questa sofferenza sfuggono alle ragazze, a sciogliere la matassa sarà Clelia, l’estranea del gruppo, la responsabile di un elegante atelier appena avviato. Clelia stringe amicizia con loro e durante un viaggio di ritorno da una gita al mare, comprende che dietro la scelta di quella triste ragazza c’è un uomo: Rosetta infatti ammette di essere innamorata di Lorenzo, un uomo sposato di cui è l’amante.
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Tra una sfilata di moda all’atelier e un flirting annoiato – “Tutti siamo stanchi ma non è una buona ragione per dirlo, si fa finta, si fa sempre finta” dirà Momina, la più cinica delle ragazze rivolgendosi allo sbadiglio del corteggiatore, – la storia clandestina dei due romantici amanti si consuma sotto gli occhi di una moglie che soffre, tradita dall’amica e dal marito, ma non si frappone alle loro scappatelle, e annuncerà la sua partenza per l’America per motivi di lavoro. Alla notizia Lorenzo, il marito fedifrago, tornerà piagnucolando all’ovile con la coda tra le gambe e lasciando la povera Rosetta, ingenua, illusa e con le ferite di un tentato suicidio che stavolta porterà a termine.
Tutta la combriccola a questo punto si sentirà sporcata dal senso di colpa, chi per non averla protetta, chi per averla lasciata, chi per averla spinta tra le braccia di un uomo impegnato.
Ciascun personaggio femminile è perfettamente profilato: Rosetta è la romantica illusa che cede alle languide bugie di un artista fallito (Lorenzo) e bisognoso di attenzioni, un uomo geloso del successo della compagna (Nene) e che cerca in una donna sola, disponibile e con la giornata libera, le parole di incoraggiamento e le lodi che accrescono il suo narcisismo. Momina è la più cinica, manca di empatia e non perde occasione per dimostrare al gruppo il suo senso di superiorità. Un’amica l’additerà in questo modo: “Tu hai sempre l’aria del genio in mezzo ai deficienti“. “Può darsi che sia la verità“.
Mariella è la più frivola e la più leggera, si annoia facilmente e per passare il tempo bacia i ragazzi di tutte. Anche la sua allegria non manca di ipocrisia: arrabbiata con Momina che la accusa di essere sciocca, sedurrà e provocherà l’uomo dell’amica, per poi pentirsene ed abbracciarla.
Quello di Michelangelo Antonioni è il ritratto di una borghesia anni ’50 con troppo tempo a disposizione, lascia alle uniche donne impegnate in un lavoro che le rendono indipendenti e libere dalle schiavitù dell’amore, l’ultima frase del film: “Non ho mai il tempo di pensare, e questa è una gran fortuna.”
1. Non c’è scena in cui non si beva whisky e non si fumino sigarette. Se non la sta già aspirando a piè polmoni, Tommy Shelby la prende dal pacchetto; se pensavate di essere dei salutisti con questa serie tv vi ricrederete perchè il rito della sigaretta diventa magnetico e il gesto ipnotico. E’ la sigaretta a caratterizzare il machismo del protagonista, insieme ad un bicchiere di whisky scozzese preso nel Garrison Pub, il locale della family dove si riuniscono nella saletta privata. Tommy nella serie si esprime in merito all’uso dei diversi distillati:
“Il rum è per il tempo libero e per fare sesso, non è vero? Ora whisky, ci sono gli affari!” .
2. Se lo incontri, il tuo unico pensiero sarà farci sesso. Il personaggio di Thomas Shelby ha il fascino irresistibile del cattivo, calcolo e freddezza negli affari, cuore tenero con le donne. Con loro rivela il lato gentile, sensibile e romantico; le donne fiutano e cercano con tutte le loro armi di sedurlo o farci un giretto. Ma Tommy, di natura diffidente ed ermetica, perderà la testa per una sola di loro, Grace, che sposerà e a cui dedicherà una lettera molto toccante, una volta persa:
“la vita è una sofferenza che va vissuta in silenzio, sporcando un vecchio foglio di inchiostro, lontano da sguardi indiscreti. Non possiamo mostrarci deboli. Non posso, non devo. Sei riuscita a frantumare i muri della mia fermezza, della mia determinazione e della mia forza. Per questo mi odio. Io mi odio Grace, ma ti ho sempre amata, questa è la più grande verità.”
3. I personaggi femminili sono fortissimi! Sono donne intelligenti, intraprendenti, sono loro a gestire gli umori dei loro compagni. Linda, la cattolica puritana moralista moglie di Arthur, lontana dalla vita scellerata del marito lo abbandonerà gettandolo nella disperazione. Michael, il figlio di Polly assetato di potere, troverà nella moglie americana Gina la perfetta socia capace di giocare con astuzia e sangue freddo. Zia Polly sarà il punto fermo della famiglia, avrà un lato materno che ai ragazzi Shelby manca, e il pugno maschile di chi detiene il potere e la gestione amministrativa della società.
4. Impossibile dimenticare uno solo dei personaggi della storia, chiunque entri in contatto con i Peaky Blinders acquisterà carattere e personalità, ogni leader delle band nemiche, ogni donna di passaggio che tenterà di prendere il posto dell’amata Grace. Bizzarro e ammaliante il ruolo della Gran Duchessa Tatiana Petrovna, ricca principessa russa vestita di diamanti e pietre preziose, che venderebbe la madre per soldi e per una vita libera scandita da orge e caviale.
Sua è la frase rivolta a Tommy Shelby: “Ho messo 500 sterline in più per il sesso“. .
5.La violenza esplicitata si insinuerà sotto la vostra pelle come il sangue nelle vostre vene; i duelli di pistola si trasformano in momento artistico, il linguaggio sboccato entrerà così dentro il vostro lessico che sarà difficile rispondere a un messaggio senza iniziarlo con un “fottutissimo bastardo”.
6. Alla fine della prima stagione il vostro unico pensiero sarà trovare un ippodromo e una bella somma di denaro da spendere scommettendo su un cavallo di nome “Grace”.
7. Il cambio look diverrà uno stile di vita: via ogni jeans dall’armadio, farete spazio a doppiopetto in lana pettinata, cappotto lungo nero o grigio antracite, completi rigorosamente sartoriali in tweed, camicia con colletto club, gilet in lana da cui spunta un elegante orologio da taschino, fermacravatta e la mitica coppola dentro cui cucirete una lametta pronta per essere lanciata come arma. .
8. Non vi avvicinerete più ad una chiesa. La moglie di Arthur, Linda, è un personaggio così fanaticamente religioso da farvi odiare ogni sorta di credente. La sua momentanea conversione alla vita scellerata degli Shelby sarà davvero poco credibile. Le notti brave a fumare, bere e tirare cocaina, non le leveranno di dosso quel velo puritano da cristiana cattolica esaltata. Difatti tornerà presto a pregare e invocare il nome di Dio, ma già lo avevamo immaginato.
9. Se il vostro lavoro non vi soddisfa, penserete alla carriera politica. Thomas Shelby nella quinta stagione è diventato un deputato laburista eletto con il voto popolare. Cercherà di “ripulirsi” e condurre una vita rispettabile. Ma non dimenticatevi che prima del partito, è passato per gli affari loschi!
10. Quando Thomas Shelby porterà la sigaretta alla bocca, vi sembrerà di rivivere una scena a rallentatore in stile “Holly e Benji”, di quelle che durano tre puntate. Sentirete friccicarvi lo stomaco perchè sapete che prima di fumarla passerà la sigaretta sulle labbra e la bagnerà con la punta della lingua, un modo per evitare che si secchi attaccandosi sulle labbra. Da dipendenza.
Piccolo segreto (le sigarette sul set sono a base di erbe, Cillian Murphy ne ha fumate 3000 in tutto)
Gaspar Noé è tendenzialmente monotematico, ma chi non lo è? Il piacere pare essere il suo unico interesse, raccontare il piacere più precisamente, e pure in “Irreversible” ha tentato di mostrarci un’ulteriore sfumatura di questo strano fantasma che rincorriamo o che rifuggiamo.
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Prima dell’uscita del film nelle sale, tutti sapevamo perchè la pellicola avesse destato tanto scandalo: si parlava solo della scena dello stupro, quella interpretata da Monica Bellucci (non ci stupisce sapere che abbiano affidato a lei questa parte, che è perfetta per un’attrice muta).
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Gaspar Noé è certamente un regista scomodo, affronta temi che per molti sono tabu, sono innominabili, sono brutali, sporchi, violenti, di quei temi che sia in gruppo che nell’intimità si fatica a parlarne, di quei temi per cui, chi non vuole essere giudicato, trova sempre la risposta pronta, che è quella politicamente corretta, che è quella per cui “la violenza è da aborrire, lo stupro è brutta cosa eccetera eccetera”. Ma quanti hanno davvero il coraggio di riflettere su temi così delicati? Quanti scendono nei loro pensieri più profondi e nei labirinti dei più imperscrutabili desideri? Gaspar Noé pare essere una di queste persone. Oltre a lui, un altro grande regista accenno’ al tema del piacere trasferendolo su schermo con una penetrazione anale in “Ultimo tango a Parigi“, era Bernardo Bertolucci, ma quella è un’altra storia, anche se la violenza, lo abbiamo scoperto in là con gli anni, fu reale. Forse Bertolucci è andato anche oltre rappresentando il piacere come lui avrebbe voluto percepirlo; Gaspar Noé invece ci porta dentro la mente di un violento, di uno stupratore, un gay che odia le donne, ma bisogna fare un passo indietro per capire.
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Una coppia (Monica Bellucci e Vincent Cassel) discute durante una festa, lei lascia il party sola per tornarsene a casa, quando nel tragitto sorprende un uomo che sta minacciando una donna, una donna che riesce a scappare e cede la sfortuna alla bella Alex, vestita di una seconda pelle di raso color cipria, le spalle nude, i seni fieri, il culone italiano (così scherza simpaticamente Marcus, il suo fidanzato, all’inizio del film). Per 10 minuti la banalità di uno stupro, la Bellucci impacciata anche nell’interpretare una figura atterrita dallo spavento e dall’orrore, le mani che non si ribellano, gli occhi che non sanno dove guardare, ma il corpo la salva e fa da sé. Tutto comunque rende l’idea, e se a vedere la scena sarà uno stupratore, è molto probabile che godrà insieme al protagonista e in quel caso Gaspar Noé avrà centrato l’obiettivo. Perchè è un tema scomodo, è vero, ma anche lo stupro rientra nella categoria del piacere, un piacere perverso, a volte sognato, desiderato, taciuto, soffocato, messo in atto o meno, ma è sempre piacere. Così come la violenza ripresa nella prima parte del film, tra i continui movimenti sobbalzanti di camera che si alternano in un postribolo per gay, dove a fare rumore sono le fruste e i genitali che sbattono da dietro, e la violenza fisica di una rabbia cieca, quella del fidanzato (Vincent Cassel) e dell’ex di Alex insieme alla festa, che picchiano in maniera sanguinosa l’uomo sbagliato per vendicare la bella disgraziata.
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E’ sempre di piacere che si permea il film, quando durante la festa Marcus (Vincent Cassel) si struscia ubriaco e fatto tra le ragazze della casa; è sempre il piacere che Noé sottolinea quando il protagonista tira su per il naso delle strisce di cocaina e quando le prime frasi, aperto il sipario, pronunciate da un uomo nudo dal lurido aspetto, sono la confessione di aver abusato della figlia; è il piacere che ci spiattella in faccia senza mezze misure quando, in un flashback, Marcus si risveglia nel letto con Alex e le confida che vorrebbe “metterglielo nel culo”. A rendere tutto ancora più fastidioso, per quelli che “non vogliono vedere” (perchè fa più male capire che far finta di nulla), c’è la scoperta che Alex fosse incinta, perchè no, se ci sono di mezzo i bambini proprio non si tollera il desiderio. Ma perchè di piacere non si parla mai? Quale retaggio culturale vi impedisce di raccontare le vostre perversioni? Non è forse questa costrizione che imbavaglia a creare frustrazione e violenza? Perché il film, per chi non lo avesse capito, non ha niente a che vedere con la violenza sulle donne, piuttosto, col piacere degli uomini.
Con l’utilizzo dei flashback, Claude Sautet racconta la storia di Pierre, affermato professionista di mezza età che lavora nel campo edile. Ha una fidanzata bellissima che mira e rimira la mattina mentre lei, di spalle, traduce qualche volume. Il suo nome è Hélène, parla un’altra lingua e lo si intende perchè Pierre spesso la corregge, dandogli così l’illusione di poter detenere quella sottile supremazia che permette all’uomo di sentirsi uomo. Alle spalle di Pierre, invece, un divorzio, ed un figlio diciannovenne che vede appena, di cui sa poco: se ne accorge quando gioca con una delle sue invenzioni, piccoli computer che riproducono il canto degli uccelli, oggetti utili a uomini che non vogliono impegnarsi perchè, dice il figlio, non sporcano e i volatili non esistono se non nel suono fittizio.
In una melodrammatica conversazione tra i due fidanzati, di ritorno in auto da una cena con la famiglia di lei, Hélène mostra tutte le debolezze femminili, la paura di non essere amata, il timore che lui si sia stancato della relazione, la sensazione del distacco freddo e cinico dell’uomo, mentre Pierre ascolta quasi assente come se le parole fluttuassero sopra di lui; un monologo più che una conversazione, uno di quelli in cui l’uomo vorrebbe scappare e la donna vorrebbe semplicemente essere rassicurata. Credo di non aver mai visto alcun regista mettere su pellicola una scena di così sorprendente banalità, ma di così grande verità che rende giustizia al senso del film.
E’ in quell’istante, in quel fiume di parole melense e autolesionistiche della donna, che Pierre pensa di lasciarla, si figura già l’addio, forte del sentimento paterno che riaffiora nei confronti del figlio a cui ha promesso una vacanza insieme. Un viaggio che toglierebbe il tempo da dedicare ad Hélène, quella partenza per Tunisi continuamente rimandata e la ragazza, risentita, inizia a struggersi e distruggere. La stessa notte del litigio Pierre, anziché dormire nel letto dell’amante, senza alcuna spiegazione, senza il minimo accenno di comprensione o di stizza o di rabbia o di seccatura, impassibile come un fantoccio spaventacorvi, parte per Rennes per affari; durante il tragitto scrive le parole d’addio che gli risuonavano in testa insieme alle immagini del figlio e della moglie Catherine ma, preso da quella paura di solitudine che da sempre lo accompagna, decide di non spedirla e la rimette in tasca.
In un tragico incidente in cui l’auto si scontra con un grosso camion, Pierre perde la vita, la stessa che ripercorre tra un’ondata di luce che illumina la memoria e tutto l’amore della sua esperienza: le gite in barca con l’ex moglie ed il figlio, il primo incontro con l’amante, gli amici, tra il rimpianto delle cose non fatte e ormai perdute, in un flusso di coscienza continuo prima della fine. Pierre non potrà più dimostrare il suo affetto a quel figlio cresciuto senza il padre, non potrà più tornare dalla fidanzata per la sola paura di rimanere solo, non potrà più sorridere di una gioia sincera e vera dell’affetto di sua moglie, nel calore della quotidianità condivisa. Pierre rimane l’uomo che le donne hanno solo immaginato.
Claude Sautet, con grande eleganza, lascia alla donna l’ultimo gesto, come in tutte le sue opere: dalla finestra dell’ospedale, Catherine osserva la corsa di una fidanzata disperata che ha appena appreso la notizia; prima che salga la scale, distrugge la lettera d’addio trovata nelle tasche della giacca, con un enorme slancio di umana bontà, di quell’amore materno e solidale che solo la donna possiede per natura. L’ex moglie, togliendole la sofferenza di una scoperta così terribile (la lettere d’addio, oltre alla morte di Pierre), regala alla donna la gioia del ricordo.
L’amante (Les choses de la vie), Claude Sautet 1970