La dipendenza da Paola Bonacina

PAOLA BONACINA – COLLEZIONE SPRING SUMMER 2021

Se esistesse un vocabolario della moda dedicato alle bag, alla parola femminilità ci sarebbe Paola Bonacina, brand di borse dalla produzione Made in Italy.

Ad ogni collezione rinnova quel tocco vezzoso e insieme elegante che è il suo tratto distintivo; le linee per questa stagione, la Primavera Estate 2021, sono essenziali ma arricchite da tessuti preziosi: abbiamo la seta cangiante, declinata in verde menta, pink, giallo, black e verde smeraldo. La fibbia è circolare e ricca di strass, una perfetta forma media adatta per una serata speciale o per regalare un tocco glamour al più semplice dei look.

Il successo della chiusura ad orologio con combinazione delle precedenti collezioni, torna anche quest’anno, sulle forme classiche e sempre moderne, con tracolle a catena gold.

I pellami sono il punto di forza del brand Paola Bonacina, che inserisce la novità della biscia d’acqua nella linea Black and White, dove la clutch fa da padrona. Forza e carattere per questo bianco e nero evergreen, seducente e grintosa e adatta a tutte le ore del giorno.



Ma la bellezza non finisce qui, dentro, come un goloso dolce che da’ soddisfazioni nel cuore del cioccolato, le borse Paola Bonacina sono completamente foderate e presentano l’etichetta gold del marchio. Ogni dettaglio è pensato ed è rifinito sartorialmente, nulla è lasciato al caso, tutti gli accessori diventano importanti e unici.

Una volta indossata una bag Paola Bonacina si avrà la sensazione di aver trovato finalmente un capo must have, come succede per una bella camicia, quella giacca che vi calza a pennello o per quel vostro jeans preferito. E non vorrete più farne a meno!



FOREO UFO2, LA SPA A CASA TUA

Si fa strada sempre più l’esigenza di ritagliarsi del tempo nella beauty routine; curare il proprio corpo diventa un rito quotidiano che ha a che fare con il benessere e non solo con la bellezza. A questa esigenza risponde FOREO con un apparecchio rivoluzionario, UFO2, rivoluzionario perchè tiene in considerazione la richiesta ma anche il problema del tempo, e offre a questo proposito l’innovazione di un trattamento da spa in 90 secondi. Ebbene, 90 secondi, una formula di “Power Beauty” che lo smart device UFO2 regala per la gioia di tutte le donne che hanno poco tempo a disposizione ma esigono massimi risultati.

L’ultima innovazione svedese si presenta come un piccolo disco di design, pezzo anche piacevole da mostrare come accessorio nel nostro bagno, che dona, attraverso una tecnologia di altissimi livelli, una lucentezza immediata alla nostra pelle, già al primo trattamento.


Tramite la tecnologia Hyper-Infusion, termoterapia e crioterapia, la luce Led a spettro completo formato da 8 colori diversi, e le pulsazioni T-Sonic TM, UFO2 potenza esponenzialmente l’efficacia di una maschera viso, portando il calore, gli effetti e le termodinamiche di una skincare da centro benessere. Sembrava impossibile e invece FOREO ha fatto centro un’altra volta, dopo la creazione del primo dispositivo di successo UFO.



UFO2 si collega all’App che vi seguirà passo passo dandovi consigli di utilizzo; le maschere apposite riportano sulla confezione la scritta Power Activated Mask, e si diversificano per esigenze di pelle e di giornata (night and day).

Con movimenti circolari che attraversano tutto il viso, UFO2 inizierà a scaldarsi grazie all’effetto termoterapico, le pulsazioni T-Sonic aiuteranno il prodotto all’assorbimento in profondità regalandovi un leggero massaggio facciale.
Per le più esigenti FOREO ha lanciato una linea di ingredienti luxury e nutrienti, la Farm To Face Collection e la Caviar Fusion, l’unione del caviale all’oro 24 carati per un effetto antiaging.

A sottolineare il successo di UFO2, Victoria Beckam che in passerella decide di preparare la pelle delle modelle in backstage con il dispositivo FOREO, nella Fashion Week di Londra e New York; così come la guru del make up Huda Kattan con i suoi 47 milioni di follower.

La spa a portata di mano oggi non è più utopia, FOREO UFO2 è ergonomico e sta in un palmo, permettendo così con facilità l’applicazione delle maschere; prima di un evento speciale o dopo la pulizia al viso quotidiana, una maschera per la notte sarà una piccola coccola a cui non vorrete più rinunciare; la pelle risulterà più morbida e subito più sana dopo soli 90 secondi!

Lamazuna, il brand di cosmesi eco-solidale

Si può cambiare il mondo? Lamazuna dice di sì, e si impegna con piccoli grandi passi come quelli fatti da chi inizia a dar voce a quello che è grido di sofferenza della natura, che giorno dopo giorno ci sta chiedendo “aiuto”.


Lamazuna è il brand che vuole educare le persone a rispettare l’ambiente, gli animali, la società di produzione cosmetica che quotidianamente lotta contro lo spreco e lo sfruttamento animale e che offre prodotti vegani dalla lista “green”.



Deodorante, dentifricio, burro corpo, shampoo e balsamo solidi, Lamazuna utilizza ingredienti naturali al 100% ed è leader della cosmetica solida in Francia.
Il marchio nasce da un’idea di Laëtitia Van de Walle, nel 2010, speranzosa di portare un esempio nobile e coltivare un piccolo seme che avrebbe dato grandi frutti. Riesce certamente nell’intento dato che ad oggi la società conta ben 50 dipendenti impegnati nella lotta etica a favore dell’ambiente; da Parigi la sede si è spostata a Marchese, nel Drome, dove lavora in un edificio eco-sostenibile. Da quello che fu il prodotto numero uno di Lamazuna, e cioè delle salviette in microfibra molto soffici per rimuovere il trucco al posto dei dischetti di cotone, oggi vanta una vasta gamma di cosmetici zero waste tra cui deodoranti e dentifrici solidi, balsamo solido organico certificato dall’etichetta COSMOS Organic, burri corpo solidi che si sciolgono al contatto con il calore, non testati su animali e certificati Cruelty Free e Vegan da PETA.



Aiutare la natura significa aiutare noi stessi a vivere in un mondo migliore, un mondo che non soffre e una natura che non si ribella, e se possiamo iniziare dalla nostra quotidianità, ciascuno di noi, ciascuna piccola goccia può diventare un oceano. Lamazuna ci invita a fare questo piccolo grande passo attraverso l’acquisto di prodotti specializzati nella soluzione zero spreco.
Sono green, sono belli, sono naturali e profumatissimi, e soprattutto sono un grande segno di generosità che voi fate anzitutto a voi stessi.



Love Lamazuna.



BVLLBAG, palle da basket a tracolla

Il primo mouse a portata di mano della storia lo si deve a Steve Jobs e alla sua Mela, quando la società inizio’ a pensare ad un oggetto di basso costo, di misure contenute, realizzando un prototipo fatto con la pallina di plastica che troviamo nei deodoranti “roll on”; l’ispirazione viene sempre osservando oggetti di uso quotidiano. Un esempio più concettuale lo abbiamo attraverso le sculture del dadaista Marcel Duchamp, con “Ruota di bicicletta”, un’opera d’arte creata da uno sgabello e una ruota, oggetti qualsiasi che vengono firmati e poi esposti al pubblico. Qualcosa di similare avviene anche nella moda, e l’oggetto in questione è una palla da basket, quelle che vediamo rimbalzare sui campi tra le gambe di omoni dalle gambe chilometriche. Che cosa può diventare una palla? Una borsa! Più che dadaista, una trasformazione utile e originale, perchè l’unico brand a realizzarlo è BALLBAG!

Come nasce l’idea di BALLBAG? 

Da un viaggio a Los Angeles, mi innamorai dei colori pink e arancione delle palle da basket e feci due buchi a cui attaccai una tracolla; la voglia di personalizzare accessori e indossare sempre dei pezzi unici ha fatto il resto: tutti per strada mi fermavano per chiedermi dove avessi comprato quella borsa, così mi sono detta “perchè non creare un’intera collezione”!? 

Quanti modelli ci sono di BALLBAG e dove acquistarli?

Sul sito www.bvllbag.com si trovano 27 modelli differenti, per colore, dimensione, stile. Ci sono le classiche palle da basket col baffo di una nota marca, ci sono quelle da football, quelle dei Lakers e di Jordan, ma anche marsupi unisex. Ciascuna è impreziosita dai dettagli in metallo gold, cerniera, fodera interna, manici e tracolla. 
Le dimensioni invece sono tre: MINI, da 15 cm di diametro per il nècessaire della donna; la SMALL di 25 cm di diametro che può contenere un cellulare, chiavi di casa, portadocumenti; la BIG di 35 cm che regala spazio anche ad una trousse rifornita. 

Le borse BALLBAG si trovano anche su depop (https://www.depop.com/bvllbag/ ) e su asos marketplace (https://marketplace.asos.com/boutique/baller-bag ), dove hanno riscontrato un vero successo di vendite sia in Italia che in tutta Europa, America Latina e Nuova Zelanda. 

Le BALLBAG sono customizzabili? 


I modelli sono tanti ma se non si trova la borsa giusta è possibile richiederla su ordinazione, come abbiamo fatto in precedenza con i modelli fatti con palloni da volley o quelli da basket dedicati alla propria squadra del cuore, come la borsa “Lakers”.

Le ballbag sono destinate alle donne che amano distinguersi, che non seguono solo mode e tendenze, ma che scelgono anche in base ai propri gusti non stereotipati.

A quale personaggio ti piacerebbe veder portare una BALLBAG? 


Winnie Harlow e la sua vitiligine, alla cantante spagnola Rosalia, a Nikita Dragun, alla make up artist transgender, alla nostra italiana Elodie, alla loro diversità.

“Spy no tsuma” (Moglie di una spia), Festival di Venezia 2020


“Spy no tsuma” (Moglie di una spia), Festival di Venezia 2020

Un commerciante giapponese di stoffe preziose vive all’occidentale, beve whisky occidentale, gira filmini amatoriali come un occidentale. Lui è Yusaku Fukuhara (Issey Takahashi) ed è sposato con Satoko (Yu Aoi), moglie devota, bimbetta cresciuta che vive un rapporto di dipendenza e adorazione nei confronti del marito. Il ritratto è quello di una famiglia borghese, lui con la passione del cinema, nel tempo libero si diverte a girare pelliccole timidamente hitchcokiane, dei noir tutto spie e casseforti; lei docile e mansueta e un amico d’infanzia segretamente innamorato di lei, sullo sfondo di una Kobe alla soglia della seconda guerra mondiale. 


Melo’ fino a metà film e con la recitazione forzata e strascicata della timida giapponesina, “Spy no tsuma” si accende nella seconda metà quando Yusaku, tornato da un viaggio in Manciuria, scopre dei documenti che provano le atrocità commesse dal governo giapponese e decide di rivelarle al mondo intero, senza aiuto alcuno, come un vero supereroe: crimini inaccettabili, prove di un Giappone nazionalista e violento. 



Il segreto che porta con sé desta sospetti nella moglie, venuta a sapere che Yusaku è tornato dal viaggio con una donna. Agli occhi di Satoko, la vera protagonista, il punto di vista scelto dal regista Kiyoshi Kurosawa, sembrerebbe un adulterio, ma il vero tradimento è quello del Giappone, della propria terra che diventa sempre più intollerante nei confronti di inglesi e americani, macchiata di sangue e vergogna. 


Spinta più dall’amore incondizionato (e immaturo forse) verso il marito, Satoko, una volta scoperta la verità, decide di fuggire e aiutarlo nella missione, adrenalinica per spirito di avventura più che per orgoglio ed etica e senso di giustizia

Si salva il finale che ha diverse chiavi di lettura (io ne ho una ma confrontandomi con i colleghi al Festival pare ce ne siano di differenti) e la fotografia impacchettata anni ’40 con i costumi pronti al confezionamento. No alla recitazione alla “Ace ventura” di Yu Aoi, a meno che sia voluta a tavolino per denigrare un certo genere femminile, lo stereotipo della moglie bellina e scema. Ma spero non sia questo il caso, che a migliorare nella recitazione c’è sempre tempo. 

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VENEZIA FESTIVAL 2020, KHORSHID (SOLE) DI MAJID MAJIDI

Venezia Festival 2020, Khorshid (Sole) di Majid Majidi


Khorshid – (Sole) di Majid Majidi – 77mo Festival del Cinema di Venezia


Nei sobborghi di Teheran, in una terra che ci appare solo in televisione tra le notizie di tragedie, sfruttamenti, medievali violenze, esiste invece una realtà che il regista Majid Majidi ha portato sullo schermo del 77mo Festival del Cinema di Venezia. La macchina da presa dentro le vite di bambini costretti a rubare e a delinquere per mantenere le proprie famiglie, tiranne anch’esse e vittime al tempo stesso della propria ignoranza. E’ dalla strada che sono stati scelti gli attori, bambini di dodici anni circa, convincenti fino all’osso, e fotografia umana della tirannia senza scrupoli, dell’infanzia negata, del ricatto senza riscatto. 


Ali, il protagonista, ruba gomme insieme a una piccola banda di amici, assoldati da un boss della zona, la madre vive in un manicomio e spesso non gli è permesso di vederla né tantomeno di portarla via da lì.
Per farsi perdonare il furtarello di un piccione da un boss, Alì e i suoi amici hanno una missione: trovare un “tesoro” che si trova esattamente sotto “La scuola del sole”, tra la fogna e il cimitero. Anche i bambini sanno che nelle fogne i tesori non esistono, eppure, nella più totale disperazione, spinti dalla fame e da quel briciolo di speranza e di salvezza, i ragazzi si buttano alla ricerca di qualche anfora colma d’oro, di magici bauli pirateschi colmi di medaglie e argenterie, accecati dalle menzogne di adulti sporcati e infangati da quelle stesse fogne che sono le strade, quelle in cui si sono arresi alla delinquenza e alla violenza. 



Tra la soffocante ricerca nei tunnel sotterranei e lo spazio luminoso della scuola, il regista contrappone un’immagine metaforica, il contrasto della prigione a cui sono costretti, che è la vita del fuggitivo, e il barlume di fiducia che il ruolo di un insegnante coltiva nei loro cuori, attraverso la compassione, la fiducia, la bontà. 

Un film che inizia come una favola per bambini e che si rivela invece accusa di un modello sociale, una pellicola a cui dobbiamo molto, perchè seme che cresce nelle nostre coscienze, che ci spinge a riflettere e forse a denunciare, ad agire. Il lieto fine in “Sole” però non c’è, rimane la disillusione di un bambino che sognava di portare a quella “luce” la propria mamma malata, e chi si ritrova invece con in mano un pugno di “polvere”. 

Venezia 77 – “Le sorelle Macaluso”

“Le sorelle Macaluso”, Mostra Internazione del Cinema di Venezia 77


Per descriverlo in due parole, carne e ossa, “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante sono al primo posto della mia lista “preferiti” di questa 77ma edizione del Festival veneziano. 
Siamo negli anni ’80 nella periferia siciliana, cinque sorelle vivono orfane in una casa scarrupata, come direbbero invece a Napoli, muri imbrattati e vecchi como’, credenze datate e i servizi di piatti “buoni” della domenica. 

La più grande delle sorelle ha 18 anni, Pinuccia, la più piccola nove, Antonella, che la osserva con adorazione mentre si trucca labbra, guancia e occhi con un unico rossetto. Le sorelle vivono dell’affitto di colombe che allevano sopra il tetto di casa, per cerimonie matrimoniali, battesimi, cresime, condividendo talvolta gli spazi domestici con gli stessi volatili, simbolo forse augurale di salvezza e di pace. 
Pinuccia, colei che nel gruppo fa le veci del capofamiglia, si concede un po’ d’amore come unico balsamo alla croce della sua esistenza; ma gli uomini nella pellicola della Dante sono solo una goccia in un mare di donne, i loro volti non si vedono, nemmeno in lontananza quando in estate le ragazze vanno al bagno Charleston dove si recavano con i genitori. Una storia al femminile che un poco mi ricorda “8 donne e un mistero” di François Ozon, ma con la forza tipica delle donne del sud, quelle per cui “si sta unite ad ogni costo”, con la dignità dell’andare avanti in un oceano di difficoltà, che raccontano lo spirito di sacrificio e la tenacia, la virtu’ che solo le donne posseggono.

Le sorelle Macaluso” è un film italiano fino all’osso, c’è tutta la poesia della nostra terra e della voglia di coltivarla, la poesia, e allo stesso modo la terra, e in questo la Dante riesce a realizzarlo nella fotografia, quando le colombe libere nel cielo si alzano in volo e si allontanano formando un’immagine astratta che rimanda alla Venezia in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin del 1960.

C’è la fragilità dell’essere umano e la transitorietà dell’esistenza, metafora quel piatto “buono” dove la più piccola versa il mangime per gli uccelli, perchè “anche loro hanno il diritto di godere delle cose belle”, quel piatto che si rompe e che viene incollato, come fanno in Cina ma con una particolare colla color oro, perchè ciò che ha vissuto porta con sé un valore più alto e più potente.

C’è anche l’elemento disturbante, i primi piani della più stramba di famiglia, mentre mangia come un’ossessa cannoli e paste ruminando e sporcandosi il volto, mentre legge come una posseduta le poesie come fossero preghiere. Lì a due spanne di camera, per spiattellarci tutta la drammaticità della vita, senza fronzoli, senza ricami, senza buonismo o finta pietà. E nella tragedia della vita si riconoscono i veri pilastri, tra chi va e chi rimane, chi scappa e chi rinuncia, nonostante il fuoco che li accende. 


Tra le malinconiche note di Eric Satie che escono dai carillon e l’inquadratura artistica che rimanda al Cristo Morto del Mantegna, “Le sorelle Macaluso” si scopre carico di simboli, icone, connessioni poetiche, e anche questo è il dna italiano, meritevole certamente del Leone d’Oro. 

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“Mainstream” di Gia Coppola al Festival del Cinema di Venezia 77


“Mainstream” – Venezia 77

Altra Coppola dei Coppola cineasti, Gia racconta al pubblico di questo 77mo Festival del Cinema di Venezia la nostra società ai tempi dei social network. Un film per tutti che è specchio del disagio sociale, della vanità inutile e vuota, della corsa ad una felicità che dura il tempo di un like. 
Attraverso i due protagonisti “Link” e “Frankie”, Gia Coppola ci racconta la vorace energia creatrice e distruttiva, quella di Link, e la lucida introspezione della malinconica Frankie, che incontra Link per caso mentre, travestito da animale peloso, si guadagna da vivere fuori da un centro commerciale. 
In Link vede anzitutto una ricerca di verità, senza compromessi, senza mezzi termini. Sarà lui nelle prime scene a urlare “Eat Art” al pubblico passante, “Mangiate Arte”, anziché acquistare sciocchezze in un fast fashion. E’ a lui che chiederà di “posare” nei suoi video naturali che posta su Youtube, video che ottengono visualizzazioni grazie alla spontaneità e all’attitudine diretta e sprezzante del protagonista, interpretato da un vulcanico Andrew Garfield, un misterioso ragazzo che denuncia la piccineria a cui i social ci avvicinano. 


Vorreste avere tutto e non capire niente, o capire tutto e non avere niente?”, questa è la domanda che pone ai suoi follower. “Il tuo telefono o la tua dignità?” Contrasti forti che espone worldwide mentre i suoi numeri crescono esponenzialmente e mentre la trasformazione avviene, anche in lui che tanto disprezzava la corsa alla fama e ai like. Il sistema lo inghiottisce, diviene vittima della spazzatura che allontanava, la vanità prende il sopravvento, fino a quando un tragico episodio mette tutti di fronte al reale problema dei social network, degli haters, dei bulli da tastiera. 

Interessante spaccato dei tempi moderni, “Mainstream” di Gia Coppola si pone volutamente grottesco, utile per spiegare la generazione kitsch di buonannulla, volgari perchè ignoranti, satiricamente rappresentati nel film da generi disparati di influencer tra cui compare un trans make up artist, un bambino travestito da donna, una sciocca esibizionista che inneggia alla vanità nel nome del signore. Nessun bagaglio culturale, nessun ideale, solo puro materialismo ed esasperazione dell’ego. Una serie di influencer che dibattono con Link senza riuscire ad argomentare le loro risposte, ma solo sbandierando enormi unghie colorate o alzandosi dal posto con sprezzo e distacco. Una vita fasulla rinchiusa in un iphone, mentre il vero godimento è lì fuori, dove la vita vera respira di alberi, amicizie, amori, debolezze di cui non vergognarsi, sconfitte e gioie vere. 
Chi recita sui social e chi è il vero purista? “Mainstream” lascia la risposta a tutti noi fruitori di social network. 

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Zhenia è un massaggiatore ucraino, possente nel fisico, lo vediamo allenarsi nella sua nuova casa spoglia in Polonia. Ha le sopracciglia arcuate tipiche di chi sente il peso dei pensieri eppure, nei modi, questo omone muscoloso pare gentile. Zhenia entra nelle case della gente, di quella più benestante, grazie al suo dono, un dono che arriva dalle mani, che ha la capacità di guarire, di allontanare lo stress, l’ansia, i turbamenti. In silenzio, il ragazzo impone le mani e la sua virtù divina e regala quella che sembra essere energia vitale. In un paese fatto di tante case bianche una identica all’altra, Zhenia incontra le anime tristi di chi le abita: un uomo malato di cancro che cerca disperatamente ogni rimedio alla sua malattia; una donna soffocata dal ruolo di madre e moglie incompresa e inascoltata; una vedova intollerante che accusa gli altri di inesperienza, cieca della propria ignoranza; un’amante dei cani che si circonda del loro amore fedele per sentirsi meno sola; un ex soldato che porta ancora addosso dal campo rabbia e ferocia. Zhenia, anche se solo per un’ora, allevia le sofferenze di queste anime in pena con l’imposizione delle mani e talvolta con l’ipnosi; ascolta le loro lacrime, accoglie le loro verità più profonde e cerca, con reale empatia, di diffondere amore e speranza, fiducia e compassione. Ma quando qualcuno, un padre di famiglia, si azzarda a chiedere qualcosa a Zhenia, questo sembra perdere il controllo. Come sta Zhenia? Perchè questo estremo bisogno di salvare gli altri? 


Con una colonna sonora di grande eleganza e una fotografia che ricorda i freddi colori di Erwin Olaf, “Never gonna snow again” di Malgorzata Szumowska e Michal Englert si rivela una pellicola di grande grazia ed eleganza, la stessa che hanno cucito sul protagonista, un ragazzone dagli occhi dolci e carichi di amore materno.

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Può il luogo in cui viviamo, cambiare le nostre sensazioni e i nostri sentimenti? 
Proviamo a pensare a una coppia mondana che vive nella città di New York, fatta di incontri, serate social, mille impegni, e paragoniamola ad una che invece tira a campare mungendo mucche, spalando letame, tosando pecore e che si guadagna da vivere con i proventi del latte e del burro. La prima avrà infinite distrazioni ed occasioni di incontro, la seconda molto probabilmente vivrà una vita fatta di fantasie, dove i luoghi che visita saranno solo quelli che incontra sui libri, sempre che i libri se li possano permettere. Ecco questa seconda coppia è la protagonista di “The world to come”, il film di Mona Fastvold in concorso al 77mo Festival del Cinema di Venezia. 


Abigail è una donna remissiva, pratica, arresa alla sua vita di contadina e di moglie che deve accontentare il marito con l’unico piatto di patate bollite che possono portare a tavola. Da quando hanno acquistato la fattoria, una casa isolata nelle lande rurali del Midwest nella metà ‘800 tiene, dietro richiesta del marito Dyer, un diario con tutte le note spese, le entrate e le uscite ma nulla, si lamenta lei, sulle loro sensazioni, sulle perplessità, i problemi, le angosce, le inquietudini o le afflizioni. Nulla che abbia a che fare con i sentimenti. Vive in questa triste e desolata arresa alla vita e alla gioia da quando ha perso la loro unica figlia per difterite, l’unico tesoro che pensava potesse colmare il vuoto che non riesce a spiegare. Fino a quando arriva nel paese una coppia con cui tenteranno di stringere amicizia, Finney e Tallie, un uomo ruvido e aggressivo e una donna dai lunghi e vaporosi capelli ramati sul cui volto si legge la passione e la voglia di vivere. Una di quelle che sembrano più fortunate delle altre, ma la cui espressione denuncia più una sfortuna. 


Tra panoramici long take innevati e frastornanti bufere distruttive, “The world to come” racconta con femminile introspezione la ricerca della felicità, quella che le due donne, ignare del mondo esterno alle loro piccole mura, sentono di aver trovato, trovandosi. Un amore lesbo che non ha niente dell’erotico, ma che nella tragedia del silenzio forzato dall’ignoranza, esplode con una drammaticità alla Austen.

La regista Mona Fastvold esamina l’infinito universo femminile, quando l’una si accorge della vanità dell’altra consapevole della propria bellezza, quando l’altra ascolta con dolcezza le infantili poesie che vengono dal cuore e dalla solitudine, quando insieme scoprono che lasciarsi andare all’istinto di cercarsi, potrebbe sollevare i loro spiriti dal dolore di un’esistenza che vorrebbero, ma non possono cambiare. 


Gioia e stupore sono i sentimenti esplosi nella seconda parte del film, fino a quando il destino busserà alla porta. 
Valido candidato a vincere il Leone d’Oro, “The world to come” è ispirato al romanzo omonimo di Jim Shepard. 

77mo Festival del Cinema di Venezia, “Miss Marx”




Miss Marx 77mo Festival del Cinema di Venezia

Essere figlia è un difficile mestiere, essere figlia di un grande uomo politico ha l’aggravio della responsabilità d’esserne all’altezza, soprattutto quando questo padre si chiama Karl Marx. 
Se tutti conoscono le sue filosofie politiche, pochi sanno delle sue filosofie private, quelle della sfera sentimentale e familiare che, nel film di Susanna Nicchiarelli “Miss Marx” vengono alla luce attraverso la straordinaria interpretazione di Romola Garai. La Garai interpreta Eleanor Marx, quartogenita di Karl e Jenny von Westphalen, una donna che ha dedicato la sua esistenza agli altri, seguendo la scia del capofamiglia che per lei aveva una evidente predilezione “Tussy sono io”, diceva. 



Tussy, così affettuosamente chiamata dagli amici, era colta, amava il teatro shakespereano, possedeva uno spirito forte tendente al sacrificio “Ho dedicato la mia vita agli altri”, dirà in una scena “ora è il momento che mi goda anche la mia”, ma soprattutto aveva innato il senso di giustizia ed empatia, che l’hanno spinta, fino alla fine dei suoi giorni, a lottare per la classe operaia, per il suffragio universale, per l’abolizione del lavoro minorile nelle fabbriche.



Nella lotta al cambiamento, Eleanor lotta anche con se stessa, cercando di trasformare abitudini e pensieri; quando incontra Edward, suo complice nella vita politica e in quella privata, Eleanor si trova costretta a fare i conti con il carattere egoista e privo di morale del compagno. Un uomo che non può sposare perchè già precedentemente ammogliato, un farfallone, un menzognero che non ha alcun senso del denaro e che sperpera comprandole mazzi di fiori e viaggiando lontano da casa con qualche amante di turno.



Con la sua apparente incongruenza tra dimensione pubblica e privata, la storia di Eleanor Marx apre un abisso sulla complessità dell’animo umano, sulla fragilità delle illusioni e sulla tossicità di certe relazioni sentimentali”, spiega la Nicchiarelli. “Raccontarne la vita vuol dire parlare di temi talmente moderni da essere ancora oggi, oltre un secolo dopo, rivoluzionari. In un momento in cui la questione dell’emancipazione è più che mai centrale, la vicenda di Eleanor ne delinea tutte le difficoltà e le contraddizioni: contraddizioni, credo, più che mai attuali per cercare di afferrare alcuni tratti dell’epoca che stiamo vivendo”. 


In Concorso per il Leone d’Oro di questa 77ma edizione del Festival del Cinema, “Miss Marx” parla a tutte le donne che hanno subìto ingiustizie, nel lavoro, nella vita privata, in ambito familiare; a quelle donne che hanno dovuto accettare, per amore, la degradazione e la mancanza di rispetto, a chi, allo stesso modo, ha dovuto abbassarsi a tanto per portare a casa il pezzo di pane. E’ dedicato a chi ha lottato e chi ha creduto che qualcosa sarebbe cambiato, a quelle donne che, nell’unione, si sono fatte forza per migliorare non solo la propria posizione, ma quella di tutte noi presenti, oggi.