“Oteri”, il nuovo codice eleganza della décolleté


Talvolta è il destino stesso a bussare alla nostra porta, sui post-it dei “TO DO” abbiamo una lista intonsa e tutt’a un tratto la scena della nostra vita cambia, chiude il sipario e il panorama è totalmente diverso. E’ successo anche ad Alessandro Oteri, fondatore del brand omonimo che ha fatto della scarpa da donna il suo nuovo “mood of life”.


Alessandro Oteri andava a trovare una cara amica, ma la porta a cui busso’ era quella sbagliata, o forse quella giusta, e ciò che vide non fu un bell’appartamento con dettagli muliebri, tende e pareti rosa, ma un laboratorio di scarpe, un monito forse.
Vigevano, era lì che si trovava, la città delle scarpe, la capitale della calzatura, erano gli anni ’90 ed Oteri era un giovane responsabile in un Istituto di Certificazioni CEE per ascensori, oltre ad essere un nuotatore professionista. 
Dalle pinne alle scarpe, Oteri decise che l’accessorio per eccellenza della donna sarebbe diventato il suo unico dio. 

Dopo aver soverchiato il periodo cieco, Oteri si imbarca per un altro mare e inizia a lavorare presso un’agenzia di marketing e comunicazione il cui prodotto è appunto la scarpa. Scopertosi proclive all’oggetto, fonda il brand su cui figge una missione: quella di rendere la décollété la sua unica mena. 

Perchè ha scelto l’accessorio scarpa da donna? 

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Perchè riassume due anime: quella pratica e quella certa. Cosa intendo? Tutte le donne hanno bisogno di scarpe, molte di loro hanno una grande passione per la calzatura e le cercano belle, e tutte le donne chiedono scarpe comode; difficilmente vengono del tutto accontentate. Il mio compito è quello di creare equilibrio tra questo ménage, con una scarpa esteticamente allettante e che al tempo stesso possa essere indossata tutto il giorno senza conseguenti dolori ai piedi. 

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E come ci riesce? 

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E’ prammatica per un’eccellente scarpa utilizzare la pelle, una buona pelle cede col tempo e non “taglia” i piedi della donna, cosa che invece potrebbe succedere con una calzatura fatta in tessuto, a causa delle colle che vengono utilizzate per assemblarle. 

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E la produzione? 

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Parabiago ovviamente, l’eccellenza in fatto di calzature; l’esperienza e la qualità sono imprescindibili per questo mercato, che ha infiniti concorrenti, ma che nel corso del tempo ha cambiato modello di business esportando la produzione per abbassare i costi. Compromessi a cui io non voglio scendere, per nessuna ragione. Tutti gli investimenti sono destinati ai miei fedeli produttori di Parabiago, che mi hanno sempre sostenuto e che non hanno rivali in materia. Alzo la qualità e continuo a produrre in Italia, ma con la scelta di dedicare ogni sforzo su un unico modello: la décollété

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Perchè la décollété?


Lasciamo a René Caovilla il sandalo gioiello chic, a Manolo Blahnik la parte glamourous e a Louboutin i modelli strong/rock, io prendo il modello a cui la donna non può rinunciare, quello evergreen abbinabile ad ogni tipo di outfit e stile.

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E come lo rende speciale? 

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Teniamo presente il grande limite dell’oggetto, e cioè che lo spazio di espressione si concentra sulla punta, è quello il foglio bianco, la tela su cui bisogna disegnare e raccontare il proprio stile. 
Io sono un curioso, uno sperimentatore, un materico, prendo a raccolta tutti i codici del mestiere, i consigli degli amici stilisti e racconto una donna elegante che sposa la mia idea di semplicità vanesia

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Qual è la parte più dura del lavoro? 


I passaggi. Pochi giorni fa contavo nei miei appunti ben 18 passaggi per raggiungere il risultato finale: bisogna contattare fornitori di tacco, suola, sottotacco, pelli, galvanica, accessorio se lo ha, taglio e cucito per le stoffe, produttori della scatola… E’ una macchina complessa e continua a infiniti perfezionamenti. 

Atelier Alessandro Oteri

E la parte più divertente? 


Il contatto con le clienti e la vendita. Discernere e rispondere al desiderio delle donne, chiacchierare allegramente con loro, instaurare un rapporto di fiducia reciproco. Non a caso oggi il mio Atelier è anche la mia casa, un luogo, un salotto dove poter fare “pan conversation”. Si fanno ciacole davanti ad un caffè fumante, un te’ indiano e, se l’ora lo permette, un piatto di pasta all’italiana! 

A quali donne si rivolge il brand Oteri? 


Alle indomite dei tempi moderni: oggi va bene tutto ed è un tutto che a me non piace, basta aprire i social network per rendersene conto, congerie volgari, venefiche e passeggere. Il mio è un messaggio di eleganza, di semplicità, di praticità e comodità. 

Alessandro Oteri

I MIGLIORI MUSEI DI VIENNA – PARTE 2

I MIGLIORI MUSEI DI VIENNA – PARTE 2 DI 2

Kunsthistorisches Museum

L’alcool non mente: durante le nozze di Piritoo e Ippodamia, principi della Tessaglia, il Centauro più forte tra gli invitati perse il controllo infuocato dal vino, avventandosi sulla sposa nel tentativo di rapirla. Teseo, amico degli sposi, intervenne lottando col centauro, strangolandolo e impugnando una clava per fermare la sua pazzia, bloccandolo con il ginocchio al petto, nella parte esatta in cui finisce l’uomo e inizia la bestia.
La forza del gesto e tutta la sua drammaticità, viene periziosamente scolpita da Canova, nella statuta intitolata appunto “Teseo in lotta con il centauro” del 1805, ora custodita all’ingresso del Kunsthistorisches Museum di Vienna.

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“Teseo in lotta con il centauro” 1805, Canova


Un inizio in pompa magna per una delle collezioni d’Arte più importanti del Mondo. Testimonianza della passione degli Asburgo per il collezionismo, il Museo fu fondato da Francesco Giuseppe per ospitare le collezioni imperiali: oggetti provenienti da cinque millenni, dal periodo degli Antichi Egizi fino alla fine del Settecento; la più vasta raccolta di dipinti di Bruegel e i capolavori di Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens, Van Dyck, Van Eyck, Dürer, Vermeer, Rembrandt, Raffaello, Caravaggio, Velázquez

Highlights:

Torre di Babele – Pieter Bruegel 1563

Dio punisce gli uomini che vogliono ergersi al cielo, perché l’ascesa deve essere spirituale e non carnale. La Torre che il popolo costruisce in altezza, popolata da uomini che parlano la stessa lingua, è la leggendaria costruzione narrata dalla Bibbia nel libro della Genesi. Riuscendo a leggere nei cuori della gente, Dio scopre l’intenzione della costruzione, cioè l’ottenimento di un “gran nome” e non la proliferazione sulla terra come esseri uguali, come suo volere, cosicché Dio, per punire l’umanità come fece con Adamo ed Eva in principio, decide di confondere le lingue in modo da non permettere la comunicazione. Bruegel dipinge la scena nel 1563, una rappresentazione carica di simboli e significati, definita tra le opere più immaginifiche dell’arte; il pittore rappresenta una torre storta, costruita con due tipi di mattoni differenti e basata su leggi architettoniche distanti tra loro: una risulta essere simile a quella del Colosseo di Roma, l’altra basata su tronchi di coni sovrapposti. Un’opera “impossibile” in partenza, che definisce l’imbecillità umana e l’imminente catastrofe. Una spirale che non verrà mai completata, un dipinto maestoso di un pessimismo cosmico.

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Torre di Babele – Pieter Bruegel 1563


Susanna e i vecchioni – Tintoretto 1555/1557

Una giovane donna fa il bagno in un giardino scuro, ma una strana luce la colpisce ammorbidendone i tratti ed il corpo nudo; due anziani la spiano da dietro una siepe, mentre lei si rimira alla specchio con aria innocente.
Siamo nel 1555 circa e Tintoretto sceglie il nudo per rappresentare la storia di Susanna dell’Antico Testamento, una bella innocente che rifiuta due vecchi intenti a concupirla e a minacciarla di adulterio qualora lei non si fosse concessa a loro. Dopo il rifiuto della giovane, i due vecchi la portano davanti al Tribunale che la condanna ingiustamente, quando l’onesto Daniele si fa avanti contro i due falsi giudici e, interrogandoli, svela le loro menzogne davanti al popolo che scagionerà Susanna.

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Susanna e i vecchioni – Tintoretto 1555/1557


Zigzagando per il Kunsthistorisches Museum ci si imbatte in una luce divina, diffusa dal grande quadro di Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura” databile 1666, entrato in possesso di Adolf Hitler nel 1938 e passato al museo viennese nel 1946.
Per gli esperti questo è il “testamento artistico” di Vermeer, di dimensioni importanti (120×100), il quadro non è mai uscito dall’atelier dell’artista prima della sua morte.
Come una sorta di teatro, la scena si apre attraverso una tenda che ci mostra un ambiente domestico in cui un pittore è intento a dipingere una giovane donna; potrebbe essere Vermeer stesso che si raffigura con un bastone poggia-gomito che ha un pezzo di stoffa alle estremità per non rovinare la tela; la luce arriva sempre da sinistra rispetto all’osservatore, la profondità è data dalla pavimentazione a scacchi e dalle travi del soffitto. Seguendo l’onda della “teatralità”, Vermeer posiziona una maschera di gesso sul tavolo, elemento simbolico che ci lascia una domanda in sospeso: “cosa è realtà e cosa finzione?“.

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Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura” 1666


Per avvicinarci alla vita imperiale, non possiamo non visitare la stanza delle infanti di Velazquez.

Il ritratto dell’infanta Margarita Teresa in abito blu è forse il migliore della serie, ed è uno dei molteplici ritratti richiesti all’artista, che mostrasse il lento divenire dell’infanta, sottolineandone i cambiamenti, le trasformazioni, i guizzi dell’espressione, i cambi delle mode, la postura, opere che servivano allo zio Leopoldo I d’Asburgo, a cui era stata promessa in sposa.

E’ la seconda metà del XVII secolo e la moda in Spagna prevede ancora l’uso di gonne esageratamente ampie; l’abito è protagonista nel suo blu di seta cangiante, dalle profilature dorate e dal grande fiocco appuntato dalla preziosa spilla al centro del bustier. Le maniche sono voluminose e si stringono sul polso finendo in romantici ed impalpabili voile; la piccola Margarita Teresa porta un guanto sulla mano destra, mentre la sinistra, spoglia, tiene un manicotto di pelliccia, da sempre simbolo di prestigio e di potere.



Leopold Museum

Patria dell’erotismo, Vienna non poteva non ospitare la più grande raccolta del più grande conoscitore dell’erotismo in pittura: Egon Schiele al Leopold Museum che con Gustav Klimt rappresenta il più alto esempio di pittura moderna in Austria, nel dettaglio quel movimento artistico chiamato “Secessione”. Un’ampia sezione è poi dedicata alle opere grafiche ed oggetti del XIX e XX secolo, tra cui il prezioso artigianato artistico di Koloman Moser, designer e decoratore austriaco; Adolf Loos, famoso architetto considerato il pioniere dell’architettura moderna, autore del mitico “Loos American Bar“, una vera chicca art deco’ di 27 metri quadri di legno, vetro, ottone, onice, eleganza, buon gusto, specchi, ottimi cocktail, barman italiani, e una clientela chic e raffinata.



A spiazzarci la prima opera nel percorso al Leopold Museum, il Nudo Maschile, autoritratto di Schiele del 1910, un corpo scavato e spigoloso, contorto su se stesso in una posa innaturale, dai colori verdi e gialli e marroni, tonalità caratteristiche della malattia, dell’ansia, dell’irrequietezza, della pena, cromìe usate anche in ambito cinematografico per rappresentare la follia, la pazzia, pensiamo a Nicolas Winding Refn e alla policromia ossessiva delle sue pellicole, dai verdi intensi come il verde imperatore e il verde mirto. Un’immagine di forza e decadenza, una figura che sembra quasi scolpita nel legno, un uomo senza piedi che galleggia in uno spazio bianco surreale.

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Nudo Maschile, autoritratto di Schiele 1910


Pulsioni e angosce, sessualità e morte, sono i temi frequenti del suo mondo artistico, Schiele si butta sul corpo con voracità e una verità sfacciata, riduce l’anatomia a corpi mutilati, disegni non finiti, donne amputate; negli autoritratti la gestualità è nervosa ed è evidente l’influenza della psicoanalisi freudiana, disegna con profonda introspezione.



Soggetti straziati e sofferenti, stretti in intensi abbracci, come di un abbraccio che indica un addio, Schiele rappresenta quasi profeticamente il suo destino: morirà per influenza spagnola solo tre giorni dopo la morte della moglie.

E’ una produzione intensa seppure breve, trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquerelli e disegni, fatti di corpi di una nudità carnale, brutale, dai tratti nervosi e dalle mani nodose, contorte come in una smorfia.



Spregiudicate e a tratti oscene, le pose delle modelle di Schiele sono simulazioni erotiche, masturbazioni, che provocò al pittore non pochi fastidi in vita, come la condanna e l’arresto per diffusione di immagini immorali, oltre all’accusa di molestie su una minorenne, che poi cadde. Era la sua “pornografia” artistica ad essere condannata.

Il turbamento profondo di Egon Schiele si riversa sulle sue tele, che sono come un diario dove confessa la sua arresa alla vita, in un pessimismo sentimentale e malinconico; intenso il ritratto di donna del 1912, lacrimosa e sofferente per il distacco con il pittore stesso, di cui percepiamo la presenza dietro di lei, vedendone appena il volto ed una rosa rossa.

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I MIGLIORI MUSEI DI VIENNA PARTE 1 DI 2

(foto Miriam De Nicolo’)

Un’oasi di condivisione green e intelligente, il Ruby Marie Hotel a Vienna

E’ un’oasi di eleganza, pulizia, ordine e condivisione; mi sembrava così lontana l’idea di una città in cui ciascuno facesse il proprio dovere e senza sforzi, nel rispetto di se stessi e degli altri che trovarmici, camminando senza l’obbligo di guardare a terra per il rischio di pestare qualche escremento di cane, o per il solo piacere di vedere che non esistono mozziconi di sigaretta a terra ma grandi cesti e posaceneri ogni due o tre negozi, mi fa venir voglia di preparare le valigie e trasferirmici.

La città magica è Vienna, i palazzi barocchi che sembra di essere a Parigi, bianchi e candidi e dalle finestre adornate di elementi neoclassici; ogni struttura ha la sua dignità decorativa, altezzosa, a tratti esuberante quando si fa curva nei dettagli e gli elementi si mescolano per confonderti, il loro modo di tenerti distante, ed esaltare la loro bellezza.

Vienna parla, anche se i suoi abitanti sono riservati, Vienna che regala la patisserie più godurosia del mondo, patria della Sacher Torte , la torta regina del cioccolato di cui la ricetta originale rimane un mistero, un ripieno ricco e una glassa lucida e croccante. Il Cafè Central e Demel si contendono il titolo di pasticceria più raffinata nell’ambiente più ricco ed incantevole della storia. Impossibile non indugiare davanti alle vetrine, dove centinaia di dolci ammiccano nei loro coloratissimi completini, qualcuno più erotico, come le torte farcite di panna, altri più magnetici per il loro fascino intellettuale, come la “sinfonia di Mozart, un dolce sferico ripieno di crema al pistacchio, ricoperto di polvere dorata e impreziosito da una delicatissima e fragile nota musicale al cioccolato. Ditemi come potreste resistere a tanta classe.

 

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Caffè Central Vienna

 

L’intera storia intellettuale è passata per Vienna, personaggi come Sigmund Freud, Alfred Adler, Adolf Loos, Leopold Perutz, Hugo von Hofmannsthal, e tra gli altri anche Hitler e Lenin. Assidui frequentatori del Cafè Central, si riunivano in questo storico Palazzo della Borsa di Vienna e della Banca Nazionale Austriaca, chiacchierando sulle note di un pianoforte a coda.

Per i viennesi ancora oggi l’usanza del ritrovo nei cafè assume una grande importanza nella loro vita quotidiana. E’ un luogo accogliente di ritrovo e di scambio culturale, come avveniva esattamente all’inizio del ‘900, tra Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, Oskar Kokoschka, Otto Wagner, Max Fabiani, Joseph Maria Olbrich Josef Hoffmann, Johann Strauss e molti altri. Un gruppo di intellettuali come quello letterario e artistico di Parigi: Rousseau, Verlaine, Sartre, Cocteau, Picasso, Hemingway, Satie, Dalì, Bunuel, Modigliani, Braque, Gide, Mirò … se penso a queste figure e al loro genio piango di commozione e immagino di rinascere in un’altra vita, seduta accanto a loro, ad ascoltare i loro pensieri, vederli nascere, crescere e trasformarsi, perché contaminati dalle idee di qualcun altro accanto a loro, mentre sorseggiano assenzio e girovagano tra le loro scintillanti elucubrazioni mentali.

 

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Vienna riflette lo splendore del suo passato, e quale città intelligente dimostra di essere attenta all’ambiente, con servizi di bike sharing e monopattini a flusso libero, ovvero senza stazioni fisse per il prelievo e la restituzione; nelle metropolitane non ci sono tornelli, ogni cittadino è tenuto a rispondere alla propria integrità morale acquistando il ticket anziché sperare nell’assenza di un controllo; molti hotel sposano una filosofia Green, come il Ruby Marie Hotel, posizionato all’ingresso della famosa via dello shopping, la Mariahilfer Strasse.

 

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Ruby Marie Bar

Il Ruby Marie Hotel è stato più volte rinnovato ed ora può essere definito come un “Green Building”, con le massime esigenze di sostenibilità ed efficienza energetica secondo il sistema di certificazione riconosciuto a livello internazionale “LEED” (Leadership in Energy and Environmental Design). Una filosofia che l’amministratore delegato e fondatore Michael Struck chiama “Lean Luxury”, una chicca nel cuore della città, con spazi multifunzionali, punti ritrovo come il grande rooftop con serate a tema e musica, servizi luxury a prezzi accessibili. Com’è possibile tutto questo? Riducendo il numero di addetti ad esempio quando non servono, come nel caso della reception self service, in cui fare il check in attraverso un computer accessibile nella hall dell’hotel ed elimando il check-out.

 

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Ruby Marie Bar Cafè

A disposizione degli ospiti, Ruby Marie Hotel offre una sala yoga e una lounge cinema, Nicolae Ceaușescu ne sarebbe invidioso; ogni camera è arredata con legni di ottima qualità, letti maxi e cuscini in cui poter ritrovare le frasi della nostre canzoni preferite. La musica è l’elemento che fa da fil rouge in tutto l’albergo, dove poter ascoltare la RUBY radio, utilizzare gratuitamente le chitarre e i bassi messi a disposizione di tutti e collegarli ai sistemi audio Marshall presenti in ogni stanza. Gli ospiti possono usufruire gratuitamente delle bike in stile olandese e visitare la città con i tablet offerti in cui seguire i consigli dei migliori ristoranti, caffè e musei. Se tutto questo sembra assurdo, da Ruby Hotel è reale e la clientela variegata, si trovano coppie di tutte le età, gruppi di lavoro, giovani turisti in vacanza.

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Ruby Marie Movie Lounge

 

La struttura inoltre è davvero accogliente e ricca di particolari di design e pezzi vintage, come il banco di una vecchia merceria, oggi divisorio nella sala breakfast, in cui troviamo antichi rocchi di fili, vecchi bottoni e portaspilli, bobine di legno, riviste di modellistica, pesanti forbici in acciaio, modelli per scarpe da uomo, e al posto dei tavoli eleganti carrelli porta liquori, accanto a comode poltrone in pelle color cuoio. Nelle librerie gli oggetti più disparati, trovati nei mercatini o recuperati a casa della nonna: bilance, telefoni retrò, coloratissime scatole di latta che un tempo contenevano biscotti, pattini a rotelle, cappellini in paglia, macchine da cucire, manichini, macchine da scrivere Continental, registratori di cassa, e sulle pareti antiche e affascinanti locandine, come deliziose sono le ciotole di latta in cui ci si serve per uno yogurt magro e frutta fresca.

La library è un’altra zona di condivisione, in cui poter sfogliare numerosi libri di fotografia e travel, design e moda; anche il viaggio in ascensore è speciale, perché con una scritta ci riporta alla struggente canzone di James Blunt:

Goodbye my lover,
Goodbye my friend,
You have been the one“.

Forse il Paradiso ha queste sembianze, un luogo di unione, condivisione, di rispetto per l’ambiente, di musica, di grande maturità. Grazie Ruby Marie Hotel per questo grandioso esempio, grazie!

 

Ruby Marie Hotel Vienna
Kaiserstraße 2-4 / Mariahilfer Straße 120
1070 Wien

I migliori Musei di Vienna

I MIGLIORI MUSEI DI VIENNA – PARTE 1 DI 2

Kaiserappartements – Hofburg


Appartamenti Imperiali – Museo di Sissi

Punto vitale da cui tutto trae origine, la Hofburg, residenza imperiale d’inverno dove la Principessa Sissi, creatura solitaria imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, scriveva i suoi diari segreti volteggiando tra le duemilaseicento stanze, dedalo di corridoi e scaloni, foreste di stucchi e decorazioni, oggi diventa museo.


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Aperte al pubblico, le stanze private di Francesco Giuseppe, più semplici e pratiche rispetto alle lussureggianti di Elisabetta che includono la stanza da bagno con la vasca in cui si immergeva una volta al giorno, e la palestra simbolo di una perfezione ossessiva per il corpo, che la vedeva seguire strambe diete scrupolosamente, come il regime a base di sola carne, per poi passare a bere solo dei grandi bicchieri di sangue di bue, che rifiuterà per una dieta a base di uova e frutta, finendo col nutrirsi di soli latticini; sarà vegana per capriccio e frugale fino all’astinenza.


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Sissi cercherà di allontanare la sua natura malinconica con l’iperattività fisica, estenuandosi ogni mattina con esercizi fisici e attrezzi ginnici, mai contenta di sé arriverà ad un girovita di 50 cm, stretta in corsetti che esposti al museo sembrano destinati più ad una bambola che ad una dama.


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Ritratti e fotografie, la fotografia, altra forma d’arte a cui l’imperatrice si era appassionata per narcisismo, numerose le lettere scritte di suo pugno, intingendo il pennino in inchiostro viola, l’unico che utilizzava, all’interno di un calamaio d’oro.


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Perle del museo, i preziosi accessori da bagno che portava con sé durante i suoi viaggi, pettini per l’ossessione che aveva per i lunghi capelli, la farmacia da viaggio con i portapasticche in argento, oltre a guanti, abiti, ventagli e ombrellini che frapponeva fra sé e gli altri, per nascondere lo sguardo. Da far girare la testa a Csaba, esperta di galateo, la tavola imbandita come all’epoca di Francesco Giuseppe, pranzi i cui invitati erano militari, aristocratici, uomini d’affari e politici, che avevano il permesso di sedersi solo quando l’imperatore avrebbe preso posto; un lacchè ogni due commensali, ciascuno dei quali aveva una bottiglia personale di acqua e di vino, posateria d’argento rovesciata e cinque bicchieri di cristallo.


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Spettacolare la ricostruzione dell’abito che Elisabetta indossava quando fu incoronata regina d’Ungheria, i gioielli da lutto e il mantello nero con cui l’imperatrice fu coperta dopo l’attentato.

Oltre 300 oggetti personali, puerilità estetiche di una natura malinconica che cerca di stordirsi dopo una vita di fatti accidentati, come la morte del primo amore, della prima figlia e i numerosi tradimenti del marito. Una condotta nichilista cui la più grande insolenza era la sua bellezza, fatta di una tristezza che aveva qualcosa di voluttuoso, di fatale, come l’apparizione della morte che ha conferito alla favola, un sapore amaro ma leggendario.

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Castello  Belvedere


Sorvegliato dalle maestose sfingi che circondano il giardino alla francese, queste creature mitologiche dal corpo di leone, la testa di donna e un florido seno, dall’espressione interrogatoria e severa che incute rispetto e una sorta di timore, oggi attorniate da rumorosi bambini ignari della storia che stanno toccando senza attenzione, si apre la vista al Castello del Belvedere, il più bel complesso barocco d’Austria.


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Un tempo residenza estiva del Principe Eugenio di Savoia, il complesso è formato da due palazzi, Il Belvedere Superiore dove poter contemplare la più grande collezione al mondo di dipinti di Gustav Klimt, ventotto in tutto, e vari capolavori di Schiele, Manet, Renoir, Monet, Cezanne, Pisarro etc; e il Belvedere Inferiore con le stanze più rappresentative del barocco, la Galleria di Marmo, il Salone degli Specchi, la Sala dei Grotteschi.


L’Orangery, vicino al Belvedere Inferiore utilizzato in passato come serra, oggi ospita le esposizioni temporali del Museo Belvedere.


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L’elegante signora in nero dipinta da Klimt nel 1893 ci accoglie con un guanto sì e uno lasciato chissà dove, a scoprire i brillanti gioielli che indossa su polso e dita, così perfettamente rappresentati dal pittore, lucenti e scintillanti come oro colpito dalla luce diretta del sole.


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Sfidante, invece, la diabolica Giuditta, dipinto del 1901 che sente l’influenza del viaggio in Italia dove Klimt aveva visionato dei mosaici bizantini dell’ultima capitale dell’Impero romano d’Occidente. Quindi oro, tanto oro che rende regale e inavvicinabile la figura della femme fatale, quella che seduce, ammalia e uccide. Giuditta mostra il seno con orgoglio e provocazione, tenendo con le sottili dita la testa di Oloferne visibile solo per metà; è una figura che invade, ingloba, mangia, e divora tutto quello che le sta intorno, così come si prende tutto lo spazio del quadro; è la donna destinata a portare sofferenza dopo aver regalato, la donna che si fa giustizia da sola, quell’essere misterioso, dominatore e magnetico.


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Dal formato perfettamente quadrato (180×180), il famoso “Bacio” (1907/08) che si fatica a vedere da vicino per la stessa furia di gente che si trova nella stanza della Gioconda.
Gli opposti che si attraggono fatti ad arte, un uomo e una donna, diversi per natura, lui indossa una veste fatta di elementi spigolosi e geometrici, dalle mani nodose come quelle degli schizzi di Schiele, la foia di prendere e avvolgere il viso di lei tra le mani, i colori scuri dell’abito e dei capelli – e l’opposto candido e diafano della pelle della donna, la chioma fulva, l’espressione di abbandono, la bocca ancora chiusa ma il corpo già vicino, caldo come l’oro che li fascia, piccoli fiorellini tra i capelli, i colori delicati del vestito, dalle forme circolari e morbide, spiraliformi. Questo capolavoro klimtiano ci racconta il momento di empatia amorosa tra l’uomo e la donna, stretti in un forte abbraccio, perché è più di un abbraccio che si parla, il bacio non è ricambiato ancora, non lo vediamo, ma percepiamo il “sì” della fanciulla che tocca la mano dell’uomo e che, con le palpebre ancora serrate, gli sta destinando la sua fiducia e il suo abbandono.


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Se vogliamo scoprire come viene visto l’italiano all’estero, non servono i film hollywoodiani, basta sbirciare nel passato, nel 1829 quando Carl Blechen, pittore tedesco, dipingeva “Pomeriggio a Capri“: un baldanzoso giovane dai piedi scalzi e con il berretto alla Pulcinella, corteggia una donna di fronte al mare, sarà un amore estivo e passeggero? Ah, non manca nemmeno il mandolino!


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Tutte le stazioni del mondo ci raccontano scene sempre interessanti, ma sono quasi sicura che quella ritratta da Karl Karger nel 1875 ha dell’affascinante. E’ la stazione di Vienna, nel periodo in cui la moda esige per le donne che i volumi si spostino nel retro dei vestiti, gli strascichi abbondano e sono ricchi e pomposi, il cappello è sempre meno elaborato, ma rimane indispensabile per le uscite fuori casa. E’ una scena di “arrivi”, qualcuno si dirige verso l’uscita mentre un venditore lo ferma per proporre della merce, una coppia si bacia appassionatamente dopo un lungo distacco, i macchinisti del treno controllano la sua meccanica, un elegante signore con cilindro e bastone e con signora a braccetto, è ancora in attesa del suo ospite. E’ una fotografia che ci parla di moda, di storia, di costumi e di arte.


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(foto Miriam De Nicolo’)

L’hotel più lussuoso dei laghi, Villa e Palazzo Aminta – un angolo di Paradiso

Quanti artisti sono alla ricerca di un posto che li ispiri? Pensiamo ai giardini di Giverny di Claude Monet, ai campi di grano di Van Gogh o  alle case di piacere di Henri de Toulouse Lautrec; ciascuno di loro ha scelto un luogo che li rappresentasse o che potesse rappresentare al meglio la loro arte.

Tra i luoghi meta di viaggio, punto di creatività e alcova per i più passionali, spicca Villa e Palazzo Aminta, gioiello che si affaccia sul Lago Maggiore.

Si dice che Hemingway scegliesse la suite dell’ultimo piano di Villa e Palazzo Aminta, in cerca di silenzio e per godere della vista delle calme acque del lago.

Liz Taylor e Richard Burton, la coppia più chiacchierata dei ’60, scelsero Villa e Palazzo Aminta per la loro fuga d’amore, tra le tante, tra litigi e rappacificazioni, tra scenate e costosissimi gioielli.

Una dimora storica che domina il Golfo Borromeo, situato nel borgo millenario di Stresa, che l’ammiraglio della regia Marina Militare Italiana Francesco Capece, fece chiamare come la sua amata moglie: Aminta.

La struttura è un hotel a 5 stelle lusso, curato in ogni minimo dettaglio, impreziosito da arabeschi e volute in stile orientale, mobili antichi, lampadari in murano, porcellane, tappezzerie di pregio. L’atmosfera che si respira è raffinata, elegante, di grande gusto e sensibilità per l’arte; tutta la villa è circondata da un grande giardino fiorito e dispone di un parco privato che si affaccia sul Lago Maggiore.

L’attenzione all’innovazione è un altro fiore all’occhiello dell’eccellenza di Villa e Palazzo Aminta; da poco sono stati svolti dei lavori di ristrutturazione di alcune suite, che dispongono delle più moderne tecnologie e di un arredamento contemporaneo e ricercato.

Motivo d’orgoglio di questa scelta, la Suite Borromea (n.900), sita al quinto ed ultimo piano dell’ala Palazzo; la suite dispone di piscina jacuzzi nel grande terrazzo che si affaccia sulle isole, attrezzato di tavolo e sedie in ferro battuto, un’ampia zona giorno con vista prevede un arredamento ricercato sui toni del silver e del rosso, con ampie poltrone in velluto e tende ricamate.
La piscina jacuzzi situata nel terrazzo è coperta e gode di ottima privacy. Uno scrittoio in stile antico è dedicato ai più solitari che, ammirando la splendida vista della camera, si concedono ancora del tempo per scrivere lettere.

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Qui vi alloggiò un tempo la bellissima attrice, stiamo parlando della Liz Taylor Suite, due disponibili situate nell’ala Palazzo, una al terzo e l’altra al quarto piano. Le suites dispongono di un’ampia vista lago e superano i 120 mq. Un luogo magico che rievoca atmosfere passate.

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Facente parte dell’esclusiva ristrutturazione, la Suite dei Fiori sita al quarto piano della Villa: è disposta su due livelli, collegati da una scala interna. Lo spazio living si trova nella parte superiore della camera, la zona notte gode della vista lago. Un piccolo gioiello sui toni del lavanda e sulle sfumature del viola, un luogo dove ricercare relax immerso in un ambiente ricco di storia.

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Ed infine, altra figlia della rimodernizzazione delle più belle camere di Villa e Palazzo Aminta, per i più esigenti, Suite Belvdere, sui toni dell’azzurro e del blu cobalto, con dettagli gold e veneziani. L’ambiente è luminoso e dispone di tutti i servizi di comfort.

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Ma il Resort ha pensato anche di regalare uno spazio per gli amanti del buon vino e per degustare i migliori prodotti della zona, tra salumi e formaggi: la Winery. Un ambiente elegante in uno spazio nuovo dell’hotel, ove possibile prenotare per una cena esclusiva, un angolo dedicato al food e alle tradizioni locali, un’ala relax dove poter conversare in tutta tranquillità.

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Dalla “Belle Epoque” ad oggi, Villa e Palazzo Aminta rimane la struttura più ambita e lussuosa dei laghi, un angolo di paradiso sotto la direzione della famiglia Zanetta.

Per un soggiorno di vacanza, la Villa dispone inoltre di Area Fitness, Area Benessere con trattamenti personalizzabili e due ristoranti con menu differenti.

Scopri qui altri dettagli delle Suites di Villa e Palazzo Aminta:



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Villa e Palazzo Aminta, Stresa

(foto @Miriam De Nicolo’)

Malcolm & Marie, un litigio in bianco e nero


Malcom & Marie

Una coppia rientra in casa (la Caterpillar House in California all’interno di una riserva naturale, su un unico piano e pareti vetrate), dopo la première del film di cui lui è regista. Lei, Zendaya, in un meraviglioso abito lungo con spacco profondo in seta lamè cut-out con corpetto intrecciato sul seno, unico capo ad essere indossato per metà film (oggi anche in vendita in pre-ordine sul sito di Aliétte per 1200 dollari) è la prima a varcare la soglia di casa. Il nervosismo è nell’aria, mentre cucina in men che non si dica dei maccheroni al burro e formaggio, mentre lui euforico per il successo della serata e per qualche bicchiere ( di whisky?) vorrebbe solo festeggiare.


106 saranno esattamente i minuti dell’intero litigio (se questa è la durata minima di una discussione di coppia, mi chiedo perchè la vendita di pantoprazolo non sia aumentata) in cui dopo numerose insistenze del protagonista (il sexy ex giocatore di football americano John David Washington, ma d’altronde è figlio di Denzel) si scopre che Marie ce l’ha a morte con Malcolm perchè non l’ha citata tra i ringraziamenti; lei che è stata la musa ispiratrice della storia, ex tossicodipendente che ha abbandonato il sogno di diventare attrice per uscire dal dramma della droga.


E’ una battaglia in bianco e nero (certamente rende la fotografia più elegante e lascia che ci si concentri sui dialoghi) dove colpisce più profondamente chi affonda cattiverie, chi recrimina, chi offende, chi gioca sulla gelosia, chi umilia.
Lui, chiuso nell’orgoglio, lei in un malcelato masochismo, sembrano riappacificarsi a intermittenza con baci molto lontani da quella che potrebbe essere definita come “passione”.

Malcolm & Marie



Marie, catturata l’attenzione appena entrata nella stanza che sarà teatro di tutto il film (di intento godardiano basato sull’autenticità della coppia – autenticità parola ridondante nei dialoghi), si imbruttisce a mano a mano che va avanti la discussione (ha qualche attinenza con la relazione di coppia? Con il modo che lui ha di vederla?); dopo un bagno che avrebbe dovuto essere purificante, che avrebbe dovuto sciogliere le tensioni, Marie struccata, abbandonati i tacchi, l’abito da grande soirée e le lunghe ciglia artificiali, si scopre in tutte le sue debolezze: la gelosia nei confronti dell’attrice che il compagno ha scelto per il suo film, le scene di nudo che Malcolm ha voluto inserire, la delusione per non essere stata ringraziata davanti al pubblico; Marie piange e attacca, si dispera e affonda un’altra coltellata. Ma quella a soffrire di più è lei, questo lo si intuisce, dall’atteggiamento di Malcolm irritato quando lei incalza dopo un bacio, mentre lui vorrebbe solo divertirsi e godersi la serata (quante scene similari ha vissuto ciascuno di noi?!)

Zendaya in “Malcolm & Marie.”


Sam Levinson, regista di “Malcolm & Marie“, verso la fine si trastulla con altisonanti citazioni cinematografiche, vomita critiche agli addetti al settore che non capiscono a volte un film può essere semplice e solo esercizio di stile anziché cavilloso lavoro concettuale, ma questo non ci scandalizza, lo fanno in tanti. Piuttosto, riuscire a rendere un ping pong teatrale efficace, è assai arduo quando gli attori non sono poi così esperti; Zendaya non sempre risulta credibile, manca di pathos, peccato perchè a mantenere alto almeno il fuoco di alcune scene (come quelle delle presunte riappacificazioni) avrebbe reso l’insieme più magnetico, per lo meno per giocarsi al meglio la sua bellezza.
John David Washington è più interessante da muto a petto nudo, perchè forzato nelle battute in cui dichiara il suo amore, con ironia, con quel ritmo black della camminata e dei gesti.
La storia è interessante e ci obbliga all’immedesimazione, è un litigio come miliardi di altri litigi che avvengono ora nel mondo, lui che non capisce il malumore di lei, lei che nega fino all’esaurimento e che esplode quando ormai è troppo tardi.


Il picco di interesse sale quando finalmente Marie confessa la sua vera pena: è offesa perchè non è stata scelta come attrice protagonista dal suo compagno, che ha preferito una donna dalla corporatura diversa dalla sua, più femminile a suo dire, “lo so che genere di donna ti piace”. Ha perso in questo modo la possibilità di raccontare la “sua” storia, di dimostrare a se stessa e agli altri che anche lei può farcela, lei che ha tentato il suicidio, e che ora invece ha un motivo in più per farsi del male.
E’ in canottiera bianca e mutandine, capelli bagnati (ricorda molto la scena con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut) che si dirige a letto quando Levinson si tira la zappa sui piedi con un “Grazie” recitato da Malcolm. E ai registi dobbiamo ricordare che l’inizio e la fine sono le scene più importanti, come le prime e le ultime frasi di un libro, e che banalizzarle può rovinare un intero lavoro.

“Don’t look up” siete voi



Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta.
In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.

Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta.
Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.



Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.

L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo.
La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.


I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).

Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).

Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)

E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.


Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).



Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.

E’ stata la mano di Dio

La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?

E’ questa la chiave del film di Paolo SorrentinoE’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.

Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare.

“Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?”
“Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”

Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.

la scena del film nel dialogo con Capuano



In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.

Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.

E’ stata la mano di Dio



Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.

una scena del film

La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.

Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case.
Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele

Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
Che saglie chianu chianu
E tu sai ca’ nun si sulo

78mo Festival del Cinema di Venezia – guerra e violenza nei film di denuncia

Reflection 

L’idea del film nasce da un fatto accaduto nella vita personale del regista, Valentyn Vasyanovych, che assiste assieme alla figlia allo schianto di un uccello sulla finestra di casa, una metafora, il passaggio dalla vita alla morte. 

Siamo nel 2014 nell’Ucraina orientale durante le prime fasi del conflitto Russia-Ucraina e assistiamo ad atroci torture, violenze e crimini realmente accaduti e documentati, le brutalità commesse dalle truppe filorusse sui prigionieri di guerra: strangolamenti, scariche elettriche, sevizie, torture medievali, trapani che lacerano carni ed ossa. 

Il protagonista, un medico catturato dalle forze militari russe, assiste e subisce le spaventose umiliazioni cui lo spettatore non riesce a sostenere, spesso lasciando la sala del Festival. Volutamente cruento nella prima fase, volutamente silenzioso nella seconda, nel momento in cui il protagonista riesce a sopravvivere alla guerra e cerca appunto nel silenzio di ricostruire i rapporti con la ex moglie e con la figlia, Reflection lancia in immagini/metafore le grandi riflessioni sulla vita. L’importanza dei rapporti umani, il valore degli affetti, il significato della vita. 

Non lasciare tracce – (Leave no trace)

Ricorda il caso di Stefano Cucchi, il giovane morto dopo un pestaggio sotto custodia cautelare sette giorni dopo l’accaduto, questa pellicola di Jan P. Matuszyński
E’ la storia vera di Grzegorz Przemyk (Mateusz Górski), figlio della poetessa e attivista Barbara Sadowska (Sandra Korzeniak), ucciso a calci nello stomaco dalla polizia comunista, la Milicja Obywatelska (era il 14 maggio del 1983).
Il giovane studente festeggia nella piazza del Castello di Varsavia la maturità, fermato dalla polizia rifiuta di esibire i documenti di identità e viene così portato in centrale, dove in pochi minuti avviene il pestaggio davanti agli occhi dell’amico, il protagonista del film che lotterà fino alla fine per ottenere giustizia. 
La verità verrà sotterrata con ogni mezzo dalle autorità ministeriali, con depistaggi che porteranno le accuse a infermieri innocenti, in un crescendo di rabbia e frustrazione e ingiustizia che incolla allo schermo lo spettatore in attesa della sentenza finale. 
Qui il male trionfa, la contraffazione dei fatti è così capillare che la stanchezza prende il sopravvento, anche sulla madre raggomitolata nel dolore e arresa; solo l’amico fidato dirà la verità in tribunale, fino all’ultimo spiraglio di speranza, ma il potere dei miliziani è troppo radicato e la violenza dello Stato mortalmente pericolosa. 
Noi possiamo solo parlarne e urlare la verità affinché il ricordo possa pulire tanto degrado. 

Vera sogna il mare 
di Kaltrina Krasniqi

Lei è un’interprete del linguaggio dei segni, lui, il marito, un giudice in pensione. La morte del marito, suicidatosi senza lasciare lettere di addio, apre infinite porte dove dietro si celano la dipendenza al gioco, le eredità sperperate, le proprietà che la malavita torna a riprendersi. 
Minacce, pedinamenti costanti, il rischio che la figlia venga uccisa, obbligano Vera a cedere alle ingiuste richieste. 
La storia svela una donna forte, che lotta per non cedere alla prepotenza ostile, corrotta, maschilista della società in Kosovo ai giorno nostri. 
Un film di denuncia e di orgoglio, di dignità e di arrendevolezza come unica soluzione per la sopravvivenza, dove le difficoltà vengono rappresentate sullo schermo attraverso la forza del mare, che si fanno sempre più soffocanti e violente quando Vera rischia di “annegare”. 

78 Festival del Cinema di Venezia – i film da non perdere

Freaks out 

Mirabolante! “Freaks out” di Gabriele Mainetti è una storia delicatissima di “diversi che senza circo sono solo dei mostri”, come afferma uno dei fantastici 4 personaggi dotati di superpoteri. C’è tanto della poesia de “La forma dell’acqua” nella rappresentazione dell’amore e della tenerezza verso il mostro, tanto dei personaggi strambi amati da Diane Arbus, la fotografa morta suicida la cui storia é stata interpretata da una Nicole Kidman che si innamora dell’uomo lupo. 2 anni di post-produzione per una pellicola che tiene incollati allo schermo, azione, storia, ironia, colpi di scena, fotografia ed effetti speciali. Anche qui il Festival del Cinema avvicina al crudele tema della guerra, durante il periodo fascista, e il cinema è il mezzo forse più veloce e potente per aprire cuori e menti.

Qui rido io 

Qui Rido io di Mario Martone è la storia vera di Eduardo Scarpetta, il più grande commediografo e attore comico del ‘900 italiano. Un uomo generoso con il pubblico e severo con la famiglia, a tratti egoista, un dongiovanni che coabitava con mogli ed amanti e rispettivi figli, quelli riconosciuti e quelli che lo chiamavano “zio”, Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo, che presero poi il cognome della madre. 
Per Scarpetta teatro e vita vera si mescolavano, la sua esistenza sfarzosa in palazzi imperiali lo portavano ad un atteggiamento imperioso che obbligava la sua cerchia ad una sudditanza “naturale”. Fino a quando l’episodio dannunziano, la messa in scena della parodia della “Figlia di Iorio”, l’opera di Gabriele D’Annunzio, lo vede accusato di plagio; sarà Benedetto Croce l’unico a sostenerlo, testimone di una malinconia che prende il sopravvento, di un mondo che muore e della nascita di un teatro nuovo. 
Toni Servillo ha letteralmente divorato il palcoscenico. 

Ezio Bosso. Le cose che restano 

Per Ezio Bosso, interprete, direttore d’orchestra e compositore, esiste una “Teoria delle 12 stanze in movimento”, l’ultima delle quali tornerà a noi come prima nel momento in cui impareremo a riconoscerci, per poter essere liberi, per sempre. 
Il docufilm di Gabriele Salvatores che in Ezio Bosso vedeva l’artista musicale che lui non è mai stato, è una finestra sul giardino dei mille volti che hanno avuto la fortuna di incontrare un grande comunicatore. Con la sete di sapere e la fame di musica che ha dall’età di quattro anni, Ezio Bosso è riuscito nell’intento di avvicinare “il popolo” alla musica classica, di portare la gente comune nei teatri; un film dalle infinite citazioni e dalla colonna sonora che Bosso ha regalato all’Italia intera, la direzione dei Carmina Burana all’Arena di Verona, le tre ore e mezza di musica e spettacolo nel Teatro Verdi di Busseto, in provincia di Parma, andato poi in onda su Rai3 in cui spiega Beethoven.
Una lunga storia d’amore e di dolore, quello che lo ha fermato e allontanato dalla musica, la malattia degenerativa che aveva da 2011. 
Le sue esibizioni non sempre erano perfette, lo ha dichiarato anche il suo ufficio stampa, ma non è forse l’imperfezione a renderci unici?!

Captain Volkonogov Escaped

Captain Volkonogov Escaped di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov è la storia di una redenzione.
Fedor Volionogov è il capitano del servizio di sicurezza nazionale russo, il suo compito è quello di catturare i “nemici dello Stato”, per lo più vittime innocenti che vengono seviziate e uccise per accuse inesistenti.
Uno spirito notturno, una spiritualità che si era sopita, lo avverte dell’Inferno imminente dandogli la speranza di un Paradiso eterno solo nel caso in cui almeno uno dei famigliari delle vittime da lui uccise, gli avesse concesso il perdono. 
Incontrerà un padre che aveva ripudiato il proprio figlio credendolo un traditor di patria; una moglie impazzita per aver perso il marito per sempre; una figlia che credeva il padre ancora vivo; un bambino che brucia gli oggetti del padre perchè “un traditore non può chiamarsi padre” e una figlia chiusa in soffitta, sull’orlo di morire, sarà lei il limbo per poter accedere all’alto oppure in basso…

Imaculat

Volutamente claustrofobico, volutamente lento, volutamente irritante, volutamente silenzioso, il film sceneggiato da Monica Stan racconta la sua dolorosa e reale storia, le vicende di una tossicodipendente in un centro di riabilitazione tra giochi di potere taciti e non.

Di Monica Stan e George Chiper

Versatile e preziosa la icon bag Paola Bonacina, must have dell’estate

La icon bag Paola Bonacina interpretata dalla talent Matilde Righi

E’ sulle sponde dell’Arno, in un elegante resort 5 stelle, che risalta la icon bag Paola Bonacina indossata da Matilde Righi, talent dal gusto raffinato, parisienne, e dall’allure romantica. 

Nell’Hotel Ville sull’Arno, antica dimora ottocentesca, cenacolo dei Macchiaioli e luogo di intellettuali dell’epoca, Matilde Righi interpreta la Xi Wallet – Turquoise Python, la pochette firmata Paola Bonacina divenuta bag iconica per la sua versatilità

Porta cellulare, maxi portafoglio, comoda pochette, la Xi Wallet si porta a mano o a tracolla grazie alla pratica e sottile catenella a croce in ottone finitura oro chiaro. 

L’influencer Matilde Righi sceglie di abbinarla ad un classico abito stile greco-romano, dello stesso tono turchese della pochette, perfettamente ambientata nella calda ed accogliente atmosfera dell’antica residenza. 

Gli ambienti, i toni, gli arredi, si sposano con la fantasia dell’icon bag Paola Bonacina, iridescente per colore e pregiata nella scelta dei materiali. 

Il brand si contraddistingue da sempre per l’attenzione dei particolari: la chiusura in metallo presenta il logo del marchio, gli interni sono in pelle e ogni prodotto possiede il suo certificato di garanzia e autenticità; Paola Bonacina è totalmente Made in Italye rappresenta a pieno il savoir-faire del nostro amato territorio. 

Eclettica, la icon bag Paola Bonacina è per tutte le donne e tutti gli stili che le rappresentano!
Di giorno con una giacca over e denim, la sera con un long dress, la Xi Wallet in pelle di pitone è il nuovo must have di questa stagione. 

Per necessità o per capriccio, non riuscirete più a farne a meno, rende ogni look più grintoso e regala un tocco di luce e colore grazie alla sua lavorazione iridescente. 

Paola Bonacina, fondatrice e creatrice dell’omonimo brand, è da sempre impegnata in collaborazioni nazionali ed internazionali e per questa stagione si vede protagonista del Super Trofeo Lamborghini Europe come Pink Partners del pilota italo-svizzero Kevin Gilardoni

Con i colori dell’Oregon Team, si è scelta la mini bag O-Clock Grace Paola Bonacina per il round del campionato previsto al Circuit Paul Ricard dal 28 al 30 maggio 2021. 

Tutti gli aggiornamenti delle nuove avventure Paola Bonacina sui suoi profili ufficiali: 
Paola Bonacina Instagram