“Bellezza e tristezza”, il romanzo di Yasunari Kawabata
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Toshio Oki è un cinquantacinquenne sposato, ha due figli e un passato fedifrago con una donna che ancora non riesce a dimenticare. Lei, l’amante, si chiama Otoko Ueno e all’epoca dei fatti aveva sedici anni. Hanno vissuto una storia clandestina che ha il timbro di quelle che durano una vita ma che capitano una volta soltanto. Tendenzialmente a senso unico, come in questo caso, la relazione è quella di un uomo che scappa dalla quotidianità, dalle abitudini, che si aggrappa alla bellezza acerba, fresca e ingenua di un’adolescente; e di una ragazza piena di sogni e di speranze romanzesche, di dedizione tutta femminile, di idealizzazioni dettate dalla poca esperienza; una relazione che mette a rischio qualcuno, e nella maggioranza dei casi la controparte femminile. Otoko infatti rimane incinta ma perde il figlio appena nato; la sua sofferenza di giovane madre e di donna che avrebbe teso un laccio all’uomo che ama, nonostante egli sia sposato e abbia già prole, si contrappone al sollievo di Oki, codardo ed egoista.
Il percorso di Otoko sarà violento e tormentato, la ragazza attraverserà le sbarre di un ospedale psichiatrico, per poi uscirne in completa solitudine, ancora bruciata da quell’amore immaturo ma eterno. L’unica sua compagnia, a parte l’arte che l’ha resa una pittrice di fama, sarà Keiko, una splendida ancella docile e obbidiente, schiava d’amore e di letto; un temperamento che molto spesso nasconde malie penetranti e quasi mai delle buone e sane intenzioni.
Trascorsi molti anni dalla loro separazione, i due amanti hanno perso le tracce l’un dell’altra, quando per la notte di capodanno, Oki ha il desiderio di sentire le campane che segnano la fine dell’anno a Kyoto, città dove ora vive la sua ex amata. I due si incontreranno ad una cena formale in presenza di due geishe e dell’ambigua e gelosa Keiko. Sarà lei a gestire il destino dei personaggi fino alla fine del romanzo.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1968, Yasunari Kawabata riesce a raccontare con una straordinaria perspicacia la follia amorosa, la gelosia cieca di una donna, come se a raccontarla fosse la donna stessa. Come un Truffaut della letteratura, ha la capacità di sfogliare una ad una tutte le personalità dell’essere femmineo, ogni strato e substrato, ogni cosa detta e ogni intenzione non detta. Dalla fedele dolcezza di Otoko alla perfidia sofferente di Keiko, Kawabata disegna un quadro che ha tutti i sapori dell’Oriente. Compresi tanti cliche’ decisamente nipponici, dai morsi fanciulleschi da cui stillano goccioline di sangue alla negazione immobile del corpo femminile, Kawabata ci spruzza dentro tutto il rosso del Giappone, i corpi bianchi e lucenti ed i capelli nero corvino, l’abbandono muliebre forzato e la foia incontrollabile virile.
Keiko sarà la grande protagonista alla fine, sarà lei a cambiare le sorti, sarà lei a vendicare le ingiustizie della donna che ama con incoscienza e con la morbosità di un’orfana, sarà lei a dare lo stesso peso alla vita e alla morte, in una cornice meravigliosamente descritta, dove i pensieri fluiscono tra i giardini di muschio di Saihoji e le rocce astratte, tra i ritratti di Tsune Nakamura e le opere lievi e delicate di Odilon Redon.
Ha ritratto le più grandi star di Hollywood come nessuno le ha mai viste, icone di stile, top model, designer e cantanti, dedicando(si) del tempo per cogliere quelle sfumature della personalità che solo un occhio che ha cuore può fare.
Così lo descrive Marisa Berenson, ex attrice e modella, nipote di Elsa Schiaparelli, che apre il libro “Michel Haddi – Anthology Legends” con una prefazione:
“Ci sono vite che brillano e portano gioia a molti. Michel Haddi è uno di quei destini. Ha iniziato in solitudine con un profondo senso di vuoto, e ha costruito la sua vita con forza, coraggio e dignità realizzando i propri sogni. Tutto ciò che sa lo ha imparato da solo, abbracciando la vita con infinito ottimismo, senso dell’umorismo e avventura. È potente e fragile, duro e romantico, sensibile e forte. Nel corso degli anni è stato insegnante, editore di molti bei libri e riviste di sua creazione, regista e fotografo di fama mondiale. La sua personalità è più grande della vita di tutte le celebrità su cui ha messo gli occhi. Le sue fotografie esplodono di personalità, sensualità, umorismo, bellezza, oscurità e luce, sono multidimensionali, accattivanti. È un uomo d’onore, con un grande cuore, è generoso e gentile e un amico fedele e premuroso. È divertente ed eccentrico, un uomo originale che pensa fuori dagli schemi. La sua infinita curiosità, conoscenza e cultura sono la base della sua grande creatività. Ama le donne e per questo le comprende.“
Abbiamo intervistato Roberto Da Pozzo, art director di questo immenso lavoro, pezzo immancabile nelle librerie degli appassionati di fotografia, edito da Yuri & Laika e disponibile anche su Amazon.
Sean Connery, David Bowie, Denzel Washington, Kate Moss, Gwyneth Paltrow, Keanu Reeves, solo alcuni dei ritratti raccolti in 40 anni di carriera del grande fotografo; cosa significa lavorare all’antologia fotografica di Michel Haddi?
Significa guardare e scegliere milioni di immagini di un grande autore; cercarne un senso estetico ed armonico nell’ abbinare le varie fotografie come doppie pagine, il mio marchio di fabbrica.
Quali sono i compiti di un Art Director nella cura di un libro fotografico?
Oltre all’ardua scelta delle immagini, di grande importanza c’è anche l’impaginazione grafica, la sequenza e la scelta della cover, uno studio che richiede tempo, grande senso estetico, buon gusto, una buona logica e ore ed ore di prove tecniche.
Esiste una sequenza logica nella scelta delle foto di un libro?
Io uso quella emozionale .
E’ stata difficile la scelta delle immagini?
Siamo partiti dal suo intero archivio, il che significa 80% di ritratti di persone famose tra attori, cantanti, registi… Ho cominciato a scegliere una o due foto a soggetto per poi legarle insieme e creare una sequenza, come il montaggio di un film. L’essenza del libro ora è di circa 400 pagine .
Perchè Michel Haddi ti ha scelto per questo lavoro? Quali sono i tuoi punti di forza?
Ci conosciamo dagli anni ’90, da quando facevo l’Art Director di alcune testate del gruppo Vogue; siamo amici, ma soprattutto sa che rispetto il lavoro degli altri, ad esempio non taglio mai le foto degli autori per aiutare una certa impaginazione, non le snaturo, sarebbe irrispettoso. La mia firma sono le doppie pagine, l’accostamento di due immagini che si richiamano tra loro, come una sequenza, come uno zoom, come un’assonanza. E la grafica non è mai invasiva, devono comandare i soggetti in fotografia, non le parole.
Che tipo di rapporto vi lega?
Ci lega un rapporto di stima reciproca e di grande rispetto per le nostre professionalità; siamo più o meno coetanei e con un passato lavorativo simile, gli stessi valori e le stesse referenze culturali. Per dirla in breve abbiamo gli stessi codici di lettura delle cose.
Come descriveresti il lavoro di M.H.?
Michel Haddi è un fotografo che crea delle immagini molto forti e sopratutto rubate. Non sono dei ritratti classici con il soggetto in posa; spesso invece è decentrato, tagliato, va all’essenza dell’individuo e riesce ad istaurare un rapporto speciale con chi sta davanti all’obiettivo. Si relaziona alle star o ad un parcheggiatore nello stesso modo, e ottiene sempre quello che vuole!
Qual è la parte del lavoro più divertente di un Art Director?
Quando arrivano i pensieri, i momenti in cui le idee sono ancora fluttuanti, concettuali, aeree. Poi arriva la parte dell’applicazione, e in questo sono davvero maniacale!
Significato e importanza del lavoro fotografico oggi
Oggi più che mai ha molta importanza un lavoro autorale perchè dall’altra parte siamo subissati di immagini di scarsissima qualità, che arrivano soprattutto dai social network e che sono soprattutto selfie. C’è un abuso della fotografia, uno stupro dell’arte fotografica, si va poco in profondità e siamo bulimici di immagini. Immagini che non raccontano e non danno niente, ma chiedono in cambio tanti like.Previous
Talvolta è il destino stesso a bussare alla nostra porta, sui post-it dei “TO DO” abbiamo una lista intonsa e tutt’a un tratto la scena della nostra vita cambia, chiude il sipario e il panorama è totalmente diverso. E’ successo anche ad Alessandro Oteri, fondatore del brand omonimo che ha fatto della scarpa da donna il suo nuovo “mood of life”.
Alessandro Oteri andava a trovare una cara amica, ma la porta a cui busso’ era quella sbagliata, o forse quella giusta, e ciò che vide non fu un bell’appartamento con dettagli muliebri, tende e pareti rosa, ma un laboratorio di scarpe, un monito forse. Vigevano, era lì che si trovava, la città delle scarpe, la capitale della calzatura, erano gli anni ’90 ed Oteri era un giovane responsabile in un Istituto di Certificazioni CEE per ascensori, oltre ad essere un nuotatore professionista. Dalle pinne alle scarpe, Oteri decise che l’accessorio per eccellenza della donna sarebbe diventato il suo unico dio.
Dopo aver soverchiato il periodo cieco, Oteri si imbarca per un altro mare e inizia a lavorare presso un’agenzia di marketing e comunicazione il cui prodotto è appunto la scarpa. Scopertosi proclive all’oggetto, fonda il brand su cui figge una missione: quella di rendere la décollété la sua unica mena.
Perchè ha scelto l’accessorio scarpa da donna?
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Perchè riassume due anime: quella pratica e quella certa. Cosa intendo? Tutte le donne hanno bisogno di scarpe, molte di loro hanno una grande passione per la calzatura e le cercano belle, e tutte le donne chiedono scarpe comode; difficilmente vengono del tutto accontentate. Il mio compito è quello di creare equilibrio tra questo ménage, con una scarpa esteticamente allettante e che al tempo stesso possa essere indossata tutto il giorno senza conseguenti dolori ai piedi.
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E come ci riesce?
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E’ prammatica per un’eccellente scarpa utilizzare la pelle, una buona pelle cede col tempo e non “taglia” i piedi della donna, cosa che invece potrebbe succedere con una calzatura fatta in tessuto, a causa delle colle che vengono utilizzate per assemblarle.
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E la produzione?
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Parabiago ovviamente, l’eccellenza in fatto di calzature; l’esperienza e la qualità sono imprescindibili per questo mercato, che ha infiniti concorrenti, ma che nel corso del tempo ha cambiato modello di business esportando la produzione per abbassare i costi. Compromessi a cui io non voglio scendere, per nessuna ragione. Tutti gli investimenti sono destinati ai miei fedeli produttori di Parabiago, che mi hanno sempre sostenuto e che non hanno rivali in materia. Alzo la qualità e continuo a produrre in Italia, ma con la scelta di dedicare ogni sforzo su un unico modello: la décollété.
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Perchè la décollété?
Lasciamo a René Caovilla il sandalo gioiello chic, a Manolo Blahnik la parte glamourous e a Louboutin i modelli strong/rock, io prendo il modello a cui la donna non può rinunciare, quello evergreen abbinabile ad ogni tipo di outfit e stile.
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E come lo rende speciale?
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Teniamo presente il grande limite dell’oggetto, e cioè che lo spazio di espressione si concentra sulla punta, è quello il foglio bianco, la tela su cui bisogna disegnare e raccontare il proprio stile. Io sono un curioso, uno sperimentatore, un materico, prendo a raccolta tutti i codici del mestiere, i consigli degli amici stilisti e racconto una donna elegante che sposa la mia idea di semplicità vanesia.
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Qual è la parte più dura del lavoro?
I passaggi. Pochi giorni fa contavo nei miei appunti ben 18 passaggi per raggiungere il risultato finale: bisogna contattare fornitori di tacco, suola, sottotacco, pelli, galvanica, accessorio se lo ha, taglio e cucito per le stoffe, produttori della scatola… E’ una macchina complessa e continua a infiniti perfezionamenti.
E la parte più divertente?
Il contatto con le clienti e la vendita. Discernere e rispondere al desiderio delle donne, chiacchierare allegramente con loro, instaurare un rapporto di fiducia reciproco. Non a caso oggi il mio Atelier è anche la mia casa, un luogo, un salotto dove poter fare “pan conversation”. Si fanno ciacole davanti ad un caffè fumante, un te’ indiano e, se l’ora lo permette, un piatto di pasta all’italiana!
A quali donne si rivolge il brand Oteri?
Alle indomite dei tempi moderni: oggi va bene tutto ed è un tutto che a me non piace, basta aprire i social network per rendersene conto, congerie volgari, venefiche e passeggere. Il mio è un messaggio di eleganza, di semplicità, di praticità e comodità.
L’alcool non mente: durante le nozze di Piritoo e Ippodamia, principi della Tessaglia, il Centauro più forte tra gli invitati perse il controllo infuocato dal vino, avventandosi sulla sposa nel tentativo di rapirla. Teseo, amico degli sposi, intervenne lottando col centauro, strangolandolo e impugnando una clava per fermare la sua pazzia, bloccandolo con il ginocchio al petto, nella parte esatta in cui finisce l’uomo e inizia la bestia.
La forza del gesto e tutta la sua drammaticità, viene periziosamente scolpita da Canova, nella statuta intitolata appunto “Teseo in lotta con il centauro” del 1805, ora custodita all’ingresso del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Un inizio in pompa magna per una delle collezioni d’Arte più importanti del Mondo. Testimonianza della passione degli Asburgo per il collezionismo, il Museo fu fondato da Francesco Giuseppe per ospitare le collezioni imperiali: oggetti provenienti da cinque millenni, dal periodo degli Antichi Egizi fino alla fine del Settecento; la più vasta raccolta di dipinti di Bruegel e i capolavori di Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens, Van Dyck, Van Eyck, Dürer, Vermeer, Rembrandt, Raffaello, Caravaggio, Velázquez…
Highlights:
Torre di Babele – Pieter Bruegel 1563
Dio punisce gli uomini che vogliono ergersi al cielo, perché l’ascesa deve essere spirituale e non carnale. La Torre che il popolo costruisce in altezza, popolata da uomini che parlano la stessa lingua, è la leggendaria costruzione narrata dalla Bibbia nel libro della Genesi. Riuscendo a leggere nei cuori della gente, Dio scopre l’intenzione della costruzione, cioè l’ottenimento di un “gran nome” e non la proliferazione sulla terra come esseri uguali, come suo volere, cosicché Dio, per punire l’umanità come fece con Adamo ed Eva in principio, decide di confondere le lingue in modo da non permettere la comunicazione. Bruegel dipinge la scena nel 1563, una rappresentazione carica di simboli e significati, definita tra le opere più immaginifiche dell’arte; il pittore rappresenta una torre storta, costruita con due tipi di mattoni differenti e basata su leggi architettoniche distanti tra loro: una risulta essere simile a quella del Colosseo di Roma, l’altra basata su tronchi di coni sovrapposti. Un’opera “impossibile” in partenza, che definisce l’imbecillità umana e l’imminente catastrofe. Una spirale che non verrà mai completata, un dipinto maestoso di un pessimismo cosmico.
Susanna e i vecchioni – Tintoretto 1555/1557
Una giovane donna fa il bagno in un giardino scuro, ma una strana luce la colpisce ammorbidendone i tratti ed il corpo nudo; due anziani la spiano da dietro una siepe, mentre lei si rimira alla specchio con aria innocente.
Siamo nel 1555 circa e Tintoretto sceglie il nudo per rappresentare la storia di Susanna dell’Antico Testamento, una bella innocente che rifiuta due vecchi intenti a concupirla e a minacciarla di adulterio qualora lei non si fosse concessa a loro. Dopo il rifiuto della giovane, i due vecchi la portano davanti al Tribunale che la condanna ingiustamente, quando l’onesto Daniele si fa avanti contro i due falsi giudici e, interrogandoli, svela le loro menzogne davanti al popolo che scagionerà Susanna.
Zigzagando per il Kunsthistorisches Museum ci si imbatte in una luce divina, diffusa dal grande quadro di Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura” databile 1666, entrato in possesso di Adolf Hitler nel 1938 e passato al museo viennese nel 1946.
Per gli esperti questo è il “testamento artistico” di Vermeer, di dimensioni importanti (120×100), il quadro non è mai uscito dall’atelier dell’artista prima della sua morte.
Come una sorta di teatro, la scena si apre attraverso una tenda che ci mostra un ambiente domestico in cui un pittore è intento a dipingere una giovane donna; potrebbe essere Vermeer stesso che si raffigura con un bastone poggia-gomito che ha un pezzo di stoffa alle estremità per non rovinare la tela; la luce arriva sempre da sinistra rispetto all’osservatore, la profondità è data dalla pavimentazione a scacchi e dalle travi del soffitto. Seguendo l’onda della “teatralità”, Vermeer posiziona una maschera di gesso sul tavolo, elemento simbolico che ci lascia una domanda in sospeso: “cosa è realtà e cosa finzione?“.
Per avvicinarci alla vita imperiale, non possiamo non visitare la stanza delle infanti di Velazquez.
Il ritratto dell’infanta Margarita Teresa in abito blu è forse il migliore della serie, ed è uno dei molteplici ritratti richiesti all’artista, che mostrasse il lento divenire dell’infanta, sottolineandone i cambiamenti, le trasformazioni, i guizzi dell’espressione, i cambi delle mode, la postura, opere che servivano allo zio Leopoldo I d’Asburgo, a cui era stata promessa in sposa.
E’ la seconda metà del XVII secolo e la moda in Spagna prevede ancora l’uso di gonne esageratamente ampie; l’abito è protagonista nel suo blu di seta cangiante, dalle profilature dorate e dal grande fiocco appuntato dalla preziosa spilla al centro del bustier. Le maniche sono voluminose e si stringono sul polso finendo in romantici ed impalpabili voile; la piccola Margarita Teresa porta un guanto sulla mano destra, mentre la sinistra, spoglia, tiene un manicotto di pelliccia, da sempre simbolo di prestigio e di potere.
Leopold Museum
Patria dell’erotismo, Vienna non poteva non ospitare la più grande raccolta del più grande conoscitore dell’erotismo in pittura: Egon Schiele al Leopold Museum che con Gustav Klimt rappresenta il più alto esempio di pittura moderna in Austria, nel dettaglio quel movimento artistico chiamato “Secessione”. Un’ampia sezione è poi dedicata alle opere grafiche ed oggetti del XIX e XX secolo, tra cui il prezioso artigianato artistico di Koloman Moser, designer e decoratore austriaco; Adolf Loos, famoso architetto considerato il pioniere dell’architettura moderna, autore del mitico “Loos American Bar“, una vera chicca art deco’ di 27 metri quadri di legno, vetro, ottone, onice, eleganza, buon gusto, specchi, ottimi cocktail, barman italiani, e una clientela chic e raffinata.
A spiazzarci la prima opera nel percorso al Leopold Museum, il Nudo Maschile, autoritratto di Schiele del 1910, un corpo scavato e spigoloso, contorto su se stesso in una posa innaturale, dai colori verdi e gialli e marroni, tonalità caratteristiche della malattia, dell’ansia, dell’irrequietezza, della pena, cromìe usate anche in ambito cinematografico per rappresentare la follia, la pazzia, pensiamo a Nicolas Winding Refn e alla policromia ossessiva delle sue pellicole, dai verdi intensi come il verde imperatore e il verde mirto. Un’immagine di forza e decadenza, una figura che sembra quasi scolpita nel legno, un uomo senza piedi che galleggia in uno spazio bianco surreale.
Pulsioni e angosce, sessualità e morte, sono i temi frequenti del suo mondo artistico, Schiele si butta sul corpo con voracità e una verità sfacciata, riduce l’anatomia a corpi mutilati, disegni non finiti, donne amputate; negli autoritratti la gestualità è nervosa ed è evidente l’influenza della psicoanalisi freudiana, disegna con profonda introspezione.
Soggetti straziati e sofferenti, stretti in intensi abbracci, come di un abbraccio che indica un addio, Schiele rappresenta quasi profeticamente il suo destino: morirà per influenza spagnola solo tre giorni dopo la morte della moglie.
E’ una produzione intensa seppure breve, trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquerelli e disegni, fatti di corpi di una nudità carnale, brutale, dai tratti nervosi e dalle mani nodose, contorte come in una smorfia.
Spregiudicate e a tratti oscene, le pose delle modelle di Schiele sono simulazioni erotiche, masturbazioni, che provocò al pittore non pochi fastidi in vita, come la condanna e l’arresto per diffusione di immagini immorali, oltre all’accusa di molestie su una minorenne, che poi cadde. Era la sua “pornografia” artistica ad essere condannata.
Il turbamento profondo di Egon Schiele si riversa sulle sue tele, che sono come un diario dove confessa la sua arresa alla vita, in un pessimismo sentimentale e malinconico; intenso il ritratto di donna del 1912, lacrimosa e sofferente per il distacco con il pittore stesso, di cui percepiamo la presenza dietro di lei, vedendone appena il volto ed una rosa rossa.
E’ un’oasi di eleganza, pulizia, ordine e condivisione; mi sembrava così lontana l’idea di una città in cui ciascuno facesse il proprio dovere e senza sforzi, nel rispetto di se stessi e degli altri che trovarmici, camminando senza l’obbligo di guardare a terra per il rischio di pestare qualche escremento di cane, o per il solo piacere di vedere che non esistono mozziconi di sigaretta a terra ma grandi cesti e posaceneri ogni due o tre negozi, mi fa venir voglia di preparare le valigie e trasferirmici.
La città magica è Vienna, i palazzi barocchi che sembra di essere a Parigi, bianchi e candidi e dalle finestre adornate di elementi neoclassici; ogni struttura ha la sua dignità decorativa, altezzosa, a tratti esuberante quando si fa curva nei dettagli e gli elementi si mescolano per confonderti, il loro modo di tenerti distante, ed esaltare la loro bellezza.
Vienna parla, anche se i suoi abitanti sono riservati, Vienna che regala la patisserie più godurosia del mondo, patria della Sacher Torte , la torta regina del cioccolato di cui la ricetta originale rimane un mistero, un ripieno ricco e una glassa lucida e croccante. Il Cafè Central e Demel si contendono il titolo di pasticceria più raffinata nell’ambiente più ricco ed incantevole della storia. Impossibile non indugiare davanti alle vetrine, dove centinaia di dolci ammiccano nei loro coloratissimi completini, qualcuno più erotico, come le torte farcite di panna, altri più magnetici per il loro fascino intellettuale, come la “sinfonia di Mozart“, un dolce sferico ripieno di crema al pistacchio, ricoperto di polvere dorata e impreziosito da una delicatissima e fragile nota musicale al cioccolato. Ditemi come potreste resistere a tanta classe.
L’intera storia intellettuale è passata per Vienna, personaggi come Sigmund Freud, Alfred Adler, Adolf Loos, Leopold Perutz, Hugo von Hofmannsthal, e tra gli altri anche Hitler e Lenin. Assidui frequentatori del Cafè Central, si riunivano in questo storico Palazzo della Borsa di Vienna e della Banca Nazionale Austriaca, chiacchierando sulle note di un pianoforte a coda.
Per i viennesi ancora oggi l’usanza del ritrovo nei cafè assume una grande importanza nella loro vita quotidiana. E’ un luogo accogliente di ritrovo e di scambio culturale, come avveniva esattamente all’inizio del ‘900, tra Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, Oskar Kokoschka, Otto Wagner, Max Fabiani, Joseph Maria Olbrich Josef Hoffmann, Johann Strauss e molti altri. Un gruppo di intellettuali come quello letterario e artistico di Parigi: Rousseau, Verlaine, Sartre, Cocteau, Picasso, Hemingway, Satie, Dalì, Bunuel, Modigliani, Braque, Gide, Mirò … se penso a queste figure e al loro genio piango di commozione e immagino di rinascere in un’altra vita, seduta accanto a loro, ad ascoltare i loro pensieri, vederli nascere, crescere e trasformarsi, perché contaminati dalle idee di qualcun altro accanto a loro, mentre sorseggiano assenzio e girovagano tra le loro scintillanti elucubrazioni mentali.
Vienna riflette lo splendore del suo passato, e quale città intelligente dimostra di essere attenta all’ambiente, con servizi di bike sharing e monopattini a flusso libero, ovvero senza stazioni fisse per il prelievo e la restituzione; nelle metropolitane non ci sono tornelli, ogni cittadino è tenuto a rispondere alla propria integrità morale acquistando il ticket anziché sperare nell’assenza di un controllo; molti hotel sposano una filosofia Green, come il Ruby Marie Hotel, posizionato all’ingresso della famosa via dello shopping, la Mariahilfer Strasse.
Il Ruby Marie Hotel è stato più volte rinnovato ed ora può essere definito come un “Green Building”, con le massime esigenze di sostenibilità ed efficienza energetica secondo il sistema di certificazione riconosciuto a livello internazionale “LEED” (Leadership in Energy and Environmental Design). Una filosofia che l’amministratore delegato e fondatore Michael Struck chiama “Lean Luxury”, una chicca nel cuore della città, con spazi multifunzionali, punti ritrovo come il grande rooftop con serate a tema e musica, servizi luxury a prezzi accessibili. Com’è possibile tutto questo? Riducendo il numero di addetti ad esempio quando non servono, come nel caso della reception self service, in cui fare il check in attraverso un computer accessibile nella hall dell’hotel ed elimando il check-out.
A disposizione degli ospiti, Ruby Marie Hotel offre una sala yoga e una lounge cinema, Nicolae Ceaușescu ne sarebbe invidioso; ogni camera è arredata con legni di ottima qualità, letti maxi e cuscini in cui poter ritrovare le frasi della nostre canzoni preferite. La musica è l’elemento che fa da fil rouge in tutto l’albergo, dove poter ascoltare la RUBY radio, utilizzare gratuitamente le chitarre e i bassi messi a disposizione di tutti e collegarli ai sistemi audio Marshall presenti in ogni stanza. Gli ospiti possono usufruire gratuitamente delle bike in stile olandese e visitare la città con i tablet offerti in cui seguire i consigli dei migliori ristoranti, caffè e musei. Se tutto questo sembra assurdo, da Ruby Hotel è reale e la clientela variegata, si trovano coppie di tutte le età, gruppi di lavoro, giovani turisti in vacanza.
La struttura inoltre è davvero accogliente e ricca di particolari di design e pezzi vintage, come il banco di una vecchia merceria, oggi divisorio nella sala breakfast, in cui troviamo antichi rocchi di fili, vecchi bottoni e portaspilli, bobine di legno, riviste di modellistica, pesanti forbici in acciaio, modelli per scarpe da uomo, e al posto dei tavoli eleganti carrelli porta liquori, accanto a comode poltrone in pelle color cuoio. Nelle librerie gli oggetti più disparati, trovati nei mercatini o recuperati a casa della nonna: bilance, telefoni retrò, coloratissime scatole di latta che un tempo contenevano biscotti, pattini a rotelle, cappellini in paglia, macchine da cucire, manichini, macchine da scrivere Continental, registratori di cassa, e sulle pareti antiche e affascinanti locandine, come deliziose sono le ciotole di latta in cui ci si serve per uno yogurt magro e frutta fresca.
La library è un’altra zona di condivisione, in cui poter sfogliare numerosi libri di fotografia e travel, design e moda; anche il viaggio in ascensore è speciale, perché con una scritta ci riporta alla struggente canzone di James Blunt:
“Goodbye my lover, Goodbye my friend, You have been the one“.
Forse il Paradiso ha queste sembianze, un luogo di unione, condivisione, di rispetto per l’ambiente, di musica, di grande maturità. Grazie Ruby Marie Hotel per questo grandioso esempio, grazie!
Punto vitale da cui tutto trae origine, la Hofburg, residenza imperiale d’inverno dove la Principessa Sissi, creatura solitaria imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, scriveva i suoi diari segreti volteggiando tra le duemilaseicento stanze, dedalo di corridoi e scaloni, foreste di stucchi e decorazioni, oggi diventa museo.
Aperte al pubblico, le stanze private di Francesco Giuseppe, più semplici e pratiche rispetto alle lussureggianti di Elisabetta che includono la stanza da bagno con la vasca in cui si immergeva una volta al giorno, e la palestra simbolo di una perfezione ossessiva per il corpo, che la vedeva seguire strambe diete scrupolosamente, come il regime a base di sola carne, per poi passare a bere solo dei grandi bicchieri di sangue di bue, che rifiuterà per una dieta a base di uova e frutta, finendo col nutrirsi di soli latticini; sarà vegana per capriccio e frugale fino all’astinenza.
Sissi cercherà di allontanare la sua natura malinconica con l’iperattività fisica, estenuandosi ogni mattina con esercizi fisici e attrezzi ginnici, mai contenta di sé arriverà ad un girovita di 50 cm, stretta in corsetti che esposti al museo sembrano destinati più ad una bambola che ad una dama.
Ritratti e fotografie, la fotografia, altra forma d’arte a cui l’imperatrice si era appassionata per narcisismo, numerose le lettere scritte di suo pugno, intingendo il pennino in inchiostro viola, l’unico che utilizzava, all’interno di un calamaio d’oro.
Perle del museo, i preziosi accessori da bagno che portava con sé durante i suoi viaggi, pettini per l’ossessione che aveva per i lunghi capelli, la farmacia da viaggio con i portapasticche in argento, oltre a guanti, abiti, ventagli e ombrellini che frapponeva fra sé e gli altri, per nascondere lo sguardo. Da far girare la testa a Csaba, esperta di galateo, la tavola imbandita come all’epoca di Francesco Giuseppe, pranzi i cui invitati erano militari, aristocratici, uomini d’affari e politici, che avevano il permesso di sedersi solo quando l’imperatore avrebbe preso posto; un lacchè ogni due commensali, ciascuno dei quali aveva una bottiglia personale di acqua e di vino, posateria d’argento rovesciata e cinque bicchieri di cristallo.
Spettacolare la ricostruzione dell’abito che Elisabetta indossava quando fu incoronata regina d’Ungheria, i gioielli da lutto e il mantello nero con cui l’imperatrice fu coperta dopo l’attentato.
Oltre 300 oggetti personali, puerilità estetiche di una natura malinconica che cerca di stordirsi dopo una vita di fatti accidentati, come la morte del primo amore, della prima figlia e i numerosi tradimenti del marito.Una condotta nichilista cui la più grande insolenza era la sua bellezza, fatta di una tristezza che aveva qualcosa di voluttuoso, di fatale, come l’apparizione della morte che ha conferito alla favola, un sapore amaro ma leggendario.
Castello Belvedere
Sorvegliato dalle maestose sfingi che circondano il giardino alla francese, queste creature mitologiche dal corpo di leone, la testa di donna e un florido seno, dall’espressione interrogatoria e severa che incute rispetto e una sorta di timore, oggi attorniate da rumorosi bambini ignari della storia che stanno toccando senza attenzione, si apre la vista al Castello del Belvedere, il più bel complesso barocco d’Austria.
Un tempo residenza estiva del Principe Eugenio di Savoia, il complesso è formato da due palazzi, Il Belvedere Superiore dove poter contemplare la più grande collezione al mondo di dipinti di Gustav Klimt, ventotto in tutto, e vari capolavori di Schiele, Manet, Renoir, Monet, Cezanne, Pisarro etc; e il Belvedere Inferiore con le stanze più rappresentative del barocco, la Galleria di Marmo, il Salone degli Specchi, la Sala dei Grotteschi.
L’Orangery, vicino al Belvedere Inferiore utilizzato in passato come serra, oggi ospita le esposizioni temporali del Museo Belvedere.
L’elegante signora in nero dipinta da Klimt nel 1893 ci accoglie con un guanto sì e uno lasciato chissà dove, a scoprire i brillanti gioielli che indossa su polso e dita, così perfettamente rappresentati dal pittore, lucenti e scintillanti come oro colpito dalla luce diretta del sole.
Sfidante, invece, la diabolica Giuditta, dipinto del 1901 che sente l’influenza del viaggio in Italia dove Klimt aveva visionato dei mosaici bizantini dell’ultima capitale dell’Impero romano d’Occidente. Quindi oro, tanto oro che rende regale e inavvicinabile la figura della femme fatale, quella che seduce, ammalia e uccide. Giuditta mostra il seno con orgoglio e provocazione, tenendo con le sottili dita la testa di Oloferne visibile solo per metà; è una figura che invade, ingloba, mangia, e divora tutto quello che le sta intorno, così come si prende tutto lo spazio del quadro; è la donna destinata a portare sofferenza dopo aver regalato, la donna che si fa giustizia da sola, quell’essere misterioso, dominatore e magnetico.
Dal formato perfettamente quadrato (180×180), il famoso “Bacio” (1907/08) che si fatica a vedere da vicino per la stessa furia di gente che si trova nella stanza della Gioconda.
Gli opposti che si attraggono fatti ad arte, un uomo e una donna, diversi per natura, lui indossa una veste fatta di elementi spigolosi e geometrici, dalle mani nodose come quelle degli schizzi di Schiele, la foia di prendere e avvolgere il viso di lei tra le mani, i colori scuri dell’abito e dei capelli – e l’opposto candido e diafano della pelle della donna, la chioma fulva, l’espressione di abbandono, la bocca ancora chiusa ma il corpo già vicino, caldo come l’oro che li fascia, piccoli fiorellini tra i capelli, i colori delicati del vestito, dalle forme circolari e morbide, spiraliformi. Questo capolavoro klimtiano ci racconta il momento di empatia amorosa tra l’uomo e la donna, stretti in un forte abbraccio, perché è più di un abbraccio che si parla, il bacio non è ricambiato ancora, non lo vediamo, ma percepiamo il “sì” della fanciulla che tocca la mano dell’uomo e che, con le palpebre ancora serrate, gli sta destinando la sua fiducia e il suo abbandono.
Se vogliamo scoprire come viene visto l’italiano all’estero, non servono i film hollywoodiani, basta sbirciare nel passato, nel 1829 quando Carl Blechen, pittore tedesco, dipingeva “Pomeriggio a Capri“: un baldanzoso giovane dai piedi scalzi e con il berretto alla Pulcinella, corteggia una donna di fronte al mare, sarà un amore estivo e passeggero? Ah, non manca nemmeno il mandolino!
Tutte le stazioni del mondo ci raccontano scene sempre interessanti, ma sono quasi sicura che quella ritratta da Karl Karger nel 1875 ha dell’affascinante. E’ la stazione di Vienna, nel periodo in cui la moda esige per le donne che i volumi si spostino nel retro dei vestiti, gli strascichi abbondano e sono ricchi e pomposi, il cappello è sempre meno elaborato, ma rimane indispensabile per le uscite fuori casa. E’ una scena di “arrivi”, qualcuno si dirige verso l’uscita mentre un venditore lo ferma per proporre della merce, una coppia si bacia appassionatamente dopo un lungo distacco, i macchinisti del treno controllano la sua meccanica, un elegante signore con cilindro e bastone e con signora a braccetto, è ancora in attesa del suo ospite. E’ una fotografia che ci parla di moda, di storia, di costumi e di arte.
Quanti artisti sono alla ricerca di un posto che li ispiri? Pensiamo ai giardini di Giverny di Claude Monet, ai campi di grano di Van Gogh o alle case di piacere di Henri de Toulouse Lautrec; ciascuno di loro ha scelto un luogo che li rappresentasse o che potesse rappresentare al meglio la loro arte.
Tra i luoghi meta di viaggio, punto di creatività e alcova per i più passionali, spicca Villa e Palazzo Aminta, gioiello che si affaccia sul Lago Maggiore.
Si dice che Hemingway scegliesse la suite dell’ultimo piano di Villa e Palazzo Aminta, in cerca di silenzio e per godere della vista delle calme acque del lago.
Liz Taylor e Richard Burton, la coppia più chiacchierata dei ’60, scelsero Villa e Palazzo Aminta per la loro fuga d’amore, tra le tante, tra litigi e rappacificazioni, tra scenate e costosissimi gioielli.
Una dimora storica che domina il Golfo Borromeo, situato nel borgo millenario di Stresa, che l’ammiraglio della regia Marina Militare Italiana Francesco Capece, fece chiamare come la sua amata moglie: Aminta.
La struttura è un hotel a 5 stelle lusso, curato in ogni minimo dettaglio, impreziosito da arabeschi e volute in stile orientale, mobili antichi, lampadari in murano, porcellane, tappezzerie di pregio. L’atmosfera che si respira è raffinata, elegante, di grande gusto e sensibilità per l’arte; tutta la villa è circondata da un grande giardino fiorito e dispone di un parco privato che si affaccia sul Lago Maggiore.
L’attenzione all’innovazione è un altro fiore all’occhiello dell’eccellenza di Villa e Palazzo Aminta; da poco sono stati svolti dei lavori di ristrutturazione di alcune suite, che dispongono delle più moderne tecnologie e di un arredamento contemporaneo e ricercato.
Motivo d’orgoglio di questa scelta, la Suite Borromea (n.900), sita al quinto ed ultimo piano dell’ala Palazzo; la suite dispone di piscina jacuzzi nel grande terrazzo che si affaccia sulle isole, attrezzato di tavolo e sedie in ferro battuto, un’ampia zona giorno con vista prevede un arredamento ricercato sui toni del silver e del rosso, con ampie poltrone in velluto e tende ricamate.
La piscina jacuzzi situata nel terrazzo è coperta e gode di ottima privacy. Uno scrittoio in stile antico è dedicato ai più solitari che, ammirando la splendida vista della camera, si concedono ancora del tempo per scrivere lettere.
Qui vi alloggiò un tempo la bellissima attrice, stiamo parlando della Liz Taylor Suite, due disponibili situate nell’ala Palazzo, una al terzo e l’altra al quarto piano. Le suites dispongono di un’ampia vista lago e superano i 120 mq. Un luogo magico che rievoca atmosfere passate.
Facente parte dell’esclusiva ristrutturazione, la Suite dei Fiori sita al quarto piano della Villa: è disposta su due livelli, collegati da una scala interna. Lo spazio living si trova nella parte superiore della camera, la zona notte gode della vista lago. Un piccolo gioiello sui toni del lavanda e sulle sfumature del viola, un luogo dove ricercare relax immerso in un ambiente ricco di storia.
Ed infine, altra figlia della rimodernizzazione delle più belle camere di Villa e Palazzo Aminta, per i più esigenti, Suite Belvdere, sui toni dell’azzurro e del blu cobalto, con dettagli gold e veneziani. L’ambiente è luminoso e dispone di tutti i servizi di comfort.
Ma il Resort ha pensato anche di regalare uno spazio per gli amanti del buon vino e per degustare i migliori prodotti della zona, tra salumi e formaggi: la Winery. Un ambiente elegante in uno spazio nuovo dell’hotel, ove possibile prenotare per una cena esclusiva, un angolo dedicato al food e alle tradizioni locali, un’ala relax dove poter conversare in tutta tranquillità.
Dalla “Belle Epoque” ad oggi, Villa e Palazzo Aminta rimane la struttura più ambita e lussuosa dei laghi, un angolo di paradiso sotto la direzione della famiglia Zanetta.
Per un soggiorno di vacanza, la Villa dispone inoltre di Area Fitness, Area Benessere con trattamenti personalizzabili e due ristoranti con menu differenti.
Scopri qui altri dettagli delle Suites di Villa e Palazzo Aminta:
Una coppia rientra in casa (la Caterpillar House in California all’interno di una riserva naturale, su un unico piano e pareti vetrate), dopo la première del film di cui lui è regista. Lei, Zendaya, in un meraviglioso abito lungo con spacco profondo in seta lamè cut-out con corpetto intrecciato sul seno, unico capo ad essere indossato per metà film (oggi anche in vendita in pre-ordine sul sito di Aliétte per 1200 dollari) è la prima a varcare la soglia di casa. Il nervosismo è nell’aria, mentre cucina in men che non si dica dei maccheroni al burro e formaggio, mentre lui euforico per il successo della serata e per qualche bicchiere ( di whisky?) vorrebbe solo festeggiare.
106 saranno esattamente i minuti dell’intero litigio (se questa è la durata minima di una discussione di coppia, mi chiedo perchè la vendita di pantoprazolo non sia aumentata) in cui dopo numerose insistenze del protagonista (il sexy ex giocatore di football americano John David Washington, ma d’altronde è figlio di Denzel) si scopre che Marie ce l’ha a morte con Malcolm perchè non l’ha citata tra i ringraziamenti; lei che è stata la musa ispiratrice della storia, ex tossicodipendente che ha abbandonato il sogno di diventare attrice per uscire dal dramma della droga.
E’ una battaglia in bianco e nero (certamente rende la fotografia più elegante e lascia che ci si concentri sui dialoghi) dove colpisce più profondamente chi affonda cattiverie, chi recrimina, chi offende, chi gioca sulla gelosia, chi umilia. Lui, chiuso nell’orgoglio, lei in un malcelato masochismo, sembrano riappacificarsi a intermittenza con baci molto lontani da quella che potrebbe essere definita come “passione”.
Marie, catturata l’attenzione appena entrata nella stanza che sarà teatro di tutto il film (di intento godardiano basato sull’autenticità della coppia – autenticità parola ridondante nei dialoghi), si imbruttisce a mano a mano che va avanti la discussione (ha qualche attinenza con la relazione di coppia? Con il modo che lui ha di vederla?); dopo un bagno che avrebbe dovuto essere purificante, che avrebbe dovuto sciogliere le tensioni, Marie struccata, abbandonati i tacchi, l’abito da grande soirée e le lunghe ciglia artificiali, si scopre in tutte le sue debolezze: la gelosia nei confronti dell’attrice che il compagno ha scelto per il suo film, le scene di nudo che Malcolm ha voluto inserire, la delusione per non essere stata ringraziata davanti al pubblico; Marie piange e attacca, si dispera e affonda un’altra coltellata. Ma quella a soffrire di più è lei, questo lo si intuisce, dall’atteggiamento di Malcolm irritato quando lei incalza dopo un bacio, mentre lui vorrebbe solo divertirsi e godersi la serata (quante scene similari ha vissuto ciascuno di noi?!)
Sam Levinson, regista di “Malcolm & Marie“, verso la fine si trastulla con altisonanti citazioni cinematografiche, vomita critiche agli addetti al settore che non capiscono a volte un film può essere semplice e solo esercizio di stile anziché cavilloso lavoro concettuale, ma questo non ci scandalizza, lo fanno in tanti. Piuttosto, riuscire a rendere un ping pong teatrale efficace, è assai arduo quando gli attori non sono poi così esperti; Zendaya non sempre risulta credibile, manca di pathos, peccato perchè a mantenere alto almeno il fuoco di alcune scene (come quelle delle presunte riappacificazioni) avrebbe reso l’insieme più magnetico, per lo meno per giocarsi al meglio la sua bellezza. John David Washington è più interessante da muto a petto nudo, perchè forzato nelle battute in cui dichiara il suo amore, con ironia, con quel ritmo black della camminata e dei gesti. La storia è interessante e ci obbliga all’immedesimazione, è un litigio come miliardi di altri litigi che avvengono ora nel mondo, lui che non capisce il malumore di lei, lei che nega fino all’esaurimento e che esplode quando ormai è troppo tardi.
Il picco di interesse sale quando finalmente Marie confessa la sua vera pena: è offesa perchè non è stata scelta come attrice protagonista dal suo compagno, che ha preferito una donna dalla corporatura diversa dalla sua, più femminile a suo dire, “lo so che genere di donna ti piace”. Ha perso in questo modo la possibilità di raccontare la “sua” storia, di dimostrare a se stessa e agli altri che anche lei può farcela, lei che ha tentato il suicidio, e che ora invece ha un motivo in più per farsi del male. E’ in canottiera bianca e mutandine, capelli bagnati (ricorda molto la scena con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut) che si dirige a letto quando Levinson si tira la zappa sui piedi con un “Grazie” recitato da Malcolm. E ai registi dobbiamo ricordare che l’inizio e la fine sono le scene più importanti, come le prime e le ultime frasi di un libro, e che banalizzarle può rovinare un intero lavoro.
Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.
La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta. In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.
Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta. Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.
Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.
L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo. La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.
I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).
Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).
Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)
E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.
Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).
“Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.
“La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?”
E’ questa la chiave del film di Paolo Sorrentino “E’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.
Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare. “Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?” “Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”
Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.
In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.
Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.
Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.
La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.
Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case. Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele
Napule è mille culure Napule è mille paure Napule è a voce de’ criature Che saglie chianu chianu E tu sai ca’ nun si sulo
L’idea del film nasce da un fatto accaduto nella vita personale del regista, Valentyn Vasyanovych, che assiste assieme alla figlia allo schianto di un uccello sulla finestra di casa, una metafora, il passaggio dalla vita alla morte.
Siamo nel 2014 nell’Ucraina orientale durante le prime fasi del conflitto Russia-Ucraina e assistiamo ad atroci torture, violenze e crimini realmente accaduti e documentati, le brutalità commesse dalle truppe filorusse sui prigionieri di guerra: strangolamenti, scariche elettriche, sevizie, torture medievali, trapani che lacerano carni ed ossa.
Il protagonista, un medico catturato dalle forze militari russe, assiste e subisce le spaventose umiliazioni cui lo spettatore non riesce a sostenere, spesso lasciando la sala del Festival. Volutamente cruento nella prima fase, volutamente silenzioso nella seconda, nel momento in cui il protagonista riesce a sopravvivere alla guerra e cerca appunto nel silenzio di ricostruire i rapporti con la ex moglie e con la figlia, Reflection lancia in immagini/metafore le grandi riflessioni sulla vita. L’importanza dei rapporti umani, il valore degli affetti, il significato della vita.
Non lasciare tracce – (Leave no trace)
Ricorda il caso di Stefano Cucchi, il giovane morto dopo un pestaggio sotto custodia cautelare sette giorni dopo l’accaduto, questa pellicola di Jan P. Matuszyński. E’ la storia vera di Grzegorz Przemyk (Mateusz Górski), figlio della poetessa e attivista Barbara Sadowska (Sandra Korzeniak), ucciso a calci nello stomaco dalla polizia comunista, la Milicja Obywatelska (era il 14 maggio del 1983). Il giovane studente festeggia nella piazza del Castello di Varsavia la maturità, fermato dalla polizia rifiuta di esibire i documenti di identità e viene così portato in centrale, dove in pochi minuti avviene il pestaggio davanti agli occhi dell’amico, il protagonista del film che lotterà fino alla fine per ottenere giustizia. La verità verrà sotterrata con ogni mezzo dalle autorità ministeriali, con depistaggi che porteranno le accuse a infermieri innocenti, in un crescendo di rabbia e frustrazione e ingiustizia che incolla allo schermo lo spettatore in attesa della sentenza finale. Qui il male trionfa, la contraffazione dei fatti è così capillare che la stanchezza prende il sopravvento, anche sulla madre raggomitolata nel dolore e arresa; solo l’amico fidato dirà la verità in tribunale, fino all’ultimo spiraglio di speranza, ma il potere dei miliziani è troppo radicato e la violenza dello Stato mortalmente pericolosa. Noi possiamo solo parlarne e urlare la verità affinché il ricordo possa pulire tanto degrado.
Vera sogna il mare di Kaltrina Krasniqi
Lei è un’interprete del linguaggio dei segni, lui, il marito, un giudice in pensione. La morte del marito, suicidatosi senza lasciare lettere di addio, apre infinite porte dove dietro si celano la dipendenza al gioco, le eredità sperperate, le proprietà che la malavita torna a riprendersi. Minacce, pedinamenti costanti, il rischio che la figlia venga uccisa, obbligano Vera a cedere alle ingiuste richieste. La storia svela una donna forte, che lotta per non cedere alla prepotenza ostile, corrotta, maschilista della società in Kosovo ai giorno nostri. Un film di denuncia e di orgoglio, di dignità e di arrendevolezza come unica soluzione per la sopravvivenza, dove le difficoltà vengono rappresentate sullo schermo attraverso la forza del mare, che si fanno sempre più soffocanti e violente quando Vera rischia di “annegare”.