In “La donna del lago” di Franco Rossellini e Luigi Bazzoni, si consumano amori e scandali, ma anche scomparse e apparizioni misteriose. Nel film del visionario Wes Anderson, “Grand Budapest Hotel”, ne rivediamo la clientela della decadente nobiltà europea, attraverso dei flashback che hanno i toni saturati cari al regista. “Lost in translation” è il racconto di un incontro che spesso è galeotto tra le sale spoglie e silenziose della notte. Parliamo degli hotel, luoghi di passaggio e fautori di liaisons, di connessioni d’affari, o di quella che gli scrittori chiamano “ispirazione”, che prendono a piè polmoni tra le sale affrescate e le panoramiche viste dalle loro camere dorate.
Tra i più onirici della nostra Penisola, troviamo il Royal Hotel Sanremo, l’esclusivo cinque stelle lusso della città dei Fiori. In una Sanremo colorata in ogni stagione, il Royal Hotel è certamente il fiore all’occhiello, incorniciato dalle palme del parco subtropicale di 16.000 mq ed affacciato sul Mediterraneo in posizione unica, a pochi minuti dalle spiagge sabbiose e dal centro con il rinomato Casinò e le lussuose boutiques.
L’albergo viene inaugurato nel 1872 per divenire subito dimora della Belle Époque europea e dell’alta aristocrazia e rimane tuttora l’indirizzo per eccellenza nella Riviera dei Fiori. I saloni affrescati rimandano a scene di amabili conversazioni delle madames avvolte dalla magica atmosfera; le grandi colonne in marmo e i ritratti di gentiluomini con l’orologio da taschino, fanno da ambiente di lettura durante la prima colazione, che al Royal continua ad offrire la versione dolce e salata, con deliziose omelette cucinate al momento dallo chef.
Se il Bel Paese è celebre per la qualità e la poliedricità dei prodotti alimentari, il Royal Hotel non poteva non dedicare una grande sala ristorante dove servire le eccellenze del territorio. Il suo nome è “Fiori di Murano”, per i preziosi lampadari fatti di fiori di vetro; l’affaccio è sul parco e sul mare, ogni finestra è incorniciata da tendaggi bianchi che lasciano passare la luce e da mantovane drappeggiate color oro. Per le serate estive il Royal Hotel offre “Il Giardino” per romantiche cene a lume di candela sulla terrazza; il “Corallina” con Pool-Bar a bordo piscina per pranzi informali o per snack informali, da giugno a ottobre.
Membro della prestigiosa organizzazione dell’ospitalità di lusso “The Leading Hotels of the World”, il Royal Hotel Sanremo conta 127 camere incluse 14 suite esclusive; tra queste la Suite Sissi ove soggiornò l’imperatrice d’Austria con grande terrazzo dotato di vasca idromassaggio da cui poter godere della splendida vista mare, sdraio e gazebo per una tintarella in totale privacy, un bagno padronale in marmo con il set di cortesia firmato Royal, e un salotto in stile reale dove sorseggiare champagne di benvenuto e frutta fresca.
Per le giornate in piscina Gio’ Ponti pensò ad una enorme vasca scenografica dalla forme frastagliate che ricordasse il mare. Firmata dal grande architetto, la piscina ha acqua di mare a 27° C; non è difficile trovarvi a bordo una famiglia polacca in stile Barbie, o signore charmant habitué che raccontano la fedeltà alla struttura luxury.
Esclusivi i trattamenti ed i massaggi proposti alla Royal Wellness; la zona umida dispone di ampia vasca idromassaggio, docce emozionali, bagno turco, Vitarium e area relax con angolo tisaneria. La sala fitness è dedicata a chi vuole rimanere in forma durante la vacanza. Partite a tennis in stile “Match Point”, minigolf e un piccolo shop, vi saranno sentire a casa e vi allieteranno le giornate senza andar troppo lontano.
Il Royal Hotel Sanremo mantiene da anni il gusto e il fascino della struttura più elitaria della Riviera dei Fiori. Non è un caso se proprio a questo luogo si deve la nascita del Rotary Club di Sanremo, nel lontano 1931, grazie a Mario Bertolini. È la destinazione ideale per chi cerca l’antico significato di accoglienza ed eleganza, per chi del bello ne fa una ricerca continua e per chi ama il comfort unito alla ricercatezza.
Napoli è per definizione la città dell’accoglienza, dove ogni luogo è casa, dove il rito del caffè non è solo degustazione ma condivisione, intimità e ascolto. Napoli è un po’ come quelle donne materne dai seni grandi, come quelle zie che ti tendono le mani per avvolgerti in un abbraccio caldo e profondo, quelle che ti lasciano un ricordo carico di profumi e di sensazioni fascianti. Checchè se ne dica, Napoli rimane nel cuore di tutti, perchè è ruffiana sì, perchè ti frega è vero, con quel suo piglio da scugnizzo, malandrino e peccatore, ma è sempre di cuore, magnanima e generosa. E Napoli è i suoi napoletani, che ti inondano di racconti e filastrocche, di friselle e di favulelle, quel popolo che apre le porte di casa anche a te sconosciuto, che ti mostra con orgoglio il frutto del suo umile lavoro, che mette le famiglia sopra ogni cosa, che sente la forza della radice, del luogo da cui viene e a cui sempre tornerà.
Della stessa pasta, una dimora unica nel suo genere, formata da uno staff tutto partenopeo, l’Artemisia Domus. Una struttura sita in uno storico palazzo di fine ‘700, Patrimonio Unesco, che sta tra Piazza del Gesù e Spaccanapoli, centro nevralgico da cui è possibile raggiungere a piedi tutte le destinazioni e le mete locali.
Artemisia Domus, degno di ogni palazzo nobiliare, porta con sé tutti i segreti della storia: si narra infatti che fosse un tempo adibito a casa di piacere. E a testimoniarlo sono i grandi specchi tondi e convessi di strada trovati all’entrata della porta principale, prima della ristrutturazione; con sé, i piccoli lavabo presenti dentro ogni stanza e qualche foglio sgualcito con tariffari, purtroppo andati persi e soppiantati invece da un certosino recupero delle preziosità del luogo, come il grande portone bianco oggi adibito a bancone reception, le geometriche lampade in rame arrugginito sulle pareti, le piastrelle in ceramica dei pavimenti oggi utilizzate come base al bancone bar e per i tavolini nella zona lounge.
Artemisia Domus è certo un palazzo carico di fascino, che accoglie gli ospiti in nove diverse suite ove possibile scegliere una spa privata in camera, come per l’ampia e luminosa “Nicea” le cui finestre affacciano su Castel Sant’Elmo e sulla splendida Certosa di San Martino. Gli alti soffitti sono sormontati da travi in legno a vista, il pavimento è in parquet, richiamato dai colori caldi dell’arredamento e dalla luce delle grandi lampade da terra. King size anche il letto matrimoniale con topper in memory, divano letto e una jacuzzi per quattro persone con cromoterapia, in cui tutti i toni del rosso sono variabili in base al vostro gusto. La suite è totalmente insonorizzata e dotata di ogni comfort: smart tv, cassaforte, frigobar e kit di cortesia da bagno.
Il nome della struttura omaggia la pittrice Artemisia Gentileschi, che nel 1630 visse una parentesi della sua vita proprio a Napoli, costituita in quel periodo da un eminente fervore culturale e intellettuale. All’entrata, una copia di “Autoritratto come allegoria della Pittura” datato 1638/39, ne ricorda il valore artistico e storico, ripreso poeticamente dal nome dato ad ogni stanza, donne che la Gentileschi rappresentò con la sua impronta creativa, fiera e femminista.
Artemisia Domus è la Luxury Guest House nel cuore di Napoli, dove poter vivere questa città di sconfinata bellezza, con comodità e benessere, perchè oltre alla spa e alla sauna privata, è possibile prenotare un massaggio personalizzato professionale in camera. Lo staff sarà sempre pronto a consigliarvi luoghi e mete in base ai vostri gusti ed esigenze, offre gite in barca alla scoperta delle isole più belle, escursioni in motoscafo privato verso la Costiera, noleggio biciclette e tour culturali nel centro città, dove poter fare una sosta per assaggiare lo sfizioso “O pere o ‘o musso”, una specie di trippa bollita servita fredda con sale e limone, piatto popolare da leccarsi i baffi; o degustare, per i più lussuriosi, le classiche sfogliatelle ripiene di crema pasticcera; il posto all’inferno è invece riservato ai cultori della “pizza a portafoglio”, da mangiare rigorosamente per strada e piegata in quattro in carta da forno, mentre si sceglie un mini presepe da potare a casa, piccolo miracolo dell’artigianalità napoletana. E ringraziamo Iddio che ha creato Napoli, che a Napoli si ride, mica si muore!
Artemisia Domus si trova in Via dei Carrozzieri 13, Napoli
Eguchi è un sessantasettenne che sente la fine vicina, sente la tristezza della vecchiaia; spinto da un amico si reca in una casa particolare dov’è possibile dormire accanto a delle giovani ragazze sprofondate in un sonno indotto. Dapprima solo incuriosito, Eguchi tornerà alla casa una seconda volta invitato dalla signora di mezza età che gestisce il postribolo, e una terza volta spinto dal bisogno di calore umano che cerca nei corpi nudi e tiepidi distesi inermi e pronti per essere vegliati. Le sue visite sono atti di vojerismo, le ragazze ridotte a dei balocchi permettono ai clienti anziani (il genere di persone ammesse alla casa deve risultare innocuo, impotente, incapace di esprimere la propria virilità) di non subire il complesso di inferiorità del proprio decadimento.
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Le scene descritte da Yasunari Kawabata sono claustrofobiche e morbose, i corpi delle giovani donne dormienti vengono passati allo scanner, ma la regola vuole che non debbano essere deflorate per alcuna ragione, regola che spinge il protagonista a pensieri di violenza più che d’eccitazione.
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Le ragazze drogate da potenti sonniferi non si muovono, sono dei cadaveri che emanano leggeri respiri e che lasciano all’anziano il tempo di ripercorrere i ricordi di una sessualità e di una umanità viva e passata. Eguchi, a differenza degli altri clienti, è un uomo ancora in attività sessuale; steso accanto alle giovani ha il desiderio di sentire la loro voce, di sapere delle loro vite, ma rispetta le norme imposte dal luogo e, come da prassi, finisce col prendere la pillola bianca a disposizione dei signori per passare ad un sonno profondo e carico di sogni e impedire così ogni sorta di violenza nei confronti delle bambole di carne.
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In quella stramba casa le donne non possono essere trattate come donne, e gli uomini non possono adempiere al compito destinato agli uomini, e proprio quest’atmosfera rende il gioco ancora più intrigante ed esoterico. Le prostitute sono vergini impenetrabili, disponibili solo al tatto e all’olfatto, senso che Eguchi riscopre con grande intensità e che lo porta in lunghi viaggi spaziali, tra memoria e flussi di coscienza. Durante quelle notti, Eguchi si domanda che valore può avere un bel corpo per un vecchio ormai sessantasettenne, nel caso di una ragazza per una notte soltanto, che importa che sia intelligente o sciocca, colta o ignorante, se si riduce tutto ad un gioco che ha già il sapore della morte?
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Erotismo e morte si mescolano spesso nella letteratura di Kawabata, sono forse la stessa cosa, e la ricerca di calore umano, che Eguchi spera di ritrovare in quel bordello anomalo, sarà una rivelazione di assenza, di totale disumanità.
Il romanzo si conclude con una mano pronta a girare l’altra pagina, che troveremo vuota e con la parola “FINE”, lascia una sensazione di incompiutezza, come il desiderio trattenuto e messo a dormire. Il pessimismo di Kawabata si ammanta di così tanta poesia che rende quasi piacevole il dolore e il crogiolarsi nella disillusione.
Un saggio autobiografico, un taccuino di lunghi appunti e pensieri messi in ordine, Haruki Murakami ci regala 186 pagine di interessanti spunti e riflessioni che possono essere letti come consigli per intraprendere il mestiere dello scrittore.
Molti si interrogano sul metodo di chi sceglie questo lavoro, si lasciano trasportare dall’ispirazione del momento o si mettono a tavolino come un impiegato? Come ci si avvicina al mondo dell’editoria? Qual è la giornata tipo di un romanziere? Quanto sono importanti i premi letterari? Per chi si scrive? La formazione scolastica influenza il lavoro dello scrittore? Che cos’è l’originalità? Questi e altri interrogativi troveranno risposte dalla mano di Murakami, con il suo tipico sarcasmo e una modestia fasulla (molto divertente).
Secondo Murakami esistono pochi geni al mondo, parla di Mozart, Schubert, Einstein…, persone in grado di creare capolavori senza particolari sforzi; tutti gli altri sono i semplici lavoratori, come lui, che compongono opere con forza di volontà, esercizio, metodo. La mattina Murakami si alza molto presto e con la tazza di caffè ancora fumante alla mano, si siede davanti al suo Mac e scrive 10 pagine di 400 battute ciascuna, questo è il suo obiettivo quotidiano. Nè una riga più, né una riga meno; se l’ispirazione prende il sopravvento, si ferma e ricomincia il giorno dopo.
Durante la giornata ritaglia un’ora di attività fisica, tendenzialmente il mattino, per correre o nuotare, questo perchè allenare il fisico aiuta la creatività. C’è un capitolo molto bello a cui dedica questo concetto e lo giustifica così:
“Da studi recenti sul cervello umano, sappiamo che il numero di neuroni che nascononell’ippocampo aumenta notevolmente in proporzione al movimento all’aria aperta che si fa. Con “movimento all’aria aperta” si intende nuoto, jogging, esercizio fisico moderato fatto per un tempo abbastanza lungo. I nuovi neuroni appena nati, se li si lascia riposare, dopo ventotto ore spariscono senza essere di alcuna utilità. Valeva proprio la pena di farli nascere! Se invece si dà a questi neuroni uno stimolo intellettivo, prendono vita, vengono assorbiti nella rete interna del cervello e diventano una parte organica nella trasmissione dei segnali nel cervello. La capacità di apprendere e di ricordare migliora. Il risultato è che diventa più facile adattare il pensiero alle circostanze e sviluppare una creatività superiore alla media. Il ragionamento si fa più complesso, l’ispirazione più audace. Cioè la combinazione quotidiana dell’esercizio fisico e del lavoro intellettuale ha un’influenza ideale su quel genere di sforzo creativo che compie lo scrittore.”
Insomma se si sceglie un mestiere che richiede l’uso dell’intelletto, è necessario equilibrare tempi per la cura del corpo. Ovviamente, porta un esempio Murakami, se si ha mal di denti sarà complicato mettersi a scrivere, bisognerà prima recarsi dal dentista e poi a mente libera sarà possibile scrivere. L’attività fisica è indispensabile per temprare il corpo (e lo spirito di conseguenza), da sé serve a poco, ma legata all’esercizio della mente, dona creatività e capacità mnemoniche e analitiche moltiplicate. Propendere da un lato in maniera eccessiva farà nascere o un pompato incapace di usare la mente alla sua massima potenza, o un topo obeso da biblioteca che faticherà a pensare. Per non creare contraccolpi è necessario stabilire un equilibrio tra uso di mente e corpo. Niente di particolare, potremmo pensare, eppure i consigli di stile (di vita) di Murakami sembrano risultare un vero e proprio manifesto motivazionale, potremmo definirlo un coach della letteratura.
Certo chi sogna di fare lo scrittore prenderà alla lettera questi “TO DO”, che non vogliono risultare obblighi ma una finestra sulla sua stanza, gasati all’idea di diventare dei romanzieri che vivono delle proprie parole da trentacinque anni, come lui, perchè a scrivere un buon romanzo sono bravi tanti, difficile è invece rimanere sulla cresta dell’onda per molto tempo.
L’idea dello scrittore sempre sbronzo, fogli e whisky alla mano, è un’idea molto romantica, un po’ come quando pensiamo che tutte le canzoni scritte da un cantautore siano destinate a donne in carne ed ossa, mentre la verità è che spesso i nomi e le parole sono semplici sotterfugi per finire in rima una frase. Romanticismo svanito, gli scrittori alcolisti come Hemingway ci hanno lasciato troppo presto e in condizioni drammatiche, e questa è la fine che non si augura nessuno, si presume.
Prima di ogni punto su cui focalizzare tempo e sudore, Murakami ci fa una domanda molto semplice, che è quello che si è posto lui al punto in cui ha compreso la strada che sarebbe stata quella giusta:
“Prima di cercare qualcosa, come sono io?”
Ma soprattutto, come facciamo a capire cosa è necessario e cosa non lo è? E la domanda da porsi è la seguente:
“Ti ha dato gioia?”
E questa domanda si può applicare ad ogni ambito della nostra vita; se la risposta è “SI”, continuiamo ad abbracciare quel luogo con gioia ed entusiasmo, ma se la risposta è “NO”, la scelta è molto semplice, accantonare e passare oltre. Quante volte ci siamo arrovellati in giustificazioni per i comportamenti degli altri, in sensi di colpa inutili, quando invece se ci chiediamo se quella persona, quella cosa ci procura gioia e dolore, sarebbe molto più semplice potare i rami secchi e dedicarsi a qualcosa che invece ci accresce spiritualmente ed emotivamente.
Oltre alla composizione di un racconto o di un romanzo, alla creazione di personaggi interessanti e imprevedibili, all’uso delle figure retoriche e alla scelta di estranearsi in un paese lontano da casa per dedicarsi alla scrittura, Murakami ci regala un saggio che viaggia tra i suoi flussi di coscienza, tra i sassolini nelle scarpe che ai sessanta superati ha deciso di togliersi (in merito ai premi letterari ad esempio).
Murakami, infine, boccia dei critici “l’annientamento che finge di elogiare”, e tutti sappiamo che quanto più critichiamo, spesso (non sempre) combacia con quanto più vicino è ai nostri difetti e al nostro carattere. E’ nel sarcasmo dello scrittore che si rivelano le fucilate travestite da fiori, in questo bisogna ammettere meriterebbe il Nobel, è un talento innato, ma noi lo amiamo anche per questo.
Marie è sposata, ama suo marito con l’amore di una trentenne che vive la vita con gioia e con l’intensità e la maturità di chi comprende profondamente lo spirito delle persone e delle cose. Lo ama con l’attaccamento materno e con la passione giovanile, lo ama con sensualità e dedizione, lo ama come amica e come amante. Marie non si risparmia per il suo grande amore, quello del “per sempre”, un amore che accetterà i segni del tempo che passa, le abitudini, la routine. Durante una vacanza nel sud della Francia con Jean, suo marito, Marie e uno sconosciuto, un giovane abbronzato che sta sulla stessa spiaggia, si scambiano degli sguardi di intesa, sguardi che già nelle intenzioni scrivono il seguito delle loro storie.
In piena libertà sessuale, Marie vive questa relazione clandestina senza sensi di colpa, senza rancori, senza duri colpi nella relazione col marito, che continua ad amare intensamente e fisicamente, con una presa di coscienza maggiore e con maggior sincerità nei confronti di se stessa. Perchè Marie scopre che non si può essere pienamente felici se non si segue la propria natura; mentendo a se stessi ci si nega, si rovesciano i rancori e i livori alle persone che ci stanno accanto e ci si disconnette dal presente e dal mondo.
Niente sentimentalismi nella clandestinità di Marie e il ragazzo universitario che le regala qualche ora di gioia fisica e libera, che Marie accoglie con un sano egoismo; nessuna svenevolezza, solo dei momenti di piacere che la riportano in contatto con la parte più vera di sé, quella più femminile, più donna, più desiderabile.
La protagonista decide che l’infedeltà al marito Jean è la fedeltà alla Marie che cercava dal tempo in cui quell’amore gentile e abitudinario le stava lanciando un segnale di perdita. E’ una donna lontana dalle convenzioni sociali, ricordiamoci che il romanzo è stato scritto nel 1940, possiamo quindi immaginare lo scandalo che ne derivò. Marie ascolta solo la sua voce perchè è consapevole essere l’unica a poterle ridare la felicità che merita, lei che con maturità salda e ferma, soccorre una sorella che tenta il suicidio, e che accudirà per giorni ai piedi del suo letto.
Impossibile additare la Marie di questo romanzo, che parla a infinite donne; qui il tema non sono le scelte morali o immorali, il tema è la libertà, la libertà di essere se stessi come unico mezzo per raggiungere una felicità piena e consapevole; il tema è la grande volontà e l’immensa voglia di vita di questa giovane ragazza, che ama le persone, le atmosfere, le cose. Marie è capace di un amore che avvolge ma non soffoca, di un amore rispettoso ma anche di amori passionali e fugaci, di amori silenziosi e solitari. Marie trova in quelle fughe con l’amante, la ragione agli amori maschili, che nella sua realtà domestica la deludono come l’uomo che, una volta spossato dall’amore fisico, si gira a dormire dall’altra parte. In questo gesto, che può essere sostituito da altre abitudini tendenzialmente maschili, la donna si ritrova bisognosa di attenzioni e gentilezze che l’uomo lascia sulla strada del passato, ai primi giorni di corteggiamento. Madeleine Bourdouxhe racconterà infatti nel romanzo, la prima volta con il ragazzo senza nome, che la prenderà ancora, subito dopo il primo amplesso, e descriverà la felicità esplosiva della protagonista che pensa “allora gli uomini non sono tutti uguali”, ritrovandosi stretta a quelle braccia estranee, anche la mattina seguente, con una gioia persistente.
Marie è “la diversa”, diverse da tutte le altre, “non si riduce alla vita semplice, alla scelta di carte da parati o di copridivani”. Non ha un figlio, e se lo avesse, “lo amerebbe con tutta la sua carne e il suo cuore, ma non si rattrista né si rallegra di questa assenza”; certamente non lo considera l’unico scopo della sua esistenza.
Il tradimento, scarno di ogni pregiudizio, regalerà a Marie “la libertà di scavare nel suo inconscio e di ricostruirlo con le multiformi possibilità che offre la passione erotica. L’aiuterà a resuscitare la gioventù perduta; amplierà gli orizzonti del suo mondo”.
La radice è medievale, ma questa affascinante struttura ha subìto diverse contaminazioni nel corso dei secoli: si tratta di Borgo Ramezzana Country House, sita nell’omonimo paese.
Un insieme architettonico fatto di finestre ad arco spezzato e segnapiani in cotto, una misteriosa torre cilindrica dalle merlature ghibelline attraversata da una scala a chiocciola, Borgo Ramezzana è una delle Grange della vicina Abbazia di Lucedio, trasformata oggi in un “hotel de charme“.
Un luogo incontaminato abbracciato dalle dolci colline del Monferrato, Borgo Ramezzana conserva le sue origini e la sua storia; intatti i soffitti a volta affrescati, le travi in legno, i pavimenti in cotto, i caminetti e le scale in pietra.
Distribuite tra la “Casa padronale” e la “Casa del fattore”, le camere della struttura sono ben distinte per atmosfera e arredo, dalle suite in perfetto stile inglese, eleganti e dai preziosi dettagli degli antichi mobili in legno pregiato, alle camere di ambientazione orientale, intime e raccolte, dai pavimenti in resina verde e oro, posato con tecnica goffrata, che ben si sposa con i mosaici alle pareti e alla lussuosa porta del bagno in vetro satinato.
Vero fiore all’occhiello di Borgo Ramezzana, la Suite 900, un’alcova situata al piano primo che affaccia sul giardino dei bossi e delle rose con fontana del Borgo, affiancato dalla piscina privata dell’hotel.
Protagonista della scena, una grande vasca ovale di marmo bianco rialzata dal pavimento a larghe liste di legno in rovere, adornata sul soffitto da un affresco originale recuperato di ghirlande nei toni pastello.
King size il letto, un guardaroba scuro con guarnizioni in ottone dorato, e a riscaldare l’ambiente un caminetto su cui posa un cavallino grigio, souvenir di qualche viaggio.
Il ‘900 è raccontato anche nel disegno appeso a parete, ladies e gentlemen perfettamente habillée per una giornata di corsa ai cavalli, spettatori elegantissimi nei loro cappotti écru, dai cappellini infiocchettati e dagli ombrellini in stile orientale, in quella che sembra essere la campagna inglese.
Intima e romantica anche la sala del “Ristorante La Torre“, che propone le eccellenze del territorio reinterpretate in chiave contemporanea, da abbinare ad una importante carta dei vini dietro consiglio del personale di sala, preparato e gentile.
Una clientela internazionale gode dei piaceri di Borgo Ramezzana, tra i giardini fioriti e le sale, intervallate da carretti di legno e tavolini e sedie in ferro battuto, per un aperitivo a bordo piscina o una chiacchierata in intimità.
Ideale per matrimoni, cerimonie ed eventi, Borgo Ramezzana mette a disposizione grandi spazi e servizi efficienti per soddisfare ogni esigenza; unica nel suo genere, la chiesetta di San Giorgio disponibile per eventi religiosi.
Borgo Ramezzana Country House si trova a Borgo Ramezzana 3, Strada Provinciale 7
13039 Trino in provincia di VERCELLI.
Quello che ci tocca in prima persona diventa il vero motivo di cambiamento. Lotte Tisenkopfa-Iltnere, mamma, attivista e imprenditrice, fonda il brand MÁDARA dopo una reazione allergica del viso ad un prodotto di bellezza sintetico. Questo avvenimento è l’inizio del vero cambiamento e dell’impegno che Lotte mette nella ricerca e nello sviluppo costante del marchio, basato su 3 concetti fondamentali:
ingredienti biologici, innovazione e sostenibilità.
Tutte le formule di MÁDARA sono senza parabeni, siliconi, oli minerali, fragranze sintetiche, coloranti artificiali, filtri UV chimici, microplastiche e altri ingredienti discutibili; sono tutti certificati naturali e bio da ECOCERT/Cosmos. L’azienda possiede un polo produttivo tra i più tecnologicamente avanzati del Nord Europa – tutti i prodotti sono stati sviluppati esclusivamente nei laboratori di proprietà e prodotti sempre da MADARA, nel nucleo di Riga, Lettonia. Questo garantisce il 100% del controllo in tutti le fasi di sviluppo del prodotto, produzione e controllo qualità. MADARA esporta la sua clean Northern beauty -skin care, hair care e make-up certificati- in oltre 30 Paesi.
Basato sul rispetto per la natura, sull’eticità del lavoro e sull’efficacia degli ingredienti, MÁDARA crea delle linee ad hoc per ogni tipo di pelle, tenendo sempre presente l’importanza fondamentale di una buona idratazione. Qui i prodotti must have:
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Questa miscela multiuso di oli di enotera, borragine e semi di lampone, abbinata ad estratti vitaminici di olivello spinoso e rosa canina, fornisce una grande quantità di attivi energizzanti, mirati a diminuire secchezza, opacità e segni di stanchezza.
Ricco di acidi grassi essenziali, Omega 3-6, aiuta a migliorare l’idratazione e rinforza la barriera cutanea. La vitamina E aumenta la protezione quotidiana contro i fattori di stress esterni. Ricca di note profumate di agrumi e frutti gialli, l’olio leggero ad assorbimento istantaneo rivitalizza e ammorbidisce la pelle, lasciandola più liscia e luminosa.
GLI INGREDIENTI:
L’OLIO BIOLOGICO DI SEMI DI BORRAGINE contiene un’abbondanza di acidi grassi essenziali Omega 6 (fino al 24% di acido gamma linolenico (GLA) e fino al 39% di acido linolenico (LA)). L’applicazione topica dell’olio di borragine ha scientificamente dimostrato essere estremamente efficace nel migliorare l’idratazione della pelle.
L’OLIO DI ENOTERA è ricco di acidi grassi essenziali Omega 3 e Omega 6, tra cui l’acido linolenico (LA) e l’acido gamma linolenico (GLA). La ricerca mostra che l’olio di enotera è notevolmente efficace nell’alleviare i sintomi della disidratazione e nel migliorare le imperfezioni della pelle. Nutre e protegge la pelle dalla perdita di elasticità e compattezza.
IL TOCOFEROLO (vitamina E) è una vitamina naturale, derivata dalla soia. La vitamina E è uno dei più importanti antiossidanti e anti- radicali liberi, che favoriscono il mantenimento dell’idratazione cutanea. Difende le cellule della pelle dall’inquinamento e da altri fattori di stress ambientali, lenisce la pelle e combatte i segni del tempo.
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“Bellezza e tristezza”, il romanzo di Yasunari Kawabata
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Toshio Oki è un cinquantacinquenne sposato, ha due figli e un passato fedifrago con una donna che ancora non riesce a dimenticare. Lei, l’amante, si chiama Otoko Ueno e all’epoca dei fatti aveva sedici anni. Hanno vissuto una storia clandestina che ha il timbro di quelle che durano una vita ma che capitano una volta soltanto. Tendenzialmente a senso unico, come in questo caso, la relazione è quella di un uomo che scappa dalla quotidianità, dalle abitudini, che si aggrappa alla bellezza acerba, fresca e ingenua di un’adolescente; e di una ragazza piena di sogni e di speranze romanzesche, di dedizione tutta femminile, di idealizzazioni dettate dalla poca esperienza; una relazione che mette a rischio qualcuno, e nella maggioranza dei casi la controparte femminile. Otoko infatti rimane incinta ma perde il figlio appena nato; la sua sofferenza di giovane madre e di donna che avrebbe teso un laccio all’uomo che ama, nonostante egli sia sposato e abbia già prole, si contrappone al sollievo di Oki, codardo ed egoista.
Il percorso di Otoko sarà violento e tormentato, la ragazza attraverserà le sbarre di un ospedale psichiatrico, per poi uscirne in completa solitudine, ancora bruciata da quell’amore immaturo ma eterno. L’unica sua compagnia, a parte l’arte che l’ha resa una pittrice di fama, sarà Keiko, una splendida ancella docile e obbidiente, schiava d’amore e di letto; un temperamento che molto spesso nasconde malie penetranti e quasi mai delle buone e sane intenzioni.
Trascorsi molti anni dalla loro separazione, i due amanti hanno perso le tracce l’un dell’altra, quando per la notte di capodanno, Oki ha il desiderio di sentire le campane che segnano la fine dell’anno a Kyoto, città dove ora vive la sua ex amata. I due si incontreranno ad una cena formale in presenza di due geishe e dell’ambigua e gelosa Keiko. Sarà lei a gestire il destino dei personaggi fino alla fine del romanzo.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1968, Yasunari Kawabata riesce a raccontare con una straordinaria perspicacia la follia amorosa, la gelosia cieca di una donna, come se a raccontarla fosse la donna stessa. Come un Truffaut della letteratura, ha la capacità di sfogliare una ad una tutte le personalità dell’essere femmineo, ogni strato e substrato, ogni cosa detta e ogni intenzione non detta. Dalla fedele dolcezza di Otoko alla perfidia sofferente di Keiko, Kawabata disegna un quadro che ha tutti i sapori dell’Oriente. Compresi tanti cliche’ decisamente nipponici, dai morsi fanciulleschi da cui stillano goccioline di sangue alla negazione immobile del corpo femminile, Kawabata ci spruzza dentro tutto il rosso del Giappone, i corpi bianchi e lucenti ed i capelli nero corvino, l’abbandono muliebre forzato e la foia incontrollabile virile.
Keiko sarà la grande protagonista alla fine, sarà lei a cambiare le sorti, sarà lei a vendicare le ingiustizie della donna che ama con incoscienza e con la morbosità di un’orfana, sarà lei a dare lo stesso peso alla vita e alla morte, in una cornice meravigliosamente descritta, dove i pensieri fluiscono tra i giardini di muschio di Saihoji e le rocce astratte, tra i ritratti di Tsune Nakamura e le opere lievi e delicate di Odilon Redon.
Ha ritratto le più grandi star di Hollywood come nessuno le ha mai viste, icone di stile, top model, designer e cantanti, dedicando(si) del tempo per cogliere quelle sfumature della personalità che solo un occhio che ha cuore può fare.
Così lo descrive Marisa Berenson, ex attrice e modella, nipote di Elsa Schiaparelli, che apre il libro “Michel Haddi – Anthology Legends” con una prefazione:
“Ci sono vite che brillano e portano gioia a molti. Michel Haddi è uno di quei destini. Ha iniziato in solitudine con un profondo senso di vuoto, e ha costruito la sua vita con forza, coraggio e dignità realizzando i propri sogni. Tutto ciò che sa lo ha imparato da solo, abbracciando la vita con infinito ottimismo, senso dell’umorismo e avventura. È potente e fragile, duro e romantico, sensibile e forte. Nel corso degli anni è stato insegnante, editore di molti bei libri e riviste di sua creazione, regista e fotografo di fama mondiale. La sua personalità è più grande della vita di tutte le celebrità su cui ha messo gli occhi. Le sue fotografie esplodono di personalità, sensualità, umorismo, bellezza, oscurità e luce, sono multidimensionali, accattivanti. È un uomo d’onore, con un grande cuore, è generoso e gentile e un amico fedele e premuroso. È divertente ed eccentrico, un uomo originale che pensa fuori dagli schemi. La sua infinita curiosità, conoscenza e cultura sono la base della sua grande creatività. Ama le donne e per questo le comprende.“
Abbiamo intervistato Roberto Da Pozzo, art director di questo immenso lavoro, pezzo immancabile nelle librerie degli appassionati di fotografia, edito da Yuri & Laika e disponibile anche su Amazon.
Sean Connery, David Bowie, Denzel Washington, Kate Moss, Gwyneth Paltrow, Keanu Reeves, solo alcuni dei ritratti raccolti in 40 anni di carriera del grande fotografo; cosa significa lavorare all’antologia fotografica di Michel Haddi?
Significa guardare e scegliere milioni di immagini di un grande autore; cercarne un senso estetico ed armonico nell’ abbinare le varie fotografie come doppie pagine, il mio marchio di fabbrica.
Quali sono i compiti di un Art Director nella cura di un libro fotografico?
Oltre all’ardua scelta delle immagini, di grande importanza c’è anche l’impaginazione grafica, la sequenza e la scelta della cover, uno studio che richiede tempo, grande senso estetico, buon gusto, una buona logica e ore ed ore di prove tecniche.
Esiste una sequenza logica nella scelta delle foto di un libro?
Io uso quella emozionale .
E’ stata difficile la scelta delle immagini?
Siamo partiti dal suo intero archivio, il che significa 80% di ritratti di persone famose tra attori, cantanti, registi… Ho cominciato a scegliere una o due foto a soggetto per poi legarle insieme e creare una sequenza, come il montaggio di un film. L’essenza del libro ora è di circa 400 pagine .
Perchè Michel Haddi ti ha scelto per questo lavoro? Quali sono i tuoi punti di forza?
Ci conosciamo dagli anni ’90, da quando facevo l’Art Director di alcune testate del gruppo Vogue; siamo amici, ma soprattutto sa che rispetto il lavoro degli altri, ad esempio non taglio mai le foto degli autori per aiutare una certa impaginazione, non le snaturo, sarebbe irrispettoso. La mia firma sono le doppie pagine, l’accostamento di due immagini che si richiamano tra loro, come una sequenza, come uno zoom, come un’assonanza. E la grafica non è mai invasiva, devono comandare i soggetti in fotografia, non le parole.
Che tipo di rapporto vi lega?
Ci lega un rapporto di stima reciproca e di grande rispetto per le nostre professionalità; siamo più o meno coetanei e con un passato lavorativo simile, gli stessi valori e le stesse referenze culturali. Per dirla in breve abbiamo gli stessi codici di lettura delle cose.
Come descriveresti il lavoro di M.H.?
Michel Haddi è un fotografo che crea delle immagini molto forti e sopratutto rubate. Non sono dei ritratti classici con il soggetto in posa; spesso invece è decentrato, tagliato, va all’essenza dell’individuo e riesce ad istaurare un rapporto speciale con chi sta davanti all’obiettivo. Si relaziona alle star o ad un parcheggiatore nello stesso modo, e ottiene sempre quello che vuole!
Qual è la parte del lavoro più divertente di un Art Director?
Quando arrivano i pensieri, i momenti in cui le idee sono ancora fluttuanti, concettuali, aeree. Poi arriva la parte dell’applicazione, e in questo sono davvero maniacale!
Significato e importanza del lavoro fotografico oggi
Oggi più che mai ha molta importanza un lavoro autorale perchè dall’altra parte siamo subissati di immagini di scarsissima qualità, che arrivano soprattutto dai social network e che sono soprattutto selfie. C’è un abuso della fotografia, uno stupro dell’arte fotografica, si va poco in profondità e siamo bulimici di immagini. Immagini che non raccontano e non danno niente, ma chiedono in cambio tanti like.Previous
Talvolta è il destino stesso a bussare alla nostra porta, sui post-it dei “TO DO” abbiamo una lista intonsa e tutt’a un tratto la scena della nostra vita cambia, chiude il sipario e il panorama è totalmente diverso. E’ successo anche ad Alessandro Oteri, fondatore del brand omonimo che ha fatto della scarpa da donna il suo nuovo “mood of life”.
Alessandro Oteri andava a trovare una cara amica, ma la porta a cui busso’ era quella sbagliata, o forse quella giusta, e ciò che vide non fu un bell’appartamento con dettagli muliebri, tende e pareti rosa, ma un laboratorio di scarpe, un monito forse. Vigevano, era lì che si trovava, la città delle scarpe, la capitale della calzatura, erano gli anni ’90 ed Oteri era un giovane responsabile in un Istituto di Certificazioni CEE per ascensori, oltre ad essere un nuotatore professionista. Dalle pinne alle scarpe, Oteri decise che l’accessorio per eccellenza della donna sarebbe diventato il suo unico dio.
Dopo aver soverchiato il periodo cieco, Oteri si imbarca per un altro mare e inizia a lavorare presso un’agenzia di marketing e comunicazione il cui prodotto è appunto la scarpa. Scopertosi proclive all’oggetto, fonda il brand su cui figge una missione: quella di rendere la décollété la sua unica mena.
Perchè ha scelto l’accessorio scarpa da donna?
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Perchè riassume due anime: quella pratica e quella certa. Cosa intendo? Tutte le donne hanno bisogno di scarpe, molte di loro hanno una grande passione per la calzatura e le cercano belle, e tutte le donne chiedono scarpe comode; difficilmente vengono del tutto accontentate. Il mio compito è quello di creare equilibrio tra questo ménage, con una scarpa esteticamente allettante e che al tempo stesso possa essere indossata tutto il giorno senza conseguenti dolori ai piedi.
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E come ci riesce?
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E’ prammatica per un’eccellente scarpa utilizzare la pelle, una buona pelle cede col tempo e non “taglia” i piedi della donna, cosa che invece potrebbe succedere con una calzatura fatta in tessuto, a causa delle colle che vengono utilizzate per assemblarle.
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E la produzione?
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Parabiago ovviamente, l’eccellenza in fatto di calzature; l’esperienza e la qualità sono imprescindibili per questo mercato, che ha infiniti concorrenti, ma che nel corso del tempo ha cambiato modello di business esportando la produzione per abbassare i costi. Compromessi a cui io non voglio scendere, per nessuna ragione. Tutti gli investimenti sono destinati ai miei fedeli produttori di Parabiago, che mi hanno sempre sostenuto e che non hanno rivali in materia. Alzo la qualità e continuo a produrre in Italia, ma con la scelta di dedicare ogni sforzo su un unico modello: la décollété.
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Perchè la décollété?
Lasciamo a René Caovilla il sandalo gioiello chic, a Manolo Blahnik la parte glamourous e a Louboutin i modelli strong/rock, io prendo il modello a cui la donna non può rinunciare, quello evergreen abbinabile ad ogni tipo di outfit e stile.
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E come lo rende speciale?
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Teniamo presente il grande limite dell’oggetto, e cioè che lo spazio di espressione si concentra sulla punta, è quello il foglio bianco, la tela su cui bisogna disegnare e raccontare il proprio stile. Io sono un curioso, uno sperimentatore, un materico, prendo a raccolta tutti i codici del mestiere, i consigli degli amici stilisti e racconto una donna elegante che sposa la mia idea di semplicità vanesia.
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Qual è la parte più dura del lavoro?
I passaggi. Pochi giorni fa contavo nei miei appunti ben 18 passaggi per raggiungere il risultato finale: bisogna contattare fornitori di tacco, suola, sottotacco, pelli, galvanica, accessorio se lo ha, taglio e cucito per le stoffe, produttori della scatola… E’ una macchina complessa e continua a infiniti perfezionamenti.
Atelier Alessandro Oteri
E la parte più divertente?
Il contatto con le clienti e la vendita. Discernere e rispondere al desiderio delle donne, chiacchierare allegramente con loro, instaurare un rapporto di fiducia reciproco. Non a caso oggi il mio Atelier è anche la mia casa, un luogo, un salotto dove poter fare “pan conversation”. Si fanno ciacole davanti ad un caffè fumante, un te’ indiano e, se l’ora lo permette, un piatto di pasta all’italiana!
A quali donne si rivolge il brand Oteri?
Alle indomite dei tempi moderni: oggi va bene tutto ed è un tutto che a me non piace, basta aprire i social network per rendersene conto, congerie volgari, venefiche e passeggere. Il mio è un messaggio di eleganza, di semplicità, di praticità e comodità.
L’alcool non mente: durante le nozze di Piritoo e Ippodamia, principi della Tessaglia, il Centauro più forte tra gli invitati perse il controllo infuocato dal vino, avventandosi sulla sposa nel tentativo di rapirla. Teseo, amico degli sposi, intervenne lottando col centauro, strangolandolo e impugnando una clava per fermare la sua pazzia, bloccandolo con il ginocchio al petto, nella parte esatta in cui finisce l’uomo e inizia la bestia.
La forza del gesto e tutta la sua drammaticità, viene periziosamente scolpita da Canova, nella statuta intitolata appunto “Teseo in lotta con il centauro” del 1805, ora custodita all’ingresso del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
“Teseo in lotta con il centauro” 1805, Canova
Un inizio in pompa magna per una delle collezioni d’Arte più importanti del Mondo. Testimonianza della passione degli Asburgo per il collezionismo, il Museo fu fondato da Francesco Giuseppe per ospitare le collezioni imperiali: oggetti provenienti da cinque millenni, dal periodo degli Antichi Egizi fino alla fine del Settecento; la più vasta raccolta di dipinti di Bruegel e i capolavori di Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens, Van Dyck, Van Eyck, Dürer, Vermeer, Rembrandt, Raffaello, Caravaggio, Velázquez…
Highlights:
Torre di Babele – Pieter Bruegel 1563
Dio punisce gli uomini che vogliono ergersi al cielo, perché l’ascesa deve essere spirituale e non carnale. La Torre che il popolo costruisce in altezza, popolata da uomini che parlano la stessa lingua, è la leggendaria costruzione narrata dalla Bibbia nel libro della Genesi. Riuscendo a leggere nei cuori della gente, Dio scopre l’intenzione della costruzione, cioè l’ottenimento di un “gran nome” e non la proliferazione sulla terra come esseri uguali, come suo volere, cosicché Dio, per punire l’umanità come fece con Adamo ed Eva in principio, decide di confondere le lingue in modo da non permettere la comunicazione. Bruegel dipinge la scena nel 1563, una rappresentazione carica di simboli e significati, definita tra le opere più immaginifiche dell’arte; il pittore rappresenta una torre storta, costruita con due tipi di mattoni differenti e basata su leggi architettoniche distanti tra loro: una risulta essere simile a quella del Colosseo di Roma, l’altra basata su tronchi di coni sovrapposti. Un’opera “impossibile” in partenza, che definisce l’imbecillità umana e l’imminente catastrofe. Una spirale che non verrà mai completata, un dipinto maestoso di un pessimismo cosmico.
Torre di Babele – Pieter Bruegel 1563
Susanna e i vecchioni – Tintoretto 1555/1557
Una giovane donna fa il bagno in un giardino scuro, ma una strana luce la colpisce ammorbidendone i tratti ed il corpo nudo; due anziani la spiano da dietro una siepe, mentre lei si rimira alla specchio con aria innocente.
Siamo nel 1555 circa e Tintoretto sceglie il nudo per rappresentare la storia di Susanna dell’Antico Testamento, una bella innocente che rifiuta due vecchi intenti a concupirla e a minacciarla di adulterio qualora lei non si fosse concessa a loro. Dopo il rifiuto della giovane, i due vecchi la portano davanti al Tribunale che la condanna ingiustamente, quando l’onesto Daniele si fa avanti contro i due falsi giudici e, interrogandoli, svela le loro menzogne davanti al popolo che scagionerà Susanna.
Susanna e i vecchioni – Tintoretto 1555/1557
Zigzagando per il Kunsthistorisches Museum ci si imbatte in una luce divina, diffusa dal grande quadro di Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura” databile 1666, entrato in possesso di Adolf Hitler nel 1938 e passato al museo viennese nel 1946.
Per gli esperti questo è il “testamento artistico” di Vermeer, di dimensioni importanti (120×100), il quadro non è mai uscito dall’atelier dell’artista prima della sua morte.
Come una sorta di teatro, la scena si apre attraverso una tenda che ci mostra un ambiente domestico in cui un pittore è intento a dipingere una giovane donna; potrebbe essere Vermeer stesso che si raffigura con un bastone poggia-gomito che ha un pezzo di stoffa alle estremità per non rovinare la tela; la luce arriva sempre da sinistra rispetto all’osservatore, la profondità è data dalla pavimentazione a scacchi e dalle travi del soffitto. Seguendo l’onda della “teatralità”, Vermeer posiziona una maschera di gesso sul tavolo, elemento simbolico che ci lascia una domanda in sospeso: “cosa è realtà e cosa finzione?“.
Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura” 1666
Per avvicinarci alla vita imperiale, non possiamo non visitare la stanza delle infanti di Velazquez.
Il ritratto dell’infanta Margarita Teresa in abito blu è forse il migliore della serie, ed è uno dei molteplici ritratti richiesti all’artista, che mostrasse il lento divenire dell’infanta, sottolineandone i cambiamenti, le trasformazioni, i guizzi dell’espressione, i cambi delle mode, la postura, opere che servivano allo zio Leopoldo I d’Asburgo, a cui era stata promessa in sposa.
E’ la seconda metà del XVII secolo e la moda in Spagna prevede ancora l’uso di gonne esageratamente ampie; l’abito è protagonista nel suo blu di seta cangiante, dalle profilature dorate e dal grande fiocco appuntato dalla preziosa spilla al centro del bustier. Le maniche sono voluminose e si stringono sul polso finendo in romantici ed impalpabili voile; la piccola Margarita Teresa porta un guanto sulla mano destra, mentre la sinistra, spoglia, tiene un manicotto di pelliccia, da sempre simbolo di prestigio e di potere.
Leopold Museum
Patria dell’erotismo, Vienna non poteva non ospitare la più grande raccolta del più grande conoscitore dell’erotismo in pittura: Egon Schiele al Leopold Museum che con Gustav Klimt rappresenta il più alto esempio di pittura moderna in Austria, nel dettaglio quel movimento artistico chiamato “Secessione”. Un’ampia sezione è poi dedicata alle opere grafiche ed oggetti del XIX e XX secolo, tra cui il prezioso artigianato artistico di Koloman Moser, designer e decoratore austriaco; Adolf Loos, famoso architetto considerato il pioniere dell’architettura moderna, autore del mitico “Loos American Bar“, una vera chicca art deco’ di 27 metri quadri di legno, vetro, ottone, onice, eleganza, buon gusto, specchi, ottimi cocktail, barman italiani, e una clientela chic e raffinata.
A spiazzarci la prima opera nel percorso al Leopold Museum, il Nudo Maschile, autoritratto di Schiele del 1910, un corpo scavato e spigoloso, contorto su se stesso in una posa innaturale, dai colori verdi e gialli e marroni, tonalità caratteristiche della malattia, dell’ansia, dell’irrequietezza, della pena, cromìe usate anche in ambito cinematografico per rappresentare la follia, la pazzia, pensiamo a Nicolas Winding Refn e alla policromia ossessiva delle sue pellicole, dai verdi intensi come il verde imperatore e il verde mirto. Un’immagine di forza e decadenza, una figura che sembra quasi scolpita nel legno, un uomo senza piedi che galleggia in uno spazio bianco surreale.
Nudo Maschile, autoritratto di Schiele 1910
Pulsioni e angosce, sessualità e morte, sono i temi frequenti del suo mondo artistico, Schiele si butta sul corpo con voracità e una verità sfacciata, riduce l’anatomia a corpi mutilati, disegni non finiti, donne amputate; negli autoritratti la gestualità è nervosa ed è evidente l’influenza della psicoanalisi freudiana, disegna con profonda introspezione.
Soggetti straziati e sofferenti, stretti in intensi abbracci, come di un abbraccio che indica un addio, Schiele rappresenta quasi profeticamente il suo destino: morirà per influenza spagnola solo tre giorni dopo la morte della moglie.
E’ una produzione intensa seppure breve, trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquerelli e disegni, fatti di corpi di una nudità carnale, brutale, dai tratti nervosi e dalle mani nodose, contorte come in una smorfia.
Spregiudicate e a tratti oscene, le pose delle modelle di Schiele sono simulazioni erotiche, masturbazioni, che provocò al pittore non pochi fastidi in vita, come la condanna e l’arresto per diffusione di immagini immorali, oltre all’accusa di molestie su una minorenne, che poi cadde. Era la sua “pornografia” artistica ad essere condannata.
Il turbamento profondo di Egon Schiele si riversa sulle sue tele, che sono come un diario dove confessa la sua arresa alla vita, in un pessimismo sentimentale e malinconico; intenso il ritratto di donna del 1912, lacrimosa e sofferente per il distacco con il pittore stesso, di cui percepiamo la presenza dietro di lei, vedendone appena il volto ed una rosa rossa.