Pagani, hypercars d’autore

Leader mondiale dell’automotive, è il brand delle hypercars da sogno. Macchine futuristiche, dai 2 ai 20 milioni di euro, e sono nate dalla mente di un bambino che già a 10 anni le scolpiva nel legno: è il genio di Horacio Pagani, grande appassionato di scienza, design e studioso di Leonardo Da Vinci. Oggi Pagani Automobili produce dalle 40 alle 50 macchine l’anno, e sono destinate a uomini e donne che possono concedersi il lusso del collezionismo d’auto. Sono oggetti totalmente artigianali, il più piccolo bullone è brandizzato e viene lavorato a mano. Pagani non è solo un brand di successo mondiale, è la storia di un grande uomo che partito dalle pampas argentine è arrivato in Italia con una tenda e un grande sogno nel cassetto, è un messaggio universale che ci sprona a pensare in grande e ci aiuta a credere in noi stessi.

Che cosa sognava Horacio Pagani da bambino?
Ho avuto fin da ragazzino una passione molto forte per l’arte e una grande curiosità per le materie artistiche e ho trovato nell’automobile, nonostante abitassi in mezzo alla pampa dove non c’era né cultura automobilistica né di design, un oggetto dove queste discipline potessero convivere e stare insieme. È a 13 anni che lessi la mia stessa convinzione su un articolo del mensile Reader’s Digest che citava Leonardo da Vinci; due paginette che raccontavano l’arte e la scienza come due discipline che possono camminare mano nella mano; è stato illuminante e mi ha condotto all’approfondimento di altre arti come il disegno e la musica, spinto anche da mia madre, la vera artista di casa. Iersera, a cena con il CEO di Ferrari, Benedetto Vigna, ricordavo di aver scoperto le supercar in bianco e nero, quelle che un tempo chiamavamo GT, attraverso una rivista argentina e la tv dove ammiravo Maserati, Lamborghini, ma i colori erano solo nella mia immaginazione.

All’interno del Museo Horacio Pagani di San Cesario sul Panaro, sono esposti dei modellini in legno che lei aveva scolpito e lavorato da bambino, a che età?
Avevo 10 anni e impressi nella memoria i modelli di macchine modenesi, inglesi, le Jaguar e cercavo di disegnarli sui fogli a quadretti che usavo a scuola e successivamente riprodurli con i materiali che avevo a disposizione, come il legno balsa o una lattina di Nesquik, materiali di un bambino.

Da dove trae ispirazione per i modelli Pagani?
Una personalità curiosa osserva tutto e il design è la somma di altre materie, tecniche ed artistiche. La mia era una famiglia umile, papà fornaio e mamma una donna con grande manualità, per noi faceva i vestiti su misura che se non abbinavamo bene per colori erano guai; avevamo due paia di scarpe, uno per fare ginnastica e l’altro in pelle per tutti i giorni; la casa, seppur semplice, era sempre perfetta nei dettagli, per cui l’estetica è dna materno, mentre il rigore, la disciplina, il senso di sacrificio nel lavoro, quello arriva da mio padre. 

Facendo un passo avanti negli anni, lei inizia a lavorare per l’azienda Lamborghini, che ruolo ricopriva?
Operaio di terzo livello nel reparto carrozzeria. Avrei dovuto essere assunto come designer ma il periodo di grande crisi non permetteva la partenza del progetto, nonostante io in Argentina all’età di 21 anni, avessi già creato un’automobile. Era una grande opportunità e arrivai in Italia con Cristina, mia moglie, che all’epoca aveva solo 19 anni e si mise alla ricerca di qualsiasi lavoro in attesa che io potessi entrare in azienda. Ero sempre il primo ad entrare la mattina e l’ultimo ad uscire la sera, sabato compreso; ho cercato di dare il meglio e sono stato ricambiato. 

Appena è arrivato in Italia lei viveva in una tenda, è corretto?
Appena arrivati in Italia si, poi quando ho iniziato a lavorare per Lamborghini ci siamo trasferiti in un appartamento.

E’ vero che lei ancora oggi arriva nella sua azienda con la felpa firmata Lamborghini?
Vero, ma non solo Lamborghini, anche Ford, Ferrari, io amo le macchine, ma soprattutto ho una forte riconoscenza verso anni meravigliosi a cui mi legano importanti ricordi. 

Cosa rappresenta per lei l’automobile?
La mia vita. L’automobile possiede un’anima, perché dietro quell’oggetto c’è la passione di chi l’ha creata, gli enormi sacrifici, la tenacia, la perseveranza. Guidare una Ferrari significa capire lo sforzo di Enzo Ferrari e lo stesso vale se si è a bordo di una Lamborghini e del mondo legato alla tauromachia di Ferruccio, il suo fondatore. 

In cosa si differenzia nella Motor Valley il brand Pagani, oltre a costruire un’auto totalmente artigianale?
Maserati ha più di cent’anni, Ferrari ne ha 75 e produce diecimila auto l’anno, Maserati ne fabbrica di più, sono cresciute nel tempo, noi invece siamo rimasti una ditta artigiana dove l’automobile si crea con le mani, con le persone, il più piccolo bullone viene rivisto e limato da un uomo e la nostra produzione conta una macchina alla settimana. Non siamo più bravi degli altri, semplicemente possiamo dedicare più tempo alla creazione, e seguire ogni singolo cliente perché facciamo numeri piccoli. 

Quante auto vengono prodotte in un anno?
Secondo la complessità dell’automobile, dalle 40 alle 50 macchine.

E’ vero l’aneddoto (molto divertente) che la vede intento a inscenare una finta impresa con tanti operai, che erano in realtà suoi amici vestiti della divisa Pagani, per cercare di ottenere qualcosa da Mercedes?
Un teatrino divertente per convincere Mercedes a darci il motore, due addetti dell’azienda tra cui un esperto in motore e uno in telai e noi quattro gatti in un capannoncino a Sant’Agata, rinforzati da vicini e amici a cui ho dato un camice con logo Pagani, ed eccoci qua. 

Chi è il vostro cliente tipo?
Venti anni fa poteva avere circa 50 anni, perché una Pagani costava tre volte tanto un’auto; oggi l’età media si è abbassata, ci sono giovani imprenditori, commercianti, industriali, molti di questi partiti da zero, che oggi si coccolano con supercar e velocità.

Sono auto da collezione?
Esistono i due estremi, c’è chi le usa tantissimo, quasi ogni giorno in strada, d’altronde sono molto facili da guidare, e c’è chi le tiene come oggetti preziosissimi da collezione. Un cliente di Hong Kong aveva acquistato 4 Pagani e aveva creato una sorta di garage, una serra tutta in vetro così da casa poteva vedere il giardino e le sue auto tutte km 0. Per un’occasione organizzammo un piccolo raduno un weekend e io portai una mia macchina personale, questo signore per partecipare tirò fuori una delle auto e la usò per fare questi 400 km, però dopo la vendette e si comprò un’altra macchina a km 0 perchè le voleva avere tutte intatte. Invece oggi è arrivata una Pagani che avrà 3 anni, per fare il tagliando degli 80.000 Km. Ecco gli estremi. 

Un collezionista puro è facile che voglia conservare i propri oggetti intatti, c’è forse una forma di rispetto
In garage ho una Porsche che appartiene ad una serie di cui ne esistono solo 76 al mondo, qualche giorno fa l’ho tirata fuori per posizionarla sotto alla finestra e mi sono accorto di non averla mai messa in moto; mi sono seduto e non vedevo neanche fuori dal finestrino perché il sedile era troppo basso, non l’avevo mai guidata, me ne sono accorto facendo quei 20 metri. Però è bello anche questo.

Che cosa legge?
Mi piacciono moltissimo le biografie, le autobiografie, la storia. Ora sto leggendo la vita di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, lo sto divorando, ce l’ho in macchina e credo lo finirò prima del weekend. E poi amo leggere e studiare la vita di Leonardo, figura onnipresente nella mia vita, possiedo una delle collezioni di libri più complete al mondo su Leonardo, divisa in 4 biblioteche. 

Avete presentato in anteprima mondiale il terzo modello di Pagani, a Milano presso il Museo della Scienza; quanto anche in questo nuovo progetto è coinvolto il genio di Da Vinci?
Leonardo è stato il mio mentore fin da bambino, è presente nella vita di tutti noi, quando passeggiamo per le vie di Milano che anche lui ha vissuto nel suo periodo più florido. La presentazione del terzo modello Pagani, frutto di un lavoro di 7 anni, è avvenuta nella Sala del Cenacolo, per omaggiarlo in qualche modo. Il 2023 festeggeremo i 25 anni di storia e questo terzo modello per noi è un passaggio molto importante.

Il terzo modello Pagani è molto diverso dai primi due?
Si, una macchina totalmente nuova a cui abbiamo dedicato 7 anni, un’allure romantica, che richiama un poco i ’60-’70 , ha colori e interni in pelle diversi dalle prime, anche se le linee devono sempre rispettare la natura Pagani.

Che cosa l’ha ispirata?
Le ispirazioni sono sempre le belle donne, nella bellezza, nell’eleganza, nello charme; la donna ha molto carattere in questo secolo.

Chi è Horacio Pagani nella vita privata?
Un lavoratore, un sognatore, cerco di fare quello che mi piace, cerco di gestire una ditta che ha 180 dipendenti e la responsabilità di 180 famiglie. Mi alzo la mattina con tanta voglia di fare, ma ho le stesse paure che hanno tutti gli esseri umani, e quando ci sono dei momenti brutti la notte diventa infinita, ma per fortuna riesco sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno. Sono un’ottimista, figlio di un fornaio e partito tre piani sotto terra.

Che cos’è la felicità?
Un percorso, come la sofferenza o la tristezza. La vita è un grande esperimento, non c’è niente di certo, per esempio questo tetto ci potrebbe cadere in testa anche fra 5 minuti, per questo siamo vicini alla porta d’emergenza e in questo esperimento che è la vita, il tuo dovere è cercare di essere più felice possibile, per onorarla. E la nostra vita segue i ritmi della natura, dove convivono il giorno e la notte, e la seconda è fatta di paure e incertezze, si cammina nel buio, però fortunatamente arriva sempre il giorno e con lui la luce. Per cui anche la sofferenza, la tristezza, il dolore, sono necessari per dare valore al giorno, alla gioia, alla felicità. 

La sua paura più grande?
Mah vedi alla mia alla mia età la paura più grande è che i miei dipendenti rimangano senza lavoro; l’età media in azienda è 33 anni e il mercato dell’automotive più di una volta ci ha fatto tremare e temere per questi ragazzi, i loro bambini e le rispettive famiglie. La morte non mi spaventa.Personalmente ho tutto quello che mi serve, mi basta davvero poco, se ho una bicicletta e delle scarpe comode per venire al lavoro per me è sufficiente e anche la mia famiglia in questo è simile a me. 

Domanda di rito, quanto è Snob Horacio Pagani?
Io non credo di essere tanto Snob, ho scelto questo lavoro e questo prodotto perchè mi appassionava. Se al passaggio delle nostre macchine tutti si girano per guardarle, perchè sentono il rombo del motore o vedono una linea speciale, è come se mi voltassi per guardare una bella donna, ma quella donna posso definirla Snob? No, è solo bella. 

La nostra video intervista a Horacio Pagani

Intervista del direttore: Miriam De Nicolò
Regia: Giovanni Piscaglia
Dop: Giuseppe Campo

Editoriale

SNOB (Non per tutti) nasce dall’esigenza di un ritorno al bello e alla verità; 
SNOB è il nuovo progetto editoriale, frutto di quattro professionisti del settore che credono nell’importanza della cultura come equilibrio tra immagine e parola. 
Ma chi è lo SNOB che spesso sfugge alle etichette? Il professore di Oxford Jasper Griffin, uno dei massimi filologi classici viventi, ne ha raccolti alcuni nel libro che porta il nome del nostro giornale, da Virginia Woolf a P. G. Wodehouse, da Elsa Maxwell a Marcel Proust, ça va sans dire. 
E questi personaggi hanno certamente qualcosa di unico, identitario, riconoscibile e magnetico. È a loro che ci ispiriamo ed è dalla società anestetizzante dei social network che fuggiamo, questa piaga sociale del brutto, dell’identico, del copia e incolla. 
Non siamo un tutto materialmente costruito, per questo è fondamentale prendere coscienza e conoscenza di ciò che ci circonda, delle cose del mondo e scrivere il nostro testamento sociale, creare la nostra personalità distinta dagli altri.
L’intenzione di SNOB è certamente quella di ridurre la banalità sostituendola con l’arte, la musica, la psicologia, la fotografia, le storie di successo di grandi imprenditori che spronano a fare meglio e producono sano entusiasmo, la verità delle persone dietro ai personaggi. SNOB cerca di dare spessore agli argomenti trattati, per esercitare sullo spirito di tutti i lettori un influsso benefico rendendo democratici concetti che possono apparire astrusi e lasciando la parola agli esperti in materia, che possano raccontare un argomento con parole semplici. 
SNOB Non per tutti vuole essere per tutti. 

SNOB crede nella potenza del sapere e nella forza della parola, riporta al piacere della lettura, certi che ne gioverete nella conversazione e che possiate appropriarvi di questo mezzo di carta per farlo vostro, usarlo, e sfruttarlo. 

SNOB è digital e printed, vuole essere neutro, per questo tratta sempre argomenti contrapposti, che in questo numero saranno EROS ed ETHOS. 
Abbiamo intervistato Asia Argento che racconterà la sua nuova rinascita; siamo stati con Maurizio Lombardi che ci ha svelato passioni, emozioni e paure; abbiamo conosciuto Don Daniele, un giovane sacerdote che ha svelato un passato da erotomane e si è riscoperto votato al Signore; abbiamo raccolto le storie dei più grandi imprenditori italiani nel mondo, tra cui Horacio Pagani, creatore di supercar da collezione, pezzi unici totalmente artigianali, che ha riportato le difficoltà incontrate all’inizio dell’attività imprenditoriale. 

Swann, un personaggio de “La Recherche”, diceva: “Quel che rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali”, ecco noi vorremmo regalarvi con questi numeri da collezione, che avranno cadenza semestrale, quei libri che lasciano il segno; c’è chi troverà le risposte dentro un’intervista, chi tra le parole di un musicologo, chi tra le pieghe di un abito di seta, noi promettiamo di fare sempre del nostro meglio e regalarvi argomenti e persone interessanti, provando ad entrare un poco nelle loro vite per imparare qualcosa, perché sposiamo ciò che diceva Michelangelo: “Io sto ancora imparando”. 

M. MIRIAM DE NICOLÒ
EDITOR IN CHIEF

miriam@snobnonpertutti.it




Laura Morino: 19, il mio numero fortunato

E’ sul set, si muove leggera, leggerissima, le mani sottili, il corpo che si flette come attraversato da un soffio di vento, si capisce subito l’impostazione della ballerina classica, il capello disciplinato, un intervallo di eleganza nello spazio che occupa, la consapevolezza precisa del corpo, quasi davanti a sé avesse uno specchio.
Carica di una sorta di individualità gli abiti che indossa, li anima, li fa vivi. Anche i più apparenti fronzoli diventano necessari, un’arte che può apprendere solo chi posa da molto tempo ed è il caso di Laura Morino, ex musa del grande fotografo italiano Giovanni Gastel, nota socialitè oltre che pr milanese.

Inizia la carriera come modella per poi fondare la sua agenzia di comunicazione ed eventi, un lavoro dove la città si fa corpo, contiene l’essenza delle sue infinite personalità, gli eventi di una Milano che tanto ama, la corsa contro la sedentarietà e le corse di un luogo che non si ferma mai.

A pranzo insieme al team di redazione, Laura non si risparmia, è schietta come uno spaghetto al pomodoro, come una nuova conoscenza che vuol piacere ma che mette subito le carte in tavola, piaccia o non piaccia.

INTERVIEW: MIRIAM DE NICOLÒ
PHOTO: ALBERTO ALAGGIO
STYLING: VALERIA ALAGGIO
ART DIRECTOR: ROBERTO DA POZZO
MAKEUP AND HAIR: FRANCESCA BECHI
STUDIO: MENOUNO

Cappotto ANNAKIKI
Camicia GILBERTO CALZOLARI
Borsa ROSANTICA
Scarpa MARIO VALENTINO

Laura quanto la bellezza ti ha aiutato e quanto invece ti ha ostacolato?
Da modella mi ha certamente agevolato, anche se non mi ritengo bella ma una persona normalissima solo un poco più alta della media. Nei rapporti, soprattutto con le donne, è stato un percorso a ostacoli perché si sa, l’invidia è femminile. Le pseudoamiche, come le chiamo io, vengono dapprima attratte dalla popolarità, dagli ambienti che frequento, ma se un fotografo ad una festa immortala me e non loro, scatta la competizione e i rapporti si sgretolano. L’invidia è un modus vivendi degli eterni insoddisfatti.

Che rapporto hai con queste donne?
L’immagine della nostra persona è talmente impreziosita dall’aura dello spettacolo che ciascuno si figura qualcuno che noi non siamo. Per cui credono di conoscerci, alcune ci compiacciono, vedono solo l’oro, ciò che luccica, ma l’autenticità è qualcosa che va scoperto guardando oltre, va approfondito. Anni fa, quando questi rapporti terminavano, ci rimanevo male, fortunatamente il tempo porta anche saggezza e mi sono allontanata da un sentimento che non mi appartiene, l’invidia. Per le cattiverie invece non sono riuscita ancora riuscita a farmi la pellaccia. 

Viviamo davvero in un paese patriarcale e maschilista?
Per quanto si dica il nostro è un paese ancora patriarcale e maschilista. Fortunatamente ho incontrato sempre persone che hanno capito il mio lavoro, ma che soprattutto hanno rispettato la mia indipendenza, da buon Sagittario mi regala la sensibilità. Sono molto fedele anche in ambito lavorativo, creativa ma radicata nelle mie scelte. Il mio ascendente mi regala la sensibilità acuta che ha caratterizzato tutto il dualismo della mia vita, da un lato la voglia di viaggiare, di scoprire, di essere libera, dall’altro l’appartenenza alla famiglia e la voglia di ritornare dagli affetti.

Sei così anche nella vita sentimentale?
Adriano è il mio attuale compagno, una relazione che dura da 25 anni e che considero come un matrimonio.
Il mio prima è durato dieci anni, dai 22 ai 32, facevo ancora la modella, ma evidentemente le divergenze caratteriali erano troppo forti.

Perchè Adriano ti ha scelta?
Ci siamo conosciuti da adulti, io avevo 34 anni, lui 52, una cena combinata da due coppie di amici. Alle mie spalle una storia di due anni molto problematica, per cui non ne volevo sapere di uomini, ma è evidente che il destino ha prevalso perché da quella sera Adriano ed io non ci siamo più separati: è venuto a vivere da me il giorno dopo!  La mattina dopo il primo appuntamento mi fece recapitare a casa un fascio enorme di rose, 19 per l’esattezza, un numero assolutamente insolito da regalare, ed è da sempre il mio numero fortunato.

E tu cosa cerca in un rapporto di coppia?
Io sono una coccolona, anche se tengo a mantenere sempre la mia indipendenza, ma non è indispensabile per me avere accanto un uomo se il rapporto non si basa su valori e legami fortissimi.
Sposo sempre il detto “meglio sola che male accompagnata”.

Cappuccio, camicia e gonna ROMEO GIGLI
Bracciale BONA CALVI

Il segreto di un rapporto duraturo?
Il rispetto reciproco, il saper accettare l’altro in tutte le sue sfaccettature vincendo le generali leggi dell’abitudine.
E poi il piacere sta nel viaggio.

Dovessi descriverti con tre aggettivi?
Sensibile, solare, seria.

La scelta di non avere figli è stata motivata dal lavoro?
Lo è stata nella prima parte della mia vita, facendo la modella non potevo nemmeno prenderlo in considerazione.
A 32 anni, un matrimonio finito, i figli non arrivavano ed oggi è il mio compagno a non volerne, lui che è già padre di una figlia avuta da una relazione precedente.
C’è stato un periodo in cui mi dispiaceva un poco, vedendo le mie amiche madri, ma un figlio si fa in due ed è poco corretto andare contro le volontà di Adriano. Complice il fatto che non ho mai avuto un forte spirito materno, oggi mi dico che forse è stato meglio così, perchè il mondo attuale non garantisce un livello di serenità che i giovani meriterebbero.

Che cosa sogni?
Non li ricordo mai al mio risveglio, ma da bambina sognavo spesso di volare.

Di cosa hai paura?
Non della morte, ma della malattia e della sofferenza.

Che cosa ti piace leggere?
Il lavoro mi tiene spesso incollata al maledetto computer, mattina e sera, ma non mi sono mai convertita agli ebook, mi piace ancora sfogliare la carta e sentirne l’odore.

La tua giornata tipo?
Mi alzo verso le 9, che per molti è tardi ma per me è presto, passo in ufficio che è un’estensione di casa mia e mi metto al lavoro. Facendo principalmente pubbliche relazioni mi trovo ad essere spesso fuori, io poi sono un animale notturno, adoro la notte, la luna, le stelle e quindi faccio molto tardi la sera, orari veramente improponibili, dormo pochissimo. 

Affianchi da tempo la Lega Nazionale per la difesa del cane, questo legame con gli animali da dove deriva?
Gli animali sono i mei bambini, io sono figlia unica e a 5 anni volevo un cane con tutta me stessa, ma sono riuscita ad averlo solo a 36. I mei erano troppo impegnati ed io troppo piccola per prendermene cura, così oggi con una casa grande, un cortile e tanto amore, non sono mai soli. La Vicepresidenza della Lega per il cane, sezione di Milano, che ricopro oggi, è un mezzo per applicare le mie competenze e raccogliere fondi a favore di questi esseri meravigliosi. I miei due cagnolini sono dei trovatelli, arrivano da Altamura e fanno parte della famiglia, un amore incondizionato il loro, che non chiede niente in cambio. 

Pro o contro la chirurgia plastica?
Siamo rimaste in poche ad essere come mamma ci ha fatte; io sono agofobica per cui sono talmente terrorizzata che non faccio nemmeno iniezioni e non potrei minimamente modificare il mio aspetto anche per questo motivo.

Domanda di rito Laura, quanto sei SNOB?
Se mi baso sul concept del vostro magazine, sono terribilmente Snob; se intendi “una con la puzza sotto il naso”, per nulla.

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L’Eros nel cinema

Se penso ad una delle scene più erotiche del cinema, vedo un uomo e una donna che si scambiano un tuorlo intero, crudo, di un arancio acceso di bocca in bocca, in piedi in una stanza d’albergo, attenti a non romperlo fino a quando il piacere esplode e il tuorlo scivola ambiguamente sul mento di lei, ça va sans dire. La pellicola in questione è “Tampopo” del regista giapponese Jûzô Itami che, come molti autori del Sol Levante, utilizza l’ossessione per il cibo come metafora del piacere. 

Il cinema ha regalato molti film erotici sottovalutati, forse per l’uso di un linguaggio apparentemente semplicistico, e altrettanti sopravvalutati, per il numero di pubblico interessato, di cui molto probabilmente l’erotomane non fa parte. 

Qui vorremmo sintetizzare davvero una piccolissima parte dove l’Eros appare nel cinema, descrivendone scene, feticci del regista, dove l’erotismo può trovarsi nell’andamento felino di un’attrice, nel fare peccatore di aspirare una sigaretta, o in dettagli che a qualche spettatore potrebbero essere sfuggiti, ricordando a chi dice: “le scene da film sono finzione”, che esiste una nicchia di esseri umani per cui l’Eros rappresenta una forma d’arte, quella componente indispensabile non solo dell’amore ma della vita stessa, che porta a leggere erotica una brillante conversazione, e indispensabile il flirting anche nelle coppie datate. Quel genere di persone per cui il sesso è energia vitale, nelle sue svariate forme; le si riconosce perché sono fantasiose, creative, e cariche di travolgente voglia di vivere che mettono nell’atto dell’amore, come fosse il loro ultimo regalo, nel loro ultimo giorno sulla Terra. 

Lola, 1961 di Jacques Demi

Cècile, in arte Lola, è una ragazza madre che non riesce a dimenticare il suo primo amore; lavora come ballerina al Cabaret dove marinai americani le ronzano intorno; corre tutto il giorno tra la scuola e il lavoro, dorme poco la notte e ama truccarsi perché “essere attraente” è un dovere, ma anche un piacere.

Anouk Aimée regala al personaggio di Lola quella civetteria francese che la rende irresistibile, flirta quando sorride, mentre cammina o si ravviva i capelli. Ma Lola è convinta di “non essere nulla di speciale”, e sta perdendo la speranza sul ritorno del suo primo grande amore, che attende da 7 anni. Una vena malinconica la cattura e il film risponde a tutte le sfumature della Nouvelle Vague e del cinema aggraziato di Jacques Demy. Finale scontato, ma questi sono gusti. D’altronde io amo la tragedia.


Solo chi cade può risorgere, 1947 di John Cromwell

La storia è quella che è, un noir come tanti, un reduce di guerra che tenta di far luce sulla scomparsa di un ex commilitone, piccoli salti nei bassifondi, apparizioni di volti loschi e gente immanicata in giochi d’intrighi, misteri e bugie. Night club dalla sordida reputazione, bicchieri colmi di whisky avvelenati e Royal Gin Fizz accompagnati da sigarette fino all’ultimo respiro; John Cromwell deve tutto ai suoi due protagonisti, che hanno regalato infinite sfumature di colore a questo bianco e nero del ’47.

Humphrey Bogart interpreta Rip Murdock, capitano paracadutista ed ex detective che indaga sulla scomparsa dell’amico: il carisma, la presenza scenica, il fascino dell’uomo cui nulla scalfisce e nulla può turbare, accompagnato dalle brevi frasi a due “Il pericolo più grande è la tua bocca”, riescono a rendere intenso anche il più banale dei corteggiamenti. 

Ma la vera regina è lei, Lisabeth Scott, la bionda di ghiaccio dagli occhi cerbiatto, la figura ambigua e ammaliatrice, la pungente vedova che può trasformarsi in un docile capretto impaurito, è lei a riempire la scena, lei con i suoi languidi gesti, lei che ha personalità anche sulla punta delle dita mentre tese raccolgono una sigaretta dall’accessorio d’argento e lentamente la portano alla bocca; lei che recita come se respirasse, lei, la Coral Chandler che riesce a catturare ogni uomo col suo profumo di gelsomino. 

Coral è quel genere di donna che piace tanto ad Hitchcock, di quelle che fanno male ma che vengono giustificate per i traumi subìti, la donna sirena che riesce a rendere vera la più perfida delle bugie. Le braccia avvolte da lunghi guanti neri, i capelli arrotolati da morbide onde che le incorniciano il viso, le sopracciglia perfettamente disegnate che si increspano quando le spire si fanno più strette intorno alla vittima; Lisabeth Scott non poteva essere più perfetta per interpretare l’immorale fanciulla ferita. Basta lei per questi 100 minuti. 

Nelly e Monsieur Arnaud, 1995 di Claude Sautet

Nelly vende baguette, è di una bellezza dolce e sensuale, di quelle bellezze che vestono chi non sa d’esserne portatrice; come molte donne inconsapevoli ha sposato un fannullone, un uomo che passa le giornate sul divano a guardare la tv, in attesa che la mogliettina torni a casa per adempiere agli obblighi da coniugata. 

Presto riceve da un conoscente di una sua cara amica la somma di denaro che coprirà tutti i suoi debiti, come dono; il gentiluomo è un ex magistrato che ha avuto fortuna negli affari immobiliari, le proporrà di fargli da dattilografa, offrendole una fissa retribuzione per avere l’opportunità di starle accanto ogni giorno. Troverà il tempo di sedurla con lo sfoggio del potere, le parole, le cene sontuose, l’eleganza di un uomo d’altri tempi.

La bella Emmanuelle Béart recita un copione bianco con moltissimi “OUI” e “NO”, detti a labbra serrate, alla francese, ma forse a lei basta presenziare in questa pellicola di Claude Sautet, che lascia alla donna il ruolo misterioso e magnetico, persuasivo e sfuggente.

Piuttosto noioso se non fosse per il magnetismo della Béart che ci attacca allo schermo a seguire ogni suo movimento, e per una scena rivelatrice che Sautet descrive in maniera eccellente: 

Una sera Nelly e Monsieur Arnaud cenano insieme in un ristorante stellato, l’età media della clientela è molto alta e la ragazza non passa certo inosservata accanto all’anziano signore, che tutti conoscono per fama. Lei indossa un tubino nero, degli orecchini di perle e un disinvolto chignon; l’alcool, uno Chateau d’Yquem del ’61, fa il suo gioco, e i due si ritrovano a flirtare scherzosamente per le insistenti occhiate dai tavoli vicini: tutti pensano che lei sia una prostituta e questo la diverte. Salutato Monsieur Arnaud, Nelly chiama in piena notte l’editore di Arnaud che da tempo la corteggia e a cui, fino a quella sera, non si era mai concessa, e si lascia andare ad un gioco che era già stato iniziato da un altro. Questa scena descrive perfettamente la donna dal punto di vista della donna, le bugie, le contraddizioni, i capricci, i desideri. Nelly sa che può trovare un corteggiamento antico, maturo ed elegante da Mr Arnaud e sa che può rivelare il suo lato istintivo con Vincent, l’editore, che l’accoglierà con l’ardore di un giovanotto. Nelly, dopo aver lasciato il marito, prende tutto, ma dovrà fare i conti con i sentimenti, quelli che fanno radici con lo stesso silenzio con cui lei si burla degli altri, per poi fare rumore quando sta per perderli. 

8 donne e un mistero, 2002 di François Ozon

Una villa della Francia bene anni ’50, 8 donne, una più bella dell’altra, un uomo morto, un assassino da trovare. François Ozon racconta i misteri, le sfumature, le bugie e i caratteri di otto donne diverse tra loro attraverso un film che non ha genere. Perché potrebbe essere teatro, un giallo, un thriller, un poliziesco, che il regista ha deciso di far recitare a delle “statue” del cinema francese.

Farà storia l’azzuffata a terra della Deneuve e di Fanny Ardant, mentre si dimenano e si intrecciano come due serpenti finendo per baciarsi safficamente; impossibile dimenticare l’erotismo di Emmanuelle Béart – la cameriera perversa il cui unico divertimento è irretire e rovinare i padroni; in scena anche un’acerba Ludivine Seigner, la biondina dal sopracciglio alzato che Chabrol farà crescere tra i bordelli, in compagnia di anziani scrittori.

Le protagoniste sono le donne, l’uomo si intravede solo di spalle – ed è già morto. Ozon, dopo Truffaut, è il regista che ama le donne e le racconta attraverso i loro stessi occhi, dando voce a invidie, gelosie, battibecchi, frasi avvelenate, piccoli momenti di solidarietà. È Truffaut che omaggia: “Averti accanto a me è una gioia e una sofferenza”, e attraverso una Ardant munita di pistola nella borsetta, in memoria di “La femme d’à cote”.


La triade di Shangai, 1995 di Zhang Yimou

Bellissima e crudele, capricciosa e avida, lei è la “donna del boss”, un Padrino cinese assetato di potere. Canta in un club come tante altre puttane, tradisce il suo padrone ignara di essere seguìta. Sono i suoi gesti ad essere protagonisti, l’andamento lento e calcolato, le risa perfide e recitate, perfino il fumo che le esce dalla bocca è misurato, ed è lei a risultare la meno prevedibile nel film di Zhang Yimou, lo stesso di “Lanterne rosse” che ha come feticcio l’attrice Gong Li (e come dargli torto!).

Dalla rumorosa Shanghai dove viene ricoperta di gioielli e pellicce, sarà costretta a trasferirsi su un’isola deserta con il padrone e i suoi uomini per proteggersi da attacchi politici. È nella solitudine di questo luogo che la donna ricorderà le sue origini contadine, i sogni di bambina, è nelle passeggiate notturne che avrà nostalgia di chi era ed è nella semplicità della natura che riscoprirà la bontà sepolta.

Il resto è solo contorno, dal bambino orfano che la serve, all’amante sepolto vivo. È il capovolgimento della sua indole a interessare.

Il rumore della città ci distrae, un paesaggio desolato ci mette in contatto con la parte più vera e profonda di noi stessi.

Gli amanti criminali, 1999 di Francois Ozon

Due adolescenti, lei, un’Alice che avrebbe dovuto chiamarsi Eva, manipolatrice, avida, curiosa con tendenze sadiche, lui, il fidanzatino accomodante, insicuro, devoto, impotente quando i due si ritrovano a fare giochetti sessuali su iniziativa di lei.

Alice spinge Luc ad ammazzare un loro compagno, solo perché ha mostrato un interesse sessuale nei suoi confronti. Luc trova la forza di un gesto così macabro dopo aver guardato i due in intimità, spinto forse dalla rabbia, dalla frustrazione, dall’impossibilità di far godere la propria amante, a differenza dell’aitante compagno di scuola, un giovane bello e virile.

I due fuggitivi si ritrovano nel bosco dove vengono rapiti da un orco, un passaggio da un inizio alla “Natural born killers” fino alla storia di “Hansel e Gretel”, con uno svolgimento nettamente diverso: è con il suo giustiziere, l’orco, che finalmente Luc prova piacere. Amplessi omosessuali rubati da cui Luc non si ritrae, nasce in lui una qualche forma di sentimento-riconoscenza. Tutto questo tra scene morbose e voyeuristiche, con un finale inaspettato: può la vittima amare il proprio carnefice?

Quando c’è di mezzo il SESSO, può.

Lussuria – Seduzione e tradimento, 2007 di Ang Lee

Il Mahjong è un gioco da tavolo cinese, come la nostra scala 40 occidentale dove si creano coppie, tris e scale. Si gioca in 4, nel film “Lust, caution” (Lussuria, seduzione e tradimento – nella traduzione italiana) c’è una camera che si posa a lungo sul tavolo da gioco, ma la cosa più interessante sono quelle otto mani ingioiellate e con le lunghe unghie laccate di rosso che mescolano le tessere; poi sale sui castissimi abiti orientali e sulla braccia sottili e trasparenti, sulle acconciature composte e raccolte dietro la nuca, e su quelle piccole bocche sporcate di cocciniglia che si muovono appena, per dire solo frasi convenienti, mai esposte, sempre perfettamente incipriate di buona educazione.

Basterebbe questa scena a meritare la visione del film ambientato nella Shanghai dei ’40 in piena occupazione giapponese. 

Rien ne va plus, 1997 di Claude Chabrol

Eccola un’altra bella da morire, la Isabelle Huppert nei panni di una ladra dal cuore tenero.

Fredda e dalla sessualità complessa in “La pianista”, qui si ritrova “perversa giocatrice”, così la definiscono gli uomini che credono di conoscerla. Mille i suoi volti per fuggire alla legge, dall’algida russa biondo platino, all’appassionata direttrice di una società d’assicurazioni, intenta a raggirare un pollo, in giacca rossa e unghie laccate, all’interno di un casinò.

Ha un complice in questi diabolici piani, il “paparino”, così sicuro di lei fino a quando i soldi in gioco diventano troppi per le loro piccole truffarelle che più somigliano a dei giochetti erotici di una coppia annoiata.

Alla fine della storia le maschere si confonderanno e forse Chabrol vuole dirci che, anche quando inganna, la donna, lo fa sempre con il cuore.

Un uomo, una donna 1966 di Claude Lelouch

“Non è molto originale come incontro”.

“Nemmeno il matrimonio e un figlio sono originali, sono cose che succedono a tutti, al massimo la persona lo è, originale”.

Questo l’inizio della conversazione tra Anne e Jean-Louis, due vedovi incontratisi al collegio dove portano i rispettivi figli. L’inizio del film è un lungo corteggiamento, l’invito a cena, la mano di lui poggiata sullo schienale mentre le sfiora la schiena, i complimenti velati, i primi silenzi, i sorrisi carichi di desiderio, quei momenti che non tornano più, che spingono le coppie al tradimento, per cercare di riviverli, di reiterare quelle sensazioni.

Jean-Louis conosce bene le donne, calibra le parole, è galante, sa attendere, lei lo intuisce subito: “Non ha l’aria di un uomo sposato”.

Chiave del film una citazione a metà tempo, quando lui la interroga sulla massima di Giacometti: “In un incendio tra un Rembrandt e un gatto, io scelgo il gatto, e poi lo lascio andare”, che sta a significare “tra l’arte e la vita, io scelgo la vita”, sottolinea Jean-Louise che tra i due ha imparato a lasciarsi andare, a vivere il momento.

Anne, dopo vari tentennamenti, la si vede amoreggiare tra le lenzuola, 7 minuti di bianco e nero (il regista passa dal colore al b&n) dove nell’intensità di quell’amore sente tutto il dolore del passato, la presenza del marito (morto) e si rinchiude nella tristezza tornando a casa sola, in treno.

“Lui poteva diventare un vecchio bacucco fossero ancora insieme, invece è morto e sarà sempre un uomo eccezionale” il pensiero di Jean-Louise che nella tragedia precoce vede la conservazione del mistero.

L’attenderà all’ultima fermata e riprenderà il corteggiamento come da manuale, struggente, tra i pianti e melodrammi, proprio come piace alla donna. Non si può dire non si sia impegnato!

Sliver, 1993 di Philip Noyce

Zeke è il proprietario di uno Sliver, un grattacielo nel centro di Manhattan; segretamente ha

Zeke è il proprietario di uno Sliver, un grattacielo nel centro di Manhattan; segretamente ha costruito degli impianti video a circuito chiuso che gli permettono di spiare tutto quello che succede in ogni stanza del palazzo, compresi i momenti di intimità della solitaria Carla Norris, quel ghiaccio bollente di Sharon Stone. 

Tra i due scatta un’attrazione pericolosa, Zeke adora sbalordire tanto che una notte, trasmesso l’invito alla bella bionda, lascia che entri nel suo appartamento buio per sorprenderla di spalle, completamente nudo, e prenderla contro la colonna, lei, vestita di un tubino nero, un sottile filo di perle, e la paura che le piace tanto. 









Yvonne Scio, la forza delle donne

Sembra uscita da un quadro preraffaellita, una musa di Dante Gabriel Rossetti, forse fu Alexa Wilding se si crede alle vite reincarnate, la sua prediletta, presente nel maggior numero dei dipinti.
La pelle diafana, le gote appena tinte dal rosa di un pennello e una femminilità che ancora certe donne non vogliono spiegarsi, perché innata, ce l’hai o non ce l’hai.
Yvonne Sciò, modella, attrice e regista italiana, le donne invece le ama e le supporta, le elogia, ne fa documentari, come la sua ultima opera da regista “Seven Woman”.

Modella, attrice, regista, parlaci del tuo ultimo cortometraggio “Seven Woman”.
Seven Woman è il mio secondo documentario disponibile su Rai Play per l’Italia e Netflix per il mondo, a parte l’America, la Cina e il Giappone, ho coperto il globo e ne sono felice, è la storia di sette donne che hanno culture e religioni diverse, mi piace raccontare i contrasti. 

Sei molto legata al femminile
Avrei sempre voluto raccontare le donne, ma il coraggio è arrivato con l’età; il primo è un documentario dedicato alla mia amica Roxanne Lowit, la prima fotografa di backstage delle sfilate di moda, soprattutto molto legata ad YSL ed Armani, solo per citarne qualcuno. 

Modella e attrice davanti, e regista dietro la macchina da presa, come è avvenuto questo passaggio?
Mi ero stufata di aspettare, fai provini, ti cali nella parte e non ti prendono, studi ma sei troppo vecchia o troppo magra o hai troppi capelli. È stato un modo per crescere e non essere in balìa di risposte che arrivano sempre da qualcun altro.

Sei stata educata in una scuola di suore, che ricordi hai?
Mia madre mi ci ha mandato per imparare il francese. Io non sono una cattolica praticante perfetta, vado in Chiesa spesso, è vero, ma per ammirare le opere d’arte antica; mi piace raccogliere le bottigliette di acqua benedetta perché credo aiutino la mia spiritualità; proprio ieri, ascoltavo Deepak Chopra, scrittore e medico indiano, che raccontava come la spiritualità e l’immaginazione diventino un tutt’uno. 

Il tuo rapporto con l’Eros?
Ha molto a che fare con l’educazione ricevuta, dove Eros porta a galla il peccato, il senso di colpa. Per me è fondamentale, se in un rapporto non c’è anche questo equilibrio, si cambia. Altrimenti cos’è la felicità?

Sei mamma di una bellissima ragazza di 13 anni, che rapporto hai con la maternità?
Ho un rapporto fighissimo con la maternità, ero molto presa dalla carriera e da me stessa, quando poi sono rimasta incinta, peccato troppo tardi perchè ne avrei voluti quattro di bambini, sono stata travolta da una forza indescrivibile, da un senso di coraggio immenso, soprattutto quando si cresce un figlio da sole senza la figura del padre; ed ecco che si ripresenta il senso di colpa.

Hai dichiarato di Alberto Cantarini, il tuo compagno, “è il vero uomo”, cosa intendi?
Vero uomo per me significa essere forte ma gentile, presente ma concedere spazi; Alberto sa sorprendermi, sa apprezzarmi e soprattutto mi fa ridere, fino a perdere completamente la cognizione del tempo. Amiamo ritagliarci dei momenti tutti per noi, siamo una famiglia allargata, viviamo insieme a suo figlio e mia figlia, per cui il rito del caffè la mattina è sacro, le cose semplici sono sempre le più preziose. 

Cosa non tolleri negli altri?
Non amo la gente che parla a sproposito, nella vita ci sono tante cose belle da fare, luoghi da scoprire, podcast da ascoltare, perdere il tempo dietro pettegolezzi inutili proprio non lo sopporto.


Quali sono i tuoi luoghi del cuore?
Il terrazzo di casa mia, la mia area verde dove tengo la menta, l’erba cipollina, l’insalata, il sedano, tutto il buono per la mia cucina; è lo stesso luogo dove faccio meditazione, quando sono vicina alla mia parte spirituale nella vita, sento di stare meglio. 

La tua idea di felicità?
Ho sempre paura di dire che sono felice, ci penso spesso quando sono in macchina, ma sono anche fatalista, potresti essere felice e poi un attimo dopo può cambiare tutto in una frazione di secondo. La felicità è una condizione che determini tu,non dipende dagli altri.

La cosa per cui vale la pena battersi nella vita?
Odio le ingiustizie, detesto la maleducazione, mi batto per il rispetto verso il prossimo.

“Profonda lacerazione al labbro superiore ed ecchimosi su tutto il corpo”, cito il tuo referto medico in seguito alla rissa con Naomi Campbell.
Io le ho prese in quell’occasione, ha avuto una reazione che non mi sarei mai aspettata.
Nel mondo accadono cose talmente brutte, bambini e donne stuprate, la guerra in corso, una cosa così frivola di una che ha male a un’unghia, ci passo sopra.

Quale fu la motivazione? Scrivono avessi un abito come il suo.
Ma quale abito uguale al suo? Lei è bellissima, alta due metri, figurati se avevo un abito come il suo. La motivazione fu veramente frivola, avrò detto qualcosa che l’ha infastidita, oggi credo che Naomi sia molto più tranquilla anche se ha un carattere particolare, ma certe cose si superano, io sono andata avanti, le persone poco intelligenti rimangono sempre nello stesso punto. 

Domanda di rito, quanto sei Snob?
Sono contenta mi abbiate spiegato il vostro concetto di “Snob”, che trovo davvero molto interessante; sai le persone che non mi conoscono mi dicono “Ah che snob!”, in senso dispregiativo, io in quel senso non mi sento affatto snob, mi piace il bello e lo cerco in ogni cosa. 
Sono una Snob? 
Non lo so, ma forse si. 

Yvonne Scio interpreta “La Temperanza”, un video scritto e diretto da Peppe Tortora.

La video intervista ad Yvonne Scio :

Maurizio Lombardi – “L’Empatia”, il video scritto e diretto da Peppe Tortora

Maurizio Lombardi interpreta “L’Empatia“, un video scritto e diretto da Peppe Tortora.

E’ in corso il Festival del Cinema di Roma 2022, e con questo video vorremmo omaggiare il mondo del cinema e dei suoi protagonisti, che ci regalano emozioni, ci raccontano storie e ci fanno sognare.

E’ il primo di una serie in cui il nostro regista Peppe Tortora, cucirà su misura, come un sarto per un abito taylor-made, su ciascun attore che verrà intervistato per le cover di SNOB, una storia.

Lasciandosi ispirare dalle caratteristiche di ciascun talent, Tortora racconta la sua visione del cinema e ci lascia, sempre, attraverso metafore e citazioni, una morale.

Buona visione.

L’empatia

Un uomo nel giorno del suo matrimonio, cercando un oggetto di sua madre da portare con sé, decide di provare le emozioni che prova la donna che ama in uno dei momenti più importanti della sua vita.
Come fosse un regalo di nozze per lei, provare la sua stessa meraviglia.

Credits:

Regia e sceneggiatura: Peppe Tortora
Protagonista: Maurizio Lombardi
Attrice: Martina Scala
Costumi: Paola Ragosta
Supervisione costumi: Gianni Addante
Aiuto Regia: Jacopo Ciufoli
Assistenti regia: Annalisa Nuvelli, Valeria D’Elia
Make-up/Hair: Mariella Padula
Editor in Chief: Miriam De Nicolò
Prodotto da: SNOB
Ufficio Stampa: Lorella di Carlo
Musica: “She used” New Normal*
*Voce e basso: Blue Redman
Voce e chitarra: Gabriele La Duca
Voce e batteria: Gabriele Fragapane
Registrato e composto da New Normal
Mix e master: Blue Redman

L’intervista a Maurizio Lombardi qui
https://www.snobnonpertutti.it/snob/maurizio-lombardi-lattore-camaleonte/69727

Ronin, food, cocktail e members club… a luci rosse

Lasciate ogni ricordo del mondo reale voi che entrate, e perdetevi in quello parallelo dove il Giappone sta in centro a Milano, nel quartiere Chinatown.

Un po’ come il binario 9 e 3/4 di Harry Potter o la tana del Bianconiglio di “Alice nel paese delle meraviglie“, una volta varcata la porta del Ronin, ci si trova immersi nelle fantasie dei fondatori del gruppo Salva tu Alma, Guillaume Desforges, Jacopo e Leonardo Signani, tra atmosfere Japan e luci rosse, tante.

La scelta di questo “quartiere”, è d’obbligo chiamarlo così anche se è un palazzo, è una struttura in stile neo-liberty diviso in quattro livelli, quasi pensati come ad un gioco in cui conquistarsi il più alto.

IZAYAKA
Per iniziare ad assaporare l’idea che si cela dietro l’experience Ronin, l’IZAYAKA del Piccolo Ronin si trova al piano terra, il primo step, l’assaggio, un’osteria dove “bere e divertirsi” (questa la traduzione letterale), dove ascoltare sonorità di ricerca, ma dove potrete trovare ottimi piatti della cultura giapponese, una collezione di LP ed ottimi cocktail, tra cui consigliamo Amaterasu, dedicato alla dea del Sole, la dea degli dei.

ROBATAYAKI
Salendo le scale, tra maxi schermi interattivi dalle grafiche surreali e psichedeliche, troviamo il RONIN ROBATA, un ristorante che raccoglie le caratteristiche iconiche di una casa in stile Japan: fusuma alle pareti, che in architettura rappresentano dei pannelli verticali rettangolari realizzati tipicamente in carta di riso per permettere alla luce di filtrare ma che assicurano un’ottima privacy perché non trasparenti. Anche le case di piacere erano strutturate alla stessa stregua; non vorrei azzardare ma l’enorme specchio posizionato sul soffitto, lascia molto intendere al carattere erotico di questo luogo, dove il cibo, forse, è metafora di un preludio amoroso. Da provare gli huramaki di tonno e foie gras accompagnati da Heavensake Junmai Ginjo (un sorso prima del boccone), considerato lo champagne dei sake; il piccione con cipollotto, arancia e zenzero, sapori orientali che incontrano diverse culture in un viaggio culinario ideato dallo chef Gigi Nastri, romano e diverse esperienze in terra francese.

MADAME CHENG’S
Se amate Wong Kar-wai, non può non venirvi in mente attraversando queste sale, un set cinematografico degno del maestro cinese che coltiva una vera e propria ossessione per il colore. Qui, nel cocktail & sake bar dove trovare i massimi esperti della mixology, la luce che permea tutto è (ovviamente) rossa, ma i lampi fluorescenti arrivano dalle verdi lampade appese al soffitto, le tipiche andon reticolate, dalle luci blu che attraversano la stanza e dalle abat-jour posizionate sopra il lungo divano angolare.
Si trova al secondo piano del Ronin, un tuffo per le strade di Shinjuku nella Tokyo notturna, quelle che ospitano divertenti nightclub e karaoke illuminati. A tema, anche il cocktail menu, il migliore? Macau’s whorehouse, un nome, un programma. Il bar manager è Riccardo Speranza, la mente creativa di queste ambigue e succulente metafore.
Sullo stesso piano di 200 mq, 4 stanze karaoke private con servizio late night di bento box, bottiglie, snack e finest mixology, luogo di culto per i giapponesi di tutte le età.

ARCADE
Riccardo Speranza studia una drink list taylor-made anche per questo spazio members club, prende ispirazione per il concept della drink list da una parola, amae, nella traduzione giapponese “il comportamento di chi che vuole essere amato e coccolato”, come fa un bambino nei confronti dei genitori, la ricerca di benevolenza e accoglienza, i modi civettuoli di una donna che vuole attirare attenzioni. Atteggiamento insito nella cultura giapponese, che vede nella figura della geisha la rispondenza dei propri bisogni. Regno dei migliori distillati, qui non potete perdervi un Gokudo, miscelato con uno Starward Two-fold Double Grain, un whisky australiano invecchiato in botti di vino.

Siete nel mondo dei Ronin, i samurai senza padrone, i combattenti erranti, qui tutto è concesso, potete vivere l’illusione d’essere nei locali giapponesi, assaporare i gusti del Sol Levante, lasciarvi trasportare in uno spazio che vi coccola e risponde ai vostri bisogni.
La vera ricchezza del Ronin sta nell’accoglienza, quella che i giapponesi chiamano omotenashi, che si racchiude in un pensiero:
Il cliente è come Buddha“.

RONIN

Le parafilie di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee ora su Netflix

Nella mia libreria esiste una sezione totalmente dedicata ai serial killer, una passione quasi ossessiva che arriva dall’adolescenza, la curiosità morbosa di capire cosa si cela nella mente di un pazzo.
Perché tendenzialmente un omicida seriale uccide in un momento di follia, quando in materia giuridica si dice sia “incapace di intendere e volere”, vittima di un raptus. Non è il caso del serial killer più spietato d’America, Jeffrey Dahmer, perfettamente vigile e senziente nell’atto di uccidere. E ad ammetterlo è lui stesso in aula di Tribunale quando davanti al Giudice decide di non farsi difendere, aggiudicandosi infine 957 anni di prigione.

Ma facciamo un passo indietro, chi è Jeffrey Dahmer?
Jeff è un bambino molto solo, padre assente per lavoro e madre affetta da depressione post parto con problemi di nervi sin dalla gravidanza, quando assumeva una dozzina di pastiglie con Jeff ancora in grembo.
Nei pochi momenti in cui i due genitori stanno insieme, li vede litigare, urlare, sbattere porte e confessa di aver visto più volte la madre picchiare Lionel Dahmer, il padre. Jeff si chiude in sé stesso, non ha amici con cui giocare, nessuno con cui parlare, ma scopre presto, con l’aiuto del padre, chimico accademico, una strana passione: la tassidermia.
Lionel lo porta nei boschi a scegliere le carcasse animali che andranno poi ad eviscerare, trattare, sezionare, gli insegnerà come sbiancare le ossa e preservare gli scheletri degli animali, convinto fosse per il figlio, un mero interesse scientifico. E’ il primo vero trasporto del piccolo Jeff che probabilmente effettua un transfer di piacere (il suo unico momento di gioia e condivisione con il proprio genitore) in quelle che saranno le viscere e la sua lucentezza.

Jeffrey Dahmer nelle fasi evolutive

Da adulto, nella fase seriale, Dahmer ricercherà quella lucentezza, stringendo tra le mani gli organi interni delle sue vittime e facendoci sesso con i corpi aperti e sezionati. Una parafilia che si accumula all’antropofagia (ingestione di carne umana) necrofilia (sesso con i cadaveri) e vampirismo (ingestione di sangue altrui).
I necrofili, a differenza dei sadici, cercano di mantenere integro il cadavere per poi consumare un rapporto sessuale con esso, perché temono le richieste di un soggetto normale, necessitano invece di un oggetto passivo, su cui avere il totale controllo.

“Era l’unico modo per evitare le loro richieste e per farli rimanere con me il più a lungo possibile”, questa la dichiarazione dell’assassino durante gli interrogatori. Dahmer aveva subìto il trauma dell’abbandono quando, una volta che i genitori si separarono, la madre scappò con il secondo figlio ancora bambino, lasciando solo Jeffrey in età adolescenziale. Momento cruciale e di ascesa perché inizia una fase di alcolismo, di totale solitudine e soprattutto il primo omicidio.

Attratto da un autostoppista diretto ad un concerto, Jeffrey promette un passaggio ma lo invita in casa per una birra, quando il ragazzo capisce che il serial killer avrebbe temporeggiato, si spazientisce e vuole andarsene, è quella la miccia che accende la furia omicida del bambino che c’è in lui, quello abbandonato da tutti, che oggi non può più accettare di rimanere solo. Lo uccide con un manubrio per poi strangolarlo con lo stesso, abusa del cadavere, secca in forno le ossa per poi frantumarle e spargerle nel giardino, un modo per averlo sempre vicino a sé.

Jeffrey Dahmer a processo

L’iter dei successivi omicidi sarà sempre lo stesso, Dahmer aveva prestato servizio militare come medico da campo in cui aveva imparato a somministrare medicinali, sonniferi, droghe che userà per immobilizzare ed addormentare le vittime rendendole inermi.
Attirando soggetti per lo più giovani, neri, di ceto sociale basso, con la scusa di scattargli delle foto in cambio di denaro, Jeff Dahmer colleziona vittime su cui sperimenta le sue follie diaboliche; cerca di renderli degli zombie, praticando delle lobotomie approssimative, che permettono al corpo di rimanere in vita ma che tolgono la possibilità di azione. Non ci riuscirà, i ragazzi moriranno a causa dell’iniezione di acido muriatico nel foro inflitto sulla testa.

alcuni teschi intatti ritrovati nella casa di Dahmer. Credits Netflix

La serie racconta e sottolinea gli sforzi continui della vicina di casa Glenda Cleveland, insospettita dalla fetida puzza che arrivava dal bocchettone dell’aria e dai rumori notturni incessanti del trapano, che la Polizia di Milwaukee aveva ripetutamente ignorato, compresa la notte in cui avevano riportato il corpo di un quattordicenne, in evidente stato confusionale, nudo e impossibilitato a camminare, nell’appartamento del suo carnefice, per poi essere ucciso e cannibalizzato la notte stessa.

Siamo nel maggio degli anni ’90 in una strada dove vive la comunità africana e in un periodo storico dove il bianco aveva più voce dei neri, dove gli omosessuali venivano derisi ed evitati, insomma un connubio perfetto di reietti della società su cui Dahmer, belloccio, fisicato e bianco, può affondare le mani senza intralci, uscendone al massimo con qualche multa per atti osceni in luogo pubblico, come quando si masturba in pubblico ripensando al primo omicidio.
Reiterare il piacere come fece, fregandosi, l’altro serial killer definito il più affascinante della storia, Ted Bundy, durante il soliloquio in aula mentre difendeva sé stesso ripercorrendo (inutilmente per il processo in quell’istante) le azioni ed i dettagli macabri sulle vittime, con un ghigno soddisfatto ed eccitato.
Jeffrey Dahmer imprimeva quel piacere, sessuale (quasi tutti i moventi sono di natura sessuale), conservando dei pezzi di ossa, come i teschi che teneva nell’armadio o i genitali essiccati in qualche cassetto.
Ha sempre dichiarato di non aver mai ucciso per odio, ma solo per il bisogno di non rimanere solo, per dormire a lungo con qualcuno, per avere un corpo accanto a sé che non lo comandasse a bacchetta come avevano fatto in precedenza, madre, padre, nonna. Si è sempre dichiarato sano di mente perché consapevole delle atrocità che stava commettendo, ma impossibilitato a smettere (era talmente forte l’impulso, che cercava la vittima successiva prima ancora di essersi sbarazzato dell’ultimo corpo).

i resti delle carni umane congelate trovate nel suo freezer (credits Netflix)
scorte di acido muriatico trovate nel suo appartamento (credits Netflix)
gli attrezzi che usava per sezionare i cadaveri (credits Netflix)
il barile che usava per sciogliere i corpi, trovato nella camera da letto (credits Netflix)
foto dell’appartamento durante l’arresto (credits Netflix)

Ossessionato dagli horror (l’Esorcista III era il suo film preferito) e dalla Bibbia Satanica, per caricare la violenza omicida ed entrare nel personaggio, il serial killler indossava delle lenti a contatto gialle, convinto che potessero regalargli lo stesso potere dei posseduti sui corpi e sulla realtà.

La visione di DAHMER Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, serie Netlix creata da Ryan Murphy e Ian Brennan e divisa in 10 puntate, è da legare a Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer, diretta dal candidato agli Oscar Joe Berlinger (lo stesso di “Conversazioni con un killer: Il caso Gacy”), registrazioni reali delle conversazioni tra l’omicida e il suo avvocato. Sono confessioni crude e spietate che non mostrano rimorsi, alcun segno di empatia verso le vittime, ma che soprattutto non celano dettagli, piuttosto vi si riscontra la necessità di esternarli (comportamento atipico nei serial killer che giustificano la propria malvagità nascondendo i fatti).

E’ utile per comprendere a fondo la psicologia di un uomo malato, che forse nasce con una predisposizione alla psicopatia (la madre che incinta assume quantità di pillole, un dna di malati di nervi) e che sviluppa parafilie nel corso della vita (le attività di tassidermia con il padre), unito al trauma dell’abbandono (la madre scappa di casa con l’altro figlio e lo lascia solo in casa in età adolescenziale. Il padre assente).

Ci si chiede, come sarebbe cresciuto se avesse ricevuto le giuste attenzioni, l’affetto di una famiglia, l’amore di altri esseri umani? Avrebbe potuto salvarsi dalla malattia? Quanto il comportamento sociale di un nucleo (famiglia, lavoro, amici) può modificare il nostro comportamento e la nostra intelligenza emotiva? Un essere malato può riconoscere il malessere e fare autodiagnosi, ed infine chiedere aiuto?
Sono infinite le domande che ci poniamo e che necessiterebbero di un approfondimento scientifico descritto da un esperto; resta chiaro che l’amore è forse la più grande medicina e che, la sua mancanza, può generare dei mostri in carne ed ossa.

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Sempre più donne alla Whisky Week sul Lago di Como – Il Best Of

2/3 Ballantine’s 1/3 Glenfiddich“,
quando penso al whisky non riesco a fare a meno di ricordare l’epica scena di “Sapore di mare 2” in cui una bellissima Eleonora Giorgi indovina 6 whisky bendata.

Quando si chiedono come fa a indovinarli tutti, lei risponde: “Sono 10 anni che li bevo tutte le sere“, bizzarro per una donna negli anni ’80, in cui il distillato era riservato al dopocena tra uomini, agli incontri d’affari e nell’immaginario collettivo stava in mano ad un elegante e brizzolato signore in giacca da camera, sigaro, camino acceso e due levrieri stesi accanto.
Oggi invece sempre più donne si stanno avvicinando al mondo del whisky, ce lo dicono le statistiche, come nell’ultima Whisky Week di Como, l’evento ideato da Claudio Riva e Davide Terziotti che fa capo al Whisky Club Italia, il più grande whisky club italiano con oltre 20mila iscritti, dove la partecipazione femminile ha raggiunto il 40% tra gli oltre 1000 ingressi raggiunti.

Così come nel mondo del vino, i distillati rientrano nei nuovi interessi del mondo femminile, che scardina pregiudizi e si mostra non solo interessato, ma preparato, colto e pronto a fare la differenza.
Nella splendida location su quel ramo del lago di Como, Villa Geno, una villa tardo-neoclassica con un grande parco circostante, si è tenuto il terzo appuntamento della Whisky Week, con 60 aziende in rappresentanza di circa 300 brand provenienti da Paesi di 4 continenti, dalla Scozia all’Irlanda, dalla Francia agli Stati Uniti fino ai Caraibi e al Giappone.
Ambassador, proprietari, distributori e rappresentanti, tutti accomunati da una grande passione per il distillato dal carattere forte, a disposizione degli ospiti, curiosi, addetti al settore ed amateurs per far scoprire nuovi whisky speciali provenienti da tutto il mondo.

Dalla Tasmania, Cadenhead’s Single Malt 23 anni di Cradle Mountain, una edizione limitata di sole 198 bottiglie completamente maturate in botte di Cabernet Sauvignon.
Cadenhead è il più antico imbottigliatore indipendente di whisky oggi attivo. La genialità di Cadenhead sta nel fatto che in un momento storico in cui il whisky prodotto dalle distillerie veniva venduto in barili ai blenders, il fondatore è il primo a imbottigliare single malt, dunque whisky di malto di un singolo produttore, circa cent’anni prima che ciò diventasse prassi.
(799,99 dollari)

Dall’Australia, That Boutique-Y Whisky Company, Bakery Hill 5 Y.O. Batch N.1, un single malt invecchiato 5 anni di cui sono disponibili 429 bottiglie; cremoso, note torbate, finale speziato.
That Boutique-y Whisky Company è un imbottigliatore indipendente che offre whisky di marchi e distillerie di fama mondiale e si distingue per le etichette grafiche e divertenti, creazioni della fumettista scozzese Emily Chappell, come questa che riprende una scena della nota serie tv Breaking Bad, in cui il protagonista rimane in mutande nel deserto quando esce dal camper dopo aver preparato le anfetamine; qui i soggetti disegnati producono whisky, ovviamente!
(155,00 euro)

Dallo stesso imbottigliatore, Auld Alford’s 52 anni, “troppo tardi per essere chiamato whisky”. Prodotto nello stesso modo, ma legalmente non può prendere la denominazione whisky perché nel tempo ha perso la sua gradazione per evaporazione.
Molto simile al bourbon nell’aroma, nota di cioccolato che arriva subito al naso e persistente al palato, lievemente caramellata.
Importatori e distributori di questi tre prodotti Beja Flor, scelte di chi fa del whisky uno stile di vita.
(78,22 dollari)

Dall’Irlanda, The Busker Single Malt, linea prodotta interamente a Royal Oak, distilleria situata in una tenuta del XVIII secolo nel sud-est irlandese nella Contea di Carlow, e management team d’eccellenza riconosciuto da “Icons of whiskey”nel 2021 con i premi di miglior Distillery Manager e Miglior Visitor Attraction Manager. 
The Busker Single Malt è distillato in grandi alambicchi di rame e maturato in botti di due legni diversi (bourbon e sherry), profumo fruttato avvolgente, sentori di mela e banana ed essenze di pino e fiori di sambuco; al palato note di cioccolato e biscotto.
(29,00 euro)

Nelle sale di Villa Geno, ogni ora si sono intervallate interessanti Masterclass , tra cui ne spicca una sull’American Whisky tenuta dai fondatori di Dream, Marco Maltagliati e Federico Mazzieri, due amici con un grande sogno divenuto realtà, giovani e appassionatissimi produttori che trascinerebbero folle nel loro infinito amore per il whisky.
Nella degustazione di 4 prodotti Dream, Creative Blend mette tutti d’accordo, un assemblaggio di 5 botti accuratamente selezionate e provenienti dalla celebre distilleria Death’s Door nel Wisconsin, oggi chiusa e destinata a diventare un’icona della storia contemporanea dell’american whiskey, Creative Blend è una collezione limitata di whiskey unici e rivoluzionari; ogni edizione presenterà una ricetta sempre differente in modo da costruire nel tempo una serie inedita di Blend American Whiskey.
In qualche modo nata grazie all’amicizia con i proprietari del noto speakeasy Jerry Thomas, nella classifica dei “50 Word Best Bar“, le etichette di Creative Blend rappresentano volti di Presidenti Americani sbeffeggiati; in questa bottiglia scarabocchiato alla Joker.
Sottolineando l’importanza ed il rispetto per la tradizione del Re dei distillati, i fondatori alleggeriscono la scelta e facilitano l’avvicinamento al prodotto aumentando i “momenti del whisky”. Non è sempre meditazione, una bevuta può essere easy con un amico e la scelta ricadere su un’annata minore di 20 anni, tra l’altro mai specificata sulle loro bottiglie, perché di secondaria importanza. “E’ importante cosa dicono il nostro palato, le nostre emozioni in quel momento, non un’etichetta“, così conclude Marco Maltagliati nel suo fervido e convincente racconto.
(80,00 euro)

Di fronte a Villa Geno le acque del lago di Como, dove ci attende una barca a motore su cui fare altre tre degustazioni di whisky, in un tour romantico che tocca le sponde di Villa d’Este.
Dalla Scozia arriva questo whisky dal colore oro d’orzo, dalla Tomintoul-Glenlivet Distillery, nella regione dello Speyside, produttrice di whisky di malto per miscele e imbottigliato come single malt.
Speyside Single Malt Whisky Glenlivet 15 anni – Old Ballantruan al termine del processo di distillazione viene fatto affinare per 15 anni in botti ex-Bourbon, per poi venire imbottigliato senza alcuna filtrazione a freddo, mantenendo quindi un tenore alcolico potente, che lascia alta la gradazione senza risultare aggressivo e pungente al palato. Un vero gioiello per gli appassionati di single malt scozzesi, con naso di affumicatura, catrame e al sapore note di quercia, caramella mou, fumo, sentori marittimi.
(111,75 euro)

L’appuntamento con la prossima Whisky Week è in primavera a Firenze, per la prima edizione in riva all’Arno.

Whisky Club Italia

Con oltre 20 mila iscritti Whisky Club Italia è il più grande whisky club italiano, con cuore nella Brianza Lecchese e distaccamenti che coprono buona parte del territorio nazionale. Grazie all’esperienza dei tanti eventi organizzati dal Sud al Nord Italia i fondatori Claudio Riva, Davide Terziotti hanno fatto squadra per diffondere la cultura del distillato e del bere consapevole, con centinaia di degustazioni guidate, in presenza o online.

Ad Amburgo inaugura il più grande centro europeo Bentley

E’ dal Mare del Nord che arriva un vento costante, di quelli che annunciano l’inverno, paiono freschi per poi penetrare dalle giacche e dai tessuti.
Come un’estensione colorata, intorno a questo mare, una distesa verde di campi agricoli e di fattorie, dove le mucche pascolano libere e i cavalli galoppano in gruppo; strisce viola di statice selvatica e cittadini silenziosi; la città in questione è Amburgo, e le sue parentesi felici fuori dalla città, che si fregia d’essere diciannovesima tra le venti città del mondo con la miglior qualità della vita.

E’ qui che inaugura il più grande centro europeo di Bentley, un nuovo edificio che risponde all’etica sostenibile del gruppo e della strategia Beyond100, con un sistema di riscaldamento avanzato ed ecologico, isolamento termico dell’edificio, nato in una città dove “Green” è la parola d’ordine.

Nello showroom di 800 mq viene custodita la storia di Bentley e dei suoi esemplari, auto dalle sinuosità iconiche, eleganze dimenticate che subito fanno pensare ad una fumosa Londra in bianco e nero.
I grandi e circolari volanti in pelle nera, il cruscotto in radica, le sottili e argentee maniglie dello sportello che aprono ad un salotto più che ad un’auto di quelle a cui oggi siamo abituati; Bentley detiene certamente il primato delle auto di lusso più eleganti di sempre, dal design accattivante e dai preziosi materiali.

Non a caso, protagonista del nuovo grande opening di Amburgo, un nuovo modello dal design innovativo in casa Bentley, la Bentley Mulliner Batur, l’auto del futuro, composito in fibre naturali, parti in titanio, ghiera in oro 18 carati e infinite formule di custom-made. Ma i 18 esemplari a disposizione sono già stati venduti! Modelli che si aggirano intorno ai 2 milioni di euro cca e che rispondono al nuovo DNA Bentley che si fa strada tra i futuri BEV (Battery Electric Vehicles).


Ma le novità in casa Bentley non sono finite. Durante la grande apertura ad Amburgo, presso il ristorante Boothaus Bar & Grill, splendida location nel cuore dell’HafenCity, un bancone dal backwall rosso fuoco e un’intima saletta con cucina a vista, è stato presentato The Macallan Horizon, il primo whisky single malt in edizione limitata creato dalla collaborazione tra i due brand. Un oggetto da collezione pensato come una vera e propria opera d’arte, racchiuso in una rivoluzionaria bottiglia che fonde artigianato tradizionale, materiali riciclati e un particolare design orizzontale. Le sfaccettature del vetro ricordano la dinamicità dell’auto sportiva; il whisky, di un profondo colore ambrato con riflessi ramati, regala luce all’oggetto chiamato The Vessel, “la nave”.
In food pairing una degustazione di Macallan, perfetto con un Guanaja Chocolate, crumble di cioccolato e gel alla ciliegia, ma delizioso anche in abbinamento al Sashimi di salmone con crema miso, burro con salsa di soia, mela verde e nocciola e alla tartare di carne con patate croccanti, dragoncello, verdure sottaceto.

Per chi volesse visitare il nuovo building Bentley e soggiornare ad Amburgo, non c’è vista migliore del The Westin Hamburg, hotel 5 stelle lusso situato nell’edificio dell’Elbphilharmonie, la sala da concerto più grande e acusticamente più avanzata del mondo; affaccia sul fiume Elba e sul porto e la sera è possibile godere di tramonti rosa Tiepolo dalla propria stanza o rilassandosi nella vasca da bagno.

La struttura dalle ondulate forme architettoniche sulla cima è il più alto abitabile di Amburgo, dal Plaza un via vai di coppie e turisti appassionati di musica classica si smistano tra le sale, chi avrà la fortuna di ascoltare il quartetto per archi con le composizioni di Haydn, Mozart, Beethoven (il 12 ottobre 2022 per gli interessati), chi invece si godrà la vista panoramica dall’ottavo piano del Westing cenando a lume di candela.

The Westing Hamburg




Asia Aria Maria Vittoria Rossa Argento

Un cane che è stato maltrattato morderà sempre; quando gli si vorrà dare una carezza, la leggerà come uno schiaffo. 

Asia Argento fiuta l’essere umano come fosse suo nemico, come se il giornalista, il nemico numero uno, non avesse altro desiderio nella vita che attaccarla, umiliarla, offenderla. Forse trova sia impossibile che qualcuno del nostro mestiere abbia invece l’intenzione di abbellire la realtà, come fanno i fotografi con le immagini di modelle photoshoppate, dove non necessariamente si nasconde la verità, piuttosto ne si esalta la bellezza. 

L’essere sulla difensiva è tipico degli animali braccati, feriti, di conseguenza la migliore arma, per quelli come loro, è sempre l’attacco e sentono la vittoria nello scovare il punto debole dell’avversario. Asia Argento mette alla prova, tenta lo sgambetto, ribatte a domande con domande, come quando le si chiede dei suoi scrittori preferiti e si sincera li si conosca, ignara che letteratura, per chi l’intervista, equivale a vita, che tra quelli da lei citati si siano letti tutti i romanzi e visti tutti i film trasposti, che “La Recherche” di Marcel Proust, il più grande capolavoro mai scritto in letteratura, lo si è letto più volte nella vita ( lei ammette di essersi fermata al primo libro “Un amore di Swann”). 

Provoca inseguendo la sua natura, e perché come donna intelligente, colta, preparata, non teme il confronto, ma come donna istintiva, non tiene in considerazione le varianti, gli imprevisti, come trovarsi di fronte a qualcuno che potrebbe essere, magari, più preparato, più colto, più erudito. 

Parla di “Ego” come se stesse lottandolo, e di Buddhismo come pratica d’amore verso gli altri e sé stessa anzitutto; si descrive come non l’abbiamo mai vista, spogliata di quella coltre dark e maledetta; è magnetica, ah se lo è, permea lo spazio lasciando il segno, s’imprime come il Preludio del “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, che vorresti ascoltare a 90 decibel ma solo nell’umore giusto, malinconico, intimo, profondo. 

Interview: Miriam De Nicolò
Photo: Marco Onofri
Styling: Stefania Sciortino
Art Direction: Roberto Da Pozzo
Make up/Hair: Chiara Silipo

Abito 19:13 DRESSCODE
Gioielli BERNARD DELETTREZ 

All’anagrafe Aria Maria Vittoria Rossa Argento, i tuoi genitori ti hanno raccontato il perché della scelta di questi nomi?
Sono Aria Asia, gli altri non sono presenti sul passaporto, loro volevano chiamarmi Asia ma all’anagrafe c’era una signora che ha riferito di una legge di Mussolini che non permetteva di dare il nome di un continente straniero, per cui mio padre ha scelto Aria. Mi volevano Terra e invece il destino mi ha voluto Aria. Vittoria Rossa ha un significato chiaramente politico, mentre con Maria ci hanno buttato dentro un po’ di sana cristianità italiana.

Lo hai dichiarato nel libro “Anatomia di un cuore selvaggio”, “io mi definisco bisessuale se proprio dobbiamo dare una definizione a tutto”. Perché definirsi e che rapporto hai con la sessualità?
La sessualità trovo che sia una cosa intima, ho scritto quella frase in una sorta di diario autobiografico in cui ho voluto raccontarmi proprio per non dover rispondere più a queste domande; ho dichiarato nel mio libro che sono bisessuale, ora devo spiegare la mia sessualità? Come la pratico, con chi vado, donne, uomini, gatti, sono semplicemente un essere umano libero e ho sempre vissuto liberamente la mia sessualità, non c’è niente da aggiungere.

Il tuo rapporto con lo specchio?
Non mi guardo molto allo specchio, la mattina quando accompagno mio figlio a scuola sono sempre di fretta e mi accorgo che dopo aver lavato viso e denti, non mi sono nemmeno guardata. Quando ero più giovane, avendo un po’ di dismorfia, ero molto insicura, mi vedevo bruttissima, a giorni troppo grassa, altri troppo magra; oggi ho fatto pace con me stessa. 

Il tuo rapporto con il cibo?
Da piccolo chimico, studio ogni forma di pensiero e ho scoperto che i prodotti animali sono spesso causa di tumori e malattie del cuore, per cui ho scelto di diventare vegana, aiutata anche dalla mia ipocondria. Per me il cibo è medicina, per cui succede che se l’amatriciana fa male, automaticamente non mi piace e di conseguenza tutti gli alimenti salutari diventano gustosi e saporiti.

Attrice e regista, in quale ruolo ti senti più realizzata?
Quello di essere umano, e la mia realizzazione arriva dalla volontà di fare sempre del mio meglio. Dovessi morire stasera, vorrei che sulla lapide ci fosse scritto “Ha fatto del suo meglio”. Cerco di costruire le cose e non distruggere, di aiutare gli altri, di fare del bene a me stessa e agli altri, questo oggi è il mio ruolo nella società, nel mondo, nel mio piccolo nucleo familiare, questo il ruolo che mi interessa di più, quello di essere umano. Anche nel lavoro cerco di fare del mio meglio, un tempo ero molto ambiziosa ma insieme all’ambizione corre dietro l’ego e il bisogno di prevalere, di mettersi su un piedistallo; da quando ho imparato a metterlo da parte, credo di aver iniziato a fare meglio il mio mestiere, perché penso a creare e basta.

Rifuggi dall’ego?
Non rifuggo dall’ego, che è istinto, è insito in tutti noi, e che in fondo nasconde paure e insicurezze, però bisogna che non vada fuori controllo, tenerlo a bada, come ho scritto sul muro di casa: “your ego is not your amigo”. 

Prima hai parlato di morte, potessi scegliere, come vorresti morire? 
In pace, di malattia o incidente non lo so ma spero di trovarmi in un momento di pace della mia vita, e di non lasciare dietro rancori o rimorsi.

Nella scala dei valori che cosa metti al primo posto?
La famiglia.

Cosa significa essere madre?
Significa aver svolto il mio compito sulla terra, aver portato avanti il mio codice genetico e aver fatto del mio meglio, cercando di rendere i miei figli due esseri umani utili al mondo. Essere madre è sentir crescere nel tempo una grande responsabilità, è il mestiere più difficile ma quello più gratificante e che mi ha realmente arricchito. 

Il tuo rapporto con il denaro?
Il denaro è importante, ma non ho grandi pretese, mi bastano due vacanze l’anno con i miei figli, sacre, non amo sperperarli nello shopping, ed è indispensabile per continuare a pagare il mutuo. Sono fortunata perché non tutti possono svolgere un mestiere gratificante, alzarsi la mattina ed essere felice di andare al lavoro e tornare stanca ma soddisfatta. 

Esiste un film che avresti voluto girare tu?
No, perché non ho questo tipo di ego, non voglio sostituirmi a qualcun altro; lo apprezzo così com’è proprio perché non sarei stata in grado di pensare a quella storia come regista o di interpretare quel ruolo allo stesso modo.

Cosa stai leggendo in questo momento?
Sto leggendo molti libri sulla Seconda Guerra Mondiale perché farò un film, una serie ambientata in questo periodo, forse il genocidio più grande della storia, contro gli ebrei, gli omosessuali, i Rom, gli intellettuali di sinistra, una follia collettiva inspiegabile; ho riletto tutti i libri di Primo Levi, un volume sul processo di Norimberga. Nella mia famiglia ci sono stati 14 morti nei campi di concentramento ed è sempre stato un argomento tabù perché portava sofferenza, un DNA pesante che ora è il momento di vedere il male e mai dimenticare, perché attraverso la memoria insegniamo ai nostri figli a non ripetere il dramma. Anche se dobbiamo sapere che il male risiede dentro ciascuno e combatte con i mondi più alti, quelli che i buddhisti definiscono “i dieci mondi”; per non finire in quello più basso, il mondo d’Inferno, è necessario lavorare su sè stessi, studiare la propria storia, e quella del mondo. 

Tu credi all’Inferno e al Paradiso?
Non a quelli dei cattolici, non con quel tipo di immaginario semplicistico, credo ad un Inferno e un Paradiso spirituali anche sulla terra nella vita di ognuno, nella giornata stessa, e si ripetono. Si può vivere l’Inferno e poi risalire perché è stata una enorme lezione. Il cielo non è il mondo più alto, il mondo più alto è l’illuminazione.

Ci stai raccontando il tuo rapporto con la spiritualità 
Sono buddhista, pratico il Buddhismo di Nichiren Daishonin, un famoso Nam myoho renge kyo, il sutra del loto che come simbolo ha un fiore con le radici nel fango, porta dentro di sé anche il frutto, il potenziale umano, la rivoluzione umana. Studio gli scritti di Nichiren Daishonin e pratico il mantra, che mi hanno aperto gli occhi sulla mia vera natura anzitutto, e dato il desiderio di trovare obiettivi più alti rispetto a quelli che avevo avuto.

E come si arriva a questa consapevolezza? 
Medito due volte al giorno, la mattina e la sera per chiudere la giornata, ma se ho un grande problema posso stare davanti al Gohonzon a meditare tutto il giorno. È un processo mistico, ma credo ci si possa arrivare anche con l’esercizio, svuotando la mente per far entrare delle informazioni più alte di te, è un riprogrammare mente e spirito.

Maglia a costine MVP
Gioielli BERNARD DELETTREZ

Che amica sei?
Ho pochi amici e quelli che ho me li tengo stretti; sono un’amica da messaggi vocali, presente ma distante, seguo la mia natura; per lavoro sono costretta a stare a contatto con tantissime persone, quindi i momenti di solitudine sono per me molto preziosi.

Cos’ è per te la felicità?
Può essere anche il tuo sorriso, o svegliarsi e non avere dolori alla schiena, sono le piccole cose; le felicità eclatanti sono invece pericolose, gli scoppi rumorosi di gioia quando pensi di essere innamorato sono felicità che hanno una fine; quella che cerco è più simile alla serenità, come un’onda continua. 

Serenità, sarebbe una gran fortuna trovarla
Ma si può ottenere, io ce l’ho, si può ottenere tutto nella vita ma bisogna lavorarci anziché lamentarsi. Io ho un protocollo, ogni giorno lo applico per stare bene, perché bisogna volere stare bene, bisogna volere essere felici o sereni.

Qual è la cosa che ti fa più soffrire in assoluto?
Le ingiustizie, su di me le sopporto meglio che sulle persone a me care, la mia famiglia, ma anche sui più deboli; in passato reagivo con rabbia e mi crogiolavo nella disperazione, oggi ho imparato a reagire. 

La caratteristica principale del tuo carattere?
Sono una persona che non si annoia mai.

Invece il tratto che non transigi degli altri?
Non riesco ad avere a che fare con le persone che hanno la mente chiusa, quindi mi allontano dai gretti.

I tuoi scrittori preferiti? 
Ho letto tutti i libri di Robert Walser, Lev Tolstoj, Bruno Schulz, Alberto Moravia, Marina Cvetaeva. Ne conosci alcuni?

Tolstoj è uno dei miei autori preferiti, ho letto tutti i suoi romanzi, credo abbia descritto in maniera semplice un concetto molto complesso e in qualche modo astratto, il rapporto uomo-natura. 
Anche i miei preferiti sono gli autori russi.

Oggi il mio grande amore è Proust. Sto rileggendo “La Recherche”, ripresa dopo moltissimi anni, in passato non ero pronta ad una lettura così complessa.
Grazie della dritta dell’estate, perché avevo iniziato con “Un amore di Swann” e lo riprenderò. Io leggo tutti libroni e grazie al Kindle posso viaggiare leggera.

Quanto sei snob?
Zero. Nobile era la famiglia di mia madre, ma mio nonno diceva sempre “Grazie a Dio, insieme al fascismo è finita pure la monarchia!“. Posso sedermi a tavola con la regina, ma è più facile trovarmi con i senza fissa dimora. 
Sono Snob nei confronti della grettezza, dell’ignoranza, delle persone che non escono dal loro piccolo mondo, che non viaggiano, che non conoscono altre culture, sono Snob verso i razzisti, persone con cui non voglio avere a che fare, che non possono varcare la soglia di casa mia.

Abito 19:13 DRESSCODE
Gioielli BERNARD DELETTREZ

LA VIDEO INTERVISTA AD ASIA ARGENTO:

(Foto cover maglia a costine MVP, gioielli Bernard Delettrez)