Le parafilie di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee ora su Netflix

Nella mia libreria esiste una sezione totalmente dedicata ai serial killer, una passione quasi ossessiva che arriva dall’adolescenza, la curiosità morbosa di capire cosa si cela nella mente di un pazzo.
Perché tendenzialmente un omicida seriale uccide in un momento di follia, quando in materia giuridica si dice sia “incapace di intendere e volere”, vittima di un raptus. Non è il caso del serial killer più spietato d’America, Jeffrey Dahmer, perfettamente vigile e senziente nell’atto di uccidere. E ad ammetterlo è lui stesso in aula di Tribunale quando davanti al Giudice decide di non farsi difendere, aggiudicandosi infine 957 anni di prigione.

Ma facciamo un passo indietro, chi è Jeffrey Dahmer?
Jeff è un bambino molto solo, padre assente per lavoro e madre affetta da depressione post parto con problemi di nervi sin dalla gravidanza, quando assumeva una dozzina di pastiglie con Jeff ancora in grembo.
Nei pochi momenti in cui i due genitori stanno insieme, li vede litigare, urlare, sbattere porte e confessa di aver visto più volte la madre picchiare Lionel Dahmer, il padre. Jeff si chiude in sé stesso, non ha amici con cui giocare, nessuno con cui parlare, ma scopre presto, con l’aiuto del padre, chimico accademico, una strana passione: la tassidermia.
Lionel lo porta nei boschi a scegliere le carcasse animali che andranno poi ad eviscerare, trattare, sezionare, gli insegnerà come sbiancare le ossa e preservare gli scheletri degli animali, convinto fosse per il figlio, un mero interesse scientifico. E’ il primo vero trasporto del piccolo Jeff che probabilmente effettua un transfer di piacere (il suo unico momento di gioia e condivisione con il proprio genitore) in quelle che saranno le viscere e la sua lucentezza.

Jeffrey Dahmer nelle fasi evolutive

Da adulto, nella fase seriale, Dahmer ricercherà quella lucentezza, stringendo tra le mani gli organi interni delle sue vittime e facendoci sesso con i corpi aperti e sezionati. Una parafilia che si accumula all’antropofagia (ingestione di carne umana) necrofilia (sesso con i cadaveri) e vampirismo (ingestione di sangue altrui).
I necrofili, a differenza dei sadici, cercano di mantenere integro il cadavere per poi consumare un rapporto sessuale con esso, perché temono le richieste di un soggetto normale, necessitano invece di un oggetto passivo, su cui avere il totale controllo.

“Era l’unico modo per evitare le loro richieste e per farli rimanere con me il più a lungo possibile”, questa la dichiarazione dell’assassino durante gli interrogatori. Dahmer aveva subìto il trauma dell’abbandono quando, una volta che i genitori si separarono, la madre scappò con il secondo figlio ancora bambino, lasciando solo Jeffrey in età adolescenziale. Momento cruciale e di ascesa perché inizia una fase di alcolismo, di totale solitudine e soprattutto il primo omicidio.

Attratto da un autostoppista diretto ad un concerto, Jeffrey promette un passaggio ma lo invita in casa per una birra, quando il ragazzo capisce che il serial killer avrebbe temporeggiato, si spazientisce e vuole andarsene, è quella la miccia che accende la furia omicida del bambino che c’è in lui, quello abbandonato da tutti, che oggi non può più accettare di rimanere solo. Lo uccide con un manubrio per poi strangolarlo con lo stesso, abusa del cadavere, secca in forno le ossa per poi frantumarle e spargerle nel giardino, un modo per averlo sempre vicino a sé.

Jeffrey Dahmer a processo

L’iter dei successivi omicidi sarà sempre lo stesso, Dahmer aveva prestato servizio militare come medico da campo in cui aveva imparato a somministrare medicinali, sonniferi, droghe che userà per immobilizzare ed addormentare le vittime rendendole inermi.
Attirando soggetti per lo più giovani, neri, di ceto sociale basso, con la scusa di scattargli delle foto in cambio di denaro, Jeff Dahmer colleziona vittime su cui sperimenta le sue follie diaboliche; cerca di renderli degli zombie, praticando delle lobotomie approssimative, che permettono al corpo di rimanere in vita ma che tolgono la possibilità di azione. Non ci riuscirà, i ragazzi moriranno a causa dell’iniezione di acido muriatico nel foro inflitto sulla testa.

alcuni teschi intatti ritrovati nella casa di Dahmer. Credits Netflix

La serie racconta e sottolinea gli sforzi continui della vicina di casa Glenda Cleveland, insospettita dalla fetida puzza che arrivava dal bocchettone dell’aria e dai rumori notturni incessanti del trapano, che la Polizia di Milwaukee aveva ripetutamente ignorato, compresa la notte in cui avevano riportato il corpo di un quattordicenne, in evidente stato confusionale, nudo e impossibilitato a camminare, nell’appartamento del suo carnefice, per poi essere ucciso e cannibalizzato la notte stessa.

Siamo nel maggio degli anni ’90 in una strada dove vive la comunità africana e in un periodo storico dove il bianco aveva più voce dei neri, dove gli omosessuali venivano derisi ed evitati, insomma un connubio perfetto di reietti della società su cui Dahmer, belloccio, fisicato e bianco, può affondare le mani senza intralci, uscendone al massimo con qualche multa per atti osceni in luogo pubblico, come quando si masturba in pubblico ripensando al primo omicidio.
Reiterare il piacere come fece, fregandosi, l’altro serial killer definito il più affascinante della storia, Ted Bundy, durante il soliloquio in aula mentre difendeva sé stesso ripercorrendo (inutilmente per il processo in quell’istante) le azioni ed i dettagli macabri sulle vittime, con un ghigno soddisfatto ed eccitato.
Jeffrey Dahmer imprimeva quel piacere, sessuale (quasi tutti i moventi sono di natura sessuale), conservando dei pezzi di ossa, come i teschi che teneva nell’armadio o i genitali essiccati in qualche cassetto.
Ha sempre dichiarato di non aver mai ucciso per odio, ma solo per il bisogno di non rimanere solo, per dormire a lungo con qualcuno, per avere un corpo accanto a sé che non lo comandasse a bacchetta come avevano fatto in precedenza, madre, padre, nonna. Si è sempre dichiarato sano di mente perché consapevole delle atrocità che stava commettendo, ma impossibilitato a smettere (era talmente forte l’impulso, che cercava la vittima successiva prima ancora di essersi sbarazzato dell’ultimo corpo).

i resti delle carni umane congelate trovate nel suo freezer (credits Netflix)
scorte di acido muriatico trovate nel suo appartamento (credits Netflix)
gli attrezzi che usava per sezionare i cadaveri (credits Netflix)
il barile che usava per sciogliere i corpi, trovato nella camera da letto (credits Netflix)
foto dell’appartamento durante l’arresto (credits Netflix)

Ossessionato dagli horror (l’Esorcista III era il suo film preferito) e dalla Bibbia Satanica, per caricare la violenza omicida ed entrare nel personaggio, il serial killler indossava delle lenti a contatto gialle, convinto che potessero regalargli lo stesso potere dei posseduti sui corpi e sulla realtà.

La visione di DAHMER Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, serie Netlix creata da Ryan Murphy e Ian Brennan e divisa in 10 puntate, è da legare a Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer, diretta dal candidato agli Oscar Joe Berlinger (lo stesso di “Conversazioni con un killer: Il caso Gacy”), registrazioni reali delle conversazioni tra l’omicida e il suo avvocato. Sono confessioni crude e spietate che non mostrano rimorsi, alcun segno di empatia verso le vittime, ma che soprattutto non celano dettagli, piuttosto vi si riscontra la necessità di esternarli (comportamento atipico nei serial killer che giustificano la propria malvagità nascondendo i fatti).

E’ utile per comprendere a fondo la psicologia di un uomo malato, che forse nasce con una predisposizione alla psicopatia (la madre che incinta assume quantità di pillole, un dna di malati di nervi) e che sviluppa parafilie nel corso della vita (le attività di tassidermia con il padre), unito al trauma dell’abbandono (la madre scappa di casa con l’altro figlio e lo lascia solo in casa in età adolescenziale. Il padre assente).

Ci si chiede, come sarebbe cresciuto se avesse ricevuto le giuste attenzioni, l’affetto di una famiglia, l’amore di altri esseri umani? Avrebbe potuto salvarsi dalla malattia? Quanto il comportamento sociale di un nucleo (famiglia, lavoro, amici) può modificare il nostro comportamento e la nostra intelligenza emotiva? Un essere malato può riconoscere il malessere e fare autodiagnosi, ed infine chiedere aiuto?
Sono infinite le domande che ci poniamo e che necessiterebbero di un approfondimento scientifico descritto da un esperto; resta chiaro che l’amore è forse la più grande medicina e che, la sua mancanza, può generare dei mostri in carne ed ossa.

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Sempre più donne alla Whisky Week sul Lago di Como – Il Best Of

2/3 Ballantine’s 1/3 Glenfiddich“,
quando penso al whisky non riesco a fare a meno di ricordare l’epica scena di “Sapore di mare 2” in cui una bellissima Eleonora Giorgi indovina 6 whisky bendata.

Quando si chiedono come fa a indovinarli tutti, lei risponde: “Sono 10 anni che li bevo tutte le sere“, bizzarro per una donna negli anni ’80, in cui il distillato era riservato al dopocena tra uomini, agli incontri d’affari e nell’immaginario collettivo stava in mano ad un elegante e brizzolato signore in giacca da camera, sigaro, camino acceso e due levrieri stesi accanto.
Oggi invece sempre più donne si stanno avvicinando al mondo del whisky, ce lo dicono le statistiche, come nell’ultima Whisky Week di Como, l’evento ideato da Claudio Riva e Davide Terziotti che fa capo al Whisky Club Italia, il più grande whisky club italiano con oltre 20mila iscritti, dove la partecipazione femminile ha raggiunto il 40% tra gli oltre 1000 ingressi raggiunti.

Così come nel mondo del vino, i distillati rientrano nei nuovi interessi del mondo femminile, che scardina pregiudizi e si mostra non solo interessato, ma preparato, colto e pronto a fare la differenza.
Nella splendida location su quel ramo del lago di Como, Villa Geno, una villa tardo-neoclassica con un grande parco circostante, si è tenuto il terzo appuntamento della Whisky Week, con 60 aziende in rappresentanza di circa 300 brand provenienti da Paesi di 4 continenti, dalla Scozia all’Irlanda, dalla Francia agli Stati Uniti fino ai Caraibi e al Giappone.
Ambassador, proprietari, distributori e rappresentanti, tutti accomunati da una grande passione per il distillato dal carattere forte, a disposizione degli ospiti, curiosi, addetti al settore ed amateurs per far scoprire nuovi whisky speciali provenienti da tutto il mondo.

Dalla Tasmania, Cadenhead’s Single Malt 23 anni di Cradle Mountain, una edizione limitata di sole 198 bottiglie completamente maturate in botte di Cabernet Sauvignon.
Cadenhead è il più antico imbottigliatore indipendente di whisky oggi attivo. La genialità di Cadenhead sta nel fatto che in un momento storico in cui il whisky prodotto dalle distillerie veniva venduto in barili ai blenders, il fondatore è il primo a imbottigliare single malt, dunque whisky di malto di un singolo produttore, circa cent’anni prima che ciò diventasse prassi.
(799,99 dollari)

Dall’Australia, That Boutique-Y Whisky Company, Bakery Hill 5 Y.O. Batch N.1, un single malt invecchiato 5 anni di cui sono disponibili 429 bottiglie; cremoso, note torbate, finale speziato.
That Boutique-y Whisky Company è un imbottigliatore indipendente che offre whisky di marchi e distillerie di fama mondiale e si distingue per le etichette grafiche e divertenti, creazioni della fumettista scozzese Emily Chappell, come questa che riprende una scena della nota serie tv Breaking Bad, in cui il protagonista rimane in mutande nel deserto quando esce dal camper dopo aver preparato le anfetamine; qui i soggetti disegnati producono whisky, ovviamente!
(155,00 euro)

Dallo stesso imbottigliatore, Auld Alford’s 52 anni, “troppo tardi per essere chiamato whisky”. Prodotto nello stesso modo, ma legalmente non può prendere la denominazione whisky perché nel tempo ha perso la sua gradazione per evaporazione.
Molto simile al bourbon nell’aroma, nota di cioccolato che arriva subito al naso e persistente al palato, lievemente caramellata.
Importatori e distributori di questi tre prodotti Beja Flor, scelte di chi fa del whisky uno stile di vita.
(78,22 dollari)

Dall’Irlanda, The Busker Single Malt, linea prodotta interamente a Royal Oak, distilleria situata in una tenuta del XVIII secolo nel sud-est irlandese nella Contea di Carlow, e management team d’eccellenza riconosciuto da “Icons of whiskey”nel 2021 con i premi di miglior Distillery Manager e Miglior Visitor Attraction Manager. 
The Busker Single Malt è distillato in grandi alambicchi di rame e maturato in botti di due legni diversi (bourbon e sherry), profumo fruttato avvolgente, sentori di mela e banana ed essenze di pino e fiori di sambuco; al palato note di cioccolato e biscotto.
(29,00 euro)

Nelle sale di Villa Geno, ogni ora si sono intervallate interessanti Masterclass , tra cui ne spicca una sull’American Whisky tenuta dai fondatori di Dream, Marco Maltagliati e Federico Mazzieri, due amici con un grande sogno divenuto realtà, giovani e appassionatissimi produttori che trascinerebbero folle nel loro infinito amore per il whisky.
Nella degustazione di 4 prodotti Dream, Creative Blend mette tutti d’accordo, un assemblaggio di 5 botti accuratamente selezionate e provenienti dalla celebre distilleria Death’s Door nel Wisconsin, oggi chiusa e destinata a diventare un’icona della storia contemporanea dell’american whiskey, Creative Blend è una collezione limitata di whiskey unici e rivoluzionari; ogni edizione presenterà una ricetta sempre differente in modo da costruire nel tempo una serie inedita di Blend American Whiskey.
In qualche modo nata grazie all’amicizia con i proprietari del noto speakeasy Jerry Thomas, nella classifica dei “50 Word Best Bar“, le etichette di Creative Blend rappresentano volti di Presidenti Americani sbeffeggiati; in questa bottiglia scarabocchiato alla Joker.
Sottolineando l’importanza ed il rispetto per la tradizione del Re dei distillati, i fondatori alleggeriscono la scelta e facilitano l’avvicinamento al prodotto aumentando i “momenti del whisky”. Non è sempre meditazione, una bevuta può essere easy con un amico e la scelta ricadere su un’annata minore di 20 anni, tra l’altro mai specificata sulle loro bottiglie, perché di secondaria importanza. “E’ importante cosa dicono il nostro palato, le nostre emozioni in quel momento, non un’etichetta“, così conclude Marco Maltagliati nel suo fervido e convincente racconto.
(80,00 euro)

Di fronte a Villa Geno le acque del lago di Como, dove ci attende una barca a motore su cui fare altre tre degustazioni di whisky, in un tour romantico che tocca le sponde di Villa d’Este.
Dalla Scozia arriva questo whisky dal colore oro d’orzo, dalla Tomintoul-Glenlivet Distillery, nella regione dello Speyside, produttrice di whisky di malto per miscele e imbottigliato come single malt.
Speyside Single Malt Whisky Glenlivet 15 anni – Old Ballantruan al termine del processo di distillazione viene fatto affinare per 15 anni in botti ex-Bourbon, per poi venire imbottigliato senza alcuna filtrazione a freddo, mantenendo quindi un tenore alcolico potente, che lascia alta la gradazione senza risultare aggressivo e pungente al palato. Un vero gioiello per gli appassionati di single malt scozzesi, con naso di affumicatura, catrame e al sapore note di quercia, caramella mou, fumo, sentori marittimi.
(111,75 euro)

L’appuntamento con la prossima Whisky Week è in primavera a Firenze, per la prima edizione in riva all’Arno.

Whisky Club Italia

Con oltre 20 mila iscritti Whisky Club Italia è il più grande whisky club italiano, con cuore nella Brianza Lecchese e distaccamenti che coprono buona parte del territorio nazionale. Grazie all’esperienza dei tanti eventi organizzati dal Sud al Nord Italia i fondatori Claudio Riva, Davide Terziotti hanno fatto squadra per diffondere la cultura del distillato e del bere consapevole, con centinaia di degustazioni guidate, in presenza o online.

Ad Amburgo inaugura il più grande centro europeo Bentley

E’ dal Mare del Nord che arriva un vento costante, di quelli che annunciano l’inverno, paiono freschi per poi penetrare dalle giacche e dai tessuti.
Come un’estensione colorata, intorno a questo mare, una distesa verde di campi agricoli e di fattorie, dove le mucche pascolano libere e i cavalli galoppano in gruppo; strisce viola di statice selvatica e cittadini silenziosi; la città in questione è Amburgo, e le sue parentesi felici fuori dalla città, che si fregia d’essere diciannovesima tra le venti città del mondo con la miglior qualità della vita.

E’ qui che inaugura il più grande centro europeo di Bentley, un nuovo edificio che risponde all’etica sostenibile del gruppo e della strategia Beyond100, con un sistema di riscaldamento avanzato ed ecologico, isolamento termico dell’edificio, nato in una città dove “Green” è la parola d’ordine.

Nello showroom di 800 mq viene custodita la storia di Bentley e dei suoi esemplari, auto dalle sinuosità iconiche, eleganze dimenticate che subito fanno pensare ad una fumosa Londra in bianco e nero.
I grandi e circolari volanti in pelle nera, il cruscotto in radica, le sottili e argentee maniglie dello sportello che aprono ad un salotto più che ad un’auto di quelle a cui oggi siamo abituati; Bentley detiene certamente il primato delle auto di lusso più eleganti di sempre, dal design accattivante e dai preziosi materiali.

Non a caso, protagonista del nuovo grande opening di Amburgo, un nuovo modello dal design innovativo in casa Bentley, la Bentley Mulliner Batur, l’auto del futuro, composito in fibre naturali, parti in titanio, ghiera in oro 18 carati e infinite formule di custom-made. Ma i 18 esemplari a disposizione sono già stati venduti! Modelli che si aggirano intorno ai 2 milioni di euro cca e che rispondono al nuovo DNA Bentley che si fa strada tra i futuri BEV (Battery Electric Vehicles).


Ma le novità in casa Bentley non sono finite. Durante la grande apertura ad Amburgo, presso il ristorante Boothaus Bar & Grill, splendida location nel cuore dell’HafenCity, un bancone dal backwall rosso fuoco e un’intima saletta con cucina a vista, è stato presentato The Macallan Horizon, il primo whisky single malt in edizione limitata creato dalla collaborazione tra i due brand. Un oggetto da collezione pensato come una vera e propria opera d’arte, racchiuso in una rivoluzionaria bottiglia che fonde artigianato tradizionale, materiali riciclati e un particolare design orizzontale. Le sfaccettature del vetro ricordano la dinamicità dell’auto sportiva; il whisky, di un profondo colore ambrato con riflessi ramati, regala luce all’oggetto chiamato The Vessel, “la nave”.
In food pairing una degustazione di Macallan, perfetto con un Guanaja Chocolate, crumble di cioccolato e gel alla ciliegia, ma delizioso anche in abbinamento al Sashimi di salmone con crema miso, burro con salsa di soia, mela verde e nocciola e alla tartare di carne con patate croccanti, dragoncello, verdure sottaceto.

Per chi volesse visitare il nuovo building Bentley e soggiornare ad Amburgo, non c’è vista migliore del The Westin Hamburg, hotel 5 stelle lusso situato nell’edificio dell’Elbphilharmonie, la sala da concerto più grande e acusticamente più avanzata del mondo; affaccia sul fiume Elba e sul porto e la sera è possibile godere di tramonti rosa Tiepolo dalla propria stanza o rilassandosi nella vasca da bagno.

La struttura dalle ondulate forme architettoniche sulla cima è il più alto abitabile di Amburgo, dal Plaza un via vai di coppie e turisti appassionati di musica classica si smistano tra le sale, chi avrà la fortuna di ascoltare il quartetto per archi con le composizioni di Haydn, Mozart, Beethoven (il 12 ottobre 2022 per gli interessati), chi invece si godrà la vista panoramica dall’ottavo piano del Westing cenando a lume di candela.

The Westing Hamburg




Asia Aria Maria Vittoria Rossa Argento

Un cane che è stato maltrattato morderà sempre; quando gli si vorrà dare una carezza, la leggerà come uno schiaffo. 

Asia Argento fiuta l’essere umano come fosse suo nemico, come se il giornalista, il nemico numero uno, non avesse altro desiderio nella vita che attaccarla, umiliarla, offenderla. Forse trova sia impossibile che qualcuno del nostro mestiere abbia invece l’intenzione di abbellire la realtà, come fanno i fotografi con le immagini di modelle photoshoppate, dove non necessariamente si nasconde la verità, piuttosto ne si esalta la bellezza. 

L’essere sulla difensiva è tipico degli animali braccati, feriti, di conseguenza la migliore arma, per quelli come loro, è sempre l’attacco e sentono la vittoria nello scovare il punto debole dell’avversario. Asia Argento mette alla prova, tenta lo sgambetto, ribatte a domande con domande, come quando le si chiede dei suoi scrittori preferiti e si sincera li si conosca, ignara che letteratura, per chi l’intervista, equivale a vita, che tra quelli da lei citati si siano letti tutti i romanzi e visti tutti i film trasposti, che “La Recherche” di Marcel Proust, il più grande capolavoro mai scritto in letteratura, lo si è letto più volte nella vita ( lei ammette di essersi fermata al primo libro “Un amore di Swann”). 

Provoca inseguendo la sua natura, e perché come donna intelligente, colta, preparata, non teme il confronto, ma come donna istintiva, non tiene in considerazione le varianti, gli imprevisti, come trovarsi di fronte a qualcuno che potrebbe essere, magari, più preparato, più colto, più erudito. 

Parla di “Ego” come se stesse lottandolo, e di Buddhismo come pratica d’amore verso gli altri e sé stessa anzitutto; si descrive come non l’abbiamo mai vista, spogliata di quella coltre dark e maledetta; è magnetica, ah se lo è, permea lo spazio lasciando il segno, s’imprime come il Preludio del “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, che vorresti ascoltare a 90 decibel ma solo nell’umore giusto, malinconico, intimo, profondo. 

Interview: Miriam De Nicolò
Photo: Marco Onofri
Styling: Stefania Sciortino
Art Direction: Roberto Da Pozzo
Make up/Hair: Chiara Silipo

Abito 19:13 DRESSCODE
Gioielli BERNARD DELETTREZ 

All’anagrafe Aria Maria Vittoria Rossa Argento, i tuoi genitori ti hanno raccontato il perché della scelta di questi nomi?
Sono Aria Asia, gli altri non sono presenti sul passaporto, loro volevano chiamarmi Asia ma all’anagrafe c’era una signora che ha riferito di una legge di Mussolini che non permetteva di dare il nome di un continente straniero, per cui mio padre ha scelto Aria. Mi volevano Terra e invece il destino mi ha voluto Aria. Vittoria Rossa ha un significato chiaramente politico, mentre con Maria ci hanno buttato dentro un po’ di sana cristianità italiana.

Lo hai dichiarato nel libro “Anatomia di un cuore selvaggio”, “io mi definisco bisessuale se proprio dobbiamo dare una definizione a tutto”. Perché definirsi e che rapporto hai con la sessualità?
La sessualità trovo che sia una cosa intima, ho scritto quella frase in una sorta di diario autobiografico in cui ho voluto raccontarmi proprio per non dover rispondere più a queste domande; ho dichiarato nel mio libro che sono bisessuale, ora devo spiegare la mia sessualità? Come la pratico, con chi vado, donne, uomini, gatti, sono semplicemente un essere umano libero e ho sempre vissuto liberamente la mia sessualità, non c’è niente da aggiungere.

Il tuo rapporto con lo specchio?
Non mi guardo molto allo specchio, la mattina quando accompagno mio figlio a scuola sono sempre di fretta e mi accorgo che dopo aver lavato viso e denti, non mi sono nemmeno guardata. Quando ero più giovane, avendo un po’ di dismorfia, ero molto insicura, mi vedevo bruttissima, a giorni troppo grassa, altri troppo magra; oggi ho fatto pace con me stessa. 

Il tuo rapporto con il cibo?
Da piccolo chimico, studio ogni forma di pensiero e ho scoperto che i prodotti animali sono spesso causa di tumori e malattie del cuore, per cui ho scelto di diventare vegana, aiutata anche dalla mia ipocondria. Per me il cibo è medicina, per cui succede che se l’amatriciana fa male, automaticamente non mi piace e di conseguenza tutti gli alimenti salutari diventano gustosi e saporiti.

Attrice e regista, in quale ruolo ti senti più realizzata?
Quello di essere umano, e la mia realizzazione arriva dalla volontà di fare sempre del mio meglio. Dovessi morire stasera, vorrei che sulla lapide ci fosse scritto “Ha fatto del suo meglio”. Cerco di costruire le cose e non distruggere, di aiutare gli altri, di fare del bene a me stessa e agli altri, questo oggi è il mio ruolo nella società, nel mondo, nel mio piccolo nucleo familiare, questo il ruolo che mi interessa di più, quello di essere umano. Anche nel lavoro cerco di fare del mio meglio, un tempo ero molto ambiziosa ma insieme all’ambizione corre dietro l’ego e il bisogno di prevalere, di mettersi su un piedistallo; da quando ho imparato a metterlo da parte, credo di aver iniziato a fare meglio il mio mestiere, perché penso a creare e basta.

Rifuggi dall’ego?
Non rifuggo dall’ego, che è istinto, è insito in tutti noi, e che in fondo nasconde paure e insicurezze, però bisogna che non vada fuori controllo, tenerlo a bada, come ho scritto sul muro di casa: “your ego is not your amigo”. 

Prima hai parlato di morte, potessi scegliere, come vorresti morire? 
In pace, di malattia o incidente non lo so ma spero di trovarmi in un momento di pace della mia vita, e di non lasciare dietro rancori o rimorsi.

Nella scala dei valori che cosa metti al primo posto?
La famiglia.

Cosa significa essere madre?
Significa aver svolto il mio compito sulla terra, aver portato avanti il mio codice genetico e aver fatto del mio meglio, cercando di rendere i miei figli due esseri umani utili al mondo. Essere madre è sentir crescere nel tempo una grande responsabilità, è il mestiere più difficile ma quello più gratificante e che mi ha realmente arricchito. 

Il tuo rapporto con il denaro?
Il denaro è importante, ma non ho grandi pretese, mi bastano due vacanze l’anno con i miei figli, sacre, non amo sperperarli nello shopping, ed è indispensabile per continuare a pagare il mutuo. Sono fortunata perché non tutti possono svolgere un mestiere gratificante, alzarsi la mattina ed essere felice di andare al lavoro e tornare stanca ma soddisfatta. 

Esiste un film che avresti voluto girare tu?
No, perché non ho questo tipo di ego, non voglio sostituirmi a qualcun altro; lo apprezzo così com’è proprio perché non sarei stata in grado di pensare a quella storia come regista o di interpretare quel ruolo allo stesso modo.

Cosa stai leggendo in questo momento?
Sto leggendo molti libri sulla Seconda Guerra Mondiale perché farò un film, una serie ambientata in questo periodo, forse il genocidio più grande della storia, contro gli ebrei, gli omosessuali, i Rom, gli intellettuali di sinistra, una follia collettiva inspiegabile; ho riletto tutti i libri di Primo Levi, un volume sul processo di Norimberga. Nella mia famiglia ci sono stati 14 morti nei campi di concentramento ed è sempre stato un argomento tabù perché portava sofferenza, un DNA pesante che ora è il momento di vedere il male e mai dimenticare, perché attraverso la memoria insegniamo ai nostri figli a non ripetere il dramma. Anche se dobbiamo sapere che il male risiede dentro ciascuno e combatte con i mondi più alti, quelli che i buddhisti definiscono “i dieci mondi”; per non finire in quello più basso, il mondo d’Inferno, è necessario lavorare su sè stessi, studiare la propria storia, e quella del mondo. 

Tu credi all’Inferno e al Paradiso?
Non a quelli dei cattolici, non con quel tipo di immaginario semplicistico, credo ad un Inferno e un Paradiso spirituali anche sulla terra nella vita di ognuno, nella giornata stessa, e si ripetono. Si può vivere l’Inferno e poi risalire perché è stata una enorme lezione. Il cielo non è il mondo più alto, il mondo più alto è l’illuminazione.

Ci stai raccontando il tuo rapporto con la spiritualità 
Sono buddhista, pratico il Buddhismo di Nichiren Daishonin, un famoso Nam myoho renge kyo, il sutra del loto che come simbolo ha un fiore con le radici nel fango, porta dentro di sé anche il frutto, il potenziale umano, la rivoluzione umana. Studio gli scritti di Nichiren Daishonin e pratico il mantra, che mi hanno aperto gli occhi sulla mia vera natura anzitutto, e dato il desiderio di trovare obiettivi più alti rispetto a quelli che avevo avuto.

E come si arriva a questa consapevolezza? 
Medito due volte al giorno, la mattina e la sera per chiudere la giornata, ma se ho un grande problema posso stare davanti al Gohonzon a meditare tutto il giorno. È un processo mistico, ma credo ci si possa arrivare anche con l’esercizio, svuotando la mente per far entrare delle informazioni più alte di te, è un riprogrammare mente e spirito.

Maglia a costine MVP
Gioielli BERNARD DELETTREZ

Che amica sei?
Ho pochi amici e quelli che ho me li tengo stretti; sono un’amica da messaggi vocali, presente ma distante, seguo la mia natura; per lavoro sono costretta a stare a contatto con tantissime persone, quindi i momenti di solitudine sono per me molto preziosi.

Cos’ è per te la felicità?
Può essere anche il tuo sorriso, o svegliarsi e non avere dolori alla schiena, sono le piccole cose; le felicità eclatanti sono invece pericolose, gli scoppi rumorosi di gioia quando pensi di essere innamorato sono felicità che hanno una fine; quella che cerco è più simile alla serenità, come un’onda continua. 

Serenità, sarebbe una gran fortuna trovarla
Ma si può ottenere, io ce l’ho, si può ottenere tutto nella vita ma bisogna lavorarci anziché lamentarsi. Io ho un protocollo, ogni giorno lo applico per stare bene, perché bisogna volere stare bene, bisogna volere essere felici o sereni.

Qual è la cosa che ti fa più soffrire in assoluto?
Le ingiustizie, su di me le sopporto meglio che sulle persone a me care, la mia famiglia, ma anche sui più deboli; in passato reagivo con rabbia e mi crogiolavo nella disperazione, oggi ho imparato a reagire. 

La caratteristica principale del tuo carattere?
Sono una persona che non si annoia mai.

Invece il tratto che non transigi degli altri?
Non riesco ad avere a che fare con le persone che hanno la mente chiusa, quindi mi allontano dai gretti.

I tuoi scrittori preferiti? 
Ho letto tutti i libri di Robert Walser, Lev Tolstoj, Bruno Schulz, Alberto Moravia, Marina Cvetaeva. Ne conosci alcuni?

Tolstoj è uno dei miei autori preferiti, ho letto tutti i suoi romanzi, credo abbia descritto in maniera semplice un concetto molto complesso e in qualche modo astratto, il rapporto uomo-natura. 
Anche i miei preferiti sono gli autori russi.

Oggi il mio grande amore è Proust. Sto rileggendo “La Recherche”, ripresa dopo moltissimi anni, in passato non ero pronta ad una lettura così complessa.
Grazie della dritta dell’estate, perché avevo iniziato con “Un amore di Swann” e lo riprenderò. Io leggo tutti libroni e grazie al Kindle posso viaggiare leggera.

Quanto sei snob?
Zero. Nobile era la famiglia di mia madre, ma mio nonno diceva sempre “Grazie a Dio, insieme al fascismo è finita pure la monarchia!“. Posso sedermi a tavola con la regina, ma è più facile trovarmi con i senza fissa dimora. 
Sono Snob nei confronti della grettezza, dell’ignoranza, delle persone che non escono dal loro piccolo mondo, che non viaggiano, che non conoscono altre culture, sono Snob verso i razzisti, persone con cui non voglio avere a che fare, che non possono varcare la soglia di casa mia.

Abito 19:13 DRESSCODE
Gioielli BERNARD DELETTREZ

LA VIDEO INTERVISTA AD ASIA ARGENTO:

(Foto cover maglia a costine MVP, gioielli Bernard Delettrez)

Maurizio Lombardi, l’attore camaleonte

Se fosse un oggetto sarebbe una pagina bianca, perché Maurizio Lombardi, attore, doppiatore, sceneggiatore e regista teatrale, ha quella predisposizione del liquido che cambia a seconda dell’oggetto che lo contiene. 
Con la voce, roca, grave e profonda, seduce come quella delle sveglie telefoniche della mattina che si sentono nei film di Truffaut, come in “L’homme qui aimait les femmes”, di cui il protagonista s’innamora; il volto che ricorda personaggi del passato e un corpo che parla, e balla, mezzo espressivo di interpretazione per gli infiniti ruoli che ha recitato, dal cardinale Mario Assente in “The New Pope” di Paolo Sorrentino, dove regala un iconico balletto a fine serie, al tonno nel film “ Pinocchio” di Matteo Garrone, fino al giornalista senza voce Marcello Grisanti in “L’Ora – Inchiostro contro piombo”, costretto a parlare con un laringofono. D’altronde, se Maurizio Lombardi non l’avesse, la voce, sarebbe perfetto per il cinema muto, foss’anche per la somiglianza con Buster Keaton, Oscar onorario 1960, celebre attore dall’espressione malinconica e grande talento del cinema in bianco e nero. 

Per l’intervista indossa una t-shirt che porta il nome di Billy Elliot, il ragazzino undicenne che sogna un futuro nella danza classica, saluta con una lieve cadenza fiorentina, che subito lo rende simpatico, cita grandi autori del cinema con la passione di un iniziato e la consapevolezza di un veterano; non posa, ma è palese la soddisfazione nel vestire i panni dell’attore; Maurizio Lombardi ha lo spirito del bambino che alcuni geni hanno citato, come Albert Einstein:

“Lo studio e la ricerca della verità e della bellezza sono una sfera di attività nella quale è consentito rimanere bambini tutta la vita”.


Chi è Maurizio Lombardi?
Maurizio è un ragazzo che per mestiere e passione fa l’attore, e nell’arte della recitazione ha elaborato un modo di vivere e di pensare, ha trovato un’ identità, un posto nel mondo, in senso ellenico; un’entusiasta che reciterà fino all’ultimo, fino alla fine.

Reciti anche nella vita privata?
Un ballerino che passeggia si riconosce tra la folla, perché possiede una certa impostazione fisica, la stessa predisposizione l’ha anche l’attore.

In “The New Pope” di Paolo Sorrentino hai interpretato il cardinale Mario Assente, come ti sei preparato e quali sfumature hai regalato a questa figura?
Come una pagina bianca, resetto ad ogni nuovo ruolo. Nel caso del cardinale Mario Assente avevo un ottimo script perché Sorrentino, prima di essere un grande regista, è uno splendido scrittore, avevo delle bellissime cose da dire e nel recitarle dovevo tenere conto dell’abito, che da noi fa il monaco (un abito talare a 33 bottoni come gli anni di Cristo), e gli occhiali, lo zuccotto, l’altezza, l’anello, la croce d’oro, tutti i paramenti di un cardinale e tutti gli strumenti per me già sufficienti. Se Sorrentino ti sceglie, lo fa perché ha visto in te quel tratto preciso, quel colore, un guizzo, e devi assolutamente riuscire a portare fuori il suo disegno.

C’è un ruolo che ancora non hai recitato e che vorresti interpretare?
Sì, la deformazione fisica e le problematiche corporee. Sono un attore che usa e sfrutta al massimo il proprio corpo, almeno in teatro, poi al cinema vedremo; mi piacerebbe indagare perché essere prigionieri del proprio corpo è così doloroso e anche particolarmente strano.

C’è un qualche legame o esperienza particolare nella tua vita che ti porta a indagare su questa realtà?
Trovo interessante poter raccontare storie di ragazzi che nonostante le gravi difficoltà fisiche, riescono a eccellere in sport e altre arti. A teatro, con “I ragazzi di Via della Scala”, ho interpretato un ragazzino diversamente abile ed è stata una grande lezione portare quella poetica, quella dolcezza legata al dramma, in scena.

Su cosa non transigi?
Non sopporto la sciatteria, le persone che credono vestirsi “alla c****” sembri figo. Cura verso sè stessi significa anzitutto rispetto per gli altri, a meno che tu sia Dio, allora puoi far ciò che vuoi. E l’approssimazione, insomma quando anch’io sono approssimato ascolto un amico che mi spiega dove ho sbagliato o che mi insegna qualcosa che non so, e sono conquistato, perché mi piace imparare. 

Hai citato Dio, qual è il tuo rapporto con la spiritualità?
Trovo più importante che esista un San Francesco, un Gesù, una Maria Maddalena e Santa Chiara, piuttosto che un Dio. I primi sono personaggi realmente esistiti, hanno una storia, sono la forza motrice del mondo, forse più di Dio stesso. Dio è un egocentrico. 

Frames tratti dalle scene dirette da Peppe Tortora

Chi è un amico?
Solo a pensare al sentimento dell’amicizia mi commuovo. L’amico è tutto, è la persona su cui puoi sempre contare, e da figlio unico potrei paragonarlo ad un fratello. L’amicizia per me è una diversa forma d’amore, tra l’altro io ne scrivo spesso nei miei spettacoli, che sono tutti incentrati su rapporto fra due persone, due bambini, nonno e nipote, etc…

Tu oltre ad essere attore, sei anche doppiatore e regista teatrale
Cerco di fare tutto quello mi permette di raccontare delle storie, e se quella storia non è venuta in mente a nessuno, la scrivo io e la interpreto come performer, o a teatro, ma sono sempre un attore tout court.

E’ appena uscita la serie “L’ora- inchiostro contro piombo” dove interpreti il ruolo di un giornalista nel quotidiano che ha scritto per primo la parola “mafia”
È stato un bellissimo lavoro diretto da Piero Messina, Ciro D’Emilio e Stefano Lorenzi e racconta la redazione del Giornale di Sicilia negli anni ‘50, una bella sfida perché Marcello Grisanti, il giornalista che interpretavo, non aveva le corde vocali, per cui dovevo lavorare con un finto laringofono, ma il lavoro più appagante è stato lavorare con un cast eccezionale, Claudio Santamaria, Francesco Colella, Bruno Di Chiara, Daniela Marra, e rendersi conto durante le riprese di quanto quell’atto di coraggio abbia cambiato il mondo della parola. Scrivere “mafia” ha evidenziato un prima e un dopo nel mondo del giornalismo e si è dato voce ad un tema che troppo spesso è stato taciuto. 

Per cosa vale la pena lottare?
La libertà, sempre. Se fossi chiuso dentro ad un carcere tenterei la qualunque per evadere, anche se avessi commesso un reato. 

Tema cat-calling, non pensi si stia esagerando?
Come in tutte le rivoluzioni si esagera, oggi molti giovani abbracciano tematiche sociali forti forse per moda, per sentirsi parte di un gruppo, per appartenenza, ma non sanno bene su cosa stanno puntando i piedi. E come tutte le rivoluzioni sono pericolose ma anche portatrici di energia nuova e nuovi modi di pensare; capiremo cosa succederà davvero solo quando sarà passata la tempesta. 

La tua paura più grande?
Non poter più fare ciò che amo.

Potessi scegliere di vivere in un’epoca diversa, quale sarebbe?
La mia radice è molto vintage, quindi nel futuro; vorrei essere già su Marte, immagina un campo da tennis su Marte, la migliore terra rossa, e giocarci. Non è per tutti.

Puoi portarti un solo alimento, uno da mangiare tutti i giorni, sempre lo stesso, cosa scegli?
Spaghetti al pomodoro, Parmigiano e basilico fresco.

Il tuo drink preferito
Vodka Martini, ghiacciatissimo. All’hotel Locarno di Roma lo fanno ottimo.

Maurizio Lombardi, quanto sei Snob?
Sotto certi aspetti sono molto Snob, ma non lo do a vedere perché sono anche molto accogliente, ma mi piace essere snob, far parte delle nicchie, scegliere le cose più preziose, le più belle; nelle nicchie c’è sempre una candela accesa, un pensiero brillante, ma viva anche gli spettacoli per tre persone, le folle le facciano gli altri.

Grazie Maurizio, ti faccio un grande in bocca al lupo, ti seguo sempre e spero di rivederti presto…
In una nicchia magari…

In una nicchia.

Intervista Miriam De Nicolò
Foto e frames tratti dalle scene dirette da Peppe Tortora

La video intervista a Maurizio Lombardi:


Maurizio Lombardi interpreta “L’Empatia“, un video scritto e diretto da Peppe Tortora

SNOB MEETS Settimio Benedusi

Fotografo, giornalista, performer in una delle sue ultime trovate che lo vede attraversare Milano-Imperia a piedi scambiando una fotografia con vitto e alloggio.
Ogni idea del fotografo italiano Settimio Benedusi nasce con l’obiettivo di scoprire se la fotografia ha ancora un valore. E quella traversata, a metà tra Pechino Express e Marina Abramovic, gli ha confermato che esiste e ha la forma dell’esperienza. In cambio di ritratti, Settimio Benedusi ha potuto riposare, cenare, continuare il suo cammino, una strada iniziata tempo fa con le copertine di Sport Week e donne bellissime, ed arrivata alla fotografia “per tutti“, quella che racconta la gente vera, il loro mestiere che esce dalle rughe sul volto, la loro età, la natura congenita; una fotografia che non nasconde, una fotografia schietta che non vuole la patinatura di Photoshop, che esalta i difetti perché ci contraddistinguono, ci rendono unici.

Nel suo magico studio di Imperia, una Chiesa sconsacrata, abbiamo percorso le tappe della sua carriera e siamo entrati nel vivo del processo creativo di “Ricordi Stampati“, il suo progetto omaggio alla fotografia stampata, quella che resta.

Qui la video intervista:

Regia Giovanni Piscaglia
DOP Giuseppe Campo
Intervista di Miriam De Nicolo’

No al panino al volo del milanese imbruttito, sì alla “Bun Mania” di 142 Restaurant

I numeri racchiudono sempre significati profondi, ce lo insegna la natura con la successione di Fibonacci, e lo dichiarava già nel 500 a.C. Pitagora in merito al rapporto con la musica.


142 Restaurant vuole spiegarcelo con 3 cifre:

1 spazio unico dove poter vivere
4 momenti della giornata: colazione, pranzo, aperitivo e cena, con l’accoglienza di
2 anime: la sala e la cucina.

E se lo leggiamo in lingua inglese, one-fo(u)r-two, “uno per due”, è un chiaro invito alla condivisione, all’amore che ci si regala in tavola con il cibo, un momento di unione, di ringraziamento. Questo lo spirito che il ristorante di Corso Colombo 6 a Milano e capitanato da Sandra Ciciriello, ex socia dello stellato Alice, ha deciso di esprimere come motto oltre alla scelta obbligata di eccellenze, prodotti di qualità, originalità.

Certamente il guizzo del ristorante lo da’ l‘ironia con cui vengono studiate le presentazioni dei piatti; talvolta vi capiterà di prendere delle acciughe del Cantabrico con delle pinze strappandole a una tela, come se da un dipinto si manifestassero in 3D; altre dovrete letteralmente leccare il piatto del pre-dessert, un gioco che ammettiamolo, diverte tutti, perché tornare bambini forse è la chiave di una sana leggerezza.

Ma il successo del ristorante, ottima carta vini e delizie culinarie a parte, lo fa l’accoglienza, che segna la differenza, perché da 142 Restaurant vi sentirete come a casa.
Sandra Ciciriello, anima del locale, è sempre presente in sala pronta a coccolarvi, ridere con voi, una natura schietta come non se ne vedono più.
Tornare sarà come rientrare in casa dopo una lunga vacanza lontani dai comfort, e certamente vi attenderanno delle sorprese a tavola, perché qui la fantasia fa da padrona.


Oggi ad esempio potrete provare il nuovo formatBun Mania“, lo street food di 142 Restaurant.

L’ispirazione è americana, panino dolce e al centro tante golosità, come il “Polpo all cuore”, morbido e delicato polpo arrosto al tè nero, maionese di acqua di polpo, pomodoro secco calabro e insalata.
Se preferite i sapori del sud chiederete il bis di “Bun bun polpetta”, polpette di manzo con sugo di pomodoro datterino e salsa di parmigiano; ricorda i piatti della nonna e il calore dei pranzi in famiglia.

“Bun salmone” per chi ha gusti internazionali, salmone marinato da 142, accompagnato da insalata e purea di mango, un tocco di freschezza e acidità da accompagnare magari con un calice di spumante metodo classico brut Tasca d’Almerita 2018.

Qui il triste panino al volo del milanese imbruttito si trasforma in un’esperienza unica, non vi resta che provare e darci ragione.



Dharma Mangia Woods, “se fossi un film…”

Dharma Mangia Woods, attrice, 27 anni

La prima volta che la vidi era seduta su un muretto con le gambe incrociate e un sacchetto biodegradabile della spesa, aveva acquistato un po’ di pane, verdura e della frutta per cena.
Io scendevo le scale dell’albergo di Roma insieme ad un collega, me la ricordo, il cappellino a coprirle il volto, un paio di pantaloni della tuta, top e scarpe da tennis; stava in silenzio e ci ascoltava, a due passi da lei, conversare al telefono col suo ufficio stampa.
Dharma Mangia Woods stava osservando, o meglio studiando, quelli che il giorno dopo avrebbero dovuto intervistarla e fotografarla.
Quando si è presentata ho pensato “che bellissimo viso” sotto l’ombra di quel cappellino, gli occhi timidi color ghiaccio e quella apparente semplicità delle nature complicate.

Il giorno dopo nello stesso taxi, l’una accanto all’altra a parlare di cinema francese mentre fuori dal finestrino Roma gelosa urlava tutta la sua bellezza italiana, noi a citare Truffaut, Chabrol, e Roma che gridava Fellini e Antonioni.
Ho tirato fuori dalla tasca la Nouvelle Vague perché Dharma somiglia a quella comparsa timida sempre presente nei film di Truffaut, la bibliotecaria con gli occhialini rotondi che gira silenziosa tra gli scaffali aprendo a caso le pagine di un libro, mentre scruta tutt’intorno la stanza e ha già scannerizzato ogni singolo lettore e i titoli che porta sotto braccio; quell’attrice che passa da prima inosservata perché il capello arruffato, l’abito stropicciato e l’andatura incerta, ma quando un corteggiatore si avvicina accende lo sguardo e tutti i sensi e si ritrova presto tra le sue braccia in tutta la sua bellezza, gli occhialini sul comò, gli abiti sul pavimento e diviene la nuova protagonista.

Le telecamere si accendono, dovrebbe esserci abituata penso, eppure torna la Dharma timida, la voce trema, le spalle si curvano e penso alla donna che non si concede, che ha bisogno di tempo, tanto tempo, e avrei voglia di abbracciarla.


Dharma raccontaci quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo del cinema.

La passione per la recitazione mi accompagna fin da bambina, mi raccontano i miei familiari che all’età di tre anni dicevo già di voler diventare un’attrice, anche se il primo vero provino risale ai miei sedici, data che coincide con l’inizio della mia gavetta nel mondo del cinema.

C’è un ruolo che non hai ancora interpretato, ma che vorresti assolutamente fare?

Essendo agli inizi della mia carriera direi “tutti”, mi auguro di poter rivestire quanti più ruoli possibili e di arrivare al termine del mio percorso lavorativo soddisfatta di quelle che sono state le mie interpretazioni. 

Che tipo di ruoli ti viene più semplice interpretare?

In realtà non ho preferenze di genere o di emotività, mi sono trovata sempre a mio agio nel dramma, ma non amo definirmi e focalizzarmi solo su un settore, trovo che il concetto di definizione sia un limite alla mia professione, amo il mio lavoro e tutto ciò che ne fa parte.

Il nome di un personaggio femminile che hai amato?

Tutti i ruoli femminili che fanno parte del grandissimo mare che è la Nouvelle Vague, ai quali aspiro idealmente come reference attoriale. 

I tuoi riferimenti cinematografici.

Indubbiamente il cinema francese e i suoi metodi attoriali, amo particolarmente la loro cultura cinematografica e gli interpreti sono estremamente bravi a non far percepire quello che è il confine tra finzione e realtà.

Guardo e studio con molto interesse anche il mondo del cinema inglese e americano, credo ci sia sempre da imparare da tutti.

Hai un rito scaramantico o un oggetto che ti porti prima di andare in scena?

Non ho un vero e proprio rituale, ho dei metodi per prepararmi all’entrata in scena, mi hanno fatto notare che tocco sempre i palmi delle mani, punto centrale dell’emotività, e questo probabilmente mi dà una sorta di sicurezza e mi aiuta ad allentare la tensione. 

Questa tua timidezza può essere il motivo per il quale hai deciso di fare l’attrice, per riuscire  a combatterla in un certo qual modo?

Non è stato il motivo principale della mia scelta, ma può aver contribuito, anche se le persone che mi conoscono a fondo non direbbero mai che sono una persona timida; nel privato e nelle situazioni in cui mi sento a mio agio sono una vera giocherellona.

Crescere mi ha portato poi ad essere molto selettiva nelle frequentazioni e per questo posso sembrare un po’ chiusa, in realtà amo circondarmi di quei pochi che arricchiscono le mie giornate e non mi fanno annoiare. 

Che cosa significa essere attore per te?

Essere attore vuol dire essere molto empatici, vulnerabili, ma al contempo incredibilmente determinati. Non è un lavoro banale, non è una strada semplice da percorrere, devi essere sempre pronto a cogliere le occasioni che ti capitano, è uno stato mentale che va dall’ansia di non avere ruoli all’adrenalina dell’andare in scena. 

Se fossi un film che film saresti?

“Ritratto della giovane in fiamme” di Cèline Sciamma, perchè mi ha trasmesso il concetto del riuscire a bastarsi.

Due giovani fuori dal mondo che non hanno bisogno del mondo perchè si bastano a vicenda, una sensazione di solitudine che però non risulta essere un peso. 

Ho scoperto che stare da sola mi piace, mi calma, non mi porta a dover mettere delle maschere che magari ci sono imposte da determinate circostanze, un aspetto che sto cercando di portare anche fuori da casa mia, ma che richiede tempo e, forse, un po’ più di sicurezza in sé stessi. 

Che cosa stai leggendo in questo momento?

Ho appena terminato uno stage che mi ha avvicinato moltissimo ai testi di Shakespeare, in particolare ai suoi monologhi.

Concludiamo con una domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti 

Quanto sei SNOB? 

Il giusto SNOB, che è sempre bello, SNOB è bello. 

La video-intervista:

Intervista: Miriam De Nicolo’
Attrice: Dharma Mangia Woods
Ufficio Stampa: Lorella Di Carlo
Regia: Peppe Tortora
Location: Hotel Valadier Roma

La leggendaria New Zealand testimone per un anno della Ocean Race 22/23

The Ocean Race, il giro del mondo a vela in equipaggio, partirà nel prossimo mese di Gennaio 2023 da Alicante e arriverà per la prima volta nella storia del Mediterraneo, in Italia, a Genova.

Grazie al “The Grand Finale” la città sarà tra un anno la capitale mondiale della vela e l’arrivo della più straordinaria regata intorno al mondo sarà una grande occasione di promozione ma anche un momento di festa con tanti eventi nel villaggio che sarà allestito presso la Fiera di Genova, nel nuovo Waterfront di Levante.

Qui il passaggio di bandiera all’armatore di New Zealand, l’italiano Ezio Tavasani, che ha partecipato all’evento di inaugurazione presso la città di Genova e l’intervento di Marialinda Brizzolara, Direttore Commerciale “Genova The Grand Finale”.

Video: Peppe Tortora




New Zealand alla Bull Days Inclusive Sailing Cup, le interviste

Diva delle barche a vela, mito entrato negli annali vincendo la sesta edizione della Whitebread round The Wolrd Race 1993/1994, la New Zealand Endevour è protagonista indiscussa del grande evento Bull Days Inclusive Sailing Cup.

Rinata come una Fenice, New Zealand ha oggi sangue italiano nelle vene: l’armatore Ezio Tavasani ha infatti ridato luce e una seconda vita alla barca che per otto anni, dopo le gloriose vittorie, era rimasta chiusa a chiave, anche se mai dimenticata.

Un lungo e complesso lavoro di refitting ha permesso oggi a New Zealand di attraversare i mari e farlo con spirito nobile, perché lo fa insieme a FAI Sport, Associazione Sportiva di atleti paralimpici che ha come fondatore Giorgio Zanmarchi, impegnato da 27 anni nelle attività didattiche e culturali dei “suoi ragazzi” affetti da disabilità fisiche o intellettive.

Un’avventura pura e unica che ha sempre un grande comune denominatore, la passione.

In questa intervista esclusiva abbiamo raccolto tre grandi voci che hanno raccontato la loro presenza alla Bull Days Inclusive Sailing Cup e le loro missioni.

Regia di Peppe Tortora

Intervista Miriam De Nicolo’

Ospiti: Ezio Tavasani, armatore New Zealand
Mauro Magarotto, skipper
Giorgio Zanmarchi, Presidente FAI Sport

Guarda qui le nostre interviste:

Bull Days Montecarlo 2022, intervista al fondatore Stefano Cigana

Si è appena conclusa la Bull Days di Montecarlo 2022, l’evento del motore luxury che riunisce Lamborghini provenienti da ogni parte del mondo in una tre giorni all’insegna delle bellezze della Costa Azzurra.

Nell’esclusiva location monegasca, l’appuntamento dei proprietari Lamborghini in un viaggio che tocca tre tappe iconiche della Costa Azzurra: dal Principato a Grasse, patria della profumeria artistica, fino a Sanremo, la città dei fiori dove nel building The Mall e degli high brands della moda, si conclude questo viaggio.

Roadshow per celebrare la grande passione del motore luxury per eccellenza e condivisione di una visione che accomuna tutti i partecipanti, quello di uno stile di vita rivolto al bello e alle rarità; a questo si legano le experience esclusive tra cui l’apertura privata della profumeria Galimard, una delle prime case di profumo francesi dal 1747.

In esclusiva per noi di SNOB l’intervista di Miriam De Nicoló al fondatore Stefano Cigana.

Regia: Peppe Tortora
Intervista: Miriam De Nicolò
Ospite: Stefano Cigana
Evento: Bull Days Monte-Carlo 2022