Barawards 2024, tutti i vincitori

Decima edizione dei Barawards: tutti i premi alle eccellenze dell’ospitalità italiana

Si è sentito spifferare che anche i barman avrebbero potuto ricevere la stella Michelin, esattamente come gli chef, oggi le vere rock star; rimangono voci, anche se perfettamente plausibili, perchè la figura del barman negli ultimi anni è molto cambiata nel mondo dell’ospitalità. Il barman non si dedica solo al servizio di una bevanda che possa dissetare, diviene creatore e storyteller di un cocktail che accompagna una serata, un’ora in compagnia di un amico, delizia le papille gustative perchè sempre più “mangia e bevi“, è il padrone di casa di quel luogo dove rifugiarsi quando si vuole “staccare” e dedicarsi ad una conversazione spontanea e poco impegnata.

Ai barman si sono accostate figure come i brand ambassador, veri e propri testimonial di un brand che portano il marchio in giro per il mondo veicolandolo attraverso i canali social, gli eventi, ricercatori di altri potenziali estimatori del distillato, capaci di appassionare e reclutare acquirenti.
Era certo più facile un tempo quando la scelta era ridotta, oggi la qualità è nettamente superiore, e i liquidi paradisiaci ci allettano tanto quanto il loro effetto sul nostro umore. Difficile dir di no ad un Kir Royal in dolce compagnia!
Addirittura il cambio della Drink List di un locale è diventato un appuntamento imperdibile, perchè chissà quale ingrediente avranno scovato in quel viaggio esotico, chissà quale rum di un paese dimenticato da dio avranno acquistato… e così il barman ci racconta storie e aneddoti dietro quel bicchiere che è cucina liquida, e non più solo miscelazione di ingredienti.

Per questo sono nati i Barawards, che qualche giorno fa sono arrivati alla decima edizione, la scintillante Gala Night Party svoltasi all’Alcatraz di Milano. Un’idea di Bargiornale in collaborazione con Dolcegiornale e Hotel Domani, che celebra il meglio dell’ospitalità italiana, scovando le eccellenze su tutto il territorio nazionale, da Nord a Sud, dalle Alpi alle isole. Quest’anno i premiati sono stati scelti su una rosa di 600 locali e 530 professionisti, con la nuova categoria dedicata alle birrerie e la novità delle tre menzioni speciali per il Bar Menu dell’anno in collaborazione con DiSaronno, la Miglior comunicazione social e il Miglior video promo dell’anno, a sottolineare l’importanza sempre maggiore della comunicazione.  

Ad animare la serata, Marco Maccarini, dj e conduttore televisivo, con il sound design di Dj Nora Bee; 21 i premi in totale 3 le menzioni speciali bartender, chef, pasticceri, professionisti del caffè e della birra, nonché locali, team e brand ambassador del mondo del food&beverage

Mandarin Garden – Mandarin Oriental Milan – vincitore Bar Hotel dell’anno

Tutti i vincitori dei Barawards 2024:

  • Luca Bruni (Depero Club – Rieti) 

Premio Altos Bartender dell’anno

  • Edris Al Malat (Dry Milano – Milano) 

Premio Nardini Bar Manager dell’anno

  • Gabriele Armani (Paradiso – Barcellona)

Premio Keglevich Bartender italiano all’estero dell’anno

  • Alessio Megna (Freni e Frizioni – Roma)

Premio Campari Academy Bartender under 25 dell’anno

  • Sentaku Izakaya – Bologna

Premio Barceló Bar rivelazione dell’anno

  • L’Antiquario – Napoli

Premio Bibite Sanpellegrino Cocktail bar dell’anno

  • Mandarin Garden – Mandarin Oriental Milan – Milano

Premio Venturo Bar d’albergo dell’anno

  • Rita&Cocktails – Milano

Premio Amaro Montenegro Bar Team dell’anno

  • Convivium Bar – Relais Monaci delle Terre Nere – Zafferana Etnea (Ct) 

Premio Slow Wine Locale Green dell’anno

  • ’Ino – Firenze

Premio Agritech by Vandemoortele Paninoteca dell’anno

  • Cafezal Coffee Hub – Milano

Premio Bloom Specialty Coffee/La San Marco Bar Caffetteria dell’anno

  • Moebius – Milano

Premio Easycassa Ristorante rivelazione dell’anno

  • Il Ristorante Alain Ducasse Napoli – Hotel Romeo – Napoli

Premio Zini Ristorante d’albergo dell’anno

  • Chiara Beretta – Fine Spirits

Premio Brand ambassador Spirits&co dell’anno 

  • Gianni Cocco – Fabbri 1905

Premio Brand ambassador Coffee&more dell’anno 

  • Carmela Maresca (Luminist – Napoli)

Premio Barista dell’anno

  • Chiara Pavan (Venissa – Venezia)

Premio Cuoco dell’anno

  • W Rome – Roma

Premio Hotel rivelazione dell’anno

  • Giuseppe Solfrizzi (Le Levain – Roma)

Premio Pasticcere/Gelatiere dell’anno

  • Birrificio Lambrate – Milano

Bar Birreria dell’anno

  • Caffè San Carlo – Torino

Premio Bar Pasticceria Gelateria dell’anno

Menzioni speciali

  • La Terrazza Rooftop Bar & Bistrot – Grand Hotel Principe di Piemonte – Viareggio (Lu)

Menzione speciale DiSaronno Bar Menu dell’anno 

B.O.A T. S. – Based On A True Story – Siracusa

Menzione speciale Comunicazione social dell’anno

  • Barmacia – Soluzioni Spiritose – Potenza

Menzione speciale Video promo dell’anno


Andrea Berton, il maestro del gusto

Interview Miriam De Nicolò
Photography Marco Onofri

Se la fisiognomica, la pseudoscienza di origine antichissima a cui Platone e Aristotele si interessarono, fa delle sue deduzioni una verità alla prima vista di un individuo, allora Andrea Berton fa certamente parte di quegli esseri la cui capacità di analisi e fedeltà ai princìpi, riflettono su una personalità creativa e leader. Un naso aristocratico, un’altezza imponente e fiera, stridono con un sorriso sincero e benevolo, anche se tutto, nel suo portamento, lascia pensare ad una persona per cui la disciplina sia la regola assoluta.
Andrea Berton, chef stellato del ristorante che porta il suo cognome, è il più noto dei Marchesi Boy, colui che regalò le due stelle Michelin a Trussardi alla Scala, i cui primi passi iniziarono proprio con il maestro Gualtiero Marchesi al Bonvesin della Riva nel lontano ’77.
Da Londra al Mossiman’s volò poi a Firenze, presso il Ristorante Enoteca Pinchiorri, dal Louis XV di Montecarlo sotto la guida di Alain Ducasse, alla Taverna di Colloredo a Monte Albano, oggi la casa di Andrea Berton si trova in via Mike Bongiorno 13, nel quartiere di Porta Nuova a Milano e porta la stella Michelin dal 2013. Dal 2016 è socio fondatore dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto.
Ha nobilitato il brodo, sua passione da quando, bambino, il padre lo coccolava con pranzi gourmet nei migliori ristoranti d’Italia; sceglie, per la sua cucina, un ingrediente fondamentale e imprescindibile: il gusto.

Quali sono gli ingredienti della sua personalità?
La solidità è il lato più presente.

Se fosse un alimento
Una verdura con radici molto solide e profonde, come il cardo gobbo, originario del Piemonte.

Che rapporto ha con il cibo?
Quando prendevo dei bei voti a scuola, mio padre, anziché comprarmi un regalo mi portava a mangiare nei ristoranti. All’età di 10 anni mi portò l’Excelsior di Venezia, ricordo che allora mi alzai da tavola e curiosai davanti alla porta della cucina, guardavo i cuochi che si muovevano, come in una danza. Era un’immagine già affascinante, che porto dentro tuttora.
Certo la cucina, negli anni, mi ha dato molte lezioni, come quella volta in Francia in cui mi sporcai un poco la manica e lo chef mi disse, con l’aria storta perchè ero oltretutto italiano “Se sapessi lavorare bene, non ti sporcheresti”. Da allora la mia divisa è sempre stata linda e immacolata.

Che cosa rende un piatto indimenticabile?
Il gusto.
C’è un luogo del cuore, in Sardegna, dove torno spesso e dove fanno il pane sulla brace con olio extra vergine di oliva e bottarga. Una roba da star male. Questo è il piatto che non si dimentica.
Altro punto fermo è far vivere a chi ci sceglie, un’ esperienza più intensa, sempre in fatto di gusto, diversa da quella che si può incontrare sulla propria tavola nella quotidianità. Ma saranno sempre il gusto e la passione a fare la differenza.

Com’è cambiato il ruolo dello chef in Italia dai suoi inizi ad oggi?
Diciamo la verità, un tempo lo chef nell’immaginario collettivo era quell’omone sudato, ignorante, e con la canotta macchiata di pomodoro, sarà poi Gualtiero Marchesi negli anni ’90, i miei inizi, che rivoluzionerà la figura dello chef, portandolo fuori dalla cucina, aggiungendo al piatto cultura e valore alla tradizione culinaria, oltre a quella della persona.
Oggi un cuoco deve necessariamente essere imprenditore, manager, psicologo, conoscere dinamiche amministrative e sociologiche; l’approccio alla cucina è migliorato perchè si è elevata la qualità insieme all’offerta.

Secondo lei la televisione ha comunicato in maniera positiva il ruolo dello Chef?
Le trasmissioni sulla cucina hanno certamente reso “pubblico” un mestiere che rimaneva dietro i fornelli, prima di Masterchef ad esempio.
Quando Jannik Singer ha vinto agli Australian Open, c’è stata una corsa alle scuole di tennis, così come durante le prime edizioni di Masterchef, gli Istituti alberghieri hanno avuto un’impennata di iscritti, una conseguenza positiva, ma manca l’essenza della comunicazione. Perchè ancora si va dicendo che in cucina sfruttiamo i dipendenti, ma che sciocchezze, questi ragazzi lavorano in un ambiente sano, pulito, hanno i loro 40 minuti per il pranzo, vengono pagati 1400 euro al mese (quando ancora non sanno far nulla), gli vengono consegnati tutti gli strumenti per imparare un mestiere, e la possibilità di rapportarsi con un pubblico colto e preparato. Ne usciamo sempre come truffatori o schiavisti, quando ci sono mestieranti che lavorano 16 ore al giorno per 700 euro al mese. Nessuno ne parla?

Lei è Associato ad Ambasciatori del Gusto, perchè far parte di questa organizzazione?
Sono stato uno dei primi sostenitori di AdG, fiducioso che l’Associazione potesse dare grande forza e sostegno al nostro settore. AdG è portavoce delle eccellenze gastronomiche italiane verso le politiche e le istituzioni, e possiede un sistema di comunicazione efficace che ha finalmente ridato autorevolezza e la giusta importanza al nostro settore, che dovrebbe essere meglio tutelato dal proprio Paese.
L’Italia offre la più ampia gamma di eccellenze dell’ospitalità e del food, è utile supportare e finanziare questi aspetti, affinché si possa finalmente avere il valore che meritiamo.

Cosa cambierebbe nella comunicazione del settore food?
Eviterei il folklore e approfondirei la filiera, parlerei di professionalità, di qualità delle materie prime, di ricerca e studio del territorio, parlerei dello studio e della fatica, non mostrerei solo il risultato, ma tutto quel che lo precede.

E cosa lo precede?
La fiducia che un produttore conserva nei miei confronti, che è il motivo per cui da anni mi permette di acquistare la stessa materia prima, quella che propongo nei piatti ai miei clienti, agli affezionati che vogliono lo stesso gusto, la stessa qualità.
Mantenere un livello altissimo di cucina pur nei momenti di difficoltà, come quelli che abbiamo subìto tutti, nella ristorazione, durante il Covid.
Abbiamo bisogno di aiuto da chi se ne occupa, di questa comunicazione, perchè non si tratta di un fatto individuale, ma è un problema di sistema; se guardiamo a Massimo Bottura, Chef n.1 dei World’s 50 Best Restaurants, quanto rilievo ha avuto in Italia? Vince uno sportivo e diventa leader del momento, vince uno chef e scompare nel dimenticatoio.

Sostenibilità in cucina, lei che approccio ha?
La prima volta che iniziai a lavorare in cucina da Gualtiero Marchesi, la prima cosa che mi fece fare ovviamente è pelare le patate. E non mi hanno fatto buttare le bucce. Era l’89 e il riutilizzo degli scarti era già una priorità. Questo pensiero lo riportiamo tutti i giorni nella mia cucina, ma io credo piuttosto che sostenibilità sia uno stile di vita, e comprenda mettere nelle giuste condizioni le risorse, ottimizzare un sistema, avere un’organizzazione ordinata, un aspetto economico funzionale.

Lei ha ideato tutto un menu sul brodo. Perché valorizzarlo?
A Modena c’era un ristorante due stelle Michelin, Fini, dove mi recavo spesso la domenica a mangiare bolliti e tortellini in brodo; prendevo da solo il treno, spendevo quasi tutto il mio stipendio, ma era diventato un rito a cui non riuscivo a rinunciare.
L’ossessione si intensificò poi in Giappone, durante un viaggio del ’94, paese che ha in cucina la cultura di quest’ingrediente; quando ho aperto il mio ristorante Berton, a Milano in piazza Mike Bongiorno, quasi 10 anni fa, ho iniziato a valorizzarlo e a presentarlo in abbinamento al piatto o da bere in un bicchiere, o per esaltarne i sapori, ma sempre rendendolo protagonista.
L’obiettivo era riassumere l’essenza del gusto, e portarla alla dimensione liquida.
Sono felice che altri miei colleghi abbiano poi iniziato a proporre in tavola il brodo, valorizzandolo.

Le soddisfazioni più grandi
Qualche giorno fa ha chiamato una famiglia chiedendo se la settimana successiva sarei stato presente in cucina. Arrivavano dalla Calabria, moglie marito e figli, e avevano il piacere di incontrarmi e provare i miei piatti.

E’ la loro gioia, la sua soddisfazione?
E’ qualcosa di naturale, un passaggio forse già scritto per me, arriva da lontano il piacere che io per primo sento nei confronti dell’ingrediente e della sua trasformazione, da quando a 12 anni passavo accanto alla panetteria vicino casa e mi fermavo per sentire l’odore della fragranza, del pane appena sfornato. Un giorno chiesi al proprietario se potessi passarci le vacanze estive per imparare (allora ancora era possibile anche se minorenni), mi alzavo alle 2 e portavo i miei panini a casa, era faticoso perchè in quel periodo facevo gare di sci a livello agonistico, ero molto impegnato, ma ho dovuto accettare che ero scarso e a 17 anni abbandonai lo sport per dedicarmi totalmente alla cucina.

Domanda di rito, quanto è Snob a Andrea Berton in cucina?
Se intendiamo ricercatore dell’eccellenza e della qualità, snobissimo.




Paolo Sorrentino è uno scrittore, Parthenope è l’inchiostro

Parthenope, ultimo film di Paolo Sorrentino, ha fatto discutere e dividere tanti appassionati e critici cinematografici. C’è chi lo reputa un altro lungometraggio senza trama, e c’è chi urla all’ennesimo capolavoro, quello che mi sembra essere un dato di fatto, è che Sorrentino è stato e rimane, un grande amante della penna. Con Parthenope ci ha lasciato delle pagine di poesia, prima che di prosa, per questo motivo in pochi lo comprendono; io che ho sempre odiato i poetelli della domenica sera, mi sono avvicinata in maniera ossessiva alla prosa, al romanzo, alla saggistica, lasciando il trono dei poeti a quelli che hanno tutto il diritto di essere appellati come tali: William Blake, Alda Merini, Walt Whitman, Paul Verlaine, Giacomo Leopardi… Sorrentino è un poeta, il significato di tutta una storia sta nei versi che affida ai suoi protagonisti, in quelle conversazioni intimiste e profonde sul senso della vita e sullo scorrere del tempo. Questo è il messaggio di Parthenope, la velocità dell’esistenza, la sua effimerità, la giovinezza che non ho vissuto– dirà l’autore in una intervista. Così Parthenope, sirena della mitologia greca che nasce dal mare e giunge esanime dove sorge Castel dell’Ovo perchè Ulisse risulta insensibile al suo canto, prende il volto di Celeste Dalla Porta, e ne prende anche il corpo, seduttivo, ammaliatore, totalmente libero nell’età e nella forma del pensiero.

Parthenope vuol far l’attrice, ma finisce con studiare antropologia, quella materia moderna che si prefigge di analizzare l’essere umano sotto il profilo culturale, sociale, filosofico, religioso, ne scruta i comportamenti e le psicologie all’interno della società. Uno studio in perenne prendere appunti che fa lo stesso Sorrentino, così attento a destinare i dialoghi più giusti, spiati tra i tavoli di un ristorante nella sua quotidianità, o nelle sue visioni oniriche notturne (immagino un taccuino pieno di annotazioni e di frasi che stanno cercando un volto ed un nome), ai personaggi più adatti.

NAPOLI

Parthenope ama Napoli, eppure ha sempre quel velo melanconico nello sguardo, perchè “non si può essere felici nel posto più bello del mondo“.
In questa Napoli, Sorrentino si è messo in strada, ha passeggiato nei vicoli meno fastosi delle sue pellicole precedenti, ha voluto dire la verità. In una carrellata, una Napoli fatta di tante piccole stanze che raccontano le piccole vite di gente comune, una vecchia che dorme accanto ad un bagno, sei bambini che saltano su un unico letto, una donna sola che allatta un neonato, la fatica e la povertà di una città abbandonata e forse anche un po’ rassegnata, una città dove si vive e si muore per motivi così futili.”

I PERSONAGGI

Tesorone

Arcivescovo di Napoli, uomo del Santo Protettore, delle ampolle e del miracolo di San Gennaro, è forse il personaggio più criticato dal pubblico italiano. Grasso, sudato, fanfarone e laido per immoralità, credo invece sia centrale nella comprensione del carattere della protagonista.
Parthenope lo incontra per approfondire il tema del miracolo, ed assiste ad una messinscena ormai iconica del napoletano, in cui il sangue però non si liquefà. Napoli, maestra nel custodire, creare e perpetrare favole e superstizioni che – dice Sorrentino – sono inutili ma indispensabili, alimenta certi attaccamenti superati, ma così orgogliosa delle sue tradizioni, le rinnova con ottusità e cecità.
Tesorone si avvicina a Parthenope con calma, come si fa con Dio e la religiosità. La seduce con la sfacciataggine, la veste solo del tesoro di San Gennaro, mentre Parthenope prende tutto con la leggerezza della giovinezza, con una sorta di affetto nei confronti degli emarginati (“tutto in me è fatto per essere rifiutato), con l’amore di chi ama profondamente perchè profondamente si sente solo. E questa è certamente una croce. “Tu ami troppo o troppo poco?” le chiede.

(Il miracolo si compie nel momento dell’amplesso.)

– Cosa le piace di una donna?
– La schiena, il resto è pornografia
.

Greta Cool
Camminate a braccetto con l’orrore e non lo sapete. Siete solo trasandati e folcloristici.
Siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi, arretrati, rubate e recitate male. E sempre pronti a buttare la croce addosso a qualcun altro, all’invasore di turno, al politico corrotto, al palazzinaro senza scrupoli, ma la disgrazia siete voi, siete un popolo di disgraziati. E vi vantate di esserlo, non ce la farete mai…cari orrendi napoletani io me ne torno al Nord, dove regna il bel silenzio, dal momento che io non sono più napoletana, da molti anni. Io mi sono salvata, ma voi no. Voi siete morti”.

Greta Cool (Luisa Ranieri) è la diva in decadenza, look alla Sofia Loren, accolta come una regina e buttata all’angolo come un neomelodico che decide di spiegare le ali e staccarsi dal fango di Napoli per volare altrove. Per i Napoletani o sei dentro o sei fuori, e quando sei fuori, devi essere eliminato. Come tutti i fanatici, non c’è sfumatura che tenga, il napoletano ama oppure odia, non ha mai le vie di mezzo, non può essere neutrale e soprattutto, possiede un attaccamento morboso alla sua terra con cui ha una sorta di amore incestuoso, così sanguigno ma indicibile, che vorrebbe scorticarsi di dosso ma non ce la fa.
Greta Cool si salva, scappando. E biasima i napoletani per la loro unione disgregante, compattati nella disperazione.

“Gli amanti si dicono sempre le stesse cose. 
Fortuna ci sono gli scrittori a togliere la monotonia con le loro parole.”

John Cheever
Insoddisfatto, malinconico, John Cheever è lo scrittore americano che Parthenope incontra nelle notti capresi (prima che nelle sue letture predilette), quelle più vitali dove la bellezza, come la guerra, le apre le porte, e dove la delusione arriva ancora più fulminea e tagliente delle armi.
John Cheever, un commovente Gay Oldman, affoga nell’alcol rimorsi e rimpianti, i dolori nascosti di una sessualità che non può essere esplicitata, il desiderio di storie mai iniziate e già finite.

Lo senti anche tu?
Cosa?
L’odore degli amori morti

IL SURREALE E LA MAGIA

Per trasformare un secchio di plastica in una lanterna magica, ci vuole l’ingegnosità che ebbe Hitchcock in “Suspicion” quando fece montare una lampadina dentro un bicchiere di latte, per rendere ancora più ambiguo e carico di mistero l’oggetto incriminato. In una corte di “stanze chiuse” dove le donne di malaffare salutano e osannano l’uomo di malaffare che passa a trovarle, accompagnato da Parthenope, scendono nel buio della notte dei panari, azzurri come il cielo e illuminati come delle lucciole. Portano messaggi d’amore, e trasformano la sequenza in un piano di pura poesia estetica.

Sono convinta che la grandezza di Sorrentino, come regista e sceneggiatore, basterebbe senza l’aggiunta di suppellettili surreali ad effetto wow. Ma il fatto che lui si diverta tanto, diverte molto anche me per osmosi.
Omaggi a Fellini? Semplice trastullamento? Il macrocefalo obeso è il figlio del Professor Marotta, (interpretazione straordinaria di Silvio Orlando) fatto di acqua e sale, come il mare, e affetto da disabilità, come Napoli.
Il commento di Parthenope “è bellissimo“, è forse la scena meno riuscita di tutto il film, forzata, con poca potenza, anche se dal simbolismo metaforico. Lascia, “il mostro”, una sorta di spazio bianco dove ciascuno di noi può scrivere la propria interpretazione, come quando guardiamo un quadro per la prima volta e non conosciamo nulla dell’autore, né del paesaggio o di chi vi è ritratto.
Il Professor Marotta sarà fondamentale per la crescita di Parthenope, che lascerà Napoli per dedicarsi alla docenza in Antropologia. Tornerà solo a settant’anni ricordando quel che le diceva il suo maestro:

Antropologia è vedere. E si inizia a vedere solo quando si perde tutto il resto.



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E’ stata la mano di Dio


Grandi Classici della cucina da Gloria Osteria

NUOVO MENU DA GLORIA, LA FANCY OSTERIA DEL GRUPPO INTERNAZIONALE BIG MAMMA

Da Gloria si torna agli anni ’60 fastosi e festosi, ricchi di colore e opulenza. La grande scalinata all’entrata, ricorda quelle delle navi da crociera, e i grandi lampadari di Murano arancio fuoco, delle grosse meduse. I salottini in velluto al piano superiore, dei comodi privè dove un tempo ci si attardava danzando, dopo cena. Qui ogni dettaglio è ricreato per farti sentire a casa, a partire dal servizio giovane e sempre allegro, pronto a rallegrarti con una battuta.

Gloria Osteria è uno dei 24 locali presenti tra Francia, Inghilterra e Spagna del grande Gruppo Internazionale Big Mamma, un’idea di Tigrane Seydoux e Victor Lugger, entrambi ex studenti della HEC Business School. Non un franchising, perchè ogni ristorante, curato nel design dallo Studio Kiki di Londra, ha una sua originalità espressiva, a partire dalla scelta dei tessuti artigianali.
Esotica nei colori delle luci che si vedono attraverso le grandi vetrate, erotica quando diviene una quinta di teatro per i passanti, che incuriositi vi guardano attraverso.

Grandi specchi circondano le arcate al piano superiore, dove l’atmosfera si fa più soffusa e più intima: la mise en place ha dei piatti in ceramica che ricordano la tradizione siciliana, così come le teste di moro per l’olio di benvenuto, mentre la clientela è eterogenea ed internazionale.

L’idea è quella di offrire una cucina generosa, che riprende delle ricette tipicamente italiane, con influenze dai cugini francesi e qualche contaminazione internazionale.
Il menu autunnale ha dei grandi classici, come il Duca di Wellington, ricco e teatrale, la pasta brisée croccante e la golosa salsa al Brachetto; i fazzoletti di zucca fatti in casa con un letto di salsa al formaggio; la scenografica girella di pasta all’ossobuco; il cavolfiore al tartufo, la tartin di zucca e lo scalogno confit.

Gloria Osteria si trova in via Tivoli 3, nel cuore di Brera.




(credits: foto interni di Jérôme Galland – foto food di Joann Pai)




Con Barilla Al Bronzo possiamo dire sì alla scarpetta

Con Barilla Al Bronzo, la scarpetta diventa gourmet

Ci sono piatti che hanno assolutamente bisogno della scarpetta per essere gustati a pieno. In primis, la pasta con la salsa, quella che, rimasta nel piatto, ci chiama a sé per esser raccolta con un pezzo di pane.
L’abbiamo fatta tutti, la scarpetta, tra le mura domestiche, quando il gesto non è additato, quando anzi è richiesto perchè la nonna approva, perchè significa che hai apprezzato. Ma in un ristorante, le “comodità” e le abitudini di casa, devono essere contenute, e allora il pane rimane nel piatto, così come la salsa. Ed è qui che subentra ancora il genio di Barilla, con Barilla al Bronzo, la pasta che fa la scarpetta.

La sua lavorazione è grezza e raffinata, ed è ottenuta tramite la trafilatura al bronzo che disegna sulla superficie della pasta una “rete di microincisioni”, per una consistenza ruvida che cattura la salsa. Questo design permette infatti un’eccellente tenuta del sugo, valorizzando la ricetta nel suo insieme e perchè no, evitando anche gli sprechi.

Barilla Al Bronzo è realizzata con una selezione di grani duri pregiati 100% italiani che regalano alla pasta una tonalità ambrata unica; ha un contenuto proteico superiore al 14%, che la rende più robusta, pù elastica e che aumenta la capacità di trattenere l’amido durante la cottura, per un risultato sempre “al dente”.

Se la pasta è tradizione, e tra le grandi passioni culinarie degli italiani, lo è certamente anche la scarpetta, e con l’aumento di clienti sempre più esigenti ed attenti al mangiar bene, che scelgono e selezionano ristoranti fine dining, con Barilla al Bronzo non sarà più un problema, perchè la pasta farà la scarpetta al posto tuo!

Lo conferma anche Davide Oldani, che durante la serata di presentazione della nuova campagna, in anteprima assoluta italiana, ha affermato: “Per gli amanti della pasta il rito della scarpetta è un piacere irrinunciabile: nella nuova campagna, Barilla Al Bronzo riesce a unire gusto e raffinatezza, valorizzando un gesto della tradizione, rendendolo possibile anche nei contesti più formali”.

Il Galateo ci imporrebbe un grande “no” per la raccolta del sugo nel piatto, con un pezzo di pane, ma se per gustare il piatto, fino all’ultimo boccone, abbiamo Barilla al Bronzo, non dovremmo preoccuparcene.

Lo conferma anche l’esperta di bon ton Elisa Motterle che evidenzia: “sulla tavola, proprio come accade nella Moda, si incontrano – e a volte si scontrano – regole tradizionali e tendenze contemporanee: da questa dialettica nascono nuovi modi di interpretare gesti classici e conviviali, come raccogliere il sugo con un boccone di pane, a fine pasto. Barilla al Bronzo rinnova la tradizione informale della “scarpetta” e la presenta in un dettaglio gourmet, mettendo così d’accordo gusto e galateo”.

Lecce e storia, dal Chiostro dei Domenicani

Fu un tempo luogo di preghiera, tra le spesse mura che portano 500 anni di storia, il Chiostro dei Domenicani, appena fuori dal centro di Lecce, oggi rivive in una struttura di hospitality unica nel suo genere. Le arcate a stella del cortile interno regalano imponenza a questo palazzo dove il silenzio sopravvive nei secoli. Nelle celle dove riposavano gli uomini di Chiesa, oggi vi sono le stanze degli ospiti, 18 in totale, alcune con affaccio sul giardino e le colonne, che i giochi di luce ed ombra trasformano in un dipinto hopperiano. 

Soggiornare al Chiostro dei Domenicani è un’esperienza ricca, nell’accezione del termine forse perduto che riguarda la sostanza delle cose. Qui è possibile dedicarsi alla pratica meditativa dello yoga, e regalarsi un’ora di benessere ed uno spazio tutto per sè; oppure partecipare ad una lezione di grafia, tornando all’importanza del tempo, alla bellezza della pratica e dello scambio di pensieri che, scritti a mano, assumono un significato profondo e personale, una full immersion insieme a Marta Lagna, esperta calligrafa e decoratrice d’interni.

Per grandi eventi e momenti speciali, come il giorno del proprio matrimonio, il Chiostro dei Domenicani, vero gioiello architettonico, possiede tutti gli spazi da trasformare nel luogo dei sogni, a partire dai grandi saloni affrescati, fino alla cappella privata, che testi storici narrano quale luogo di pellegrinaggio.

È negli alberghi che si è consumata la travagliata ed appassionante storia di Zelda e Francis Scott Fitzgerald, nelle notti di fuoco dei ruggenti ’30, quando l’alcol scorreva a fiumi nonostante il proibizionismo. Una coppia amata invidiata eppur dal finale triste, che ci ha portato “Tenera è la notte” come opera letteraria tre le più intense del XX secolo. Lei bella talentuosa e tormentata, lui follemente innamorato della sua pazzia, che si trasformerà poi in una diagnosi di schizofrenia. Tutto questo è possibile riviverlo nelle sale del palazzo al Chiostro dei Domenicani, messo in scena da una compagnia teatrale, capace di rendere la drammaticità dei personaggi in uno spettacolo passivo eppure così travolgente. Chiostro dei Domenicani vi stupirà con le innumerevoli attrattive culturali, adatte anche al pubblico colto ed appassionato di letteratura.

Gimmi è il ristorante guidato dall’executive chef Donato Episcopo, un altro gioiello incastonato all’interno delle spesse mura di Chiostro dei Domenicani.
Qui è possibile veder arrivare un’elegante coppia inglese, lui in completo tweed e cravatta Oxford, lei in un lucente raso, in una conversazione sommessa, dopo aver assaggiato i cocktail di Ilaria De Filippis, barlady e sommelier, che rende giocoso e non solo gioioso il momento dell’aperitivo.

Il benvenuto a tavola è un tamburello fatto di pane, al cui interno si scoprono taralli e altri lievitati locali, come la focaccia al pomodoro fresco. A seguire una millefoglie di Shiso, sedano, tapioca croccante e riso venere, pallotta di gambero rosso accompagnato da estratto di oliva nera “Cellina”.

A riprova che in cucina lo chef omaggia le sue radici, il polpo lardato accompagnato da fagioli bianchi di Zollino, con funghi porcini e tartufo nero.
La cucina di Donato Episcopo, chef salentino in passato al fianco di Heinz Beck a “La Pergola” di Roma; Chef Executive presso “Marennà”, dell’azienda Feudi di San Gregorio; “Casa del Nonno 13” a Sant’Eustachio (Sa), “Hotel Risorgimento”*****L a Lecce e Ristorante “La corte” a Follina (TV)* Michelin, racchiude un’identità forte con una salda matrice del territorio, ma ricca di contaminazione.

Padrone di casa del Chiostro dei Domenicani, Giovanni Fedele, imprenditore salentino, dal 2018 nel settore dell’accoglienza, ha oggi preso le redini di una struttura prestigiosa e complessa, con l’intento di valorizzare, tutelare e promuoverne la storia facendone un polo attrattivo per ospitalità, grandi eventi e ristorazione.

Vivere una città così barocca significa anche conoscerne le magnificienze. Quale luogo più suggestivo della Basilica di Santa Croce per immergersi nella preghiera? Potrete avere il privilegio di percorrerla totalmente al buio, seguendo solo le luci che illuminano gli angoli più rappresentativi, accolti dalla voce di Artwork, anima promotrice del territorio leccese e dei luoghi più sacri. Dal dipinto incastonato sul soffitto a cassettoni all’altare, sino al rosone della Chiesa, il più grande d’Italia, al centro di due santi e della porticina che apre al Paradiso, si potrà ammirare Lecce dall’alto e farsi trasportare dal vero senso di spiritualità.

Ma Lecce è anche territorio, buon cibo e buon vino, e la famiglia Guarini, quarta generazione dei duchi Guarini, porta, nelle figure di Roberto e Carlo, rispettivamente agronomo ed enologo, e commerciale, il progetto Castello Frisari, con creatività e coraggio. Azienda vitivinicola dove la coltivazione del Negramaro fa del vitigno il protagonista assoluto; nel cuore, il grande sogno di nobilitarlo testando le sue peculiarità in diversi terreni, per poter meglio esprimere le particolarità, nelle differenze. 
Oggi il Castello, un tempo fortezza amministrativa del feudo, lascia il posto ad una cantina dal fascino antico, dove tenere degustazioni, verticali ed eventi legati al mondo del vino. L’aranceto, con i suoi profumi ottobrini che ancora portano con sé il calore dell’estate appena passata, è perfetto per un aperitivo salentino, così come il giardino segreto, dove pranzare con piatti tipici fatti di olive nere di loro produzione, parmigiana di melanzane, patè di olive, verdure e salvia fritte, cime di rapa e fagioli, e Negramaro vinificato in bianco.

Altra eccellenza gastronomica leccese, Primo Restaurant, una stella Michelin; la chef Solaika Marrocco propone una cucina regionale che esalta le materie prime, una cucina di gusto carica di sapori. 
Per iniziare una rivisitazione di riso patate e cozze; servito su una pietra, carpaccio di podolica (bovino dal manto grigio tipico dell’alta Puglia), aromatizzato con caffè arabica e rosmarino; pan di caciocavallo con miele di acacia; bignè salato con ripieno purea di fave e cicorie; tartelletta con crema di melanzana affumicata e menta;
gel di pomodoro, sfrisa sbrisolata e cappero caramellato; gazpacho con perle di melone; orecchietta soffiata con marmellata di pomodoro.
Piatto iconico di Primo, la parmigiana di melanzane, una melanzana leggermente tostata, servita con besciamella al grano arso tostato, olio aromatizzato al basilico, coperta da un velo di pomodoro 100% datterino.
Contrasto caldo freddo con l’animella e il gambero crudo; serviti con un Negramaro rosa, i ravioli fatti in casa e alici, grigliate precedentemente, e finiti con afferano e aceto; per chiudere in bellezza un tiramisu con cialda di biscotto croccante, mousse di mascarpone, crema di caffè, disco di meringa al cacao, accompagnato da un Primitivo di Manduria D.o.c.g. La Dolce Vita.

43ma edizione di Mercante in Fiera a Parma, tutte le novità

Si è appena conclusa l’Esposizione “Mercante in Fiera” di Parma, il più grande evento europeo dell’Antiquariato, Modernariato, Collezionismo dove trovare tutto, ma proprio tutto quel che cercate. 

Collezionisti e appassionati di tutto il mondo si sono contesi pezzi unici, circa 60.000 gli ingressi, 1000 le presenze espositive, e migliaia gli oggetti che racconteranno la loro storia in case differenti dalle loro radici, questo è l’obiettivo di chi ama gli oggetti senza per questo possederli, ma lasciandoli a nuova vita.

Scatole in radica fine ‘700 porta bottiglie e servizi di cristallo Baccarat; porta calici da champagne in ottone, con cestelli intarsiati in abbinato, trovati su una nave da Crociera lusso; banconi da sarta in rovere; litografie giapponesi d’autore inizi ‘800; boccette in vetro ambrato da farmacia; porta sigarette in argento provenienza Birmingham, la città dei Peaky Blinders. E ancora delle deliziose giacche in tweed Chanel che trovate da Angelo Vintage, colui che ha nobilitato il vintage e lo ha fatto diventare tendenza. Lo stand di Angelo offre anche una selezione accurata di cravatte di seta e di bracciali in smalto gran fuoco con dettagli oro, ultimi pezzi unici in stile orientale.

Mercante in Fiera non è una semplice Fiera, ma un evento culturale dove trovare mostre (come quelle dei Beatles e del mondo profumi) e tavole rotonde, contenuti ideati da Ilaria Dazzi, Exhibition director e mente di Fiera Parma, che da anni porta alto il nome del nostro Made in Italy.

L’abbiamo incontrata in Fiera:


Quali sono le novità di quest’anno?

Quest’anno abbiamo 3 collaterali con 3 temi suggestivi, da un lato la grande collezione portata dal Museo di Brescia dedicato ai Beatles, per gran parte oggetti appartenuti a collezionisti di questo mondo, autografi, documenti d’epoca, manifesti.

Una dedicata ai porta profumo, ce ne sono circa 180 in esposizione e che coprono una fascia temporale che va da circa il 1600 fino al agli anni ’20-’30 in cui si scopre qual era la funzione storica del profumo, e cioè che veniva utilizzato come porta sali, per permettere alle signore di riprendersi perchè i bustini e i costumi costrittivi spesso facevano perdere i sensi, oltre al fatto che l’igiene della persona non era così accurata e in alcuni contesti il fetore era così forte da far svenire le signore. I sali e i profumi servivano quindi per rianimare ed avevano una funzione più medica che cosmetica.

Ed una collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea, che ci ha mandato alcuni macchinari utili a comprendere che tipo di percorso stanno facendo non solo per le ricerche sulla Luna, ma per lo sbarco su Marte nel 2040; comprendere quanto possiamo abitare questi mondi e cosa imparare da essi. Tommaso Ghidini, Direttore del Dipartimento di Meccanica dell’ESA, in un talk tenutosi qui in Fiera, ha dato visione della loro vera missione, ha presentato il suo libro Homo Caelestis edito da Longanesi in cui racconta la sua passione per il volo che si è trasformata in passione per l’astrofisica.

Chi sceglie le tematiche di Mercante in Fiera?

Di anno in anno ci sono avvenimenti di prestigio di interesse internazionale, vicini all’antiquariato o vicini alle nuove generazioni. Io stessa mi occupo e mi prendo cura della gestione dei contenuti, per presentare la filiera collezionista anche in una prospettiva futura, perchè anche nel 2040, quando qualcuno volerà su Marte e vi resterà per qualche tempo, molti oggetti che noi usiamo nella quotidianità e oggetti di collezionismo, non ultimi la chiave o il lucchetto, saranno anche su Marte. Alcuni pezzi nel 2050 saranno un premodernariato delle future generazioni. Il collezionismo progredisce, la temporalità si allontana, ma il collezionismo è in divenire.

Cambia l’utilizzo degli oggetti, ma come cambia la clientela del collezionismo?

Noi veniamo da generazioni che avevano capacità di spesa e abitazioni diverse, oggi abbiamo spazi più ristretti e capacità economica inferiore e si riesce ad arrivare ad una indipendenza economica molto più tardi rispetto alle generazioni precedenti. Questo incide dal punto di vista economico, ma avvicinarsi al mondo del collezionismo con una intelligenza e preparazione culturale che le generazioni precedenti non avevano, significa fare scelte ponderate e cercare determinati oggetti di valore nei cassetti della memoria. Oggi si selezionano meno oggetti ma investendo di più in quelli che porteranno valore nel tempo. In questi ultimi 5 anni ho visto, con mia grande soddisfazione, aumentare la fascia intorno ai 30 anni, quella del collezionista curioso e appassionato.

Anche i media stanno approcciando al mondo del collezionismo, “Cash or Trash”, il programma in onda su La Nove, sta democratizzando il collezionismo, rendendolo accessibile e di più facile fruizione, come in passato fece Masterchef per la cucina. Sei d’accordo?

Esattamente. La missione di Mercante in Fiera e la filiera collezionista si declina in tanti modi, non necessariamente devi essere miliardario per iniziare una collezione. Il giornalismo sensazionalistico del tipo “Mi sono ritrovato un Picasso in cantina“, non fa più notizia; oggi culturalmente abbiamo più strumenti, ma potremmo imbatterci in un interlocutore meno onesto, per questo motivo mettiamo a disposizione il servizio “L’esperto risponde durante il week end“: gratuitamente è possibile chiedere un parere verbale, qui tra i padiglioni.

La visione internazionale di Fiera Parma.

L’internazionalità è sempre stato obiettivo dell’Amministratore Delegato di MIF che ha fortemente voluto ricoprissi questo ruolo. Abbiamo guidato il percorso di ospitalità per circa 70 unità di perosne che vengono dal Centro Europa e Stati Uniti, (in passato anche dalla Russia), con obiettivo prossimo il Qatar e gli Emirates, dove ci sono delle frange del nostro commercio. L’ internazionlalizzazione di Mercante in Fiera è iniziata 10 anni fa con professionisti del settore che ci hanno permesso una cassa di risonanza su mercati esteri, quelli che vengono autonomamente, anche se c’è ancora tantissimo lavoro da fare, perchè il Made in Italy di fatto è un brand, e permette in America di vendere un oggetto comprato qui a Mercante, 4 volte tanto, in Australia addirittura 5, nel mondo asiatico Cina e Giappone idem. L’unico ostacolo è di questione legale, perchè tutti i pezzi che hanno più di settant’anni, hanno bisogno di certificazioni. Il nostro perito e la sovrintendenza si rendevano disponibili in passato, oggi le leggi restrittive non so quanto tutelino i beni che dovrebbero rimanere; in casa d’aste vengono battute grandi opere del nostro panorama, che arrivano all’estero non si sa bene come. Il commerciante onesto che segue la procedura e l’acquirente onesto che non evade le dogane, si chiedono come mai devono attendere 4 mesi per ricevere un oggetto che hanno comprato, che non è certamente un dipinto di Leonardo. Nell’ottica di una crescita economica del nostro Paese andrebbe affrontato un cambiamento.

Come fare?

Credo serva una revisione di questa legge, quello che è commerciabile non è vergognoso, avere e commerciare opere d’arte di autori italiani che hanno avuto intuizioni importanti, non è da nascondere- la vergogna è che l’Italia venga privata in maniera illegittima di opere importanti che la contraddistinguono, non rendere legittimo un mercato che di fatto esiste lo stesso. Allora riparametriamo questa legge, non facciamo pruderie di argomento importante per tutti e ricordiamo che l’arte è nata per essere circolarizzata. Io non credo che Leonardo pensasse che la sua Gioconda fosse destinata soltanto a una sola persona, credo che come paese che ha più background culturale e bellezza di tutti, negando la possibilità di valorizzare ed esportare, si uccida una parte di economia e si fa la figura della serie B,del tutto fuori dal tempo.



Enrico Bartolini e la stella di Villa Elena, ristorante di Bergamo Alta

Quante volte abbiamo desiderato, in un ristorante, più privacy, per godere oltre che dell’esperienza della tavola, anche della compagnia di chi abbiamo di fronte, e della possibilità di conversare liberamente in uno spazio più intimo?

Non tutti i ristoranti oggi, possiedono queste Private Dining Room, mentre Villa Elena è esattamente il Paradiso della riservatezza e dell’eleganza.

E’ qui che lo chef italiano tra i più influenti a livello internazionale, Enrico Bartolini, ha scelto la seconda vita del ristorante Casual.

Villa Elena possiede fascino, storia e charme, è come una bellissima donna destinata a qualcosa di più grande; un tempo castello pronto a difendere la città di Bergamo dall’alto, poi dimora settecentesca di nobili famiglie, per essere infine destinata alle mani esperte dell’accoglienza e del food. Oggi capitanata dal Resident Chef Marco Galtarossa e dal Restaurant Manager Filippo Casè, Villa Elena è l’edificio storico più prestigioso di Bergamo, tutelato dalla Soprintendenza alle Belle Arti.

La sala più imponente e preziosa è quella della Musica, un angolo di Versailles all’italiana, dorati stucchi decorativi, d’ispirazione barocca, alle pareti sete pregiate e oggetti di design minimalisti in totale contrapposizione e così perfettamente accostati.

L’accoglienza è la più desiderabile oggi, per una clientela abituata alla formalità, ma più in simbiosi e a proprio agio con la professionalità di un team giovane seppur esperto e amichevole, di cui Filippo Casè ne è portavoce per classe e calore del servizio.

A omaggiare Villa Elena, il benvenuto dalla cucina, il rosone, suo simbolo storico, un Oreo salato, biscotto al malto d’orzo e al centro una pasta di anacardi.

In condivisione al centro del grande tavolo ovale, su un cucchiaino dorato, uno stracchino delle Valli Orobiche glassato con tartufo nero e petali di tartufo nero, fiore di ibisco ripieno con amarena, foie gras e tartare di pecora, (varietà tipica di quelle valli); frittella con granseola e coniglio marinato; meringa salata, battuto di gambero insieme a caviale di trota, lime; in una piccola coppa, melanzana con spuma di tuorlo leggermente affumicata al whisky con olio di zucca; in una coppa di cristallo macedonia a sfere, anguria, melone, cetriolo, alga kombu (che da’ nota di sapidità); carpione con mandorla fresca, caviale di aringa e sfera (un gelato di fiori di ciliegio).

In un piatto che sembra l’amplificazione di quello che vi sta al centro, spuma di diverse varietà di basilico tra cui il rosso che conferisce colore e aromaticità, alla base more di gelso accompagnate da ombrina leggermente scottata in brace; e il mondo meraviglioso dei panificati con una focaccia che crea dipendenza, fatta con germogli di semi di papavero e accompagnata da un olio dei Monti Iblei (provincia di Ragusa), un pane di grani integrali (semi di lino e di girasole), burro demi-sel, infine grissini leggermente piccanti con Pimenton, una tipologia di paprica dolce spagnola affumicata.

Piatto iconico dal menu estivo (che cambia identità ogni 4 mesi fino ad arrivare ad un massimo di 10 menu l’anno), “Metamorfosi d’estate”, zucchina verde e gialla, alla base una cagliata di arachidi e accompagnata da un gel all’olivello spinoso e caviale, e foglioline di tagete per il gelato. Si sposa con una insalatina di zucchine, trombetta, patisson, arachidi caramellate e ceviche di pomodoro verde, zenzero e olio di levistico. La cialda è un fiorellino di zucchina croccante essiccato glassato con salsa di arachidi.

Piuttosto comune nel bergamasco, la tartare di cavallo, così come per la città d’origine dello chef Marco Galtarossa che serve con una melassa di peperoni di Carmagnola e prugne, per un balance di dolcezza, acidità e freschezza.

Vengono in mente sole e spiaggia con lo spaghetto al limone, cotto per ultimo terzo in succo di limone, mantecato con crema del frutto, limone candito e spolverata di scorze di limone passata in brace. On top, erbe limonate come melissa, verbena, basilico e origano greco.

Spinta estrema sul gusto da Villa Elena, dove ci si diverte a tavola, come lo chef in cucina, e dove anche il sommaco, l’infiorescenza del cipresso, ha una sua identità e riesce ad essere co-protagonista nel risotto mantecato con rafano, anguilla e nasturzio.

Un dipinto primaverile, dai colori pastello, il merluzzo cotto a bassa temperatura, peperone crusco, fagiolini, composta di fragole albine leggermente grigliate, acetosella, tubero di Oxalis, e salsa di ostriche.


Il palato ha messo la sesta già dalla prima entrée, una cucina di grande coraggio e destinata a palati allenati a gusti stellati. Questo è un Luna Park di sapori e azzardi, dove si passa da un giro di giostra all’altro senza mai annoiarsi, e il divertimento arriva quando stai cercando di decifrare cos’hai nel piatto, degustandolo ad occhi chiusi, per poi prendere un altro boccone e aprirsi un nuovo ed esplosivo arcobaleno di sapori.

Coccola prima dei saluti, la piccola patisserie, un lollipop alla fragola, cioccolatini con caramello salato e spezie indiane, e il dessert ai tre ingredienti: cioccolato fichi e porcini, una composta di fichi freschi, spuma di foglie di fico, gelato di funghi porcini, crumble di cioccolato e lamelline di porcino crudo, un tocco di sapidità. In abbinato, un omaggio al territorio, Moscato di Scanzo al frutto rosso elegante, una carezza finale che ci farà ricordare l’esperienza da Villa Elena come un Risveglio dei Sensi.


(Villa Elena si trova in Via S.Vigilio 56 a Bergamo)

“La natura dell’amore”, il volto di tante coppie nel film di Monia Chokri

La natura dell’amore, “Simple comme Sylvain“, il film di Monia Chokri



Sophia è una quarantenne che insegna filosofia all’Università della Terza Età, in attesa di un posto fisso.
Ha una relazione con Xavier da molti anni, apparentemente felice quando stanno con gli amici, apparentemente soddisfacente quando stanno insieme, ma realmente priva di passione e totalmente piatta, fatta di routine, frasi non dette, sorrisi secchi. Dormono in stanze separate e sembrano ironizzare su loro possibili flirt clandestini, fino a quando accade sul serio. A Sophia.

Nella loro casa dei sogni, uno chalet in ristrutturazione sulle sponde del lago, l’annoiata Sophie incontra l’aitante tuttofare dell’impresa edile. Lui, Sylvain, un cumulo di cliché su cui la regista Monia Chokri gioca al parossismo: camicia da boscaiolo, barba incolta ma di bell’aspetto, collana a catena di metallo, occhiali da sole sopra il berretto da baseball, braccia possenti, insomma il tipo di maschio che ispira una notte erotica seguita da un grande addio, ma che ci rimette in vita. E la borghese Sophia, nella sua camicetta di seta e orecchini di perla, ci casca con tutte le mutande.

È il desiderio che prende il sopravvento, insieme alla noia, alla monotonia della vita di coppia, alla voglia di sentirsi di nuovo viva e desiderata, pur nella banalità dei complimenti di un sempliciotto come Sylvain (da cui prende il titolo originale “Simple comme Sylvain“).
Perchè Sylvain è quel tipo di maschio che racconta d’essersi ubriacato con un amico e aver fatto sesso a tre con la cameriera, è quello che ti prende in braccio e ti accompagna alla porta di casa per poi consumarti fino al mattino, quello che ti assicura sempre “Ti proteggo io“, quello per cui “la frutta è per le femmine“; ma anche romantico impegnato a dedicarti poesie, fare dichiarazioni in ginocchio, prolisso di banalità ed errori grammaticali, una vera frana a scuola capace solo di usare i muscoli, insomma la trivialità che tanto piace quando ci imborghesiamo troppo.

Nel mezzo, le lezioni su Schopenhauer che sull’amore afferma “Tutto è fisico e quello che pensiamo siano sentimenti nobili, sono in realtà espressioni dell’istinto sessuale. Semplicemente è il corpo che parla”. E su Platone che asserisce “In amore si desidera ciò che non si può avere, e l’amore finisce quando si è persa la paura di perdere l’altro“. È attraverso queste massime che parla la coscienza di Sophia, s’interroga sul desiderio, sulla felicità, sulla trama delle relazioni durature e quando ricade nel letto dell’ex, ciascuno a spogliarsi da sé, tristemente, mollemente, senza la foga della novità, della carne, della passione erotica, torna all’ignoto, a Sylvain, guinzaglio al collo, schiava del suo stesso corpo che chiama come fosse stato imprigionato per troppo tempo, e felice e languida si concede al piacere.

“La natura dell’amore” è la fotografia di tante coppie, i personaggi sono caricature di volti che abbiamo altre volte ascoltato o visto o vissuto, estremizzate con ironia; a tratti grottesco ma mai banale nell’intento, tocca il conflitto sociale intellettuale (un razzismo diffuso tra gli snob), esplora non senza profondità le emotività femminili, celebra i grandi pensatori come Spinoza, che porta egregiamente i suoi 392 anni, più moderno dei moderni, quando distingue l’Amore dal Desiderio:

Possiamo amare senza desiderare” E ricordando che “Il desiderio è energia ed è all’origine della nostra capacità di agire“.

Come a casa, film, poltrona e cena. Da oggi al cinema Anteo

Come a casa, film, poltrona e cena. Da oggi al cinema Anteo nella Sala Nobel di Miro Osteria del Cinema

Un po’ come a casa, film, divano e cena, però oggi è possibile farlo davanti al maxi schermo del Cinema Anteo, nella Sala Nobel dedicata, e con il servizio in poltrona.

E’ la nuova idea di MIRO – Osteria del Cinema, che propone serata all’insegna del cinema, con pochi posti prenotatili, poltrone comodissime, un piccolo tavolino illuminato da una lampada per non disturbare la visione, ed un servizio che si fa ancora più gentile di quello al ristorante, perchè deve essere necessariamente trasparente e silenzioso. E in questo i ragazzi di MIRO sono eccezionali.

I tempi della cena sono scanditi perfettamente, dalla pubblicità iniziale ai titoli di coda, dal pane al caffè; andare al cinema diventa così ancora più divertente e si uniscono l’utile al dilettevole.

Il menu è leggero, semplice e poco elaborato; a pranzo solo nel week end, e la cena dal martedì alla domenica, propone un vegetariano – Burton – ed un Philips, con 3 portate salate, un dolce, pane, acqua e vino.
Noi abbiamo scelto una tartare di manzo al coltello con senape in grani ed erba cipollina; un risotto con zucchine, fiori di zucca e menta; un roastbeef con fondo di manzo, ed un gelato al caramello salato.

Il film? Beh non poteva che essere Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton (con una Monica Bellucci bella anche da morta), il sequel di Beetlejuice – Spiritello porcello dell’88.

C’è anche l’opzione all’orario dell’aperitivo.
Il costo del biglietto è di 43€ a cena, 30€ a pranzo e 25€ per l’aperitivo. Per prenotare: www.anteo.spaziocinema.18tickets.it

I registi più coraggiosi della storia? Quelli che si mettono a nudo

Credo che un buon film possa definirsi “riuscito” solo quando il regista si mette a nudo. Senza pregiudizi. Succede la stessa cosa in fotografia, può esistere un ottimo scatto, tecnicamente perfetto, ma se non parla in qualche modo dell’autore, sarà un’immagine senz’anima e non racconterà nulla.

I registi che nella storia del cinema hanno o stanno lasciando il segno, sono esattamente queste figure coraggiose, che ci hanno aperto le porte del loro passato, o della loro mente, o delle loro curiosità, spesso parlandoci di perversioni, di ossessioni, di manìe, di complesso edipico, con una verità che può aver causato repulsione da parte del pubblico; mi viene in mente “Salò o le 120 giornate di Sodoma“, 1975 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Un’opera su-bli-me che meriterebbe centinaia di volumi per poter essere esplicitata, una geografia dantesca dell’Inferno, governato dai violenti. Scatologia, l’orrore del fascismo, il potere del sesso, sadomasochismo, necrofilìa, sono solo alcuni dei temi trattati dal regista; nell’estremizzazione della brutalità dei De Sade protagonisti, c’è tutto un codice societario che i telegiornali ci sbattono in prima pagina tutti i giorni.

“Il Portiere di notte” di Liliana Cavani (1974) segue il filone di quello che venne definito, insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma, il cinema nazi-erotico, un amore per il mostro, è la storia di una ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, che incontra il suo aguzzino (finito a fare il portiere di notte) per venirne di nuovo risucchiata e sedotta, perdendosi in un rapporto morboso sadomasochistico.


Ma di attrazioni e dello svelamento delle proprie ossessioni, Roman Polański è in cima alla lista con “Venere in pelliccia” (2013), perchè credo che quando la spinta e il desiderio di esprimere un concetto, una idea, sullo schermo o sulle pagine di un libro, sia così forte e così ben riuscito, allora quel pensiero è così radicato dentro di noi da rappresentarci. E sul regista la cronaca ha scritto di cause in attesa di giudizio (fissate per il 4 agosto 2025) per abuso su minori (ma questa è un’altra storia e non possiamo scriverla noi). Ci limitiamo ad esprimere giudizi sul mestierante, non sull’uomo, anche se ci chiediamo: “Possono essere scisse le due cose?


Sempre sull’onda del feticcio non posso non citare Alfred Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte) del 1958, il regista vojeuristico per eccellenza, attratto dalle bionde glaciali ma soprattutto da quell’acconciatura a spirale che scopre della donna, la parte più vulnerabile: il collo. In una scena del film il protagonista chiede alla figura femminile di raccogliere i capelli in uno chignon, ecco il totem del regista che più di chiunque altro è riuscito a mettere su pellicola patologie, schizofrenie, fantasmi.

E per chiudere una prima parte dei registi che si sono messi a nudo, Lars von Trier in “Melancholia” del 2011 ci ha permesso di partecipare ad una seduta psicanalitica, perchè Melancholia è la vivisezione della depressione in immagine cinematografica. In una scena Kirsten Dunst, la protagonista, in un rallenty che dura oltre i cinque minuti, cerca di camminare ma viene ostacolata dalle radici che escono dal terreno, viene attratta verso il basso, bloccata (la perdita del piacere, il declino psico-fisico), l’aria si fa rarefatta (l’ansia, il panico), sulle note del Tristano di Wagner, e non poteva esserci colonna sonora più calzante, d’altronde von Trier non ne sbaglia una.
Un genio? No, ha solo avuto la grande sfortuna di conoscere la depressione. Solo chi ha vissuto, può spiegare.