Il caso Fortuna e le colpe degli degli adulti

Sono giorni che “va in onda” il caso di Fortuna, e la prima cosa che suona stonata sono “le parole” della cronaca, parole scelte per farci meno male.
Fortuna è una bambina ammazzata (usiamola questa parola) perché – dopo tante altre volte – si sarebbe rifiutata di subire un nuovo stupro (usiamo anche questa di parola), invece di “sarebbe morta” e avrebbe “subito violenza”. 
Perché se no non si capisce, se no è troppo blando, ovattato, quasi neutro e quotidiano.


Invece no, questa bambina è stata uccisa, ammazzata, buttata giù da un balcone, perché si sarebbe rifiutata di essere ancora una volta stuprata.
Ecco, quando abbiamo compreso questo, ci viene in mente la fragilità dei bambini, la loro debolezza ed incapacità di opporsi. E invece no, è tutto il contrario. E vediamo come.
Questo delitto tocca noi adulti: adulto lo stupratore probabile omicida, adulti la madre, la nonna, i vicini, che si dovevano adoperare per la sua cura e tutela, adulti tutti coloro che si sono dati da fare alacremente non per difendere un bambino (come ci si aspetterebbe) ma per “coprire” quello che definiamo fiabescamente “l’orco”.


Ma quale orco? Gli orchi esistono nelle favole, semmai. Questa è la realtà.
Linguaggio troppo duro? Ci fa male alle orecchie? Ci disturba la cena che consumiamo guardando il telegiornale? Facciamocene una ragione. Perché noi non siamo bambini. Quelli sì vanno protetti.
Ma io andrei oltre, perché questo linguaggio pacato e ovattato, in realtà ci serve.
Serve a proteggere noi, la nostra comunità e collettività di adulti. Se non ad assolverci quanto meno a concederci attenuanti. Perché?


Perché questa drammatica e tragica vicenda è sociale e non giudiziaria. E che nessuno si sogni di renderla psichiatrica. Questa è una tragedia sociale, sociologica e collettiva.
Ci mostra una realtà di adulti coesi e compatti “contro” i bambini, che vengono educati a proteggere e coprire le malefatte, le bugie, i crimini e i delitti degli adulti.
Ci mostra come una nonna, una mamma, un vicino di casa – tutti adulti – possano cooperare per far sì che per anni ciò che avveniva venisse nascosto e coperto, e che per i bambini quella roba lì fosse anche naturale e normale.

Ci mostra come noi, come società di adulti, possiamo non vedere, accettare, tollerare. Perché non vedere è tutto questo. Anche quando ci diciamo che non succede “da noi”, e ci auto assolviamo perché “non potevamo sapere”. E quando pensiamo che “la causa” sia “il degrado socio culturale di quel quartiere”.
Ci mostra – di fronte a tanta enorme nostra debolezza – che i più forti siano i bambini. Quelli ammazzati perchè si rifiutano. Quelli che “vorrebbero parlare” e si mettono contro la nonna che gli dice di non farlo quelli che – portati lontano – parlano, raccontano, descrivono. Consapevolmente.
Per qualcuno è come assistere ad un mondo alla rovescia, dove i bambini sanno quello che è giusto e sbagliato e dicono la verità, mentre gli adulti alterano la verità, e con un mondo di omertà “giocano” a coprire le proprie malefatte.


Non è così. È proprio il mondo che è così.
E questa storia facciamo fatica e resistenza a raccontarla per quello che è, con le parole giuste e necessarie. Perché questa storia abbatte il muro delle nostre certezze, prima tra tutte quella del nostro essere “i forti” mentre i deboli sono i bambini.
A Fortuna, ai suoi coetanei, noi dobbiamo molto. La loro storia rompe questo velo e ci svela quello che siamo, la nostra fragilità, impotenza, incompiutezza, incapacità e inadeguatezza.
Facciamo gli adulti e prendiamone atto. Non fa male. Aiuta a crescere.

Fare il sindaco oggi

Siamo in periodo di elezioni amministrative, più o meno in tutta Italia.
Spesso, troppo spesso, questo tipo elezioni finiscono con l’essere eccessivamente politicizzate: sia dai candidati, che nella nuova fase politica vedono in queste occasioni elettorali un trampolino di lancio per la politica nazionale, sia dai partiti, che dalla conta dei seggi e delle città conquistate fanno discendere analisi sul consenso nazionale.
Uscendo da queste logiche – sia come cittadini, sia dal punto di vista di commentatori, giornalisti, comunicatori e politici – dovremmo invece ricordare alcune caratteristiche fondamentali, quantomeno per il bene comune.



Intanto siamo chiamati a scegliere gli amministratori delle nostre comunità locali, più o meno grandi, e in questa scelta – che compete tutti noi come cittadini elettori – dovremmo tenere esclusivamente conto di alcune cose: la storia personale e la capacità amministrativa del candidato sindaco, la sua squadra di governo, il fatto che non dovrà decidere di grandi temi generali, ma sarà chiamato ad amministrare strade, trasporti, scuole, rifiuti, parcheggi, traffico, turismo, commercio etc. Una capacità amministrativa concreta che determinerà la qualità della nostra vita quotidiana, e che non si inventa da un giorno all’altro e che non è fatta di slogan più o meno accattivanti.
Scegliere un sindaco per antipolitica, per sola ideologia, per simpatia, è certamente possibile, ma concretamente viene da chiedersi quanto sia utile.



Una cosa buona sarebbe per esempio chiedere ai candidati quali sarebbero in caso di vittoria il loro assessori, perché è chiaro che nessuno governa ed amministra da solo, e bene sarebbe che a questa richiesta i candidati rispondessero, e che anche su questo parametro venissero valutati.
Alcune volte gli assessori vengono scelti tra i consiglieri eletti, altre tra tecnici o personalità vicine al sindaco. Ma in molti casi ce li ritroviamo dopo, scelti da nessuno, e responsabili di molto. Forse saperlo prima darebbe al voto dei cittadini una maggiore consapevolezza, e quindi anche una maggiore responsabilità personale a ciascuno di noi.



Altra cosa veramente buona sarebbe che chiedessimo – e che loro rispondessero – della copertura economica di ogni iniziativa proposta. Perché poi ci lamentiamo sempre di programmi fumosi e mai realizzati, senza porci noi per primi il problema di “credere a progetti irrealizzabili”.
Nulla è impossibile, e le nostre città hanno immense risorse umane su cui puntare e investire e tanti sprechi da tagliare e da cui ricavare risorse, ma sarebbe bel sapere quali prima, e non ricevere sempre le solite risposte dopo, quali ad esempio “abbiamo ereditato un disastro dall’amministrazione precedente” o “abbiamo trovato altre priorità inderogabili”, ad esempio.
Del resto, quando nelle nostre case decidiamo per un acquisto, ci poniamo il problema del “dove reperiamo i soldi” e come pagheremo il bene che desideriamo, perché non porre lo stesso metodo nelle amministrazioni pubbliche?


Alcuni sindaci si propongono per un secondo mandato. 
Non è un bene né un male e di certo grandi progetti non si realizzano in poco tempo. Sarebbe anche in questo caso un bene prendere i vecchi programmi elettorali e chiedere conto, punto per punto, delle cose fatte e non fatte, del come e del perché.
Soprattutto paragonare vecchi e nuovi programmi e chiedere il come oggi ci si propone di realizzare qualcosa che non è stato realizzato prima.
Possono sembrare considerazioni banali, ma lo sono meno se pensiamo che dobbiamo entrare – tutti – in una logica politica nuova, che passa dalla consapevolezza. 
Partire da questi punti e da queste domande e da queste risposte farebbe si che domani non possino dire “non sapevo, non immaginavo, non sono responsabile”. Sia noi sia i nuovi o riconfermati amministratori, cui va comunque e a prescindere il mio personale augurio “di far bene”.
Perché al di là del colore politico, se faranno bene, sarà un vantaggio utile per tutti.

Che cos’è il Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale

Di SPID avevo già parlato ad agosto dell’anno scorso. È l’acronimo di “Sistema Pubblico per la gestione dell’Identità Digitale”. È sostanzialmente una creatura immaginata dall’AGID – l’agenzia per l’Italia digitale, delle cui vicende abbiamo abbondantemente parlato – che lo inserisce sul suo sito tra le “architetture e infrastrutture” digitali del paese
Si tratta di una “password personale unica” che da accesso ai servizi online della P.A, dal fisco alla sanità alla previdenza.


L’Agid aveva fissato i criteri per cui un provider poteva richiedere di diventare “gestore” di Spid.
E a meno di dieci giorni dal lancio ufficiale effettuato il 15 marzo scorso dal Ministro per la semplificazione Marianna Madia la quarta sezione del Consiglio di Stato presieduta da Sergio Santoro, pronunciando definitivamente il 24 Marzo sullo SPID, ha confermato la sentenza del Tar Lazio del luglio 2015, mettendo una pietra tombale sul modello privato prefigurato dalla Presidenza del Consiglio ed incentrato sulla presenza di pochissimi fornitori di grandi proporzioni economiche.
Il Consiglio di Stato chiarisce che SPID è un sistema essenzialmente basato su password e non può dunque essere equiparato alle modalità di identificazione forte quali la carta nazionale dei servizi e la firma digitale , conseguentemente non può richiedersi per la prestazione dei servizi di identificazione, criteri economici sproporzionati.


In sintesi per il Consiglio di Stato lo SPID è una password, e non si possono richiedere 5 milioni di capitale sociale.
Il Consiglio di Stato chiarisce che Spid è un sistema essenzialmente basato su password e non può dunque essere equiparato alle modalità di identificazione forte quali la carta nazionale dei servizi e la firma digitale: di conseguenza non possono richiedersi, per la prestazione dei servizi di identificazione, criteri economici sproporzionati.


“La Sezione, nel condividere gli argomenti della sentenza impugnata, ritiene che l’appello debba essere rigettato si legge nella sentenza – Non può condividersi infatti l’argomento invocato dall’appellante Presidenza del Consiglio dei Ministri, secondo cui l’elevato capitale sociale minimo di 5 mln di euro della società di capitali, alla cui costituzione debbono procedere i gestori dell’identità digitale nel sistema SPID, sarebbe indispensabile per dimostrare la loro affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria, e ciò solo perché l’attività di cui trattasi richiede un rilevante apporto di elevata tecnologia, la cui validità non può ritenersi direttamente proporzionale al capitale sociale versato. In questi termini, si evidenzia altresì l’illegittimità per irragionevolezza dell’impedimento all’accesso al mercato di riferimento, dovuto all’elevato importo del capitale sociale minimo richiesto con l’atto impugnato, trattandosi di scelta rivolta a privilegiare una finalità di incerta efficacia, a fronte della sicura conseguenza negativa di vedere escluse dal mercato stesso tutte le imprese del settore di piccole e medie dimensioni, quali appunto quelle rappresentate dalle associazioni ricorrenti”.
Restano sul tavolo tutte le solite questioni.


I servizi di PA digitale devono aumentare? assolutamente si.
Devono essere accessibili (economicamente e strutturalmente e infrastrutturalmente e “sintatticamente” – percorso e linguaggio)? assolutamente si.
La PA si deve semplificare e avvicinare al cittadino? Ovviamente si.
Nessuno, sano di mente, sosterrebbe il contrario.
Ora, si può discutere il come? perché non è sicuro e quando parli di dati sensibili “non sicuro” significa “pericoloso”.
E o hanno dimostrato molti casi simili e precedenti in altri Paesi.
Da noi il rischio è anche duplice, perché oltre a restare sul tavolo la questione della tutela della riservatezza di dati utili ad accedere ad atti ed informazioni personali, c’è anche il tema della concentrazione “in mano a pochi soggetti privati” di tutte le password di accesso di tutti i cittadini. 
Ed a parte il criterio patrimoniale (che il Consiglio di Stato ha rilevato non utile e insufficiente ed ha cassato) non esiste alcun criterio tecnico, parafrasando la sentenza “per dimostrare la loro affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria, e ciò solo perché l’attività di cui trattasi richiede un rilevante apporto di elevata tecnologia, la cui validità non può ritenersi direttamente proporzionale al capitale sociale versato.”

Alcune note da non trascurare:


1) il provider deve soddisfare caratteristiche di sicurezza non banali, per le fasi di identificazione, per il suo processo interno di gestione e per la consegna delle credenziali

2) la parte puramente tecnologica di affidabilità e sicurezza nella identificazione informatica

3) deve essere ed apparire “credibile” ovvero non deve accadere che si possa neanche pensare che qualcuno conceda l’accesso a terzi

. L’unico provider di identità di qualsiasi tipo per definizione non può che essere lo Stato.
 Pensiamoci. È tecnicamente come delegare a società private la redazione e consegna delle carte di identità o di passaporti… che lo Stato non delega nemmeno per la parte tecnica di stampa (che non a caso sono realizzati su carte e con inchiostri speciali dalla Zecca).


E allora dato che per simmetria parliamo della stessa cosa, e anzi proprio l’immaterialità dello strumento digitale rende anche più delicata la verifica, perché non applichiamo lo stesso principio?
Consideriamo poi il dettaglio che non esiste un modello di business per coprire investimenti e costi di questa azione da parte dei provider privati. Quindi: chi pagherà per tutto questo? Alla fine essendo un “servizio pubblico” avrà o un costo di gestione in termini di contratto di servizio (e nessuno ci ha detto a quanto e con quale gara) o avrà un costo per il cittadino richiedente, e non è chiaro chi stabilisca e secondo quali criteri e principi questo importo, e non è chiaro perché – se così fosse – non se ne parli prima dei decreti e degli affidamenti.
C’è poi un tema delicatissimo, che riguarda il riconoscimento della persona.
E su questo rinvio integralmente a quanto ha scritto su Linkiesta Paolino Madotto.

I rischi per la sicurezza dell’Internet of Things

La gamma e il numero di “cose” connesse a internet è davvero stupefacente, tra queste telecamere di sicurezza, forni, sistemi di allarme, baby monitor e le auto. Ogni cosa sta andando on-line, in modo che possa essere monitorata e controllata in remoto su Internet.
I dispositivi IoT (Internet of Things) incorporano sensori, interruttori e funzionalità di registrazione che raccolgono e trasmettono i dati attraverso la rete internet.
Alcuni dispositivi possono essere utilizzati per il monitoraggio, l’utilizzo di Internet per fornire aggiornamenti di stato in tempo reale. Dispositivi come condizionatori o serrature consentono di interagire e controllare in remoto.
Mentre i dispositivi IoT promettono benefici, introducono anche rischi rispetto alla nostra privacy e sicurezza.


La maggior parte delle persone ha una comprensione limitata delle implicazioni di sicurezza e privacy dei dispositivi IoT. I produttori che sono “primi sul mercato” (prime to market) sono premiati per lo sviluppo di dispositivi a basso costo e nuove funzionalità con poco riguardo per la sicurezza o la privacy.
Al centro di tutti i dispositivi di internet degli oggetti è il incorporato un firmware che è il sistema operativo che fornisce i comandi e le funzioni del dispositivo.
Anche i più grandi produttori di router a banda larga spesso utilizzati componenti firmware insicuri e vulnerabili.
I rischi collegati agli “oggetti in rete” sono aggravati per la loro natura altamente accessibile, così, oltre a soffrire di problemi simili a quelli router a banda larga, i dispositivi IoT devono essere protetti contro una vasta gamma di minacce attive e passive.


Tra le minacce attive dobbiamo considerare che i dispositivi IoT sono spesso collegati alla rete e sono collocati in luoghi da cui possono accedere e controllare altre apparecchiature di rete.
Questa connettività potrebbe consentire agli “aggressori” di utilizzare un dispositivo IoT compromesso per bypassare le impostazioni di sicurezza della rete e lanciare attacchi contro altre apparecchiature di rete come se fosse “dall’interno”.
Molti dispositivi collegati in rete utilizzano password di default e hanno limitati controlli di sicurezza, così chi riesce a trovare un dispositivo non sicuro on-line può accedervi. Recentemente, un gruppo di ricercatori di sicurezza informatica sono anche riusciti a “penetrare” un’autovettura, il cui sistema si basava come unica misura di sicurezza sui numeri di identificazione del veicolo (VIN) facilmente accessibili (e prevedibili).
A differenza di minacce attive, le minacce passivi riguardano la raccolta e la conservazione dei dati degli utenti privati da parte dei produttori. Questo perché i dispositivi IoT sono “sensori di rete” e si basano sui server del produttore per fare l’elaborazione e l’analisi.
Quindi, gli utenti finali possono liberamente condividere tutto, da informazioni di credito a dati personali.


I dispositivi IoT possono “conoscere” un numero enorme di informazioni sul”utente.
Dispositivi come il Fitbit (che monitora lo stato di salute e i dati biologici e agonistici) può anche raccogliere dati da utilizzare per valutare il merito assicurativo della persona.
L’indefinita memorizzazione dei dati da parte di terzi è una preoccupazione significativa. L’entità dei problemi connessi con la raccolta dei dati è appena venuta alla luce.
Così come la concentrazione dei dati di un utente privato sul server di rete diventa anche un bersaglio particolarmente appetibile per i criminali informatici. 
Compromettendo solo i dispositivi di un singolo produttore, un hacker potrebbe ottenere l’accesso a milioni di dettagli delle singole persone in un attacco.


Il vero problema non sono i dispositivi in sé – anche utili, e qualche volta necessari – né la loro programmazione, ma il fatto che in definitiva, come utenti, siamo in balia di produttori. La storia dimostra che i loro interessi non sono sempre allineati con i nostri. 
Il loro ruolo è quello di ottenere nuovi strumenti e prodotti appetibili dal mercato nel modo più economico e più rapidamente possibile.
La maggior parte dei dispositivi possono essere utilizzati solo con il software del produttore.Tuttavia poche informazioni sono fornite su quali dati vengono raccolti o quale sia la modalità di conservazione, con quali tempi, per quale durata e con che scopo.
Quindi, se davvero vogliamo l’ultimo dispositivo uscito sul mercato, e riteniamo che ci serva e ci sia utile, almeno, prima, poniamoci qualche domanda, questa si certamente utile (meglio se preventivamente) a noi stessi ed a tutela della nostra privacy.


-Chiediamoci se i benefici superano i rischi per la privacy e la sicurezza.
-Chi ci fornisce il dispositivo? Sono conosciuti e forniscono un supporto adeguato?
-Hanno una informativa sulla privacy facile da comprendere e chiara?
-Come usano e proteggono i nostri dati?
-Se possibile, cercare un dispositivo con una piattaforma aperta, non limitata ad un solo servizio. Che sia in grado di caricare i dati su un server di nostra scelta.
Alle volte una semplice e banale ricerca su Google del tipo “[il tuo nome del dispositivo] è sicuro?” Perché cerchiamo sempre colori, caratteristiche, prezzo. Ma quasi mai ci occupiamo di verificare se – per caso – i ricercatori di sicurezza e gli utenti hanno già sperimentato quel dispositivo e rinvenuto problemi (spesso gravi) proprio in materia di dati.

La comunicazione politica in Italia

Rimaniamo spesso affascinati dalla politica anglosassone, e in particolar modo da quella made-in-usa. Primarie, competizione, serie tv che ci mostrano storie e professioni che possiamo solo immaginare. E ci facciamo un’idea – anche della società americana – che in realtà è molto diversa dalla realtà.
Da West Wing a House of Cards a Scandal, il cittadino spettatore “beve” quasi acriticamente quella realtà e finisce con il ritenere che “quella sia la politica”, così dovrebbe essere, o peggio che davvero anche in America la politica sia fatta in quel modo.
Torniamo a parlare della politica americana per vari motivi, e cogliendo almeno due occasioni.
La prima è la “lunga corsa” delle primarie che si esaurirà in estate, con le convention, e con la definizione di chi saranno i due candidati accreditati (in realtà sono molti di più, ma parliamo di quelli che hanno chance concrete di essere eletti) alla presidenza.


La seconda è un episodio passato un po’ in sordina e che ci riguarda direttamente: Matteo Renzi ha assunto come “stratega” per la campagna referendaria sulle riforme istituzionali Jim Messina.
Andiamo con ordine. Le primarie americane sono il long-show della politica americana. Cominciano con le elezioni di medio termine (in realtà in sordina ben prima, ed anche gli accordi per le mid-term sono da leggersi in questa proiezione) – due anni prima delle presidenziali – e tendono a definire prima tutte le possibili candidature, per poi assottigliare la schiera dei candidati, accorpare e mettere insieme le forze (e le risorse) in vista della sfida vera e finale, che tecnicamente dura tre mesi, da settembre al 4 novembre.


Ogni giorno arrivano da oltreoceano notizie, informazioni, spigolature, che fanno di quella campagna una vera e propria campagna elettorale globale.
Il sistema e il meccanismo sono anche voluti, dal momento che il presidente degli Stati Uniti è anche definito – più che altro giornalisticamente – “il capo del mondo libero”. Affermazione che nasce durante la guerra fredda, in contrapposizione con il blocco sovietico, e che oggi assume una dimensione se possibile anche più planetaria, con i nuovi e trasversali regimi, totalitarismi minori, e le numerose minacce terroristiche. Senza entrare nel merito, questa accezione si riferisce a questa visione del mondo.


La politica americana è costosissima, proprio perché professionale e fatta da professionisti.
Il grande non-protagonista della politica americana sono le lobby, che non sono quello che vediamo e quello che ci rappresentano. Nella realtà sono semplici “associazioni di interessi”. Tra le prime dieci della politica americana vi sono quelle ambientaliste, quelle delle energie alternative, quelle degli insegnanti. Che normalmente raccolgono fondi e spostano voti anche maggiori rispetto ai lobbisti del petrolio o del “trio morte” (armi, alcool, tabacco). Esistono leggi severissime sui finanziamenti elettorali, per una tangente anche piccola si va in galera davvero, mentre da noi non si approva una legge sul lobbismo – anche se basterebbe estendere il codice etico presso il Parlamento Europeo – lì le lobby dichiarano in maniera trasparente chi finanziano e con quanto.



Questo professionismo crea professionisti. Che si specializzano in quello che fanno.
Nella campagna per la rielezione del presidente Barack Obama, Stephanie Cutter, Jen O’Malley Dillon, e Teddy Goff hanno sperimentato nuovi sistemi e policy di costruzione del consenso che hanno consentito la costruzione e conduzione di una campagna senza precedenti per capire, raggiungere e collegarsi con il maggiorn numero di Americani mai raggiunto da una campagna.


Conclusa quell’esperienza hanno costruito una start-up del valore di 1,2 miliardi di dollari in 19 mesi e hanno creato creato nuovi strumenti di data-driven per raggiungere il pubblico giusto con i giusti messaggi: sono oggi la più efficace società di strategia e analisi di metadati sociali.
Stephany Cutter nasce come assistente del senatore Kennedy, per poi ricoprire vai incarichi sempre nel settore comunicazione sino a tutta la presidenza Clinton e la campagna Kerry, trasferendosi nel settore della comunicazione politica privata durante l’amministrazione Bush, e rientrare nell’amministrazione pubblica con Obama di cui è stata vice capo campagna.


Jean O’Malley Dillon ha lavorato come Vice Campaign Manager per la campagna di rielezione del presidente Obama, supervisionando la più grande organizzazione nella storia delle campagne presidenziali.
Teddy Goff era il direttore digitale per la campagna di rielezione del presidente Obama, ed era il coordinatore della squadra nazionale di 250 persone che si occupavano di social media, e-mail, web, pubblicità online, organizzazione on-line. Sotto la guida di Teddy, Obama per l’America ha raccolto più di 690 milioni di dollari e registrato più di un milione di elettori on linea, ha costruito un’identità digitale tra Facebook e Twitter seguita da circa 100milioni di persone, ha generato oltre 133 milioni di visualizzazioni video, e con oltre 100 milioni di dollari spesi in pubblicità online ha gestito il più grande programma del genere nella storia politica.



Perché raccontare queste storie. Perché quel grado di professionalizzazione nasce da due fattori.
Il primo, è dedicarsi a tempo pieno a questo tipo di attività, e il secondo, è farlo in un quadro normativo chiaro e trasparente.
Da noi invece va sempre più di moda la “collaborazione gratuita” o collaterale, che significa “tu fai la campagna a me e io ti faccio vincere quella gara e avere quel contratto”.
Questo approccio parte da un errore di fondo: non aver compreso – da parte di chi fa politica – in che era geologica della comunicazione siamo. Perché significa esportare quel modello che funzionava negli anni sessanta, settanta e ottanta per cui facevi l’addetto stampa gratis, e poi venivi assunto in Rai o in un determinato giornale. O altre volte eri giornalista formalmente presso una testata (spesso di partito) ma in realtà facevi il portavoce o il collaboratore di questo o quello.
Sono fatti noti, è inutile nascondersi dietro un dito.


Questo retaggio di metodo, che la politica si porta dietro, non tiene appunto conto del modo in cui è cambiato il mondo. E che in un certo professionalismo richiede specializzazione. E questa specializzazione richiede una dedizione specifica e full time alla conoscenza della nuova comunicazione politica che è fatta di analisi dei flussi e dei metadati.
E così avviene che quando hai poi bisogno di queste professionalità, da Monti a Renzi ti rivolgi a presunti onniscienti guru americani, “garanzia di successo” su un modello in cui loro hanno potuto specializzarsi, e che si ritiene che nessuno “da noi” sia altrettanto bravo.
E tuttavia non è così. Ciascuno è figlio della cultura sociale e politica del proprio paese.
Importare un sedicente guru – il caso Monti lo dimostra ampiamente – non solo non è garanzia di successo, ma anzi… perché non puoi importare una politica ed un approccio di comunicazione se di quella comunità e sintassi politica non fai parte in prima persona.


E ci sono tante realtà, piccole, medie, poco conosciute, che al di là e ben oltre la fuffa che spesso naviga in rete, sono veramente qualificate a fare comunicazione politica. Professionale e non improvvisata, e i metadati li sanno leggere sul serio.
Peccato poi si trovino sempre più spesso a lavorare ed essere valorizzati all’estero.
Anche questa è fuga di cervelli.

Le differenze nel problem solving in giro per il mondo

Ci sono due slide che periodicamente girano sul web.





Apparentemente ironiche, in realtà messe una accanto all’altra mettono in evidenza qualcosa in più della semplice differenza di approccio ai problemi nei diversi paesi.
È qualcosa che attiene al modo con cui – come mostra la seconda immagine – è organizzata la struttura del lavoro.
L’organizzazione infatti dice qualcosa di più del semplice organigramma funzionale della catena di decisione e comando. Implica il modo con cui le società ed organizzazioni umane (come le aziende, ma anche la politica, le comunità, le associazioni) organizzano l’interazione tra le persone, e quindi l’approccio alla soluzione dei problemi.
Non esiste un modello “migliore” di un altro. Tutti i modelli rispondono in piccolo alla struttura esterna della società, e da questa vengono in qualche modo riprodotti e semplificati all’interno di organizzazioni più piccole, come appunto le aziende o altre organizzazioni.
È certamente possibile attraverso l’analisi dei processi organizzativi individuare punti deboli, limiti, “luoghi di errore” e punti di debolezza da correggere.


E tuttavia sarebbe sbagliato importare integralmente una struttura che ci sembra dia risultati più efficienti o migliori senza tener conto dell’elemento culturale delle persone chiamate a interpretare quei modelli organizzativi.
Un modello “primus inter pares” può funzionare da noi in un consiglio di amministrazione, in una rete verticistica di professionisti, ma difficilmente è esportabile nella cultura giapponese, enormemente distante – non solo geograficamente – dal modello svedese, che tuttavia difficilmente può funzionare anche nella vicina Inghilterra, dove il sistema di “leadership casuale” – che casuale non è – è più funzionale alla velocità ed al dinamismo di quella realtà socio-economica.
Il sistema “nepotistico” tipico del mondo “mediterraneo” non va solo letto nella sua accezione negativa – che pure ha in termini di limitazione dell’ascensore sociale e del ricambio professionale – ma anche in quell’accezione positiva di trapasso di nozioni ed informazioni e di mantenimento della conoscenza diretta.


Questa positività è sempre meno utile in una società globale, e quindi segno comunque di chiusura ed arretratezza: è la prima origine dell’ingessamento delle nostre società e di perdita di opportunità di crescita, espansione e allargamento. Ed è anche la causa della cd. “fuga di cervelli”.
In queste slide c’è dell’ironia, del manicheismo, ma entrambi si basano su caratteristiche su cui – oltre le semplificazioni – è il caso che tutti noi, come organizzatori e come parte di organizzazioni, ci interrogassimo. Cominciando a prendere coscienza dei limiti “dell’organizzazione che conosciamo” prendendo il buono e l’importabile di altri modelli, e ammettendo che certi limiti ormai son un fardello.

Lowell, il suo telescopio e internet

Lowell, l’astronomo, fu categorico: “È certo che Marte sia abitato da esseri viventi, ma sicuramente non sappiamo che tipo di esseri siano”. 
Era il 1896 ed aveva usato uno speciale telescopio modificato – come faceva anche Galileo del resto – ed aveva individuato una serie di canali, costruiti sicuramente da esseri viventi, probabilmente per portare acqua verso l’equatore del pianeta, ricavandola dai poli, ricchi di ghiaccio. Questa la sua tesi e la sua spiegazione.
Un’analisi approfondita dopo anni ha rivelato che la modifica che ha realizzato Lowell al suo telescopio ha reso lo strumento un gigantesco oftalmoscopio: i “canali” avvistati su Marte erano i vasi sanguigni dell’occhio di Percival Lowell. 



Lowell, il suo telescopio e internet


Questa storia ci insegna molte cose non solo sul web, ma sul nostro approccio al mondo. Specie in un tempo in cui le fonti di informazione non hanno più quel manto di autorevolezza che viene dall’Accademia o dai “giornali accreditati della stampa tradizionale” (entrambe categorie che non sono sempre state garanzia di autenticità, come del resto anche questo aneddoto ricorda).
Come è avvenuto per i canali su Marte, c’è il rischio di proiettare un’immagine di se stessi sull’oggetto osservato. E anche peggio interpretare ciò che vediamo secondo i parametri che conosciamo. Chi lo ha detto ad esempio che Marte funzioni come la Terra e abbia ghiaccio ai poli?
Molte volte “il nostro occhio” deforma la percezione e l’immagine di quello che osserva.
Come ho cercato di descrivere ne “La stanza stupida” , accade fin troppo spesso ad esempio che leggendo sempre e solo gli stessi siti, gli stessi blogger, frequentando i soliti gruppi su Facebook, e commentando sempre le sole 150 persone della nostra stretta cerchia (che restano al massimo 150 anche se abbiamo 5000 amici! – provate a verificare), riteniamo che “tutto il mondo” sia così.
Riteniamo che quello che pensano e come la pensano quei 4000 iscritti ad un gruppo che frequentiamo anche più volte al giorno sia “come la pensano tutti” e la società nel suo complesso.


È un po’ come credere ai sondaggi – che sono più scientifici anche se spesso fallibili – e poi ritrovarsi fuori dalle urne con risultati profondamente differenti. Errore molto comune proprio per la straordinaria capacità del web di creare micromondi sociali.
Un esempio duplice è quello delle elezioni politiche, in cui nessuno sino al giorno dopo il voto aveva avuto la percezione di quanto diffuso fosse il sentimento di protesta politica, tale da far schizzare il M5S al 25%.
Altrettanto, nello stesso equivoco è caduto Beppe Grillo, quando alle elezioni europee si era autoconvinto di quel #vinciamonoi e che avrebbe battuto il Pd, prima di risvegliarsi il giorno dopo doppiato: 20% contro 40%. 
Nessun broglio, nessun astensionismo fuori misura, nessun complotto: semplicemente in entrambe le occasioni il web aveva generato una percezione deformata della realtà.
Un rischio che è sempre dietro l’angolo, e che dovrebbe spingerci spesso, quasi come un esercizio periodico, a guardare fuori dai nostri soliti ambienti sociali. Sempre che ci interessi davvero capire come stanno le cose e come “gira il mondo”, e non accontentarci di vedere – come Lowell – ciò che vogliamo che sia.

Cosa ci dicono i big data di questo referendum?

Quello che pensavo su questo Referendum l’ho scritto qui.


Ma proviamo adesso a leggere il dato politico che emerge da questo referendum.
Il suo significato in termini di numeri e di strategie.
Matteo Renzi ha sterilizzato cinque dei sei quesiti referendari – quelli davvero sostanziali – ma ha lasciato l’ultimo punto, quasi volendo che il referendum si facesse.
Perché?


Facciamo un passo avanti, alla riforma costituzionale.
Su questa il segretario premier è stato chiaro: se perdo lascio.
Come a dire che quello è “il voto su di lui”, sul suo governo e sulla sua politica.
Ma lo si celebrerà a ottobre, garantendosi comunque non meno di ulteriori sei mesi di governo prima della tornata elettorale (che per consuetudine è tra aprile e giugno), per avere ampi margini di campagna – elettorale e congressuale.
E adesso facciamo un passo indietro, a quando Matteo Renzi ha affidato a Jim Messina il coordinamento della campagna di ottobre.


Jim Messina, ex capo staff di Obama, è stato il coordinatore della campagna 2012.
La sua strategia elettorale è basata sull’elaborazione dei cd. big data per decifrare comportamenti e tendenze, georeferenziate e geolocalizzate, delle persone, collegio per collegio, paese per paese, quartiere per quartiere.
L’ultima sua vittoria è stato lo scontro diretto con il suo ex capo David Axelrod. Messina supportava Cameron, Axelrod i laburisti. E la rimonta di Cameron, che molti davano per perdente, è stata proprio sul filo di lana di tutti i collegi in bilico.


La strategia di Messina presuppone da una parte una mappatura politica e socio culturale del territorio, dall’altra una “elezione simile recente”(in Usa non è difficile con le midterm ogni due anni).
Ed ecco spiegato questo Referendum.
Un grande test su scala nazionale, senza amministrative, senza accorpamenti, puntando su una campagna manicheamente esasperata: da una parte tutti i “pro premier” verso il non voto, dall’altra semplicemente “tutti gli altri”.
Un quesito tecnico, non impegnativo politicamente: una semplice prova generale per raccogliere i dati sui comportamenti dei flussi elettorali, capaci almeno di garantire una proiezione credibile.


Ecco che se lo leggiamo in questa ottica, il dato che emerge non è certamente positivo per Renzi.
Anche perché i dati vanno appunto proiettati e interpretati.
Come ha spiegato Alessandro De Angelis sull’Huffington qualche giorno fa “domenica si manifesterà un pezzo del popolo anti-Renzi, che ci sarà anche a ottobre. Con l’aggiunta di tutto il centrodestra che, su questo quesito, è fermo.”
Il dato su cui ragionano gli analisti sono sostanzialmente questi: i votanti alle scorse politiche (2013) furono 36.452.084 mentre alle europee (2014) 28.991.358, rispettivamente il 72,2 per cento e il 57,2 per cento degli aventi diritto. Il Pd alle politiche raccolse 8.646.034 voti (il 25% di Bersani) mentre alle europee 11.172.861 (il 40% di Renzi)


Gli scenari del giorno prima.
Alta affluenza: 40% di votanti sono circa 20.320.000; media affluenza: 33% pari a 16.764.000.
A urne chiuse quel 31% circa racconta di 16milioni di elettori, di cui oltre l’80% (come da previsioni) ha votato si.
Elettori che si recano alle urne “contro Renzi”, che faranno lo stesso ad ottobre al referendum sulle riforme, quanto “tutte le opposizioni” si coalizzeranno, quando non ci saranno richiami all’astensione, quando sarà una scelta politica quasi quanto un voto (anche se più semplice) e quando tutti, ma proprio tutti, avranno un interesse a dare indicazioni di voto. Ma soprattutto quando non ci sarà quorum. Vince cioè chi prende più voti.


La sfida.
Renzi deve prendere sulle riforme più voti di quella che ha chiamato la grande alleanza per il no con un Pd (tutto quanto e tutto intero, che voti compatto e senza differenze tra maggioranza e minoranza) che oggi sta attorno ai 10milioni di voti.
E la sfida è proprio questa. Certo c’è da dire che gli italiani sono “sensibili” alle riforme, e in molti sono pronti a non seguire strettamente le indicazioni dei propri partiti o leader. Lo abbiamo visto in casi importanti come divorzio, aborto, finanziamento dei partiti.


E tuttavia l’errore di fondo sta proprio nella comunicazione del premier.
Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perchè, è bene ricordarlo, il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.


Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).
Saper cambiare comunicazione è una dote, una capacità, una risorsa.
Renzi ne ha molte, ma ad oggi, almeno per quello che abbiamo visto negli ultimi cinque anni, questa proprio non gli appartiene.
Ma anche se non ha risparmiato – senza citarlo – molte sferzate ai Presidenti di Regione del suo stesso partito (Emiliano su tutti), almeno come sintassi generale nel suo discorso post-voto ha provato con quel “tutti insieme” a cercare di evitare quantomeno la spaccatura interna.
La strada per ottobre è più che in salita.
In uno scenario in cui è possibile che andranno a votare circa 30milioni di italiani, da oggi stesso l’obiettivo è convincerne circa 16milioni. Il 50% in più di un teorico Pd unito.

Un po’ di chiarezza sul referendum

In questi giorni stiamo veramente sentendo di tutto sulla questione referendaria.
Di tutto, soprattutto quello che non c’entra, che non informa, che non si dice.
E allora provo a fare un po’ di ordine.


Questo è il primo referendum proposto dalle regioni contro una misura del governo nazionale.
Come ha spiegato l’Espresso “i quesiti referendari proposti dalle Regioni erano sei. Ora ne è rimasto solo uno, visto che nel frattempo il governo ha sterilizzato gli altri con delle modifiche all’ultima legge di stabilità. I cinque quesiti saltati puntavano a restituire agli enti locali un ruolo rilevante nelle decisioni sullo sfruttamento di gas e petrolio. Ruolo ridimensionato con la legge Sblocca Italia, voluta da Renzi con l’obiettivo di velocizzare i processi autorizzativi nel settore, fra i più lenti d’Europa. Con le modifiche alla legge di Stabilità, insomma, il governo è tornato sui suoi passi restituendo alle Regioni il potere originario.”


Quindi la prima cosa che c’è da sapere è che spenderemo 300milioni di euro per un referendum su un solo quesito, che anche per le regioni, in origine, era di marginale interesse.
Ed anche se poteva essere accorpato alla votazione per le amministrative in molti comuni, si è scelto di non farlo (non è vero che non si poteva) per una ragione che vedremo poi.


Noi elettori saremo chiamati a votare su una questione piuttosto tecnica.
Non che siamo analfabeti, ma il principio referendario è differente: esprimere il voto su una questione chiara, su cui i cittadini devono essere ben informati, e non certo su una materia estremamente tecnica. Un esempio chiarissimo è il primo referendum repubblicano tra monarchia o repubblica.


Cosa ci viene chiesto?
Dovremo decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, possano durare fino all’esaurimento del giacimento, oppure fino al termine della concessione.


Vanno chiariti due punti.
Il primo è che già oggi è prassi che la concessione venga “estesa in deroga” in tutti i casi in cui viene richiesto dalla compagnia petrolifera. Sarebbe quasi insensato il contrario.
Il secondo riguarda l’inserimento del termine nella concessione: quel termine serve a due scopi.
Il primo è evitare l’accaparramento di concessioni. Se non ci fosse un termine io potrei acquisire un certo numero di concessioni “senza scadenza”, non estrarre, e rivenderle quando e come voglio, in sub-concessione. E potrei “occupare” tutte le concessioni possibili, anche senza estrarre, evitando che altri possano farlo.
Il secondo è che inserendo un termine le compagnie hanno “interesse ad estrarre” sempre, mentre non avendo una scadenza, potrebbero decidere di estrarre solo quando i prezzi sono alti. E mantenere estrazioni minime o nulle in altri momenti.
Il termine – che esiste in tutto il mondo e in tutti i paesi – tende ad evitare questi accaparramenti e queste speculazioni.


Alcune cose che “ci dicono” e che non sono del tutto vere.


Ci dicono che se il referendum dovesse passare le piattaforme piazzate attualmente in mare a meno di 12 miglia dalla costa verranno smantellate una volta scaduta la concessione, senza poter sfruttare completamente il gas o il petrolio nascosti sotto i fondali.
Non è vero. Intanto perché l’estensione della concessione, o il rinnovo con altro termine è sempre possibile, poi sarebbe sempre possibile una nuova concessione. Nessuno è così malato di mente da lasciare un giacimento, perforato, ancora utile.


Ci dicono che si perderebbero migliaia di posti di lavoro.
Anche questo non è vero. Perché sono pochissime le concessioni di cui parliamo, e perché parliamo comunque di giacimenti teoricamente già ampiamente sfruttati e che occupano pochissimo personale diretto (mentre l’indotto è comunque garantito dalle quasi 150 piattaforme comunque esistenti).


Alcune cose che non c’entrano affatto, ma che ci sono entrate di prepotenza.


Ci dicono che sia un referendum tra “idrocarburi e rinnovabili”.
Non è così. La scelta delle forme di approvvigionamento energetico è in altra sede (anche normativa) e semmai lì andrebbe fatta questa – giusta – battaglia. Consapevolmente.
E tuttavia non ho visto nessuno, nemmeno di quelli che ne parlano, aver presentato proposte di legge concrete, ad esempio, per ampliare e rinnovare incentivi in questo senso. Ma forse mi è sfuggito.


Ci dicono che “c’entra Tempa Rossa”.
Non è così e comunque non avrebbe niente a che farci, dal momento che si tratta di un giacimento estrattivo terrestre.
Il caso tuttavia merita un chiarimento: da un lato il governo ha fatto un giusto provvedimento perchè non si può pensare di bloccare un investimento da complessivi tre miliardi di euro perchè “devi passare” dal placet (e quindi dall’accordo, anche degli interessi economici) di ogni singolo comune, anche il più piccolo. Dall’altro però non si può pensare dopo tanti scandali ecologici, che in quello stesso provvedimento – di fatto e di diritto – le compagnie petrolifere siano “esentate” da qualsivoglia responsabilità ambientale e danno e risarcimento, solo per sveltire. Se dunque in qualche modo Tempa Rossa ce la vogliamo fare entrare, è proprio come esempio semmai di un eccesso di confusione all’interno del quale, con cose giuste, finiscono dentro anche tante cose sbagliate. Un po’ come in questo caso referendario.


Ci dicono che la quantità energetica prodotta da questi giacimenti sia irrilevante.
Non tanto. Parliamo del 3% del nostro fabbisogno di metano e dell’1% di petrolio. E dato che siamo – ancora – tra i sette paesi più industrializzati, quell’1% e quel 3% sono soldi. Parecchi. Non tanto e solo per fare cassa, quanto come scorte e per calmierare, almeno qualche volta, il mercato. Oltre che fruttano circa 1 miliardo di euro all’anno come imposte a vari gradi di enti (dallo Stato ai comuni).


Ci dicono che le trivelle inquinano.
Intanto il referendum non chiede l’abolizione di ogni forma di installazione marina. Quindi non si comprenderebbe il nesso. Se poi è vero che – come tutti possiamo intuire – fare un buco in mezzo al mare, piantare componenti in cemento armato, ferro, acciaio e quant’altro non è proprio il massimo dell’ecologia, è anche vero che – in questo caso – la tecnologia italiana e l’attenzione sono elevatissime. Anzi, proprio gli elevati controlli spesso assicurano un elevato grado di informazione e sicurezza, in un raro caso in cui l’interesse ambientale è anche interesse del soggetto titolare della trivella.


Le famose cozze attorno ai piloni: da una parte è normale che ci siano, dall’altra semmai “puliscono” e di certo sono un indicatore ambientale.
Morirebbero in caso di avvelenamento da idrocarburi o similari e altrettanto non risulta che nessuna analisi effettuata vi abbia trovato patologie che le rendano addirittura tossiche.


Che poi, come detto prima, le trivelle, in sé non sono “naturali” è un fatto. Come un fatto che questo referendum non le abolisce. Come un fatto che – purtroppo – da nessuna parte vengono richiesti (e presentate proposte di legge in tal senso) per aumentare i controlli e la sicurezza. Da nessuna delle parti referendarie.


Il nodo politico di questo referendum.


Come successo spesso in passato, anche questa volta questo referendum si è connotato da uno scontro politico tra maggioranza e opposizione.
Come se fosse un referendum sul governo, e già sappiamo che qualsiasi sarà il risultato in questa direzione andrà il dibattito, non certo su ecologia, trivelle ed energia.


La “nuova politica” rispolvera quel Craxi della prima repubblica che invitò i cittadini ad andare al mare. E così assistiamo al triste invito del Presidente del Consiglio (e tacitamente governo tutto) a non andare a votare, in quella strana accezione per cui “coloro che non votano appoggiano l’operato del governo”.
Tristezza che cresce se su questa posizione si schiera anche l’ex Presidente della Repubblica, perché un Presidente Emerito che invita al non voto, davvero, non lo si era ancora mai visto.
E che non si arrivi al quorum è abbastanza probabile, visto il clima, l’interesse, il tema sin troppo specifico.
Che questa possa essere considerata una vittoria per qualcuno non credo affatto. E lo dico prima.
Di certo, come detto all’inizio, spenderemo 300milioni che potevamo risparmiare.
E li spenderemo perché interesse politico di una parte è che non si vada a votare.


Se dovesse passare il Si (ovvero l’abolizione di questa norma) tutti griderebbero “Renzi a casa”.
E cosa c’entra questo con un popolo che ogni volta che ha potuto si è sempre espresso – talvolta anche masochisticamente – per scelte quanto più ecologiste possibili?
Ma in questo caso se passasse il Si, a guardare la norma, cambierebbe poco, o nulla.
Se dovesse passare il No (ovvero la norma rimarrebbe com’è) anche in questo caso cambierebbe ben poco rispetto anche a prima che la norma entrasse in vigore.


Certo era un referendum evitabile. Così come lo scontro politico che ne è scaturito.
Ma è solo uno “scaldare i motori” in vista del Referendum Costituzionale di Ottobre.
Ed anche in quel caso, la comunicazione politica vuole che si trasformi in un muro contro muro, pro o contro il governo, e non certo in un’analisi ponderata di cosa dice quella riforma.
E questo sarà un male, perché si può anche essere a favore del governo, ed essere critici verso questa o quella misura.

Il crowdfunding all’italiana

Il crowdfunding o finanziamento collettivo, è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni. È una pratica di microfinanziamento dal basso che mobilita persone e risorse.
Esistono molte piattaforme utili per un’attività di questo genere. 
Alcune sono italiane, e tra queste le più note e diffuse sono:


Kapipal fondata da Alberto Falossi nel 2009 e si definisce un sito per raccogliere soldi online. Si tratta di una piattaforma generalista che permette di finanziare qualsiasi progetto e non impone alcuna commissione sui progetti.


Eppela una piattaforma di reward-based crowdfunding fondata nella seconda metà del 2011 da Nicola Lencioni. Permette di finanziarie progetti innovativi e creativi nei campi di arte, tecnologia, cinema, design, musica, fumetto, innovazione sociale, scrittura, moda, no profit.


Starteed è stata fondata a fine 2011 da Claudio Bedino. Aiuta le persone a finanziare le proprie idee grazie al supporto finanziario e sociale della Community di Starteed. La piattaforma integra la campagna di crowdfunding con tutte le fasi successive dello sviluppo e vendita del prodotto, offrendo al creatore la possibilità di vendere il proprio prodotto sulla piattaforma stessa.

Produzioni dal Basso PdB è ritenuta la prima piattaforma di crowdfunding in Italia, fondata nel 2005 da Angelo Rindone. Lo scopo è “offrire uno spazio a tutti coloro che vogliono proporre il proprio progetto attraverso il sistema delle produzioni dal basso.” Produzioni dal basso è gratuita e ogni proposta viene gestita in modo autonomo e senza alcuna intermediazione.


Crowdfunding-Italia è una piattaforma di crowdfunding generalista, nata a ottobre 2012. La registrazione a Crowdfunding-Italia è gratuita e non viene imposta alcuna commissione sui fondi raccolti.


De Revolutione DeRev “consente di trasformare le tue migliori idee in Rivoluzioni allo scopo di migliorare concretamente il mondo in cui viviamo”. Sulla piattaforma vengono ospitate sia campagne di crowdfunding che petizioni e raccolta firme per progetti e iniziative di interesse comune. Fondata da Roberto Esposito, la piattaforma è stata lanciata a novembre 2012.


Com-Unity è un portale Web di proprietà di Banca Interprovinciale Spa lanciato a marzo 2013. Si tratta di una piattaforma generalista di crowdfunding che ospita progetti di qualsiasi tipo con particolare riferimento ad ambiti umanitari, sociali, culturali e scientifici. È composta di tre entità indipendenti: un Comitato Etico, i Tutor e la Banca. Il Comitato Etico valuta i progetti verificandone la liceità, la non contrarietà all’ordine pubblico ed il pieno rispetto delle disposizioni di legge. Il Tutor assiste i progettisti nell’iter relativo alla pubblicazione del progetto e nella raccolta fondi, dopo aver espresso un parere vincolante sulla valenza del progetto e sulla sua fattibilità. La Banca gestisce le somme donate ai singoli progetti a garanzia dei donatori e dei proponenti.


Musicraiser è una piattaforma di crowdfunding reward-based esclusivamente dedicata alla musica. Fondata dal cantante dei Marta Sui Tubi, Giovanni Gulino, e dalla compagna dj e producer Tania Varuni, è stata lanciata a ottobre 2012 e accetta progetti di raccolta fondi per dischi, tour promozionali, videoclip, concerti, festival e tutto ciò che ha a che fare con la musica.


Cineama è una piattaforma (e una community) dedicata al cinema aperta ai professionisti, ai creativi e agli appassionati di cinema e dintorni. La piattaforma – fondata nel 2011 da Tania Innamorati, Federico Bo, Antonio Badalamenti, Fabrizio Mosca e Savina Neirotti – unisce crowdsourcing e crowdfunding, coinvolgendo direttamente i cineamatori nelle fasi di creazione, produzione, promozione e distribuzione di film, documentari, cortometraggi, web serie.


ShinyNote nasce nel 2009 da un’idea di Roberto Basso e Fabrizio Trentin, con il proposito di“soddisfare il bisogno degli individui di trovare uno spazio condiviso di espressione affettiva ed emotiva”. La piattaforma rappresenta uno spazio condiviso tra organizzazioni non profit e semplici cittadini-utenti, nel quale narrare storie più o meno positive di persone comuni e finanziare progetti di solidarietà.


BuonaCausa è un “ethic network dedicato alle buone cause e ai progetti che richiedono sostegno.” La piattaforma consente ad associazioni, testimonial, aziende, donatori e attivisti di collaborare su iniziative e progetti di valore sociale.


Retedeldono è una piattaforma per la raccolta di donazioni a favore di progetti d’utilità sociale ideati e gestiti da organizzazioni non profit. Nata nel 2011 da un’idea di Anna Maria Siccardi e Valeria Vitali, ha l’obiettivo di diffondere in Italia la cultura e la pratica del personal fundraising.


Fund For Culture è un sistema di raccolta fondi per la cultura, che vuole “favorire l’incontro tra chi vuole fare cultura in Italia e chi vuole sostenerla a partire da piccole donazioni.” Il progetto nasce a Napoli a ottobre 2010 da un’idea di Adriana Scuotto e Antonio Scarpati. La piattaforma serve “per finanziare iniziative culturali – come ad esempio mostre, restauri, archivi, pubblicazioni, spettacoli e film – promosse da artisti, associazioni no profit, fondazioni culturali, istituzioni pubbliche.”


Pubblico Bene è un progetto sperimentale di giornalismo d’inchiesta finanziato dai lettori e basato sulla partecipazione di lettori e giornalisti e promuove “un nuovo modello di informazione indipendente, su base locale, ispirato al modello del community funded reporting”.


SiamoSoci è “motore di ricerca che permette agli investitori di trovare aziende di cui comprendono il business”. Le aziende non quotate possono raccogliere capitali da investitori privati per finanziare la crescita, facilitando anche la creazione di “club deals” (investimenti di gruppo) tra investitori con diverse professionalità.


Prestiamoci nasce nel 2010, fondata da Mariano Carozzi, Paolo Galvani e Giovanni Tarditi, e si pone l’obiettivo di promuovere il più possibile lo scambio di denaro tra privati, senza l’intermediazione di banche o altri istituti di credito.


Non vanno dimenticate alcune regole auree per chi si approccia a questo sistema di autofinanziamento in rete.
Ciascuna piattaforma ha una sua tipicità: è essenziale tenerne conto quando si sceglie quale piattaforma utilizzare.
Generalmente a ciascuna piattaforma corrisponde una community: prima di presentare un progetto è bene “ascoltare e osservare”, entrare in punta di piedi e comprendere come funziona e quali sono le idee prima di invitare altri a finanziarci.
Avere le idee chiare non solo di “quanto pensiamo occorra” ma davvero di quanto denaro serva per la nostra idea: raggiungere l’obiettivo e poi non realizzarla è un boomerang imperdonabile.
Esistono molti siti e forum di discussione, spesso linkati all’interno dei siti di funding stesso: leggerli, navigare, studiare non è mai tempo sprecato, anzi spesso è un grande investimento.

La comunicazione manichea

Una delle caratteristiche della comunicazione di massa è che funziona se è efficace. 
Molto spesso questa efficacia viene confusa con semplicità, e altrettanto spesso la semplicità (in sé positiva) viene confusa con semplificazione (che non è sempre positiva).
Il processo di semplificazione può portare alla banalizzazione, alla non argomentazione, e a quale processo fin troppo comune di manicheismo ed etichettamento che la rete ha amplificato.
In realtà questa caratteristica della comunicazione di massa ha origini lontane; è diventata fenomeno comune con i giornali, ed è mutuata da un modello specifico di comunicazione di massa che è quello della propaganda bellica.


Se ne consideriamo le origini e ci fermiamo qualche minuto a rifletterci, abbiamo già la spiegazione a molti fenomeni collaterali: la litigiosità dei dibattiti, la violenza lessicale, la struttura di “scontro” tipica dei luoghi del moderno dibattito, che sono oltre le piazze – i talk-show e i dibattiti, specie quando questi diventano televisivi e massmediali (come certi dibattiti parlamentari).
Quando parliamo di comunicazione bellica non dobbiamo considerare solo il nostro “vicino” novecento e l’età contemporanea, ma cercare di fare un lungo percorso ricco di costanti dai tempi dei romani passando per le crociate, alle prime guerre “tra stati” sino a Napoleone, al Congresso di Vienna (congresso di guerra, più che conferenza di pace) sino alle guerre mondiali e a tutti i conflitti del ‘900, guerra fredda inclusa.


Il principio base della comunicazione legata alla propaganda bellica è il manicheismo. 
Un processo di estrema semplificazione dei rapporti e delle ragioni spesso conditi di vere e proprie menzogne: la controparte deve essere il brutto, il cattivo, la causa della nostra rovina e responsabile dei nostrui mali. Ciò che in definitiva ci legittima ad attaccarlo, un attacco che in realtà è vendetta, giustizia per un torto, finanche legittima difesa, o la neo difesa preventiva.
L’espansione dell’Impero romano nasceva per: difendersi da possibili invasori, difendere le navi dai pirati, proteggere le frontiere, difendersi dalla minaccia al proprio stile di vita, sino a “portare la civiltà” ai popoli barbari.
Le crociate era necessarie per liberare i luoghi santi dagli apostati e infedeli.


La colonizzazione delle americhe era atto di evangelizzazione e civilizzazione.
Le campagne napoleoniche, guerre di liberazione ed esportazione dei valori della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza.
La questione si fa più sottile e la comunicazione si perfeziona con la diffusione della stampa come fenomeno di massa – almeno tra la popolazione scolarizzata (parliamo di una media del 4% della popolazione europea ad esempio e del 2% di quella americana) – che corrispondeva alla classe dirigente che “prendeva le decisioni”.
In Europa la prima guerra mondiale è stata infarcita di revanscismo su tutte le vere o presunte disattese dei popoli in ordine a confini e abbattimento delle monarchie.


La seconda guerra mondiale figlia della prima, con una anche maggiore sofisticazione del messaggio.

La Germania nazista ha creato il mito del “complotto giudaico” con il famoso falso dei saggi di Sion: il popolo ebreo era sostanzialmente la causa di tutti i mali tedeschi. Ma anche polacchi, slavi, nomadi, rom, disabili, neri, omosessuali non scherzavano. Il diverso – genericamente il “non ariano” – era il male, il cattivo, andava eliminato: letteralmente.
Il regime fascista non è stato da meno. In una società tuttavia molto più aperta di quella tedesca l’elemento razziale funzionava meno, meglio un generico “complotto dei poteri forti e delle nazioni plutocratiche” che negavano all’Italia il suo posto nella storia, e i suoi “posti al sole”.
Il regime sovietico – nelle varie vicende tra le interne fazioni che si alternarono in Russia – aleggiò lo spettro dei “padroni”, dello zar, dei capitalisti: ed ogni dissidente (di qualsiasi natura, forma, grado, genere, tipo) in sé era un servo del nemico e una minaccia per l’intero popolo.
La simbologia del “nemico” assume spesso la caratteristica razziale, sostanzialmente perché l’etnicità è un facile elemento di immediata identificazione del soggetto di cui si parla.


Il nero, ma anche l’albanese per la Lega Nord nel 1990. Poi divenne un generico “rom”. Seguì una fase “cinese”, dalla cui economia sregolata e dai prezzi bassi dovevamo difenderci: sono loro i colpevoli della perdita di posti di lavoro al nord. Col tempo un messaggio evolutosi in un generico extracomunitario, meglio se identificato da una caratteristica propria: lingua, colore della pelle, e oggi religione.
Con il web e la diffusione di massa dei social network – e soprattutto con la diffusione di pagine tematiche pubbliche e non e di gruppi aperti, semi aperti e segreti – si è diffuso un nuovo strumento per la diffusione del messaggio manicheo, che a sua volta viene amplificato perché sviluppato all’interno di comunità (irrilevante quando più o meno piccole) di soggetti che la pensano tutti allo steso modo.


Attraverso la mancanza di apertura e di confronto il messaggio, così costruito, è come se si trovasse in una sorta di “camera di implosione”, dove l’onda d’urto rimbalzando tra i membri che ne costituiscono “le pareti”, accelera ed aumenta di intensità.
Ecco che quando “esce all’esterno” i toni di un generico massimalismo, che potrebbero essere facilmente smontati da una corretta argomentazione, sfociano invece in eccessi, anche violenti, di dimensioni spropositate.
Per fortuna ciò è spesso solo limitato a una violenza digitale e verbale, attraverso parole scritte, commenti, cui difficilmente seguono azioni concrete. Ciò tuttavia non elimina il problema e la gravità del fenomeno.


Nel macro, anche il messaggio della comunicazione politica globale non aiuta.
Definizioni come “capo del mondo libero” piuttosto che “stato canaglia” o “alleanza del bene” hanno una origine coesiva di identificazione delle parti. E tuttavia generano le proprie antitesi anche nei luoghi più impensati seguendo lo stesso assioma.
Se il Presidente degli Stati Uniti è il “capo del mondo libero” e io sono un immigrato di terza generazione, ai margini del mondo e senza possibilità di “ascensore sociale” destinato a vivere in un futuro sempre peggiore, e quindi a me quel “mondo libero fa schifo”, allora è chiaro che il mio nemico sono gli Stati Uniti. Anche se vivo fuori Parigi. E se il nemico assoluto degli USA è l’ISIS, allora tendenzialmente ne vado a fare parte.


Certo, anche questo assioma è un manicheismo, e subisce l’effetto di questo eccesso di semplificazione, ma in definitiva nel mondo della comunicazione globalizzata ciò che avviene nella realtà non è molto distante da questo passaggio diretto.
La comunicazione tossica manichea, per quanto efficace, genera efficacia e consenso immediato, ma in definitiva rischia di creare consenso e di generare la sua stessa antitesi. Se da un lato è il colante di chi sta da una parte – che a noi sembra “dei buoni” – contribuisce a creare i luoghi di coesione della sua antitesi, “i cattivi”, anche laddove questi non erano stati altrettanto bravi ed efficaci da creare un proprio luogo di consenso specifico.