Il secondo dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump

Donald Trump aveva due obiettivi per il secondo dibattito presidenziale della notte scorsa: 1) distogliere l’attenzione dalle dichiarazioni registrate del 2005 in cui si vantava della sua capacità di “assaltare” le donne e 2) doveva mantenere la sua base elettorale, e recuperare quanti, nel partito repubblicano, lo avevano abbandonato la settimana scorsa.
Per raggiungere questi obiettivi è tornato alla strategia con cui ha vinto le primarie e ottenuto al nomination, definita dai commentatori politici “carne al sangue” (per qualcuno “carne cruda”).

Prima dell’inizio del dibattito il suo team ha trasmesso un incontro tra Trump e quattro donne che hanno accusato Bill e Hillary Clinton i vari misfatti, tra cui Paula Jones , Kathleen Willey , Juanita Broaddricke Kathy Shelton. Inoltre – dopo un video in cui era apparso imbarazzato e chiedeva scusa per le sue dichiarazioni del 2005 – le ha ridimensionate durante il dibattito a “chiacchiere da spogliatoio da palestra” e “solo parole”.


A parte i primi venti minuti, in cui Trump è apparso sulla difensiva e faticava a trovare un ritmo, il dibattito si è trasformato in un match di wrestling, teatrale e retorico, favorito anche dall’impianto con i candidati in piedi, a microfono mobile e liberi di muoversi.
Trump ha attaccato a mani basse praticamente su tutto, cambiando spesso argomento, senza praticamente mai rispondere nel merito, cercando sempre e solo di svicolare, arrivare ai suoi slogan vincenti, e dimostrare di non essere stato messo all’angolo.
Ha detto che se fosse stato eletto, che avrebbe chiamato per un procuratore speciale per indagare sull’uso da parte della Clinton di mail private quando era Segretario di Stato. Una politicizzazione del Dipartimento di Giustizia che ha ricordato agli analisti più attenti l’ultima spiaggia di Richard Nixon e che ha ricordato al pubblico l’immagine di Kennet Starr che indaga sul caso Clinton-Lewinsky.


La Clinton non è stata così forte come era nel primo dibattito, né forse così determinata.
Immaginava un Trump dimesso e in svantaggio per il calo dei consensi nel suo stesso elettorato, e non ha voluto affondare il colpo in attesa della replica di Trump sugli scandali sessuali del marito Bill. Particolarmente evidente è stato il passaggio in cui ha citato Michelle Obama, “quando lui abbassa il livello, tu innalzalo”, ma che ha evidenziato sostanzialmente una non risposta dell’ex first-lady.


Quanto alla sostanza delle cose dette, anche non essendo direttamente parte della politica e della società americana, il dibattito è stato farcito davvero da tantissime balle. Opinione riscontrata anche dal titolo del resoconto di factcheck.org – sito indipendente che “verifica le affermazioni nei dibattiti pubblici americani” che ha affermato letteralmente: Abbiamo trovato una montagna di dichiarazioni false e fuorvianti.


Il Wall Street Journal ha affermato che Trump “ha trovato il suo passo”. Il New York Times ha detto affermato che Trump era migliore di quanto non fosse nel primo dibattito e che la Clinton peggiore, ma non ha dichiarato un vincitore. 
Un sondaggio della CNN ha rivelato che il 57 per cento degli intervistati ha consegnato il dibattito a Clinton e solo il 34 per cento ha dichiarato Trump vincitore. I bookmakers – vero autorevole player dei sondaggi elettorali – non sono mai stati così certi che la Clinton vincerà le elezioni, aumentando la loro previsione ad una probabilità dell’87 per cento dall’80 di pochi giorni fa.


Come tutti gli show, a quanto pare, anche la campagna per le elezioni presidenziali Usa2016 si deciderà all’ultimo dibattito, a due settimane dal voto, salvo assoluti colpi di scena.
Vanno però segnalate due curiosità.
La prima è la base elettorale: la Clinton con il suo richiamo all’essere uniti cerca – ovviamente – di espandere il suo elettorato a quei repubblicani moderati che non disdegnano una collaborazione tra i due partiti nelle scelte centrali del governo del paese.
Trump, che ha in parte perso l’appoggio repubblicano, e che ha visto lo spettro di una richiesta di ritiro – che dopo il dibattito è poco probabile che ci sarà – ha richiamato più volte l’attenzione su uno zoccolo duro personale, quei 25milioni di follower che lo seguono sui social: un patrimonio suo, personale, che sbaraglia ogni repubblicano candidabile.
La seconda è un articolo fatto davvero molto bene pubblicato dal Washington Post, una sorta di “guida al linguaggio del corpo” durante i dibattiti elettorali, che integra le molte cose scritte e valutate dagli analisti ed offre qualche elemento in più – utile anche per noi e per la politica di casa nostra, nell’osservare i politici mentre cercano di guadagnarsi il consenso attraverso lo strumento televisivo.

Quanto è grande il web

La percezione che abbiamo del web, della sua grandezza, dei siti “che contano”, della rilevanza dei contenuti, è basata essenzialmente su “ciò che noi vediamo”.
Quando parliamo di web, in altre parole, è come se facessimo una sineddoche della rete: riteniamo che “quella parte” che noi osserviamo, su cui navighiamo, che ci interessa, sia anche “il tutto”, ovvero non solo quello che riteniamo noi, i nostri concittadini, i nostri co-linguisti, i nostri “simili occidentali”, riteniamo rilevante.
Siamo finanche portati a pensare che il web sia un fenomeno prettamente occidentale, riservato a noi “che abbiamo la libertà”, e che in fondo – per quanto potenzialmente numerosi – “gli altri” abbiano poco a che fare con la rete. Se non (semmai) in quei casi in i cui colossi cinesi delle vendite online “stanno in rete”, e anche in questo caso, secondo noi, in una chiave tutta rivolta a consumatori e cittadini occidentali.
Infine – e on è di poco conto – consideriamo la nostra rete più libera, trasparente, finanche sicura, e a prova di privacy.
Questa percezione però, è vera?


Intanto in termini quantitativi assolutamente no.
Tra i primi 25 siti internet visitati al mondo, ben 8 sono cinesi e 2 russi. Tra i primi 50, 20 non sono occidentali.
Mentre tuttavia quasi un 30% dei navigatori dei primi 15 siti occidentali (per esempio Google, Youtube, Bing) sono russi, cinesi, indiani, gli utenti degli otto siti cinesi e due russi sono praticamente solo locali.
Questo significa che mentre “loro conoscono noi”, noi sappiamo ben poco on solo di loro, ma anche delle sintassi, della rilevanza, dell’informazione e dell’interazione “made in Asia”. Anche se quello per noi è il mercato più grande, ed anche se noi siamo “il loro mercato di riferimento”, ed anche se rappresentano la metà della popolazione mondiale.


Il web russo e cinese, in particolare, è certamente “molto controllato”, esistono filtri e software di mappatura che lasciano molto poco spazio alla privacy. Se questo è vero va anche ricordato che mentre quello è un controllo “governativo” – che spesso da risultati anche nella lotta alla corruzione, alla criminalità, al terrorismo – quello che viviamo noi, silente, e nella nostra inconsapevole corresponsabilità, è una appropriazione, archiviazione, manipolazione, gestione e rivendita sistematica dei nostri dati da parte di aziende private, e non solo per fare business e scegliere per noi le inserzioni che vediamo e le notizie che dobbiamo leggere.


Tra le convinzioni da sfatare per esempio c’è quella secondo cui “i siti delle nostre aziende sono più sicuri per i consumatori”.
Da noi eventuali condanne per condotta scorretta da parte di un’azienda sarebbero coperte da privacy, accordi di riservatezza, sepolti da azioni di comunicazione… e informazioni negative sulle nostre aziende sarebbero difficili da trovare, in quella che consideriamo “una rete trasparente e publica”.
In Cina ogni sito internet si chiude con molti link “istituzionali”.


Questo è il footer di sohu.com – 24° sito per traffico al mondo, ottavo in Cina.


Quanto è grande il web


Questo è il footer di sina.com.com – 18° sito mondiale e quinto in Cina.


Quanto è grande il web


Infine questo è QQ.com – 8° sito mondiale e secondo in Cina.


Quanto è grande il web


Francamente non so quanti siti occidentali sarebbero disposti a mettere in così chiara evidenza tanti link “di trasparenza” sul proprio operato. Tra questi addirittura uno diretto alla “polizia postale” per denunciare eventuali frodi o contenuti illeciti.


Tra i vari link è interessante “monitoring di rete”.
Cliccando su quel link si accede a tutta una serie di informazioni immediate, tra cui tutti i dati sul titolare del sito, l’amministrazione, la capitalizzazione, i contatti, un form per reclami e segnalazioni ad un’autorità terza.
Ma c’è un link ancora più sorprendente – anche perché si raggiunge con estrema facilità – ed è questo
dove nelle “informazioni finanziarie”, oltre a nomi e cognomi degli azionisti con le rispettive quote di partecipazione, controvalore in Yuan, incarichi aziendali, seguono tutte le sanzioni e multe e cause legali intentate da consumatori e aziende (nel caso specifico per violazioni sulle norme di pubblicità e concorrenza).


Ci sono profonde differenze nel web, e qualche volta potrebbe essere davvero utile “fare un giro” fuori da quello che – secondo la nostra percezione – è tutto il web.
Certo, non tutto ci piacerà, dalla grafica a una certa aggressività di notizie e pubblicità, e certamente molte cose non incontrano il nostro “gusto occidentale”.
Però potrebbe anche accadere che potremmo farci venire qualche buona idea, ad esempio in termini di pubblicità e trasparenza, anche made in Cina.
Non so quante aziende avrebbero piacere a vedere online immediatamente raggiungibile una scheda come quella su QQ.com, ma credo che per i consumatori si, sarebbe utile e davvero trasparente. Forse molte delle nostre scelte cambierebbero.

Cosa c’è stato di interessante nel dibattito tra la Clinton e Trump?

Il dibattito Clinton-Trump si è appena concluso e fa ancora parlare di sé.
Un grande show televisivo – prima di tutto – che nelle passate edizioni aveva perso il suo smalto, e non solo perché i risultati erano apparsi scontati.
Negli Stati Uniti se ne è parlato nei giorni precedenti, anche ampiamente, mentre gli osservatori europei hanno dato ben poco rilievo alla prima, vera, grande novità di questa “edizione”: gli staff dei candidati per la prima volta si erano messi d’accordo “prima” solo su pochissime regole: la durata dei “blocchi” di argomenti, gli “stack” di tempo per risposte e repliche, temperatura e luci della sala (perché si, anche questo conta, e parecchio, specie se si parla al 100% degli analisti, al 30% della popolazione, e praticamente al 70% dell’elettorato).
Questa “mancanza di accordo” ha fatto sì che innanzitutto lo spettacolo fosse percepito – e in realtà lo è stato – autentico, non preconfezionato, e come “una cosa da vedere” perché ci si potevano aspettare colpi di scena.


La politica americana – definita molto spesso “politica spettacolo” – ha visto a fasi alterne ritenere che questa spettacolarizzazione in fondo “fosse a vantaggio della televisione” o altre in cui “fosse a tutto vantaggio della politica”.
In realtà ma i come in questo caso, ed in questo dibattito anche di più, il vantaggio è stato (ciascuno per la propria parte) del tutto paritetico.
La televisione ha avuto il suo show, il suo spettacolo di 90 minuti con “contendenti veri” e colpi di scena, ha promosso se stessa come “massimo media” capaci di raggiungere la popolazione, ha creato “contenuti” su cui si discute e discuterà, non ha deluso le aspettative del pubblico, ed ha creato certamente attesa per i prossimi appuntamenti (i due presidenziali e il confronto tra i vice).
La politica ha suscitato interesse ed attenzione (anche se nella sua forma di spettacolo) in un periodo storico in cui il vero problema è “stimolare la partecipazione”, che in America è ai minimi storici da quando esiste il suffragio universale perché l’offerta politica appare scontata e piatta e on innovativa, quando spesso non rispondente alle esigenze dei tempi. I candidati hanno avuto “il loro modo” per arrivare agli elettori, e semmai la chance di proporsi in modo differente.


Se i nostri analisti sono concordi nell’assegnare la vittoria a Hillary Clinton ciò è dovuto essenzialmente alla nostra sensibilità, e non certo a come sia andato davvero il dibattito.
Questo perché – e non dobbiamo dimenticarlo – Clinton e Trump non si candidano a leadership europee, ma a diventare presidenti del “popolo americano”.
Se la vediamo sotto il profilo di mercato, la loro è un’offerta politica che prima di tutto deve essere “acquistata” da quel mercato elettorale, e i due candidati lo sapevano bene, anche in tutte quelle risposte e quel modo di confrontarsi che sono ben lontane dalle nostre sensibilità ed aspettative.
In questo senso va anche chiarito che essendo il primo dei tre dibattiti obiettivo dei candidati non era solo quello di vincere ma soprattutto quello di consolidare il proprio elettorato e lanciare parole chiave per le prossime settimane di campagna elettorale e “mettere in campo argomenti” su cui fare campagna e suscitare dibattito tra una sfida televisiva e l’altra.


Se la vediamo quindi nei termini di questi obiettivi, sia la Clinton che Trump li hanno raggiunti, e in numerosi e sparsi passaggi.
Trump è stato estremamente efficace nel confermare il suo personaggio, nel comunicare energia, nel “vendere” se stesso come il cambiamento, nel collocarsi (anche visivamente) come un leader capace di “dominare” la scena.
Ha attaccato la Clinton essenzialmente su due punti: il suo passato politico, presentandola come “inconcludente”, ricordando agli americani circa trent’anni da first lady, senatrice e infine nel governo come Segretario di Stato, con due momenti di massima efficacia, quando ha chiesto un solo esempio di un accordo internazionale di cui fosse orgogliosa e quando ha cercato di far sì che la Clinton criticasse Obama; “politico tipico” quindi e “inconcludente”.
La Clinton è stata estremamente efficace nel presentare se stessa come leader politico, come “donna di Stato”, come persona di esperienza capace di assolvere al ruolo di leadership, con il momento di maggiore efficacia sul blocco relativo alla politica estera, dove è riuscita ad evidenziare tutta l’impreparazione e inadeguatezza di Trump e la “pericolosità” delle sue posizioni.
Ha attaccato Trump su punti importanti, riuscendone a scalfire alcuni suoi punti di forza, in primis “l’essere imprenditore fatto da sé”.


Il passaggio non è da poco visto come Trump presenta se stesso, è il fuoco incrociato sulla sua attività imprenditoriale, con elementi che probabilmente noi, e gli americani, abbiamo sentito per la prima volta, e che certamente faranno discutere e approfondire, e che costituiscono il vero “colpo di scena che tutti attendevano, e che tra l’altro ha mostrato una Clinton forte, battagliera ed aggressiva, un po’ fuori dal suo personaggio (e la cosa è stata gradita sia dal pubblico televisivo che dagli elettori).
1. Trump non si è fatto da sé né sul nulla, ma con 14milioni del padre
2. è stato ben cinque volte sull’orlo della bancarotta
3. si è salvato solo grazie a scappatoie legali che facilitano i ricchi
4. non mostra la dichiarazione dei redditi perché si mostrerebbe meno caritatevole di quello che vuole apparire
5. non mostra la dichiarazione dei redditi perché si mostrerebbe meno ricco di quello che vuole apparire e di avere molti debiti che non vuole far conoscere
6. non mostra la dichiarazione dei redditi perché non paga l’imposta federale sul reddito
7. ha beneficiato della e lucrato sulla crisi immobiliare in cui gli americani ha perso moltissimo
8. non paga e non ha pagato le persone che hanno lavorato per lui
ed a tutte queste accuse Trump non solo evidentemente non era preparato, ma ha replicato sostanzialmente ammettendo tutto, dicendo in sostanza che “se esistono leggi e scappatoie legali lui ne ha usufruito legittimamente” che è un imprenditore e come tale “lucra dove può” e che non ha pagato le tasse federali perché “sarebbero stati soldi gettati al vento”.
Tutte cose che mal digerisce un popolo come quello americano, anche da un politico “normale”, immaginiamo da un presidente.
Con l’affondo finale – per noi europei non così forte come suona alle orecchie USA – ovvero non aver fatto donazioni per ospedali pediatrici o per i veterani. Su cui non una parola di replica.


E tuttavia anche Trump non ha risparmiato affondi non indifferenti, sempre per le orecchie del pubblico televisivo e per quelle dell’elettore medio americano:
1. l’accordo sull’Iran
2. l’accordo commerciale con il Messico
3. l’accordo con l’Europa
4. non un’azione di contrasto alla politica commerciale cinese
5. non aver fatto nulla per compere sul fronte cyber-informatico con Russia e Cina
6. non aver fatto nulla contro l’ISIS quando questa era agli albori, anzi averla fatta crescere sino ad essere presente in 30 stati.
Tutte accuse su cui la Clinton ha replicato poco e spesso male, e su cui si fondavano due elementi centrali della campagna di Trump: l’orgoglio dell’essere di nuovo grandi, e – in politica economica interna – la riconquista dei posti di lavoro persi a favore di paesi come Messico e Cina.


In secondo piano, anche se molto appetibili dalla cornice di gossip politico, le accuse di sessismo e si disparità razziale verso Trump, così come la risposta sul tema dello scontro sociale spesso etnico-razziale nelle città americane, sul quale dalla Clinton ci si aspettava molto di più e su cui invece Trump è risultato meno fumoso.


Gli analisti ed editorialisti americani hanno tutti, o quasi, assegnato una vittoria ai punti alla Clinton, mentre per i corrispondenti e analisti esteri la sua è stata una vittoria schiacciante.
Ma quali sono i dati fondamentali della percezione politica degli americani da cui partire, e sulle cui basi si sono espressi i candidati?
Un sondaggio Reuters / Ipsos polling mostra un elettorato in uno stato d’animo depresso, con il 64 per cento degli americani che ritiene che il paese sia sulla strada sbagliata. Questo numero comprende 87 per cento dei repubblicani e il 44 per cento dei democratici.
Un sondaggio Reuters / Ipsos pubblicato lunedì ha rilevato che circa la metà di tutti gli elettori probabili negli Stati Uniti stavano attendendo il dibattito per essere aiutati a prendere una decisione definitiva.
Quando Reuters ha chiesto agli elettori di scegliere la prima parola che veniva in mente quando pensavano al loro paese, la scelta più popolare è stata “frustrazione”, seguita da “paura” e “rabbia”.
È dunque a questo elettorato – e non agli europei o agli addetti ai lavori – che era indirizzato il messaggio dei due candidati.


Se lo osserviamo su questa base di analisi Trump non solo non ha perso, ma ha anche rassicurato la “base ricca” del suo elettorato affermando che “sul solare abbiamo perso molti soldi e che il nemico non è il carbone” strizzando l’occhio a tea-party e fratelli Koch (che a gennaio avevo dichiarato che avrebbero investito quasi 900 milioni di dollari a favore dei candidati repubblicani).
Il suo messaggio di “uomo nuovo” e indipendente, forte e deciso, con un progetto in mente, è passato, così come il voler parlare alle centinaia di migliaia di persone che hanno perso il lavoro per la estero-localizzazione delle fabbriche manifatturiere.


Sempre sulla stessa base la Clinton è apparsa più battagliera e meno “secchiona” delle altre occasioni, più aggressiva sul piano personale, più decisa e determinata nel vincere – e quindi non più un fatto scontato, come invece era stato sinora il suo messaggio.
Ha mostrato più preparazione, più adeguatezza (perfetto il passaggio “voglio rivolgermi ai nostri alleati in tutto il mondo e rassicurarli…”)
Il suo è un appuntamento con la storia: prima first lady e prima donna presidente, e per la prima volta si è mostrata determinata a raggiungere con grinta questo obiettivo che molti vorrebbero nel palmares di Michelle Obama.


Sono questi i due messaggi “subliminali” che non vengono ancora registrati nei sondaggi, che dichiarano ancora un testa a testa percentuale. Ma sono anche i messaggi che vanno sedimentati e che probabilmente si scioglieranno solo nella cabina elettorale.
Quanto conterà che “la Clinton è la vecchia politica” e che Trump “non è adeguato in politica estera”? Quanto che la Clinton è corresponsabile di molti accordi commerciali che hanno fatto perdere lavoro manifatturiero? Quanto che Trump è parte di quel sistema – e punta a tutelarlo – di super ricchi che non pagano tasse e speculano anche sulle crisi finanziarie?
Un ruolo chiave per convincere l’elettorato su questi argomenti sarà come editorialisti e politici declineranno questi temi nelle prossime settimane. E l’idea che se ne faranno gli americani, che non sempre lo dichiarano nei sondaggi politici.

Chi era Shimon Peres?

Shimon Peres è scomparso oggi, all’età di 93 anni, per la quasi totalità passati al servizio dello Stato di Israele, di cui fu tra i grandi padri fondatori.
Uomo di Stato di assoluto primo piano mondiale, come tutti i protagonisti indiscussi della storia ha fatto e fa discutere.
Shimon Peres è nato a Višneva, o Vishnievo, un paesino bielorusso, quando questa città apparteneva ancora alla Polonia. Il padre emigrò nel 1932 in Palestina e la sua famiglia lo seguì nel 1934, insediandosi a Tel Aviv cinque anni prima dell’occupazione della Polonia da parte dei nazisti.
Peres ha trascorso diversi anni nei kibbutz e venne scelto da Levi Eshkol tra gli organizzatori del movimento giovanile laburista e nel 1943 ne venne eletto Segretario e fu delegato nel 1946 al 22º Congresso Mondiale Sionista dove incontrò David Ben-Gurion.
Nel 1947 fu arruolato nell’Haganah (nucleo delle future Forze di Difesa Israeliane) e nominato responsabile per il personale e l’acquisto delle armi. Nel 1948 divenne capo della marina durante la guerra di indipendenza del nuovo Stato israeliano. Alla fine della guerra diventò direttore della delegazione del Ministero della Difesa negli Stati Uniti dove studiò alla New York School for Social Research e ad Harvard.


Dopo che Golda Meir aveva dato le dimissioni da Primo Ministro nel 1974 a causa delle conseguenze della Guerra del Kippur, Peres ebbe la prima possibilità di candidarsi come Premier, ma si trovò di fronte come rivale Yitzhak Rabin, collega di partito, ma eterno avversario nella leadership del Partito Laburista. Peres, in questa occasione, perse per 298 voti a 254 ma ottenne la carica di Ministro della Difesa. All’inizio del 1981, Israele incominciò a soffrire di un’inflazione incontrollata a causa della guerra in Libano voluta da Ariel Sharon. Alle elezioni del 1984 Peres divenne Primo Ministro, ma, nonostante la maggioranza ricevuta dalle urne e a causa della grave situazione economica, si costituì una coalizione di governo formata dal Partito Laburista, dal partito avversario Likud di Yitzhak Shamir e da altri partiti minori. Peres dovette quindi alternarsi alla carica con il suo avversario: restò al potere fino al 1986
Nel 1986, divenne Ministro degli Esteri prima e Ministro delle Finanze poi, nel 1988. Nel 1990 lasciò col suo partito la coalizione di governo dopo aver fallito nel tentativo di formare una nuova coalizione di minore portata con il Partito Laburista, con alcuni piccoli gruppi di sinistra e col partito Haredi. Nel governo di unità nazionale (1988-1990) Peres fu Vice Premier e Ministro delle Finanze. Nel periodo 1990-1992, guidò l’opposizione nella Knesset.


Nel 1992 Peres venne sconfitto (di nuovo) alle prime elezioni primarie nella storia del Partito Laburista da Yitzhak Rabin che poi vinse le elezioni come Premier mentre Peres venne nominato Ministro degli Esteri dal 1992. Come era accaduto in passato, anche questa volta Peres sostituì il suo avversario di partito, succedendogli brevemente dopo l’assassinio nel 1995.
Nel 1994, in seguito agli Accordi di Oslo, Shimon Peres raggiunse l’apice della sua carriera politica e gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. È rimasto difensore deciso degli Accordi e dell’Autorità Palestinese dopo l’inizio delle due Intifada quando sostenne la politica di Ariel Sharon di usare le forze armate israeliane per contrastare la guerriglia palestinese e per sradicarne l’infrastruttura politica e militare.
Il 13 giugno 2007 è stato eletto presidente dello Stato di Israele, con 86 voti a favore e 23 contrari al secondo scrutinio come unico candidato.


Tra le pagine “più oscure” e di certo meno edificanti alcuni ricordano che tra il 1953 e il 1965, Peres ha servito prima come direttore generale del ministero della difesa di Israele e poi come vice ministro della difesa. Proprio per queste sue responsabilità Peres è stato descritto come “l’architetto del programma di armamento nucleare israeliano” che, fino ad oggi, “rimane al di fuori del controllo dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA).”
Nel 1975 Peres ha incontrato il Ministro della Difesa sudafricano Botha e da documenti non più segretati pare abbia offerto di vendere testate nucleari al regime dell’apartheid. 
Nel 1986, Peres ha autorizzato l’operazione del Mossad che ha visto il rapimento a Roma del whistle-blower nucleare Mordechai Vanunu, colui che ha rivelato l’esistenza del progetto nucleare israeliano e il fatto che Israele avesse “la bomba”.
Peres ha avuto un ruolo chiave nel regime militare imposto ai cittadini palestinesi fino al 1966, in base al quale le autorità israeliane hanno effettuato confische massicce di terre palestinesi e il loro “spostamento” di massa.


Uno degli strumenti adottati è l’articolo 125 che ha permesso di dichiarare terre palestinesi “zona militare chiusa” e negato l’accesso ai proprietari; la terra sarebbe poi stata confiscata come “incolta”. Peres ha lodato l’articolo 125 come mezzo per “continuare direttamente la lotta per l’insediamento ebraico e l’immigrazione ebraica.”
Un altro dei compiti Peres in qualità di direttore generale del ministero della difesa è stato quello di ebraicizzare la Galilea; vale a dire perseguire politiche volte a ridurre proporzionalmente la regione dei cittadini palestinesi.
Come primo ministro nel 1996, Peres ha ordinato e supervisionato “Operation Grapes of Wrath” quando le forze armate israeliane hanno ucciso 154 civili in Libano e ferito altri 351. L’operazione, ampiamente ritenuta una dimostrazione di forza pre-elettorale, ha visto civili libanesi intenzionalmente presi di mira.
Secondo un funzionario israeliano dell’Air Force, l’operazione è stata un “massiccio bombardamento dei villaggi sciiti nel Libano meridionale, al fine di provocare un flusso di civili a nord, verso Beirut, mettendo così sotto pressione la Siria e il Libano per trattare con Hezbollah “.


L’episodio più noto della campagna è stato il massacro di Qana, quando Israele ha bombardato un compound delle Nazioni Unite e ha ucciso 106 civili che vi avevano trovato rifugio. Un rapporto delle Nazioni Unite ha ha dichiarato che, contrariamente alle smentite di Israele, è “improbabile” che il bombardamento “sia stato il risultato di errori tecnici e/o procedurali.”
Più tardi, artiglieri israeliani hanno dichiarato alla televisione israeliana che non avevano nessun rimpianto per il massacro, e che i morti erano “solo un gruppo di arabi”. Per quanto riguarda Peres, su questi fatto ha dichiarato “Tutto è stato fatto secondo una logica chiara e in modo responsabile”.
Chemi Shalev, uno dei più seri corrispondenti e opinionisti israeliani ha scritto su Haaretz: “Friedrich Nietzsche ha fornito la formula che era l’essenza della lunga e notevole vita di Shimon Peres “Una vita è proficua solo a costo di essere ricca di contraddizioni; si rimane giovani solo a condizione che l’anima non si rilassi, non molto per la pace “, come se egli fosse intimamente a conoscenza della complessità del futuro leader israeliano.”
E nel suo ricordo ha detto “Peres era Israele, dall’inizio alla fine, ma non è mai stato pienamente accettato come un israeliano. Nella sua vita è stato spesso visto come un estraneo e nella sua morte, egli è raffigurato come un’apparizione dal cielo. Peres ha vissuto in Israele per 82 dei suoi 93 anni, ma non ha mai visto le cose come un israeliano. Era un uomo di mondo in un paese che vede solo se stesso, un attore razionale in una fase in cui le emozioni fanno da padrone.” 
E ancora “Nei suoi ultimi anni, Peres era la foglia di fico di Israele. Era l’Israele che tutti volevano che fosse, piuttosto che il paese che è in realtà. Ha mostrato un innovativo, lungimirante, paese cosmopolita in cerca di pace, un Israele membro in regola nella comunità internazionale, un faro sulle nazioni piuttosto che un occupante recalcitrante dei palestinesi. E ‘stato incompreso e minato, dai politici israeliani così come dai leader ebrei americani, quando aveva bisogno di aiuto ed era in grado di fare la storia; è stato abbracciato e posto su un piedistallo solo quando non ha fatto alcuna differenza.”


Cosa dice la riforma dell’editoria e dell’informazione?

Questo è il quadro del mondo dell’informazione in cui ci troviamo. [Il nuovo mondo dell’informazione]
E in questo quadro si inserisce il progetto di riforma del governo, che riguarda l’intero settore.


Rampi (relatore della legge delega) concorda con la necessità di « arrivare in fretta all’approvazione perché è una legge che il settore, fortemente provato dalla crisi, aspetta da anni. Crediamo di aver svolto un bel lavoro, arrivando a un testo che riguarda tutto il sistema: dalle agenzie ai piccoli e grandi editori, oltre alle tv e al sistema di distribuzione».
Anche in considerazione del fatto che ci sono alcune scadenze, in particolare per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti, oggetto di una nuova disciplina e per promulgare i decreti attuativi in materia di assegnazione dei contributi: «Il governo ha otto mesi di tempo per i decreti attuativi, ma – avverte Rampi – bisognerebbe fare in fretta e tentare di approvarli entro la fine dell’anno».


L’art. 1 istituisce il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, con le risorse statali già destinate all’editoria e all’emittenza locale, con un contributo di solidarietà a carico delle società concessionarie di raccolta pubblicitaria e per una parte, fino a un massimo di cento milioni, dalle maggiori entrate del canone Rai. Sono ammesse al finanziamento le cooperative di giornalisti, gli enti senza fini di lucro, le imprese editrici espressione delle minoranze linguistiche, i periodici per non vedenti, le associazioni per i consumatori, i giornali in lingua italiana diffusi all’estero.


In sostanza – sempre tenendo conto del quadro descritto – la legge di riforma dell’editoria periodica non mette un euro in più per finanziare né l’editoria in sé (poco male) né per traghettare un settore fondamentale come quello dell’informazione verso “innovazione e pluralismo”.
Quello che fa semmai è spostare risorse in un unico fondo, cogestito per competenze tra MEF e Presidenza del Consiglio.
Questo fondo avrà meno risorse provenienti dalla fiscalità generale e più risorse dirette, ad esempio tramite “maggiori entrate del canone Rai”.
Intanto, come aveva già chiarito Festuccia su La Stampa, chi pensava che con la riforma del sistema di pagamento del canone (tendenzialmente verso l’evasione zero) sarebbero arrivate più risorse al servizio pubblico si sbaglia di grosso. Ma va anche ricordato che quelle risorse sono tecnicamente già impegnate.
“La legge di stabilità, infatti, “consegnata” dal governo ai senatori di Palazzo Madama sancisce che del gettito recuperato dall’evasione del canone Rai nelle casse di viale Mazzini non entrerà nemmeno un euro. Neanche un soldo degli oltre 450milioni stimati dal recupero dell’imposta nelle bolletta elettrica. La manovra finanziaria per il 2016 prevede, infatti, (articolo 10, comma 8) che le eventuali maggiori entrate rispetto alle previsioni di bilancio (circa un miliardo 730milioni) andranno in un apposito fondo dello Stato per la riduzione della pressione fiscale.”


In relazione sempre al canone va citato anche quanto ha ricordato Beppe Lopez sul Fatto “il ricavato del canone va sì, in effetti, alla Rai ma solo in base a una ripartizione del monte-risorse complessive del settore – determinata dalle normative ad personam, a cominciare dalla Gasparri – che consente a Mediaset di incassare tutta la pubblicità che vuole e può, e alla Rai appunto di incassare il canone e, con un tetto, la pubblicità. In sostanza, il canone va così al ‘sistema’ e, indirettamente, anche agli altri soggetti del sistema, a cominciare da Mediaset, che non a caso ha sempre registrato ricavi (con la pubblicità) complessivamente equivalenti quando più alti di quelli complessivi della Rai (canone più pubblicità). Anche nel 2012 Mediaset si è così accaparrato il 63% dell’intero mercato pubblicitario televisivo, vale a dire miliardi 2,048 e la Rai solo il 21%, vale a dire 680 milioni. Situazione che prevede, appunto, che ad essa vada in compenso il miliardo e mezzo annuale del canone. Con tutto questo non si vuol dire che il canone sia bello e giusto. O che la Rai sia il migliore dei servizi pubblici radiotelevisivi. Ma più semplicemente, perché si sappia e si tenga presente, che con quel canone non paghiamo solo per la ricezione dei programmi Rai ma ci abboniamo ‘alla televisione’ nel suo complesso, e che di esso ha beneficiato in tutti questi anni e continua a beneficiare di fatto la Tv di Berlusconi.”
Va anche ricordato che il canone non è un fondo che la Rai può utilizzare come liberamente crede; tra gli obblighi di legge deve finanziare prodotti audiovisivi e cinematografia nazionale, e negli anni ha creato quell’infrastruttura di ponti e ripetitori che – in quanto servizio pubblico – deve offrire sul mercato anche ai suoi concorrenti.
Decisamente un bel risparmio per loro: pagare a RaiWay un piccolo canone invece di dover sostenere ex novo un enorme investimento infrastrutturale e doverne anche pagare i costi di manutenzione e aggiornamento.


Quindi, da una “epocale legge di riforma” dell’editoria e dell’informazione, forse la prima cosa che manca davvero è una riforma radicale di un sistema che non sta in piedi, ed in cui la Rai viene penalizzata non potendo essere “libera di operare sul mercato” e in cui non potrà beneficiare di un solo euro dell’evasione recuperata.
E forse in questo senso va anche il tetto massimo degli stipendi ai dirigenti. Se la Rai deve competere con Mediaset e Sky verrebbe da chiedersi i loro dirigenti, omologhi per ruolo, quanto guadagnino, perché mettere un tetto è un sistema “grazioso” per allontanare chi produce e vale di più verso il sistema privato. Semmai ben altro sarebbe stato chiedere ai dirigenti “altrettanta produttività”, esattamente secondo i parametri delle concorrenti private.


Va infine menzionato un punto presente nella delega, ovvero che il finanziamento non potrà essere superiore al 50% dei ricavi. Premesso che parliamo di un settore in crisi, e che i finanziamenti dovrebbero andare a cooperative e soggetti no-profit, se consideriamo che sino al 2015 il parametro erano i costi, tecnicamente si tratta di dimezzare il contributo. Il che può anche essere una scelta politica ed economica – basta dichiararlo – ma mal si concilia con il concetto di “fondo per l’innovazione”, che invece dovrebbe prevedere un contributo specifico a questo scopo, e non parametrato secondo criteri “non di scopo”.
Peggio se parliamo di fondo “per il pluralismo”. Dimezzare il contributo ai piccoli giornali di fatto significa avvantaggiare i grandi gruppi, che nella peggiore delle ipotesi potranno acquisire testate locali a prezzi di saldo, nella migliore faranno fuori gratis ogni possibile concorrenza sul territorio.


Tutto questo sul solo articolo 1. 
Perché di fatto i restanti articoli sono deleghe al Governo – nello specifico Luca Lotti che ha la delega per materia – a presentare un disegno di legge “per ridefinire la disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria e dell’emittenza locale, per riordinare la disciplina pensionistica dei giornalisti, che dovrà allinearsi con la disciplina generale, e per razionalizzare composizione e competenze del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti.” (art 2).
L’art. 3, detta disposizioni per il riordino dei contributi alle imprese editrici; l’art. 4 introduce un riferimento all’equo compenso dei giornalisti; l’art.5 punisce l’esercizio abusivo della professione di giornalista; l’art. 6 detta nuove disposizioni per la vendita dei giornali, prevedendo la liberalizzazione degli orari e dei punti vendita.


In pratica ridefinire la disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria e dell’emittenza locale, significa una nuova regolamentazione del fondo di cui all’art.1. Semmai prevedendo un contributo a scalare nel tempo e finanziando la digitalizzazione. Quindi più fondi al web di cooperative di giornalisti ed enti senza fini di lucro.
In pratica riordinare la disciplina pensionistica dei giornalisti, che dovra’ allinearsi con la disciplina generale, significa un’insieme di norme che – di fatto – dovrebbe portare non solo a uniformare le età di pensionamento ma anche i modi e le forme e l’entità delle pensioni, sino all’incorporazione dell’INPGI in INPS. Almeno, questo potrebbe essere, e dipenderà dal disegno di legge.
Infine razionalizzare composizione e competenze del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti.
E qui non si comprende bene in che modo un Governo possa entrare nel merito di “quanti” (e quindi quali) e in che modo, forma e percentuali debbano essere i membri del consiglio di un ordine professionale autonomo. Né si comprende se sia prevista o in previsione un’attribuzione di poteri sanzionatori “veri” nei confronti delle violazioni – ad esempio – del codice deontologico, nè quali ripercussioni e valenza giuridica queste sanzioni possano avere.
E mentre l’articolo 6 sostanzialmente parla delle edicole, ma niente dice su realtà in cui di fatto la distribuzione intermedia (tra distributore nazione ed edicole) è in regime di monopolio. Peggio, non interviene nemmeno per riordinare tutte le “clausole transitorie” e le sperimentazioni diffusionali che si sono accumulate in quarant’anni.
Questo significa che si, l’edicolante può avere orari più flessibili, ma continuerà ad essere obbligato a “acquistare comunque” un tot di copie dei grandi giornali (anche se non le vende), dovrà comunque – se vuole gli allegati – pagarli tutti senza reso, dovrà accettare localmente che il distributore unico gli imponga di fatto fatturati minimi sugli editori “che dice lui”, eccetera.
E questo a discapito del pluralismo, dell’informazione, e della condizione per cui tutti dovrebbero essere messi nelle stesse condizioni di competere.


Il migliore articolo resta il 5.
Art. 5.(Esercizio della professione di giornalista)
1. L’articolo 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, è sostituito dal seguente:
«Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave».
Ora, passi “l’attribuirsi il titolo”, ma nel 2016, nell’era del web, in questo tempo in cui tutti di fatto sono “creatori di contenuti” e le piattaforme social sono di fatto “strumenti di pubblicazione e diffusione di contenuti”, e in un tempo in cui puoi aprire un blog e aggiornarlo tutti i giorni, gratis e in pochi click (e qualche volta anche nel più completo anonimato) esattamente la legge cosa intende per “esercitare la professione di giornalista”.
Significa che se scrivo su un giornale, se pubblico su un sito che è registrato come testata periodica online, ove mai venissi pagato, starei esercitando abusivamente la professione di giornalista, per il solo fatto di non essere iscritto all’Ordine?
Vorrei capirlo, e saperlo, perché questa è praticamente l’unica norma in approvazione definitiva, che non attende la legge delega, e non attende regolamenti attuativi.

Il nuovo mondo dell’informazione

Quella cui stiamo assistendo, non sempre consapevolmente e spesso in modo frammentato, è una vera e propria trasformazione strutturale del giornalismo e del mondo dell’informazione nel nostro Paese. Ma in pochi – anche tra gli addetti ai lavori – se ne sono accorti.
Partiamo da alcune notizie frammentate, apparentemente senza alcun legame diretto.


Il gruppo Repubblica-Espresso si fonde con La Stampa- Secolo XIX. Nasce il più grande gruppo editoriale italiano con radio, siti web e vere e proprie tv online i cui contenuti, nel tempo, spesso superano le audience televisive.
Il Corriere della Sera passa di mano. Dallo storico gruppo di controllo del mondo industriale milanese ad un “editore puro” del mondo dei periodici, a forte vocazione pubblicitaria, proprietario anche di una rete televisiva, La7, che compete ormai alla pari sui contenuti con Rai e Mediaset.
Qualche anno fa la prima grande ristrutturazione della carta stampata aveva visto mettere insieme in QN testate storiche Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno sono ora identici, cambiando solo la testata. L’edizione locale è in un fascicolo interno. Il rapporto tra edizione locale ed edizione nazionale è ribaltato.
Sin qui le concentrazioni, che parlano di riorganizzazione. Ma che parlano anche di un’editoria consapevole di non poter essere più “strumento di potere e di pressione” di qualche gruppo industriale. Che parlano di un’editoria alla ricerca di una strada industriale autonoma, quasi come nel resto del mondo. Concentrazioni che in fin dei conti ci raccontano che quel mondo frastagliato di piccole testate auto-referenti, in un’area linguistica piccola come l’Italia e in cui si legge pochissimo, non avevano ragion d’essere. Tutto questo ha pro, ma anche moltissimi contro in termini di libertà di stampa, di pluralismo dell’informazione, di informazione locale, e di “sbocchi e alternative” professionali.


Nello stesso tempo in cui avvenivano queste forti ristrutturazioni, con qualche anno di ritardo il mondo dell’informazione del nostro paese scopriva il web. Prima come “archivio”. Poi come “vetrina” per metterci dentro i contenuti delle edizioni cartacee. Poi sempre più come contenitore in cui mettere “quello che non c’entrava” fisicamente nell’edizione “nobile”.
Finalmente qualcuno si è accorto che potevano nascere testate “solo web”, nate per il web, che potevano essere più forti e competitive dei “cari vecchi giornali”. Non sul blasone, né sulla riconoscibilità, ma certamente sulla “quantità dell’offerta” di contenuti (non sempre informazione vera e propria).
I giornali di questo paese non si sono fermati un momento a riflettere, ed a scegliere una propria via, autonoma e originale, semmai puntando su un patrimonio immenso fatto di archivi, storia, contenuti unici e autorevoli. Hanno scelto la via decisamente inflazionata di “seguire”.
E questo ha fatto si che oggi non ci sia sostanzialmente differenza tra i siti di un giornale e un qualsiasi sito di contenuti generici, di “raccoglitori di blogger” e quant’altro. Non che ci sia niente di male in sé. Ma quello che manca è la risposta alla domanda “qual è la differenza tra l’informazione professionale e professionista?”. Quella per intenderci per cui un utente dovrebbe essere disposto a pagare dei soldi, dal momento che – in molti casi – è davvero difficile trovare le righe di notizia tra link, pubblicità, adv, pop-up, inserti e cornici e “…continua a leggere” e quando un video di 20 secondi ne ha 30 di pubblicità prima e un banner (quando non due) sopra.


Mentre si inseguiva il web, accadeva che la rete andava più veloce dei giornali.
Nel bene e nel male le aziende dell’informazione native digitali erano liberi da pesi e costi industriali del passato. La loro non era una innovazione o uno sviluppo, ma era “il prodotto”. E questo le ha rese libere anche di sbagliare ma prima di tutto di scegliere vie e modelli alternativi, che spesso hanno incontrato più immediatamente i gusti e le esigenze dei lettori.
Tutto questo fa si che oggi sempre più spesso i gruppi editoriali classici, più che immaginare un percorso proprio, tendano ad acquisire realtà della rete per “farle proprie”.
Qualche volta costa meno, ma molto spesso il rischio è di acquisire qualcosa che “appare vincente” ma che in realtà la rete considera quasi decotto.
E accade sempre più spesso anche che invece realtà native digitali attraggano redattori dalle testate tradizionali, offrendo anche a parità di retribuzione (ma fosse anche meno non è questa la discriminante) più spazi, autonomia, e possibile creatività.
Del resto l’elemento centrale resta il pubblico, che è anche visibilità personale, e se al netto di bounce, click-baiting, pagine-fantasma, click acquistati e sistemi vai ed eventuali, comunque, alla fine, quel contenuto online raggiunge nel tempo cinque volte i lettori della carta stampata, la riflessione, anche professionale, è più che aperta.


Il quadro va completato con qualche nota sulla stampa locale. Quella stampa fatta di piccoli quotidiani e settimanali che hanno un potenziale immenso: la notizia del e dal territorio. 
Essere cioè non solo vetrina reportistica, ma vero e proprio punto di riferimento per ciò che avviene in un’area specifica. Proprio quella “geolocalizzazione” di contenuti (e quindi inevitabilmente anche di lettori) che è la merce più cara oggi sul web.
Per loro il web sarebbe una risorsa immensa. Raccolta di pubblicità locale, mirata e geolocalizzata, visibilità dei contenuti, gestione dell’archivio storico e tematico.
E tuttavia questa rivoluzione digitale, per loro salvifica, è impedita da almeno due limiti.
Mancanza di risorse umane, perchè spesso parliamo di testate con organici ridotti all’osso, e soprattutto mancanza di risorse da investire in un vero progetto industriale di informazione locale online, perché parliamo di testate già in difficoltà sul fronte del bilancio ordinario.


È in questo quadro generale – fatto di concentrazioni ai limiti della legalità sia sul fronte della distribuzione che sul fronte della raccolta pubblicitaria – che si inserisce la proposta di riforma dell’editoria, in agenda in questi mesi.

Il controverso editoriale del Washington Post su Snowden spiegato

Ha destato reazioni contrastanti l’editoriale del Washington Post che – in forma abbastanza diretta – ha in qualche modo “scaricato” Snowden. Nonostante proprio le rivelazioni della gola profonda di Prism siano state la fonte di quel fiume di articoli noti come Datagate che sono valsi al quotidiano il premio Pulitzer.


Cosa dice la “colonna editoriale” in sostanza? Le rivelazioni di Snowden hanno permesso ai cittadini americani di conoscere per la prima volta le attività illecite della NSA, come per esempio la raccolta di metadati relativi alle telefonate compiute nel territorio nazionale e realizzata senza l’autorizzazione di alcun tribunale. Il Congresso e il governo, messi di fronte alle rivelazioni di Snowden, hanno risposto cambiando la legislazione per poter esercitare un controllo maggiore sulle attività di sorveglianza della NSA: «È giusto dire che dobbiamo queste necessarie riforme al signor Snowden». Egli ha però diffuso anche diverso materiale mettendo a rischio la sicurezza nazionale: per esempio il programma Prism– quello riguardante le attività di sorveglianza della NSA fuori dai confini nazionali – che «era legale e non minacciava in alcun modo la privacy» dei cittadini americani. Secondo il Washington Post, Snowden avrebbe fatto ancora peggio rivelando i dettagli di alcune operazioni di intelligence molto importanti, come la cooperazione dei servizi segreti scandinavi contro la Russia, la sorveglianza sulla moglie di un collaboratore di Osama bin Laden e certe operazioni cybernetiche in Cina. E quello che gli americani meno di tutto perdonano a Snowden è di aver accettato – non si sa sino a che punto a “titolo gratuito” e senza contropartite – il temporaneo asilo di Putin.


L’editoriale dal titolo secco “No pardon for Edward Snowden” va però inquadrato in almeno tre cornici.
La prima è la fortissima campagna pro-grazia che soprattutto dal 16 settembre (data di uscita in Usa del film “Snowden” di Oliver Stone) sta animando il dibattito intellettuale americano, quasi totalmente a favore quanto meno di un “forte atto di clemenza”.
La seconda è innegabilmente la campagna per le presidenziali – siamo a circa quaranta giorni dal voto – e in questa chiave non sono state poche le posizioni “repubblicane” negli editoriali del Washington Post, soprattutto in politica estera, dalla Siria agli accordi sul nucleare in Iran alla soluzione del blocco su Cuba.
La terza – che però è più rilevante e centrale delle altre – è puramente giornalistica e va inquadrata sia nella tipicità del giornalismo americano, sia – soprattutto – nella struttura giornalistica di quotidiani come il Post e il New York Times.


Nel giornalismo americano i fatti – che sono quelli su cui lavora la redazione giornalistica – sono “separati” dalle opinioni. Questa separazione è netta, anche a livello di organigramma. Ciascuna redazione risponde al capo-redattore e la riunione dei capi-redattore “organizza” il giornale, alla presenza del direttore. Gli editorialisti rispondono invece all'”editorial board”, anche fisicamente staccato dalla redazione, e rispondono alla direzione, e in qualche modo anche all’editore. Ed è l’editorial bard che valuta anche i “pezzi di opinione contraria” da pubblicare.
Questa separazione – spesso anche troppo netta, e certamente per noi poco comprensibile – va nella direzione di evitare che gli editorialisti siano influenzati nell’opinione da offrire al lettore dai giornalisti, e che i giornalisti non vengano influenzati nella redazione del giornale dagli editoriali di commento e approfondimento.


Questo fa si – nelle intenzioni e molto spesso anche in concreto – che il lettore trovi le notizie, e editoriali anche di opinione molto diversa. Lo scopo è triplice: dare informazione, contestualizzare i fatti con approfondimenti ed opinioni, rendere il lettore un cittadino consapevole offrendo punti di vista differenti sui fatti più rilevanti.
Dal punto di vista del Washington Post, in sostanza, ai lettori vanno riferite le notizie, e compete al giornale, se la maggior parte delle altre testate si schiera in una direzione (qualsiasi), offrire un editoriale “contro corrente”, per dare una chiave di lettura differente, su cui, anche sulla base dei fatti, il lettore si costruirà la propria convinzione.
Che l’editoriale del Post faccia così tanto discutere è un buon segno. A cos’altro dovrebbero servire gli editoriali, di opinione e di approfondimento?

Tiziana Cantone e il web

Come abbiamo detto ieri Tiziana è vittima di reati veri e persone vere, a mezzo web.
Almeno tre volte.
La prima volta quando il suo video è stato pubblicato e diffuso in rete. E già in quel caso nessuno ha vigilato o controllato. Perché alle grandi compagnie del web interessano i contenuti: come e da dove provengano, se se ne abbiano i diritti conta poco o nulla. Tanto (pensano) poi si cancella, e nel frattempo noi guadagniamo (si perché quegli introiti nessuno glieli tocca mai, non li devono restituire).
La seconda volta da quelle persone in carne ed ossa che “convinte dal web”, da commenti ed editoriali che la descrivevano come “operazione per lanciare una porno attrice” hanno ritenuto di poterla appellare in qualsiasi modo, dentro e fuori la rete. Tanto, il mondo è virtuale, e le offese virtuali si ha l’illusione che non contino, non pesino, come le ferite in un videogame di guerra.
La terza volta dalla sentenza vera di una magistratura nel suo formalismo decisamente un po’ tropo virtuale: condannata al risarcimento delle spese legali verso quei soggetti chiamati in giudizio “sbagliando” la sede o la specifica ragione sociale (soldi più che bilanciati dai risarcimenti che le sarebbero spettati di qui a poco).


Perché il web non lo tocchiamo, sappiamo cos’è Facebook, ma se lo devi citare in giudizio “chi e dove chiami in giudizio”? Quale sede e quale tribunale è competente caso per caso?
Perché il gioco dei giganti del web è anche questo, che siano ragioni di evasione o elusione fiscale, quanto responsabilità civili e penali del caso. Loro ti raggiungono ovunque, purché tu gli dia dati e informazioni, finanche la tua localizzazione in tempo reale e la tua carta di credito, finanche sul telefonino, ma tu non sai mai, davvero, dove siano Facebook o Paypal, e chi risponde delle loro azioni.


Il web e i social network sono strumenti, per altro molto recenti. Sono progettati per essere semplici e immediati da usare e tendenzialmente alla portata di tutti. Ma queste caratteristiche non implicano necessariamente né che tutti li sappiamo usare, né che siamo preparati agli effetti collaterali e spesso indesiderati del loro utilizzo.
Pensiamo a Facebook o Instagram come quei luoghi innocenti in cui pubblicare qualche foto o frase simpatica ed in cui bearci per sorrisini e like degli amici. Invece dovremmo cominciare a immaginare che oltre a dare l’immagine che vogliamo (e quindi non sempre aderente con la realtà), quando pubblichiamo rendiamo disponibili le nostre foto, le nostre emozioni, i nostri corpi, il luogo dove ci troviamo, le foto dei nostri figli, a tutto il mondo: ladri, pedofili e malintenzionati di ogni genere. Che esistono in rete esattamente quanto nella vita reale.
Ma mentre stiamo attenti a chiudere la nostra casa, la nostra stanza, il nostro bagno, perché quella è una sorta di privacy e tutela tangibile, ignoriamo con troppa leggerezza le implicazioni di lasciare aperta ogni sorta di nostra informazione a tutto il mondo.
E come siamo forti ed esaltati per qualche “mi piace” in più, spesso siamo fragilissimi quando il commento è negativo, quando su twitter in apparente anonimato veniamo insultati, quando le nostre foto finiscono altrove rispetto a dove pensavamo di averle lasciate noi.


Il web finisce con l’essere un enorme tritacarne che in pochi minuti ci rende pubblici oltre ogni nostro controllo, e assolutamente oltre la direzione che volevamo noi. Ci disarma, ci rende impotenti, ci stritola con la rapidità di pochi click.
La nostra forza dipende dalla nostra maturità, dalla nostra cultura e formazione, dalla solidità dei nostri valori e delle nostre relazioni sociali, dalla consapevolezza delle nostre azioni e anche da quelle dei nostri amici, familiari e conoscenti.
Il nostro cervello, le nostre emozioni, in quanto esseri umani, non sono fatti per essere “tutto pubblico”, e quando ciò accade non siamo preparati a gestire con adeguata forza e maturità gli effetti indesiderati di queste situazioni. È umano, è reale. Tutto il contrario della macchina virtuale di una dimensione da social network.
E questa disumanizzazione non può esigere la nostra disumanizzazione in termini di risorse e capacità, semplicemente perché non le abbiamo.


Ai nostri ragazzi non possiamo insegnare o imporre di essere più forti. Abbiamo tuttavia il dovere di insegnargli ad essere più consapevoli, più attenti, più riflessivi nella scelta di quale web navigare, di quale social network scegliere, di come usarlo e di come spendere la propria privacy.
Metterli di fronte non più al rischio ma alla concreta realtà di quanto non “potrebbe accadere” ma di ciò che regolarmente accade.
E li possiamo rendere forse più forti ricordando anche che la velocità del web è un’amica, e che tutto passa, e anche la gogna mediatica può durare qualche giorno solamente. Perché poi, anche dinanzi alla morte, il popolo della rete dopo poche ore tornerà a occuparsi di calcio e serie tv.

Il caso di Tiziana Cantone e l’informazione

La tragica morte di Tiziana Cantone non è un caso isolato. Aveva 15 anni Rehtaeh Parsons quando venne stuprata da quattro ragazzi e 17 quando, nel 2013, si suicidò a causa delle foto che il gruppo aveva diffuso su internet. Era il 3 gennaio 2015 quando una donna 40enne di Castelfranco Veneto, madre di due figli, si è tolta la vita per la vergogna. Era entrata in contatto con un 35enne che, spacciandosi per un giovane aitante e inviandole foto non sue, era riuscito a trascinarla in una relazione virtuale. La donna aveva fatto l’errore di inviare all’amico una sua foto in biancheria intima. Nulla di particolarmente vergognoso. Ma l’uomo l’aveva minacciata di metterle in rete, chiedendole una contropartita. A un rifiuto della donna, le foto erano effettivamente finite su internet. Lei, per la paura che qualcuno potesse riconoscerla, compreso il marito, si era uccisa. Il 30 aprile dell’anno scorso una ragazza di 14 anni di Stains, nell’hinterland parigino, si è uccisa gettandosi dal balcone: era finita nel solito tritacarne dopo che il suo ex ragazzo aveva pubblicato un video che era stato girato a sua insaputa. Poco tempo prima era toccato a una ragazza ligure di 25 anni. Anche lei si era buttata da un palazzo, per fortuna senza perdere la vita.


Al dramma di queste vicende, si unisce il silenzio delle decine di casi simili finiti nel dimenticatoio, anche della rete, che si è scatenata scrivendo di tutto sul caso di Tiziana Cantone prima, il giorno dopo la sua morte, e nel giro di poche ore il suo nome, che era entrato tra i trend di twitter (le parole più discusse) ne è uscito, in silenzio.
E questo silenzio ci deve far riflettere molto più delle mille parole spese sul caso di Tiziana.
Da quelle banali e sessiste del “se l’è cercata” a quelle qualunquiste del “siamo tutti colpevoli” a quelle tecno-ostili del “è colpa di internet e dei social network”, fino a quelle paternalistiche del “poveri ragazzi”.


Come in altre occasioni qualcuno dei cd. “media tradizionali” ha anche ritenuto di fare un parziale mea culpa. Peter Gomez ha scritto “Ilfattoquotidiano.it, al pari di molte altre testate e siti online, si è comportato in maniera gravemente negligente sul caso di Tiziana Cantone. Sbagliando avevamo trattato la cosa come una sorta di fenomeno di costume e avevamo come altri ipotizzato che la vicenda potesse essere un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice.
L’errore commesso è evidente e innegabile. Non eravamo davanti a un caso di costume, ma un caso di cronaca … in altre parole non ci saremmo dovuti accontentare del fatto che la povera Tiziana fosse introvabile, ma avremmo dovuto chiedere ai nostri collaboratori di cercare i suoi amici e familiari per capire cosa era realmente accaduto… È giusto e doloroso dire però che anche noi abbiamo avuto una parte, sia pur piccola, in questo misfatto compiuto dal web.”
E continua “Quanto accaduto impone una riflessione su quello che possiamo fare anche davanti a storie e vicende già pubblicate da altri o già conosciute tramite i social da milioni di persone: il nostro giornale online deve riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare. Non per dare lezioni a nessuno ma per poter dire a noi stessi che abbiamo fatto fino in fondo, con correttezza, il nostro dovere. Ogni giorno pubblichiamo più di 120 contenuti. A ciascuno di essi dobbiamo dare la medesima cura. E se non siamo in grado di farlo, a causa del super-lavoro, dobbiamo non pubblicare… oggi è il caso che qui si parli di noi, delle nostre responsabilità e delle nostre manchevolezze.”


Frasi di buon senso, di cui sarebbe il caso non ricordarsi il giorno dopo tutti quanti e tutti insieme. Perché il “giorno dopo Tiziana” viene drammaticamente dopo molti giorni dopo Rehtaeh Parsons, la madre di Castelfranco Veneto, la quattordicenne di Stains o della ragazza ligure. E il giorno dopo ripetiamo le stesse cose, per scordarcene la mattina successiva.
Abbiamo speso fiumi di parole in post, commenti, articoli, status su Facebook e tweet, e poi ce ne siamo semplicemente scordati. La discussione è finita. È ricominciata con i commenti, i commenti ai commenti, sulla gara a chi era il più becero e chi commentava in modo “più intelligente”. E quando anche questa discussione sulla discussione è finita, come niente fosse, siamo tornati a parlare di calcio e X-factor. Semplicemente, come fosse tutto la stessa cosa.


” riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare” è un buon consiglio. Ma non lo si può fare nell’epoca in cui – in primis i quotidiani online – guadagnano condivisioni, accessi, e click pubblicitari se danno la notizia pochi minuti prima degli altri.
Chiedere la riflessione e di aspettare all’epoca del web, ai nuovi media – oggi, dopo che questo stile lo hanno imposto proprio i nuovi media e la televisione spettacolo – significa correre il rischio di essere etichettati come quelli che hanno provato a fare loro “il commento più figo” per essere “i più letti”: un po’ come continuare a speculare anche su una morte (se ci riflettiamo bene quei famosi dieci minuti in più).


Da subito andrebbero chiariti alcuni punti: che ad esempio la testa diretta da Gomez è una delle due condannate proprio nella sentenza di Tiziana, o che nessun giornale cartaceo tradizionale ha “trattato la vicenda”, ma solo ilFatto e Fanpage. Segno forse che si, una seria riflessione non ha tratto in inganno i media tradizionali, ma anche che invece questo “caso di costume” è stato visto come occasione ghiotta per qualche facile click sul sito.
Va anche chiarito che questo “misfatto” non è stato “compiuto dal web”. Il web, il popolo della rete, in sé, non esistono. La rete internet, come i social network, sono strumenti, e quelli che commettono reati, che “fanno del male” sono persone fisiche, quelle che incontriamo tutti i giorni per strada.
Esattamente come le vittime. Esseri umani in carne ed ossa. Solo che per usare un’arma serve acquistarla, il porto d’armi, saperla usare, avere anche una certa dose di coraggio e forza. Commentare su Facebook, fare un tweet, pubblicare una foto o un video per vendetta è apparentemente gratis, ci fa sentire forti, mentre restiamo vigliacchi nell’apparente anonimato del divano di casa dove giochiamo a fare i bravi ragazzi, i professionisti seri, i giornalisti impegnati, i commentatori “fighi”.


Tiziana è vittima di reati veri e persone vere, a mezzo web. Almeno tre volte.
La prima volta quando il suo video è stato pubblicato e diffuso in rete. E già in quel caso nessuno ha vigilato o controllato. Perché alle grandi compagnie del web interessano i contenuti: come e da dove provengano, se se ne abbiano i diritti conta poco o nulla. Tanto (pensano) poi si cancella, e nel frattempo noi guadagniamo (si perché quegli introiti nessuno glieli tocca mai, non li devono restituire).
La seconda volta da quelle persone in carne ed ossa che “convinte dal web”, da commenti ed editoriali che la descrivevano come “operazione per lanciare una porno attrice” hanno ritenuto di poterla appellare in qualsiasi modo, dentro e fuori la rete. Tanto, il mondo è virtuale, e le offese virtuali si ha l’illusione che non contino, non pesino, come le ferite in un videogame di guerra.
La terza volta dalla sentenza vera di una magistratura nel suo formalismo decisamente un po’ tropo virtuale: condannata al risarcimento delle spese legali verso quei soggetti chiamati in giudizio “sbagliando” la sede o la specifica ragione sociale (soldi più che bilanciati dai risarcimenti che le sarebbero spettati di qui a poco).

Cosa c’è da sapere riguardo la legge sulle primarie

Va fatta una premessa. In nessun paese occidentale si è pienamente realizzato il principio fondante della democrazia moderna: la piena divisione dei poteri.
A seconda dei sistemi questa divisione è più o meno marcata, e più o meno assistita da sistemi di garanzia e di bilanciamento.
È importante chiarire questo punto perché parliamo di legge per elezioni primarie, ovvero per la scelta dei candidati ad essere rappresentanti dei cittadini, dai collegi, nella “unica camera” legislativa, che avverrà se passerà il referendum confermativo di ottobre.
In realtà da noi i “membri del parlamento” non sono semplici “membri dell’assemblea legislativa”, ma concorrono con la fiducia a formare il potere esecutivo, spesso deputati sono anche membri dell’esecutivo stesso senza che vi sia obbligo di dimissioni o incompatibilità. Molte volte in ruoli di governo hanno ampi poteri in ambito amministrativo. E nel caso del Ministero di Grazia e Giustizia abbiamo il caso limite in cui membri del legislativo, sono contemporaneamente parte dell’esecutivo, hanno ruoli di incidenza nell’ambito amministrativo ed incidono concretamente sull’ordine giudiziario.
È importante comprendere questa lacuna nella divisione dei poteri, proprio perché “decidere come vengono scelti gli eletti” non può essere considerato più un fatto “interno e privato” dei singoli partiti, ma incide sull’intero sistema-Stato.
Già la legge Anselmi chiarì, in mancanza di una legge precisa sui partiti, che questi dovevano rappresentare al proprio interno i principi di trasparenza e democrazia interna propri della Costituzione. Articolato del tutto inattuato perché privo di una chiara sanzione.


1) Quali falle il sistema elettorale delle primarie ha manifestato nel corso degli anni (schede elettorali truccate o rese nulle per agevolare alcuni candidati a scapito di altri)?


Le primarie, nelle loro varie forme, da quelle del Pd, a quelle “online” del M5S, a quelle “consultive” occasionalmente introdotte nel Centrodestra hanno tutte le stesse pecche: mancanza di capacità di controllo, verifica, appello, e di organi di garanzia terzi.
Alla fine, sempre, la pecca di fondo è la mancanza di trasparenza e di certificazione terza del risultato. Da qui a imbrogli “veri” o al sospetto di brogli, il passo è brevissimo, e si sono verificati in praticamente la totalità dei casi, con differente intensità.
Il punto tuttavia è che innanzitutto la democrazia è un sistema che deve apparire trasparente, oltre ad esserlo. Ed un sistema che genera polemiche e dubbi non va in questa direzione. Poi, dopo le elezioni “vere” una volta accertato che c’è stato un imbroglio alle primarie interne di questo o quel partito, non è che si può invalidare il risultato elettorale.


2) Può ripercorrere brevemente quali sono stati gli episodi politici più rilevanti che hanno dimostrato quanto il sistema che regolamenta le primarie oggi sia carente?


Alcuni casi eclatanti sono ad esempio le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, nel 2012 e nel 2016. in cui non ci fu nessuna verifica, nessun riconteggio, nessun organo nazionale capace di un intervento, se non per cassare o annullare il risultato.
Possiamo citare le primarie per la scelta del candidato presidente della regione Liguria.
Ma su tutte trionfano le primarie nazionali del Pd, quelle “tra gli iscritti”, con numerose segnalazioni di qualsiasi “opacità”: su questi casi la commissione di garanzia nazionale, dopo due anni, non ha ancora chiuso i relativi verbali.
In particolare nell’area di Salerno, città amministrata da De Luca, la Dia ha trovato oltre 2000 tessere false, ed è stato accertato che le primarie che hanno visto la scelta e l’elezione di Bonavitacola (fedelissimo del governatore e vice presidente della giunta regionale attuale) sono state falsate pesantemente.


3) Fino ad oggi le elezioni primarie nascono da un meccanismo interno ai partiti. E’ corretto dire che ad oggi non esiste una legge che garantisce più trasparenza sia nella scelta dei candidati sia nel coinvolgimento dei cittadini?



Esattamente.
Come detto prima sono “processi interni ai partiti” e in mancanza di una denuncia diretta di un soggetto direttamente danneggiato, la magistratura non può intervenire, ed a prescindere non è prevista alcuna sanzione o decadenza.


4) Alla Camera c’è una proposta di legge che pone la necessità di istituzionalizzare le elezioni primarie. Riuscirà nell’intento di rendere chiari sia i criteri di selezione dei candidati sia la partecipazione dell’elettorato attivo e passivo?


Non si possono imporre le primarie come metodo. A meno di non inserirle come “parte” della legge elettorale. E non è questo il caso.
Si può prevedere che “chi le fa, le debba fare in un certo modo”. Ma da un punto di vista del sistema, essendo un processo associativo, non si comprende quale debba essere la sanzione.
Ecco, io nel mio partito non le chiamo primarie ma “pre consultive” e sono fuori da ogni obbligo di legge. Per esempio.


5) Che cosa cambierà (se davvero cambierà qualcosa) rispetto al recente passato se il testo di legge dovesse essere definitivamente approvato? Ci saranno meno opacità nell’intero impianto di costruzione delle primarie?



Diciamo che quello è l’obiettivo.
Indicare una strada. Che preveda delle garanzie e delle tutele e una certa trasparenza anche nei ricorsi. Ma limitatamente a quei partiti che decidano – liberamente ed autonomamente – di far rientrare i propri processi decisionali nell’ambito di quello schema normativo.
Una facoltà, più che un obbligo.


6) Come si svolgono oggi le selezioni dei candidati? I meccanismi sono semplici e comprensibili per gli elettori?




Assolutamente no. Per due motivi. Intanto perchè anche per essere candidato alle primarie l’iter è interno e decisamente “chiuso”.
Quindi alle primarie scegli tra un elenco di persone che comunque qualcuno altrove ha scelto per te.
Secondo perché le regole cambiano di città in città e regione per regione e di elezione per elezione, e quindi non aiuta nemmeno una “prassi consolidata” in questo senso.



7) Quali le tempistiche entro le quali oggi si chiudono le iscrizioni al partito? Anche in questo caso, le chiedo cosa cambierà con questo testo?




Poco o nulla. Perché le iscrizione ad una “associazione-partito” sono sempre possibili, e la legge non può limitare la partecipazione al voto attivo ad un iscritto anche del giorno prima.
E tuttavia la legge non disciplina “i partiti politici” – legge che attendiamo da settant’anni circa – e quindi tanta parte di questa vita è soggettiva, eterogenea, non regolamentata.


8) Il candidato del partito davvero rispecchia oggi le preferenze di voto di chi lo elegge?




No, e non è nemmeno voluto. Basti pensare alla nuova legge elettorale. I capolista nominati, gli altri in lista secondo preferenze in collegi di circa un milione di abitanti. E nessuna norma che – ad esempio – indichi che i candidati debbano risiedere nel collegio o da quanti anni.


9) C’è democrazia partecipata nel rapporto tra i partiti che svolgono le primarie e quelli che non adoperano questa procedura per la selezione dei candidati?




Certamente anche con mille difetti fare consultazioni territoriali – che talvolta possiamo anche chiamare primarie – è occasione di maggiore partecipazione.
Meglio se “in carne ed ossa” più che su una scheda precompilata in un gazebo occasionale o peggio online.
Ma la democrazia partecipata – che significa concorrere concretamente e concettualmente alla formazione di una decisione e di un percorso legislativo – è decisamente ben altra cosa.


10) Il PD è stato il partito che, fin dalle sue origini, ha utilizzato lo strumento delle primarie. Negli ultimi mesi anche il centro destra, seppure diviso, ha cercato di intraprendere questo percorso mettendo in risalto ancora di più le lacerazioni interne. Quali differenze ci sono tra le primarie del Partito Democratico e quelle messe in atto da altri partiti?


Il pd le effettua sul territorio, attraverso sezioni con commissioni elettorali. 
Funziona spesso male, ma la materialità consente anche un teorico riconteggio, una verifica, la trasparenza di poter vedere come vanno le cose. Anche quando vanno male.
Il M5S le fa online: esiste un risultato finale reso pubblico, senza che vi sia alcun sistema di verifica terzo. Ma in questo caso è anche peggio, perché il sistema di votazione online consente a chi organizza la consultazione di sapere ciascun elettore quale voto esprima.
Il centrodestra non le fa, e questo lacera soprattutto anagraficamente chi vorrebbe un rinnovamento ed un ricambio. Il non farle è un modo per mantenere lo status quo e non mettere in discussione “il possesso” interno.
Le vere primarie sono quando il centrodestra si divide e usa le elezioni in genere amministrative per una conta interna. È il caso – da ultimo – di Roma, con il confronto Marchini-Meloni.


11) Il sistema delle primarie italiane può essere per taluni aspetti paragonato al sistema americano? Quali sono le difformità e le eventuali similitudini?


Assolutamente no.
Negli Stati Uniti esiste una divisione dei poteri fortissima. Quello che pochi sanno è che tutte le cariche non direttamente elettive, ma ad esempio di nomina presidenziale in ambito governativo (esempio Segretari di Stato – i nostri ministri – o membri delle magistrature superiori, dalla Corte Suprema in giù a cariche come Capo della Cia o dell’Fbi) vengono vagliate da una commissione del Senato (che rappresenta gli Stati).
In questo contesto le primarie le fanno i due maggiori partiti, ma non tutti i partiti.
E ciascuno dei due partiti le fa in maniera differente, finanche il conteggio dei voti e dei risultati è diverso. Addirittura diverso Stato per Stato.
E tuttavia chiunque, membro di un partito, può partecipare a qualsiasi elezione primaria, senza che la sua candidatura venga – formalmente – preselezionata da nessuno.
Certo, se il partito non è d’accordo avrà vita molto difficile ad accreditarsi, ma non è detto.
I repubblicani hanno addirittura apertamente finanziato una campagna “contro Trump”, che tuttavia ha partecipato alle primarie, le ha vinte, e il partito non può non sostenerlo.

Monnezzopoli a 5 stelle

“Attendi a dirci da soli che siamo onesti. Non basta dircelo da soli. Devono dirlo gli altri che siamo onesti. Altrimenti sembra che a furia di dirlo abbiamo qualcosa da nascondere.”
Beppe Grillo. E come dargli torto?


Roma, 05 ago 2016 – “Ricordo con grande nostalgia, e anche un po’ di tenerezza, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Paola Taverna e Roberta Lombardi, in aula Giulio Cesare, a leggere a gran voce stralci delle intercettazioni dell’inchiesta di Mafia Capitale. Oggi i parlamentari del Movimento 5 Stelle torneranno in Campidoglio a leggere le intercettazioni tra Buzzi e l’Assessora Muraro come fecero nel dicembre 2014? E chiederanno anche le dimissioni dell’Assessora con la stessa veemenza con cui sono soliti scagliarsi contro il Partito Democratico? Attendiamo, fiduciosi, di sapere cosa intende fare la Sindaca Raggi, se preferisce mettere la testa sottoterra o se avrà il coraggio di ritirare le deleghe alla sua assessora che per discontinuità col passato, a quanto pare, non brilla affatto”.
Questa la nota di Giulia Tempesta, consigliere comunale PD di Roma.
E verrebbe da chiedersi, semplicemente e banalmente, come darle torto?


Il titolo è di oggi, 5 settembre, del Corriere della Sera:
L’accusa dei pm: all’Ama era garante del patto segreto con il ras dei rifiuti
La Procura di Roma sospetta di un accordo illecito tra il proprietario di alcuni impianti cittadini, Manlio Cerroni, e l’assessora all’Ambiente, all’epoca dei fatti consulente della municipalizzata del Campidoglio, per spartirsi lo smaltimento della spazzatura.
Continua il Corriere: “Esisteva un accordo illecito tra l’ex dirigenza di Ama e il ras dei rifiuti Manlio Cerroni per spartirsi lo smaltimento della spazzatura. Un patto segreto concluso grazie alla mediazione di Paola Muraro, che negli ultimi dodici anni è stata consulente dell’azienda municipalizzata ed era delegata proprio al controllo di quegli impianti. È questo il sospetto che nei mesi scorsi ha convinto il pubblico ministero Alberto Galanti a iscriverla nel registro degli indagati per abuso d’ufficio e violazioni delle norme ambientali.”


Ecco i fatti, più o meno, per quanto sinora è dato sapere.
Come ricostruito da Repubblica “una telefonata tra le carte di Mafia capitale rivela un inedito rapporto diretto tra l’assessora all’Ambiente di Roma, allora solo consulente della azienda rifiuti, Paola Muraro, e il ras delle cooperative rosse Salvatore Buzzi, in carcere dal dicembre di due anni fa per associazione a delinquere di stampo mafioso.”


Il 20 settembre del 2013 alle 17.08 “Salvatore Buzzi chiamava Paola Muraro di Ama spa”, scrivono i magistrati nell’ordinanza di 88mila pagine sugli intrecci del “Mondo di mezzo”, la ragnatela di rapporti instaurati da Buzzi e dal boss della Magliana, Massimo Carminati. Una telefonata per chiedere lumi sullo stato di una pratica per poter partecipare a un appalto milionario per la raccolta dei rifiuti. La Muraro “gli riferiva che la richiesta di chiarimenti era stata inviata dal Cns di Bologna, ed entro il giorno dopo sarebbero dovuti arrivare i chiarimenti, dal momento che la busta “B” sarebbe stata aperta alle ore 13. Buzzi confermava dicendo che avrebbe avvisato subito”.
Così sempre in quel 20 settembre del 2013, mentre si intrecciavano interessi che hanno portato alla sbarra Panzironi e l’ex dg Ama Fiscon insieme a Buzzi, secondo l’accusa per averlo favorito, dopo le informazioni ricevute dalla Muraro, parte la seconda telefonata. Alle successive 17 e 11, ovvero 3 minuti dopo le informazioni ricevute dall’attuale assessora all’Ambiente, Buzzi invia un sms al suo collaboratore Lucci: “Avvisa Bologna richiesta partita ora” e subito dopo un altro messaggio a uno dei big di Legacoop Lazio, Salvatore Forlenza: “Richiesta partita ora da Ama”.
Il riferimento è a una gara da 21,5 milioni, suddivisa in 4 lotti, per la raccolta dei rifiuti, indetta da Ama e alla quale partecipò il consorzio bolognese Cns di cui Buzzi era consigliere di vigilanza. Ma Buzzi aveva anche un interesse diretto: una volta aggiudicato l’appalto, la gestione dei servizi sarebbe andata alle sigle del suo circuito. Per conoscere i dettagli dell’aggiudicazione e informarsi sullo stato della pratica, ma soprattutto per ribattere in tempo ai chiarimenti chiesti da Ama alla Cns, Buzzi chiama direttamente proprio Paola Muraro, passata da consulente Ama ad assessora della giunta grillina di Virginia Raggi, che non si sottrae.
L’intercettazione evidenzierebbe come la Muraro era molto più che una consulente in Ama. Ed è a lei che Buzzi si rapporta, così come faceva con i vertici delle aziende e addirittura col sindaco di Roma Gianni Alemanno per le questioni più delicate.
Questa telefonata mostrerebbe come la Muraro era un suo contatto in Ama, e che – altro che consulente – era in grado di sapere cose che riguardavano appalti. Non una consulente esterna che nulla sapeva, e che non si è accorta di alcuna anomalia in nessuno dei quattro impianti su cui doveva vigilare e su cui ora c’è un’inchiesta della procura di Roma per truffa e frode.
Bastava Buzzi, su cui per mesi come fosse il diavolo in persona il M5S si è scagliato? 
No. Nel mirino della magistratura romana finisce anche un altro rapporto della Muraro, quello con Manlio Cerroni. I dubbi del pm Alberto Galanti è che ci siano stati tra loro contatti da cui l’imprenditore potrebbe essersi avvantaggiato.
Scrive Repubblica “Non è un caso, hanno sottolineato gli investigatori, che indagano sospettando un’associazione per delinquere tanto sull’affare Tmb quanto sul tritovagliatore di Rocca Cencia di proprietà di Cerroni, che proprio due settimane fa, in diretta streaming, contestando l’operato del dg di Ama, Daniele Fortini, la Muraro abbia proposto di rimettere in funzione proprio quel tritovagliatore, dato in affitto a un’altra azienda collegata a Cerroni.”


A porsi la domanda centrale è invece il sito di informazione Linkiesta


“Cos’ha a che fare Manlio Cerroni, «il re dei monnezzari», e il suo business sui rifiuti, con il mondo del Movimento cinque stelle, le sue idee e poi le sue pratiche?” 
Questa la ricostruzione.


La domanda che qualunque militante sincero dei cinque stelle si sta ponendo in queste ore per ricostruire il faticoso puzzle che è la verità a Roma, può trovare qualche traccia interessante in una storia illuminante di questi anni, che siamo in grado di svelare. Negli anni a cavallo tra il 2012 e 2013 Gianroberto Casaleggio, in parallelo con la costruzione del Movimento cinque stelle – le avvisaglie del «boom», che in tanti non avevano sentito, c’erano già state nelle amministrative del 2012, e ovviamente in tutto l’autunno e inverno dello Tsunami Tour – fondò assieme ad alcuni suoi amici un network parallelo al Movimento, chiamato Think Tank Group.
C’erano fin dalla fondazione alcuni imprenditori, professionisti, e in seguito anche parlamentari del M5S di strettissima fiducia della Casaleggio (David Borrelli, che oggi è europarlamentare e è forse l’uomo più fidato di Davide Casaleggio, e Vito Crimi) e della Lega.
Ma soprattutto, assieme a Casaleggio e a Grillo – i cui nomi in un secondo momento furono tolti dalla schermata del Think Tank Group – fondatore del gruppo fu Antonio Bertolotto, presidente della Marcopolo engineering.
Marcopolo è l’azienda leader italiana di rigassificatori, anche se ha chiesto da poco il concordato preventivo. Si occupa da trent’anni della «messa in sicurezza della discarica attraverso la captazione, la depurazione e distruzione del biogas che viene valorizzato come combustibile per produrre energia verde». Possiede più di quaranta impianti, e alcuni anche nell’area di Roma. In particolare ad Albano. In pratica Bertolotto ha lanciato il business (pionieristico, trent’anni fa) degli impianti che trasformano in biogas i gas delle discariche e del processo di compostaggio dei rifiuti.
Un’azienda green, cos’ha a che fare con Manlio Cerroni?
Ad Albano la Marcopolo ha, in modo del tutto legittimo, operato in stretta partnership con la Pontina Ambiente, assieme alla Colari una delle società di compostaggio di Cerroni. Cerroni smaltisce i rifiuti, e Bertolotto ci estrae biogas.


Il legame era talmente stretto e strutturale che Marcopolo, che ha sede legale in provincia di Cuneo, a Roma risponde al medesimo indirizzo e numero civico (sulla via Ardeatina) e allo stesso numero di telefono dell’azienda di Cerroni.
Altro particolare interessante, nell’elenco dei fondatori di Think Tank Group Bertolotto compare come presidente di una onlus, la Sosesi. Come se il rapporto tra quel network – così vicino ideologicamente e materialmente al neonato Movimento – e il business dei rifiuti non fosse proprio coincidente con la propaganda cinque stelle sui rifiuti zero e la raccolta differenziata al 90%.
Non c’è nulla di male naturalmente a lavorare con Cerroni (che è indagato per l’impianto di trattamento meccanico di Rocca Cencia, quello che la neo assessora Paola Muraro chiese a Daniele Fortini di utilizzare, ottenendone un sacrosanto, legalitario rifiuto). Ma il cortocircuito è incredibile: il M5S, che ha fatto tutta la propaganda pubblica e l’ascesa politica con le campagna sul blog (della Casaleggio) sui rifiuti zero e la differenziata, ha nel suo network (tra i fondatori) l’imprenditore big dei rigassificatori, amico storico di Gianroberto Casaleggio, con cui cofondò il Group.


Ma il legame Casaleggio-M5S e rifiuti risale a molto prima. Già nel 2004 – ovvero dalla sua nascita – l’uomo marketing nonché socio (non lo è più dal 2013) è Enrico Sassoon, giornalista, dal 1977 al 2003 nel gruppo Il Sole-24 Ore, già direttore responsabile di L’Impresa-Rivista Italiana di Management, della rivista Impresa Ambiente e del settimanale Mondo Economico. Da suo curriculum pubblico apprendiamo anche che «è stato direttore scientifico del gruppo Il Sole-24 Ore».
Nel 1998 Sassoon è stato amministratore delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy, di fatto una lobby indirizzata a favorire i rapporti commerciali delle corporation americane in Italia.
Enrico Sassoon, con la moglie, Cristina Rapisarda, ha costituito la “Global Trends”.
La signora Rapisarda è stata coordinatrice di Agenda 21 a fianco dell’ex Assessore all’Ambiente della Regione Campania Walter Ganapini il quale ha stipulato protocolli di intesa di vantaggio con la Italcementi (cliente di Global Trends) per gli inceneritori, e in particolare i cementifici a cui si fa riferimento sono l’Italcementi di Pontecagnano, la Cementir di Maddaloni e Moccia di Caserta, (qui la Italcementi è indagata per favoreggiamento mafioso).
Contemporaneamente Sassoon era anche Direttore Responsabile della rivista Affari Internazionali nonché anche “amministratore delegato” di una casa editrice – la “Strategiqs Edizioni Srl” (che non ha nemmeno un indirizzo mail, né un sito internet – ma che pubblica l’edizione italiana della Harvard Business Review in Italia!).
Di questa società è presidente un brillante napoletano, Alessandro Di Fiore, che oltre a presiedere la casa editrice presiede anche l’European Centre for Strategic Innovation.
Nato come product manager della Colgate-Palmolive fonda la Venture Consulting che confluisce gruppo Tefen, oltre a diventare prestissimo Vice Presidente di “The MAC Group” (Gemini Consulting) – gruppo presieduto da Cesare Romiti, anch’egli membro nell’American Chamber of Commerce in Italy e dell’Aspen Institute.
Manco a dirlo, nel comitato di redazione della rivista figura anche “Roberto” Casaleggio.


Nessuno vuole per forza pensar male, ma ricordiamo che il Movimento Cinque Stelle è sempre stato quello “contro le lobby” a prescindere, contro i presunti gruppi di interesse che “governano l’Italia dietro le quinte”.
Eppure è anche l’unico partito politico che non presenta bilanci, che non adempie ad obblighi di trasparenza contabile sui finanziamenti, che di fatto è un’associazione costituita da tre persone a casa di Beppe Grillo, che ne detiene logo e marchio.
Non ha assemblee, organi elettivi, e che è stato recentemente condannato da un tribunale che ha sancito che “essendo di fatto un partito politico come gli altri ha l’obbligo di prevedere forme di gestione interna del dissenso” non potendo semplicemente prevedere un’espulsione per decisione monocratica del proprietario.
Va anche ricordato – a onor di cronaca – che spesso Grillo ha tuonato contro le “cattive municipalizzate” e che le massime tensioni con i suoi amministratori eletti (primo tra tutti Pizzarotti) si sono avute proprio per divergenze sulla gestione di rifiuti e inceneritori.


Oggi tutti questi rapporti – quantomeno strani – rischiano di gettare quantomeno un’ombra di sospetto (onestamente legittimo) tra quali e quanti interessi differenti e specifici i vertici del Movimento (da Grillo a Casaleggio) abbiano invece tutelato e rappresentato in questi anni.
Nulla di male, per carità.
Basta dirlo. Almeno per quella tanto sbandierata trasparenza, onestà, di cui il Movimento si fanno vanto come ne fosse l’unico detentore.
Ora, liberi di chiamarla fumosamente “macchina del fango”, ma tutte queste vicende hanno un concreto odore di spazzatura vera.