Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?

Proviamo a mettere insieme alcuni pezzi dopo dodici ore. 
Sappiamo con adeguata certezza che non si è trattato di un’azione isolata ad opera di pochi fanatici.

I gruppi di fuoco erano almeno tre. Uno concentrato nella zona dello Stadio, uno al teatro Bataclan e uno nel centro della città, per strada. 
Sappiamo che, in totale e al momento, i terroristi armati e con giubbotti esplosivi erano almeno otto.
 Sappiamo anche dalla simultaneità delle azioni che: si conoscevano, hanno avuto tempo e modo di coordinarsi e di progettare, programmare, effettuare sopralluoghi e studiare i tempi e modi e anche tempi e forme della reazione delle forze di sicurezza.

Sappiamo che per compiere questi veri e propri attacchi di guerriglia paramilitare sono servite ingenti risorse logistiche, organizzative, appoggi, risorse economiche.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


Mediamente per ogni gruppo di fuoco almeno altrettante sono state le persone coinvolte, tra logistica e copertura.

Hanno avuto bisogno di rifugi sicuri, di poterli cambiare spesso, di luoghi di incontro sicuri, di autoveicoli per i sopralluoghi, diversi da quelli materialmente usati per le azioni terroristiche. 
Sappiamo che sono riusciti a procurarsi illegalmente un vero e proprio arsenale per la costruzione dei giubbotti esplosivi, almeno otto kalasnikov e altrettante pistole ed un vero e proprio arsenale di munizioni.

Sappiamo quindi anche che è occorso molto tempo per organizzare e realizzare questa azione.

Gli esecutori materiali ma soprattutto chi ha fornito la copertura e la logistica è tuttaltro che un ragazzino invasato e fanatico delle periferie urbane. Ci vuole un enorme addestramento, preparazione, soprattutto per mantenere il sangue freddo in un’azione così grossa e coordinata.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


E in tutto questo senza farsi scoprire, intercettare, individuare per mesi.

Abbiamo però altri elementi su cui fare una riflessione. 
Pezzi da mettere insieme e tenere lì come fossero post-it su una lavagna per darci un quadro complessivo più ampio.


Abbiamo almeno altre due “prove generali” di azioni di quersto tipo: l’assalto a Charlie Hebdo del 7 gennaio e quello del 9 gennaio successivo quando un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone.

Armi, attrezzature, organizzazione, logistica, tempistiche: sono pressoché identiche.
Anzi, in un’ottica più grande e altrettanto macabra quell’episodio può essere visto come una prova generale in grado di offrire elementi di analisi dei tempi e modi e forme di reazione della sicurezza francese in generale e parigina in particolare (sia su un attentato specifico sia su un’azione con ostaggi).


La data non è scelta a caso. 
È lo stesso giorno dell’anniversario (2001) in cui il presidente statunitense George W. Bush firma un ordine esecutivo che permette l’istituzione di tribunali militari contro qualsiasi straniero sospettato di avere connessioni con gli atti terroristici realizzati o progettati contro gli Stati Uniti. 
Non è un caso quindi che nella rivendicazione si parli esplicitamente di un 11 settembre francese.

Ed è anche il giorno prima della conferenza di Vienna sulla Siria.
 Elemento importante perchè da sempre la Francia (uno dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU con diritto di veto) ha una sua “politica autonoma” e spesso di mediazione tra i blocchi contrapposti Usa-Russia: una contrapposizione che ha spesso impedito un’azione univoca e coordinata contro l’ISIS.
 Il richiamo inoltre al “vostro 11 settembre” serve definitivamente al califfato per candidarsi ad essere l’erede unico e sostitutivo non solo di al-Qaeda, ma anche unificante di tutti i fronti terroristici legati al fanatismo islamista.


Non è stato un attacco del tutto imprevedibile.

Un attacco a un teatro-sala da concerto a Parigi con armi automatiche e cinture esplosive. Era questo l’incarico che avrebbe ricevuto un cittadino francese di 30 anni durante un suo soggiorno “militante” in Siria a maggio di quest’anno. La notizia, con pochi particolari di dettaglio e senza nomi e riferimenti dei protagonisti, era stata data il 18 settembre scorso dal sito franceinfo.fr.
 L’uomo, arrestato dalla polizia francese l’11 agosto scorso, sarebbe rientrato in Francia dopo essere stato ferito in combattimento. Il suo arresto sarebbe avvenuto per una “soffiata” fatta da una “jihadista spagnola” fermata anch’essa al rientro da un viaggio in Siria. 
Il che conferma almeno “da quanto tempo” un’azione del genere era in preparazione.

Tutto questo però conferma anche che è difficile che queste azioni vengano compiute da persone “straniere” inviate in occidente per la prima volta. 
Troppo difficile nasconderle, metterle in contatto tra loro senza destare sospetti o attenzione dei servizi di sicurezza, troppo complicato che si inseriscano nel tessuto logistico e malavitoso locale, che conoscano la lingua nella misura necessaria, nonchè starde, tempi, abitudini.


Almeno per compiere attacchi di questo genere.

E tutto questo riporta al fatto che chiudere le frontiere o attribuire responsabilità all’immigrazione di profughi e richiedenti asilo non ha alcuna attinenza con il contrasto ad azioni di questo tipo.

Difficile anche che i protagonisti candidati per questi attentati siano frequentatori assidui di moschee: di questi tempi verrebbero certamente intercettati, verrebbero notati, rischierebbero un commento sbagliato, di tradire un fanatismo ed un estremismo che potrebbe destare sospetti in correligiosi moderati (la stragrande maggioranza) che potrebbero allarmarsi e segnalarli.

Sappiamo anche, in maniera indiretta, che qualcosa di decisamente grande l’Isis lo stava preparando contro l’occidente. Qualcosa da “propagandare e diffondere” con la massima forza possibile.

Il 9 novembre era stato reso noto che il cyberCaliffato (il team hacker e comunicazione web dell’Isis) aveva hackerato oltre 54mila account twitter, nonchè reso noti i numeri di telefono personali e crittati dei capi di Cia, Fbi, Nsa.


Quest’ultima azione certamente di natura distrattiva, per far pensare ad un attacco “non in Europa” facendo calare quindi l’attenzione su una forma di collaborazione che avrebbe potuto evidenziare informazioni utili alla prevenzione o individuazione di indizi nei giorni immediatramente precedenti questa azione.

Sappiamo, infine, che un’azione di questo genere, per gli elementi sin qui descritti e messi insieme, è estremamente “raffinata” ed enormemente costosa.
 È un investimento enorme non solo di persone ma anche di risorse con una strategia che mostra una sofisticata conoscenza delle ripercussioni di medio termine nelle politiche e nelle economie europee e occidentali in generale.

E tutto questo non è immaginabile sia partorito dalla mente di qualche terrorista esaltato e di non elevata istruzione come quelli che conosciamo essere i teorici capi dell’ISIS in medioriente.
 Inoltre organizzare, pianificare, e soprattutto finanziare un’azione di questo genere è inimmaginabile venga fatto dal territorio siriano o iraqeno.

Un’operazione fatta “a borse chiuse” in cui si dovranno attendere non meno di trentasei ore prima di poter verificare le transazioni e chi ci ha potuto “materialmente guadagnare”, che però si confonderanno in un mare di altre transazioni del lunedì mattina, a livello globale, ed in cui le tracce saranno fatte sparire per tempo, con la medesima sofisticazione.


Se mettiamo insieme tutti questi elementi, senza farci trascinare nè dal populismo dell’opportunismo politico nè da tendenze complottiste planetarie, appaiono chiari almeno due elementi.

Il primo è che questo attacco mostra un livello di sofisticazione del terrore che apparantemente adotta la matrice e la bandiera del califfato come specchietto delle allodole (e cui il califfato presta uomini e simboli nell’interesse diretto di accreditarsi come nemico mondiale unico e solo), ma è chiaro che il livello è decisamente superiore e con una strategia molto più globale. 
Un modello di attacco terroristico che tende a voler dimostrare come ogni capitale europea e mondiale è in sé un possibile bersaglio di un attacco mirato e preparato e finanziato e studiato con mesi di anticipo. 
Il secondo è che le tracce per individuare la regia di queste azioni non passano direttamente in Siria e nel califfato, ma attraverso le transazioni (nomerose, sofisticate, diffuse) di chi gestisce le finaze (enormi) di queste attività. Che passano per le nostre banche, le nostre carte eletroniche spesso anonime e prepagate, che vengono ripulite nei centri di invio di denaro all’estero in centinaia di transazioni al di sotto dei 300 dollari. 
Una rete capace di avere numerosi sostenitori, prestanome, che acquistano cellulari, auto, affittano immobili, mettono a disposizione risorse e coperture logistiche.


Se l’Isis si candida ad essere il marchio – quasi il franchising – del terrore a livello globale, capace di lasciare per lungo tempo uno stato diffuso di terrore nelle popolazioni civili occidentali, è altrettanto chiaro che la guerra a questo soggetto oramai planetario non può che essere efficace solo se la struttura logistica e quindi innanzitutto finanziaria di tutto questo non verrà attaccata.

De Luca: di porcilaia in porcilaia

“Un grido dolore che si è diffuso per le valli dell’appennino di porcilaia in porcilaia.”


Sono parole di De Luca, governatore della Campania. Riferite alle critiche ricevute da Miguel Gotor. Sfida Crozza dando il peggio di sé. Già Gotor non lo conosce (dice). Strano. Quando De Luca sosteneva Bersani contro Renzi Gotor non era proprio l’ultimo degli sconosciuti. Ma si sa. Al cambiare delle posizioni politiche la memoria fa brutti scherzi. O sarà anche colpa dell’età del “giovane renziano rottamatore” governatore della Campania.


La notizia titolava più o meno così “Scandalo in Regione Campania” dove sette persone, fra cui De Luca, risultano indagate per i reati di corruzione e rivelazione di segreto. Indagati con lui anche un giudice del Tribunale di Napoli, Anna Scognamiglio (la stessa che ha firmato il 22 luglio la sentenza di sospensione della sospensiva della Severino per il governatore), Carmelo Mastursi, ex capo della segreteria di De Luca che lunedì si è dimesso dal suo ruolo, un avvocato e un manager della sanità pubblica, Guglielmo Manna (marito della Scognamiglio).


Il fatto. 
Secondo l’indagine tutto parte dalla condanna dei giudici a De Luca per abuso d’ufficio, che doveva essere sospeso per la Severino: allora a discutere la causa e depositare la decisione c’era il giudice relatore Scognamiglio. A quel punto, da un’altra inchiesta, viene intercettato un manager della sanità pubblica e marito della giudice, Manna, che telefona ad un avvocato avellinese per chiedere di contattare il capo della segreteria di De Luca Mastursi, storico collaboratore del governatore. Telefonate in cui Manna propone uno scambio: una nomina nella sanità pubblica in cambio dell’esito sulla sospensione di De Luca rivelato in anteprima.


Parafrasando De Luca questa ordinanza è “Un grido dolore che si è diffuso per le valli della Campania, di porcilaia in porcilaia.”


Una brutta campagna

Come valutare una campagna se “bella” o “brutta”? Come misurarla e come valutarla?
È un interrogativo non solo per tecnici, ma anche per consumatori e per aziende.
In generale si tende a considerare una “buona campagna” quella efficace, in termini di numeri e di risultati. Una cattiva campagna è quella che non li raggiunge, o peggio danneggia il brand o la sua mission. Sin qui sarebbe facile e potrebbe apparire banale, ma non è così.


L’efficacia non è solo far parlare di sé a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. E nemmeno (forse) generare tantissimi accessi e like. Piuttosto dovrebbe essere qualcosa che porta a raggiungere il target desiderato, a generare azioni e interazioni permanenti, restare impresso nella memoria… e tutto questo possibilmente in una accezione positiva.
Se adottiamo questi parametri, beh, sono molte le campagna improvvisate, non pensate, non strutturate, e molto poche quelle davvero efficaci e “fatte bene”. E quasi mai è questione di budget, anzi.
Di esempi – positivi e negativi – da questo blog ne ho fatti molti.


La nuova frontiera della comunicazione spazzatura


VeryBello – tutto purché sia virale


Da Barilla a Enel come cambia la comunicazione virale


Oggi ne faccio due. Uno positivo ed uno negativo.

In senso positivo abbiamo già parlato di quella che considero una delle più belle campagne a difesa della libertà di informazione che sono state realizzate negli ultimi anni, ed i cui manifesti trovate qui allegati.


Un esempio invece di “brutta” campagna è quella proposta da “Nozze in Fiera” che la auto-definisce “campagna orientata al sociale”.
La banalità andrà di moda è qualcosa di superato per chi ha immaginato questa campagna letteralmente immaginata per cavalcare l’onda (è il caso di dirlo) dello sdegno e della cronaca (tragica) di questi mesi. Secondo loro vuole essere un modo per “attirare l’attenzione sul tema”, in realtà è una forma di opportunismo per stare sul trend e far parlare di sé secondo l’adagio che “tutto va bene purché se ne parli”.
E invece no, sarebbe decisamente il caso di darsi una bella regolata.
Perché non tutto è merce, e non tutto si può mettere assieme pur di prendere una campagna grigia e scontata e farla balzare agli onori (nella fattispecie disonori) della cronaca.
Se il messaggio voleva essere di speranza, qui l’unica speranza è che la si smetta (una volta e per tutte) di usare la tragedia umana come spot per vendere.
Infondo uno degli slogan è “in Italia per essere una sposa e non una prostituta”. E appunto vorremmo un po’ tutti che certi temi vengano forzatamente prostituiti al marketing.

(allego la gallery)

Saviano e il plagio

Non voglio entrare nel merito dela questione “Saviano-plagio”. La questione attiene ai tribunali, in cui le parti che si sono sentite lese hanno dimostrato i fatti e giudici terzi, in un regolare processo in più gradi e seguendone le procedure hanno riconsciuto le loro ragioni. Il resto sono polemiche sterili, che non riguardano né l’informazione, né la lotta alle mafie, né il giornalismo, né i fatti.
 Non entro nemmeno nel merito della vicenda tra Saviano e Ordine dei Giornalisti e Sindacato Unitario della Campania. In proposito gli articoli sono tre. E chi si vuole fare un’opinione, scevra da commenti, li trova qui.
 La nota congiunta di Ordine e Sindacato Regionale, La replica di Saviano su l’Espresso e questa la contro replica di Ordine e Sindacato e dei consiglieri nazionali FNSI


Questa vicenda però porta con sé almeno tre considerazioni, che partono da Saviano e dal giornalismo e dal mondo dell’informazione per descrivere – ed in questo questa vicenda è davvero emblematica – il tempo della comunicazione in cui viviamo.
La prima considerazione è che ormai non si scrive più “andando sul campo”, ma si usano pc sempre connessi. [ne ha ben scritto Federico Varese su La Stampa]Il che porta spesso a ricercare conferme e dettagli online. Ciascuno ha il suo metodo. Ma altrettanto spesso si ritiene che “dato che sta in rete allora è gratis”, oppure copiabile, come se fosse proprio. E non è così. Vizio discreto ma grave, almeno se e sino a che non c’è malafede.


La seconda considerazione è che “abbiamo bisogno di eroi”, o quanto meno di simboli. Forse ne abbiamo tanto più bisogno quanto più il tempo accelera e i modelli delle nostre vite diventano precari. Ma questa ricerca di miti e di personaggi cui concediamo ogni attenuante e assoluzione non è un bene, nè per le batteglie di cui sono simboli, nè per la società nel suo complesso.
La terza considerazione riguarda una patologia assordante che riguarda sia l’informazione che la politica, il giornalismo, il mondo dell’impresa, e tutto quanto a torto o a ragione considera se stesso come “soggetto apicale”. Se subisce un qualsiasi attacco diventa atto di lesa maestà, il che si traduce spesso (come in questa vicenda) di un uso personale e personalistico di uno spazio che non gli appartiene. Un vecchio adagio recita che “i giornali sono dei lettori”. Per questo non dovrebbero mai essere uno spazio privilegiato e personale per replicare su questioni personali o che dovrebbero avere un luogo naturale “altrove”. Ci si dovrebbe chiedere se una persona “normale” colpita dalla stessa accusa avrebbe a disposizione gli stessi media per consolidare a proprio favore l’opinione pubblica. E chiaramente sappiano che non è così, e che non avrebbe tali mezzi.


Saviano copia. È un fatto accertato e non in discussione.
 A scanso di equivoci non è questa né la sua colpa né in sé il reato. Semmai lo è non aver mai messo (se non dopo condanna giudiziaria) una sola nota, un solo credit, una sola postilla (eppure non costava nulla e sarebbe stato facilissimo) per dire da dove aveva preso quella informazione o il nome di chi aveva dato quella notizia.
Ciò come dicevo prima sarebbe un vizio discreto ma grave, almeno se e sino a che non c’è malafede. E qui invece comincia qualcosa di grave che trasforma tutta questa vicenda in qualcosa di diverso.
Una società che ha bisogo di eroi genera mostri. E i miti di cui ha bisogno e che alimenta e droga con il doping mediatico finiscono con l’essere schiavi di un ruolo irrinunciabile. I personaggi finiscono con il credere davvero al proprio mito, e di considerarsi davvero supereroi, intoccabili, ai quali muovere una critica significa compiere atto di lesa maestà.
Occore un’alchimia non solo mediatica ma anche industriale: occorre cioè che il mito porti reddito e fatturato, così che chi guadagna da quel mito abbia tutto l’interesse a che ci sia polemica, dibattito e spazio (mediatico). Se c’è questo tutto torna e funziona e diventa un circo. Anche quando il tema sono le mafie e si parla – spesso a sproposito – di “morti ammazzati” e di veri eroi civili con un po’ troppa leggerezza che sfocia nella blasfemia, o almeno nel “pessimo gusto”.


Saviano non cita i giornali da cui prende notizie e fatti a piene mani perchè è troppo preso dal mito di sé come unico e solo eroe dell’informazione anticamorra. Non può ammettere o dire o dichiarare che ci sono tanti giornalisti che ogni giorno fanno informazione “vera” e seria e rischiano anche più di lui. Senza scorte e senza comparsate tv, e i cui articoli (spesso veramente scottanti e originali) non vengono pagati migliaia di euro.
Saviano non può citare i gironali da cui attinge, perchè sono gli stessi giornali che definisce “collusi” o che spesso ne criticano gli eccessi, e da star mediatica sa bene che nominarli sarebbe fargli pubblicità.
Saviano ha parlato sempre di sé stesso come di un giornalista, senza esserlo.
Oggi paragona sé stesso a “un abusivo dei giornali”, parlando al grande pubblico che immagina e desume sia la stessa cosa. Mentre Saviano sa bene che gli “abusivi” nei giornali di qualche decennio fa erano giornalisti, iscritti all’ordine, che semplicemente non avevano un contratto.
Cosa ben diversa da chi giornalista non è, scrive (come può fare liberamente chiunque, ma senza definirsi giornalista) ma di contratti ne ha parecchi, e decisamente ben pagati.

Saviano spara nel mucchio, attacca una categoria in generale, senza distinzioni, pur di salvare il mito di se stesso da cui lui stesso dipende.


Chi lo critica è servo, corrotto, colluso, parte di un sistema.
La scelta offerta alla massa è un manicheismo quasi settario, o con lui o con la camorra. Dimenticando che il primo atto di legalità è il riconoscimento del lavoro altrui.
Ciò che non esclude il merito dello scrittore-Saviano: aver acceso i riflettori su un fenomeno in generale e sul clan dei Casalesi in particolare, che sino a Gomorra erano relegati – appunto – alle folte pagine di cronaca locale ed al lavoro di cronsiti di frontiera.
La reazione dei fan – che scientemente Saviano stimola e spinge alla alzata di scudi ogni qualvolta qualcuno osa criticarlo – è violenta e scomposta… tipica di chi non può far a meno del personaggio di se stesso da cui dipende: il Daily Beast finisce con l’essere al servizio del narcos, i giornali locali al soldo della camorra, i colleghi che lo criticano sono gelosi o rosiconi, tutti soggetti di un complotto dei poteri forti che lo vogliono far tacere…
Eppure, basterebbe mettere due note ogni tanto, senza polemiche. E senza inventarsi novello inventore di presunti generi letterari.
A meno che queste polemiche non servano per alimentare l’esistenza di un personaggio senza il quale, a ben vedere, Roberto Saviano non saprebbe vivere.

Non chiamiamoli delitti passionali

Ripensavo ad un modo tutto giornalistico di definire alle volte nella maniera peggiore le cose. Li chiamano “delitti passionali” – omicidi, per altro spesso eseguiti con una violenza tremenda, nell’ambito di relazioni (finite) di natura sentimentale (nel senso che la natura sentimentale, se c’era, c’era prima). È bene chiarirlo, per non offendere la parola “passione”, per non toccare nemmeno marginalmente i tanti che vivono una relazione autentica, che in sé ha anche momenti “non gradevoli” ma nondimeno hanno altre strade solutive, e per non offendere l’autenticità dei sentimenti. Solo delitti, efferati. Che non hanno nulla di passionale. Se non cominciamo a declinare certe cose per ciò che sono, rischiamo di tornare molto indietro, anche se solo di pochi decenni. Ve lo ricordate? Si chiamava “delitto d’onore” e quando fu abrogato io avevo sei anni! Per chi era assente, o ha scarsa memoria, facciamo un riassunto.


In Italia, sino a pochi decenni fa, la commissione di un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (ad esempio l’uccisione della coniuge adultera o dell’amante di questa o di entrambi) era sanzionata con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, poiché si riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” valeva di gravissima provocazione, e la riparazione dell’onore non causava riprovazione sociale. L’art. 587 del codice penale consentiva quindi che fosse ridotta la pena per chi uccidesse la moglie (o il marito, nel caso ad esser tradita fosse stata la donna), la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”. La circostanza prevista richiedeva che vi fosse uno stato d’ira (che veniva in pratica sempre presunto). La ragione della diminuente doveva reperirsi in una “illegittima relazione carnale” che coinvolgesse una delle donne della famiglia; di questa si dava per acquisito, come si è letto, che costituisse offesa all’onore. Anche l’altro protagonista della illegittima relazione poteva dunque essere ucciso contro egual sanzione.


Dopo il referendum sul divorzio (1974), a dopo la riforma del diritto di famiglia (legge 151/1975), dopo il referendum sull’aborto, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate con la legge n. 442 del 5 agosto 1981. Il punto è che dietro ad una facile (perché no, anche efficace) definizione giornalistica, è facile far passare anche la semplice percezione di un’idea di attenuante – laddove dovrebbe più civilmente essere considerata invece un’aggravante. Il luogo – la relazione affettiva – lo stato comunque di affidamento e di conoscenza dell’altro, il ricordo, il sentimento che c’era stato, i ricordi condivisi, invece di essere comunque un patrimonio su cui semmai costruire qualcos’altro, vengono usati per compiere un delitto. Poco vale – per quanto grave e serio – che molti psicologi stiano esaminando questa straordinaria escalation di delitti di questo genere anche sulla base di un quadro che rende precario tutto nella vita delle persone.


Laddove prima almeno alcuni punti fermi restavano, anche alla fine di una relazione, oggi “la persona” è circondata da momenti e ambiti di precarietà – che di certo affievoliscono le barriere inibitorie, accentuano l’esigenza di auto-salvaguardia, e creano una percezione anche del dolore della fine della relazione affettiva anche “oltre” la sua reale dimensione. Certo tutto questo è vero, crudamente reale, e oggettivamente percepito da tutti noi, ma guai a far passare, anche attraverso una semplice circumlocuzione verbale un’accezione anche solo percettivamente attenuante. Ed in questo – ancora una volta – chi fa informazione, non può sentirsi privo di responsabilità e autoassolversi, perché esercitare una professione deve significare assumersi il peso di una scelta, e non cercarne l’attenuante.

Telecom e il telemarketing scorretto

È l’ultima frontiera del telemarketing telefonico in Italia.
“Qui è l’ufficio contabilità di Telecom Italia. Volevamo informarla che dal prossimo bimestre scadono tutte le sue offerte e non ci sarà possibile proporLe nessuno sconto. Pagherà quindi quaranta euro in più “pausa “… Se decidesse di cambiare operatore sappia che con la riforma Bersani non dovrà fare nulla, non avrà costi e si occuperà di tutto il nuovo operatore. Volevamo solo informarla”.
In meno di un’ora un’altra telefonata. “Salve la chiamo da … (generalmente Vodafone o Fastweb, uno degli altri operatori, non cambia) volevamo proporle…”
Chiaramente la capacità di chiusura contratti telefonica della seconda telefonata è molto superiore essendoci stata la prima. E spesso le telefonate riguardano utenze intestate a persone anziane o in tarda mattinata quando “i mariti” (che ancora generalmente seguono queste cose) non sono in casa.


È questa la nuova frontiera del telemarketing da call-center, cui si affidano i commerciali dele compagnie telefoniche per generare contratti. Contratti che si traducono in pochi euro per l’operatore chiamante ma in migliaia di euro sia per il gestore del rapporto commerciale sia per la compagnia telefonica.
La pratica è molto diffusa e di certo la strategia adottata non è partita dagli operatori.
Almeno non credo affatto che Vodafone o Fastweb diano questa strategia e questa formula ai call-center cui si affidano per sviluppare la crescita del proprio fatturato e per attrarre clientela.


Chiaramente qui esistono una molteplicità di reati, che vannno dal millantato credito al falso, alla vera e propria truffa e raggiro, e che riguardano tutti la prima telefonata: non chiama nessun ufficio contabilità di Telecom, non esiste alcun rincaro, non esiste alcuna fine delle offerte. Il solo scopo è quelo di creare un’ansia ed una preoccupazione cui la seconda telefonata possa essere la soluzione attesa e provvidenziale.
Chiaramente – come direbbe anche l’ultimo degli avvocati – non c’è alcun nesso e responsabilità nelle azioni dell’operatore con la compagnia telefonica proposta nella seconda telefonata. Non vi è alcun coinvolgimento diretto nè azione deliberata. Nè chi chiama è dipendente della compagnia telefonica.
Esattamente come i titolari dei call-center, che non sono certo reponsabili e – affermano – non possono conoscere il contenuto della telefonata compiuta dal proprio dipendente (che spesso non ha nemmeno un contratto tale, e quindi viene anche meno un certo grado di responsabilità civile e penale) quasi come se quella telefonata fosse avvenuta “di sua iniziativa” e il contenuto “una sua creatura”. Già, anche quando le telefonate sono numerose, da parte di persone chiaramente differenti, e tutte uguali. Sarà un caso di creatività monocorde.
L’aspetto più drammatico è che alla fine di tutti questi reati ne finirebbero con il risponderne, proprio per quanto sin qui detto, i singoli operatori, coloro che materialmente ci mettono la voce e compiono il gesto e l’azione della telefonata.
 Gli ultimi, i mal pagati, i precari a vita, per quatrro soldi in tasca.


Eppure se andiamo a vedere i siti internet e le campagne di comunicazione delle grandi compagnie telefoniche, ci parlano spesso di responsabilità sociale di impresa, di etica, di correttezza, di trasparenza, di attenzione al cliente… e investono milioni dei loro ricavi in progetti sociali e ambientali.
Ecco, la domanda che sorge davvero semplice, banale e spontanea, forse anche apparendo un po’ ingenua, sarebbe… ma non è il caso di metterci un po’ di etica anche nel marketing, di darsi qualche limite, di controllare i sub appaltatori cosa fanno, come agiscono, e come raggiungono i risultati?
Perchè se è vero che parte degli utili derivano anche dal taglio dei costi, e quindi dal pagare sempre meno i call-center, è pur vero che consentire campagne come queste finisce con il diventare un boomerang, cui è difficile mettere una pezza. 
E regge poco l’idea del “non sapevo”, non sono miei dipendenti, non abbiamo dato noi queste direttive, non siamo responsabili, non potevamo sapere/controllare etc etc etc

Il Pd e lo psicodramma da primarie

In origine doveva essere lo strumento di modernizzazione e caratterizzazione del Partito Democratico. La via per selezionare e far crescere una classe dirigente, per la scelta dei candidati, per ascoltare e recepire forze ed energie dai territori, dalle storie locali, dalla sempre evocata società civile.
Oggi questo strumento ha più le sembianze della sempreverde notizia di gossip politico di cui parlare, e spesso sparlare, finanche per attaccare e ridicolizzare la partecipazione democratica del partito erede dei “grandi partiti di massa” del novecento.
Mentre a livello nazionale le primarie sono state il momento attraverso cui si è celebrato il rinnovamento del partito, e senza le quali da Renzi a Civati a Marino a tanti giovani deputati non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di emergere e vincere, sotto Roma questo cambiamento non solo non si è visto, e anzi lo strumento delle primarie è stato riciclato per consolidare, con sporadiche eccezioni, la vecchia classe dirigente.


Eppure dovremmo ricordare che fu l’allora giovane segretario provinciale del Pds, Andrea Cozzolino, che anzitempo, per superare un’impasse a Ercolano, propose le primarie interne per la scelta dei candidati. Sarà per questo che ancora oggi ne è un tale fan che non se ne perde una.
Le primarie, al sud, e in particolare in Campania, sono finite con l’essere lo strumento più patologico per misurare le alleanze correntizie e i rapporti di forza interni, senza consentire la minima possibilità di un qualsiasi nome non contemplato.
La classe dirigente dal primo Antonio Bassolino non ha alcuna novità. I nomi che emergono sono gli stessi da oltre venticinque anni. Andrea Cozzolino, Umberto Ranieri, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca. Dietro di loro la stessa classe dirigente che era “il nuovo” venticinque anni fa e che ricordiamo assessori e dirigenti proprio in quegli anni: Valeria Valente, Massimo Paolucci, Graziella Pagano. Accanto a loro i vari Manfredi, Impegno, Marciano: una generazione che non ha sostituito la vecchia, e che di certo le persone oggi faticano (non poco, purtroppo anche per loro) a vedere come “il nuovo”. Nonostante l’età e i tempi.


A ben vedere oggi le primarie non le vogliono coloro che attendono una candidatura blindata decisa altrove, in una sorta di rendita di posizione. Non la vuole “la maggioranza”, che con le primarie rischia di vedere messa in discussione una certa leadership. Non se le possono permettere coloro che aspirano a ruoli da assessore e che probabilmente non avrebbero preferenze sufficienti nemmeno per diventare consigliere comunale. La parola d’ordine per costoro è “cercare un’intesa, ascoltare, riflettere, trovare soluzioni unitarie…” che si traducono nell’accordarsi oggi per il ruolo di domani.
Quello che emerge è un partito che parla nelle sue stanze, tra persone che ricordano un potere di un’altra era geologica. Si risponde con il citare Renzi, il cambiamento, la svolta, le riforme. Ma quando vai nel merito di un progetto per il territorio, e poni il tema di chi dovrebbero essere gli assessori, su quale programma e per fare che cosa, emerge tutto il vuoto di non avere una visione politica di insieme. Tipico di chi – non più abituato ad essere opposizione – ha perso anche questi cinque anni per ripensare autocriticamente se stesso e formulare una proposta politica credibile e veramente alternativa. Tempo perso in inutili rancori, spesso personali, in personalismi, caccia alla rendita di posizione ed all’auto riciclaggio, e qualche volta a leccarsi le ferite.
Ad oggi il pd non ha un candidato e non ha un percorso chiaro per individuarlo, e ancora una volta si cerca la strada di una scelta calata dall’alto, ennesima pietra lapidaria su una classe dirigente sempiterna.


De Magistris ha un suo zoccolo duro non inferiore al 20-25%. Il Movimento 5 Stelle ha un suo bacino abbastanza solido non inferiore al 20-25%. Il centro destra unito ha il suo storico, consueto 35-37%. Ciò che resta è il Pd. Meno qualche punto percentuale ad una sinistra con cui non si vuole né può alleare. E meno le sempre presenti liste civiche, candidati di opportunismo e opportunità, varie ed eventuali.


Le primarie, vere, aperte alla società civile, con una classe dirigente che per una volta con senso di responsabilità facesse un sacrosanto passo indietro, alla ricerca di qualcosa di diverso, sarebbero la via per trovare non solo un’alternativa credibile a De Magistris ma soprattutto per riprendere un dialogo tra politica e città che si è perso da troppo tempo. Ma il vero avversario a tutto questo è proprio la stessa classe dirigente del pd, nel suo insieme. Se ne facessero una ragione.

Salviamo i nostri poeti dalle nostre parole

È da qualche tempo che agli annunci di ritiro di questo o quel cantautore spuntano commenti decisamente discutibili. È certamente uno degli effetti dell’allargamento della capacità di comunicazione della nostra società. È un fatto normale – che appartiene alla vita dell’uomo – quello di “smettere” un certo mestiere o comunque, con il tempo, cambiarne le forme ed i modi con cui lo si esercita. È stato così per i Modugno, per Claudio Villa, per Mina, per Battisti, solo per citare alcuni grandi. Eppure, da loro avremmo dovuto imparare una lezione importante. L’uomo cambia le forme con cui si esprime nel tempo, ma il poeta è malato della sua sensibilità, e il massimo che gli è concesso è cambiare la forma, e cambiare i tempi, ma non certamente di smettere. Ma nell’era del tutticommentanosututto e in cui si confonde la libertà di espressione con il diritto di esprimersi necessariamente su tutto, anche su quello di cui non si sa, accade sempre più spesso che non ci si soffermi a riflettere. Ed ancora più spesso accade che per “emergere fuori dal coro” e per qualche minuto di apparente celebrità ci si trasformi in carnefici, e si scordi molto delle persone di cui si parla e della cui vita si commenta.


È bastata una querela di Vasco Rossi ad un sito di “satira” per scatenare l’inferno contro Vasco – e non una sola riga quando i gestori del sito hanno riconosciuto che Vasco aveva ragione, hanno chiesto scusa, hanno ammesso le proprie responsabilità, e Vasco Rossi ha ritirato semplicemente la querela – per altro querela giunta dopo che per tre volte il suo ufficio stampa aveva chiesto la rettifica, senza nemmeno ricevere risposta. Forse il sito voleva solo un po’ di pubblicità… non pensate? Trovo scandalosa, sempre di recente, la polemica tra i fan di Vasco e quelli di Luciano Ligabue. Come se ci potessero essere fazioni tra contenuti, per altro simili, a guardare le parole. Eppure è storia antica, i fan di questo o quell’autore teatrale, di questa o quella commedia o tragedia, dimentichi che “dietro” non vi era il teatro, ma la “visione politica” rappresentata – e spesso quelle faziosità erano “pagate”. Le società dovrebbero tutelare ed avere a cuore, e difendere e conservare come doni preziosi unici e irripetibili i propri poeti. Lo dovrebbero fare per quella straordinaria capacità di macinare la realtà e restituircela senza digerirla e giustificarla con occhi nuovi e diversi.


Per mostrarci chi e cosa siamo, e chi e cosa siamo diventati. Da sempre certe critiche – a Guccini, a De André, a Pasolini, a De Filippo – mi sono sembrate il frutto autentico di quella malattia che tutti abbiamo – la cecità nel non vedere quello che vedono loro. E per non metterci in discussione, preferiamo sparargli addosso. Da sempre. E forse per sempre. Nelle tribù africane o in quelle del deserto australiano – quelle che consideriamo incivili – gli “anziani”, i poeti, i cantastorie, gli artisti, i pittori, i “maestri”, non accumulano ricchezze ma vengono mantenuti dalla comunità – come patrimonio sociale e irrinunciabile. Chi sono i “non civilizzati”? …vorrei essere anche io così non civilizzato! Per tornare a Vasco Rossi, vi dirò come la penso. Penso sia una “bella persona” nonostante tutto. È uno che è sempre stato pronto e disponibile a regalare una sua canzone a questo o quell’artista “pop” che affrontava un “momento di stanca” e che è “tornato in auge” grazie anche al fatto di poter dire “è una canzone scritta da Vasco”. È uno che ci ha raccontato la vita, e non avrebbe potuto farlo in una certa maniera senza averla vissuta in un certo modo. Ma con tanti eccessi, il signor Vasco Rossi non si è mai nascosto, ha sempre ammesso, ha sempre riconosciuto, sempre dichiarato, sempre pagato tutto di persona senza facili scorciatoie e scappatoie, ci ha messo la faccia e se ne è assunto le responsabilità. Ed è uno che avendo pagato sempre e tutto, nonostante tutto, non ha mai preteso di essere o si è spacciato per “modello di vita”, non ha mai fatto la morale a nessuno, non si è mai candidato in politica, non ha mai fatto la predica moralista, a differenza i tanti altri che con troppa faciltà (almeno quanta scarsa memoria) gli sparano addosso.


Ai fan di Luciano Ligabue dico solo una cosa: senza Vasco, non esisterebbe la musica di Luciano Ligabue. Qualche mese fa ha annunciato il suo ritiro dai concerti il maestro Fossati, ultimo grande della scuola genovese. Oggi lo dice – come pensiero ed intenzione – quella roccia granitica che è Francesco Guccini. Dire “sono stanco” – oggi – è un atto di poesia ed umanità – rispetto ai sempiterni belli che stanno in tivvù a dirci cosa fare e quando farla – ad esprimere opinioni tuttologhe su tutto e tutti – senza ritirarsi mai… Pretendere di non fare la “rockstar a vita” è un atto di resistenza umana – e di questo dovremmo dire un altro grazie a un poeta – che si ritira ma non smetterà di scrivere sino a che morte non lo separi da questo mondo… (un pò destino, un pò talento, un pò condanna).


Invece di leggere affermazioni sul quanto hanno guadagnato per “potersi permettere il lusso di ritirarsi” (il che evidenzia solo una insana invidia) vorrei leggere qualcosa di meno di sdolcinati e mielosi elogi funebri in vita e mi basterebbe un semplice grazie. Grazie per quello che continueranno (e lo sappiamo tutti) a scrivere e raccontarci. Grazie per le parole riuscite, per i versi perfetti, e grazie per quelli ancora sconnessi, ma che aprono la strada e lasciano aperto lo spiraglio per il cimento di nuovi “poeti”. Grazie per le parole raccontate, per l’energia trasmessa, per le storie rinarrate, per i ricordi che ciascuno di noi ha, nella sua propria individuale vita, legati ineluttabilmente a questa o quella canzone, a quella strofa, a quel verso. Grazie per gli occhi sul nostro mondo, e per avercelo restituito tradotto con nuova linfa. Semplicemente… …il resto sono e restano chiacchiere da osteria. Vorrei chiudere con due video – il primo di Pasolini, sugli intellettuali il secondo, è il ricordo di Pasolini per voce di Eduardo De Filippo.

La paura e la politica

Lo strumento di maggiore (e in termini di efficacia migliore) controllo di un popolo è la paura. Un tempo la paura era immediatamente riconducibile a misure dirette di repressione violenta, per cui si gestiva l’opposizione attraverso la violenza diretta, in tutte le sue forme, dal carcere, ai pestaggi, alla chiusura o distruzione di sedi di partito. Questi comportamenti però, soprattutto con la diffusione dei mezzi e degli strumenti di comunicazione, finiva con il rafforzare gli oppositori di un sistema, aggregando a questi anche coloro che semplicemente non ammettevano la violenza come strumento politico. Ciò non riguarda solo regimi veri e propri, spesso usati come esempio.


Le grandi battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti sono state vinte proprio quando leader come King hanno “usato” i sistemi di comunicazione mostrando gli aspetti più cruenti delle forme repressive di alcuni sceriffi e governatori degli stati del sud. Oggi la paura è uno strumento di propaganda politica ed economica. È una forma di paura dialettica, espressa in maniera generica ed in forme indefinite. Ne abbiamo molti esempi. La paura degli “extracomunitari” [categoria generica in cui teoricamente rientravano tutti gli stranieri, ma in maniera propagandista ovviamente solo quelli “poveri” – mica americani, canadesi, australiani, giapponesi…] colpevoli di ogni male economico e sociale degli anni novanta in Italia era il cavallo di battaglia della Lega Nord.


La paura della “chiusura degli stabilimenti” (altra categoria generica) induce all’accettazione di variazioni contrattuali, senza che spesso vi sia un nesso diretto tra causa ed effetto, e tra modifica delle condizioni e produttività. La paura di restare senza copertura sanitaria a causa della perdita del posto di lavoro ha evitato di fatto qualsiasi forma di sindacalismo e di sciopero negli Stati Uniti, soprattutto negli anni dei tagli più forti alla produzione interna sotto l’amministrazione Reagan. La paura dei “comunisti” giustificava qualsiasi azione di repressione dei diritti civili negli anni sessanta, e casualmente in maniera direttamente proporzionale cresceva l’economia. Dall’altra parte, la paura del mostro americano giustificò a lungo le repressioni di Stalin.


La paura delle “api assassine”, del “millennium bag”, sono “virus” che fanno aumentare la percezione sociale di pericoli imminenti, e come i virus sanitari sotto forma di una nuova e diversa influenza ogni anno, generano mercato, un mercato di paura: vaccini, scorte alimentari (casualmente questi allarmi coincidono con i medi di dicembre ed agosto, periodo in cui è utile alle grandi catene svuotare i magazzini). Per tutto il suo mandato George W. Bush non ha mai sostenuto un solo discorso sullo Stato dell’unione – momento costituzionalmente previsto in cui a camere unite il presidente espone i dati sullo stato dell’economia, dell’occupazione, della salute della federazione – limitandosi a dire che “siamo sotto attacco”, che la “guerra contro i nemici della democrazia e della libertà…” etc etc.


Le paure sono spesso legate a luoghi comuni veri e propri, considerati veri fatti storici e per questo nessuno prende in considerazione nemmeno l’ipotesi di verificarli. Tra questi “gli zingari rapiscono i bambini” – oddio ci sarà anche stato qualche atto simile, ma negli ultimi trentacinque anni (da quando i database europei sono in qualche modo collegati) non risulta una sola condanna definitiva per un solo caso di rapimento in tutta Europa. A Napoli grande risalto ebbe la notizia che nella zona di San Giovanni una madre aveva sorpreso degli zingari del vicino campo nomadi mentre prendevano il figlio dalla culla – subito il quartiere in rivolta assaltò il campo lì vicino; in pochissimi sanno che l’esito delle indagini fu un interesse diretto della camorra a quell’area. Una ragazza a Torino, l’anno scorso, ha dichiarato di essere stata stuprata da uno zingaro – immediata la reazione della popolazione che ha letteralmente assaltato il campo nomadi dandolo alle fiamme – quasi nel silenzio è poi passata la notizia che aveva inventato tutto per nascondere la sua relazione alla famiglia. Ecco due piccoli effetti collaterali del credere ciecamente ai luoghi comuni della paura: che vengano usati per altri scopi.


La paura di presunte armi chimiche, batteriologiche, nucleari, ha giustificato senza troppe domande la guerra in Iraq – poco conta che non siano state mai né trovate né ne sia stata data nemmeno la prova indiziaria. La paura che “tutto il sistema crollasse” ha di fatto obbligato l’amministrazione Obama a “regalare” alle banche circa 1.500 miliardi di dollari.


Da noi la paura di un colpo di stato di sinistra giustificava il congelamento della politica e della società italiana nel pentapartito. Poi, la paura di un colpo di stato di destra, giustificava lo stesso congelamento. La paura di un cambiamento della classe dirigente italiana a seguito di mani pulite fece entrare in politica Silvio Berlusconi, e la paura che “i comunisti liberticidi” andassero al governo fu il tema unico della sua campagna elettorale; chi lo attaccava era “un comunista”; chi ne metteva in evidenza dubbi sulla storia personale e finanziaria e chi poneva la questione dei conflitti di interessi, era un complottista.


Oggi, la paura di “quello che potrebbe succederci” (sic!) giustifica qualsiasi misura di tagli alo stato sociale, alla previdenza al mercato del lavoro. Ciò anche laddove è evidente che non ci sono nessi diretti, ed anche quando misure strutturali reali e realizzabili non vengono nemmeno considerate.
L’Ilva di Taranto viene sequestrata dalla magistratura (non da Greenpeace!) perché inquina, e non poco, e in maniera grave, continuata, reiterata, conclamata. L’azienda replica “se chiudete qui, chiudiamo anche altrove” (il nesso? Qualcuno lo ha davvero appurato?) Replica del ministro della giustizia (sic!): non ce lo possiamo permettere. La paura di perdere posti di lavoro in un momento difficile, annulla responsabilità e reati, e giustifica nel silenzio collettivo che sia lo Stato (non si capisce perché) a pagare un investimento di un’azienda privata, che avrebbe per altro dovuto fare dieci anni fa e con risorse proprie!


Ma la paura è uno strumento che non riguarda solo i grandi tempi, gli stati, la politica nazionale. La paura viene insinuata nel piccolo comune, e soprattutto nel cittadino comune, dal basso, nella cellula più piccola della nostra società. “Se parte il termovalorizzatore Parma diventerà come Napoli”
La migliore macchina della paura è però quella sulla “crescente microcriminalità”. “Dobbiamo organizzare le ronde per difenderci dalla criminalità crescente” tuonava la Lega – ed oggi tutti danno per certo il dato su una situazione di criminalità diffusa e capillare. È una sensazione che abbiamo “a pelle” – negarla è cecità. Ma è anche vera? O confondiamo in maniera percettiva ciò che vediamo e sentiamo con ciò che accade davvero attorno a noi? Nel nostro paese il 68% delle fiction contiene microcriminalità ed è ambientato in serie poliziesche. Il 70% delle serie che importiamo è incentrato su serie criminali, direttamente o indirettamente. Va meglio con i film, che contengono violenza quotidiana per il 40% e scene di violenza fiction per il 24%.


La cronaca, spesso nera, fa notizia, e compone una media annuale del 28% dei nostri telegiornali e il 35% degli approfondimenti, non solo serali ma anche pomeridiani. In qualche modo siamo “abituati”, è come se tutto questo fosse reale, ripetuto, reiterato. Finisce con l’essere la nostra realtà, quella vera. Che i dati abbiano evidenziato invece dal 2000 al 2008 un calo costante del 4% all’anno, con punte del 6%; che certe aree siano decisamente e fortemente al di sotto della media europea, che le nostre città “più pericolose” (come Napoli, Milano, Palermo, Roma) per quanto saltino agli onori della cronaca per singoli episodi e fatti eclatanti, abbiano una diminuzione anche del 18% della microcriminalità… sono dati (anche se veri) considerati falsi, da una popolazione che ha la percezione epidermica di essere minacciata.


Questa “cappa di paura” schiaccia la società. Non le consente nemmeno una ipotesi di cambiamento. Blocca la spesa, e giustifica qualsiasi misura “spacciata” per necessaria. Certo, non arriviamo al “patriot act” americano, ma non siamo molto distanti, soprattutto se consideriamo il sistema nel suo complesso, e se consideriamo che la piattaforma dell’informazione e dei dati personali è sostanzialmente globalizzata.
Una democrazia dovrebbe vivere il momento elettorale come uno strumento di controllo, un momento di verifica e un atto di esercizio di una funzione di gestione del potere collettivo, che prima di tutto assume alla funzione di sistema di evitare ingerenze esterne sulla collettività. Oggi viviamo come una “minaccia” anche solo l’ipotesi di andare a votare. “se andiamo a votare succede…” e la frase si completa con qualsiasi male che ciascuno può concepire come il peggiore. In questo, la paura, finisce con l’essere il migliore collante sociale e collettivo. Ma mi chiedo, che paese e che società è quella che viene tenuta insieme con la minaccia e la paura?


La ricetta è tanto semplice quanto complessa da realizzare, in un popolo che non è stato educato alla memoria storica e che è stato anestetizzato dalla difficile attività del leggere, preferendo il comodo “guardare”. Dovremmo diffidare a priori di tutti coloro che ci parlano di paura, che ci vogliono convincere attraverso una “minaccia”, che ci veicolano messaggi per evitare “un male”. Chi instilla, alimenta, produce, una paura, è sempre un manipolatore e un potenziale oppressore. E quando glielo dici, parla di teoria del complotto, di macchina del fango, di “poteri forti” che gli si oppongono – si chiude e chiude il proprio gruppo a difesa del leader, reiterando un metodo per cui “loro, i buoni, sono sotto attacco perché hanno ragione” e sono gli altri che “non vedono”.
La paura, da sempre, è la migliore arma per generare consenso. Un consenso facile, costruito solo sui timori naturali delle persone, cui non viene data la chance e la fiducia di essere davvero libere di scegliere, da sé il proprio futuro.

Francesco Cenedese su democrazia diretta e M5S

Conosce il ‘sistema operativo’ Rousseau lanciato recentemente da Grillo e Casaleggio? Le sembra valido dal punto di vista tecnico?



Dobbiamo fare due doverose premesse. 
La prima è che va dato atto al Movimento 5 Stelle di essere attualmente il partito politico che ha la maggiore interazione con il proprio elettorato ed ancor più ai propri iscritti. Questo è un dato di fatto che nel “mercato politico” ha una sua precisa quotazione. Del resto quale ruolo reale hanno gli iscritti agli altri partiti politici? Almeno formalmente il M5S è alla ricerca e si è dotato di strumenti se non partecipativi almeno dialogici diretti. Il resto – tra cui gli esiti – sono ovviamente discutibili. Esattamente come molto spesso – ed anche in questo caso – il metodo scelto è strumentale a due obiettivi: portare acessi (e quini introiti) al blog di Grillo, e, sempre attraverso questi accessi generare “reputation” politica, ovvero alimentare la percezione di acentralità ed interesse. 
La seconda premesa è tecnica. Rousseau non è un sistema operativo, almeno se stiamo alle definizioni tecniche e ci atteniamo ad una proprietà di linguaggio. Casaleggio lo sa bene e gioca sul gioco di parole “sistema operativo” per interndere “il sistema con cui il partito è operativo ed opera”.

Si tratta – semplicemente – di un’insieme di applicazioni, o meglio di un menù di sezioni in cui compiere certe azioni, che vanno dal consultare documenti, commentare, votare… tutti strumenti straordinariamente utili a generare accessi e numero di pagine viste, con un’esponenzialità di cui noi stessi come navigatori non ci rendiamo conto. 
Faccio un esempio: per partecipare ad una votazione online vengono effettuati non meno di 11 click, ovvero “11 visualizzazioni di pagina”. Se consideriamo che ne hanno fatte oltre 66 in un anno e che hanno partecipato mediamente 48mila persone… i conti sono presto fatti.
Con la nuova piattaforma i numeri si raddoppiano, se non triplicano.

Concretamente si tratta di un’area ad accesso riservato in cui condividere commentare “partecipare” alle iniziative legislative in Europa, in Parlamento e nei consigli regionali. Uno strumento anche di “contatto” tra gli iscritti, che potranno anche votare, commentare o informarsi. 
Da un punto di vista dei materiali non molto più di quanto non sia già disponibile in rete.
Semmai organizzato meglio – da chi conosce i sistemi di social aggregation – e “messo tutto insieme” in un luogo unico che riceverà visite esponensiali in termini di traffico web. 
Molte di queste informazioni sono già in tutti i siti di tutti i partiti politici. Qui si può accedere solo se sei iscritto – e non è materiale disponibile al pubblico. In più puoi votare, e va poi declinato il peso e il senso di questo voto caso per caso.


Quali sono i potenziali problemi che vede in Rousseau? Crede sia possibile garantire l’imparzialità visto che il tutto è gestito dalla Casaleggio Associati?


Dobbiamo chiarire. L’unico luogo in cui conterebbe l’imparzialità (meglio definirla neutralità o terzietà) sarebbe nel processo di votazione. Questo è difficilmente garantibile in ogni momento di vita interna di ogni partito politico. Certo, che tutto avvenga in digitale e soprattutto che avvenga su una piattaforma “interna” gestita internamente non è indice di “certezza terza”. 
Provocatoriamente potremmo chiedere perchè non usare le piattaforme messe a punto dal PirateParten tedesco, ma la risposta è facile: sarebbe “altrove” e non porterebbe accessi al blog.
 Casaleggio ripete spesso che sono votazioni certificate da “un soggetto esterno” che però non certifica alcun risultato, ma solo il rispetto del percorso indicato e che ci siano o meno violazioni esterne della piattaforma, ma non ha alcun modo di certificare il risultato.
 Le consultazioni “in sé” sono già manipolate, ad esempio allargando o stringendo gli orari in cui si può votare, o con quanto preavviso comunico una data di votazione è chiaro che “modifico” quanto meno il grado di partecipazione, che quando è più ristretto, tanto più darà un risultato maggiormente ortodosso rispetto alla linea ufficiale, mentre ampliando la partecipazione generalmente aumento il numero dei votanti “critici”. È semplice ingegneria sociale se vogliamo, e chi si ocupa di web e social network queste cose le sa bene.
 Oltre questo è chiaro ed evidente il rischio che “uno vale uno” e “decidono i cittadini” siano degli slogan e che poi “il risultato finale” sia qualcosa di scritto altrove e da qualcun altro. Sia chiaro, il tema non è se ciò avvenga o meno o in che misura concretamente avvenga. Il tema è che nessuno garantisce con certezza che non avvenga e che non possa avvenire.


Il recente referendum in Grecia è stato lodato da molti come un esemplare esercizio di democrazia. Lei pensa che sia stato giusto consultare i cittadini su un tema complesso come quello delle negoziazioni tra creditori e lo stato sul debito?


Io credo che sia un bene per la democrazia informare. E un bene per un Paese che i propri politici abbiano ben chiaro che il proprio mandato è a tempo, e che di fronte a scelte che travalicano il destino di una generazione occorrono almeno due cose: un ampio consenso parlamentare (oltre la semplice maggioranza di governo) e un “mandato straordinario” popolare. 
Del resto anche da noi è previsto un referendum in caso di modifiche particolari dell’assetto costituzionale, indipendentemente dalle due letture parlamentari. Il che ci riporta al concetto di un “mandato politico straordinario aggiuntivo”.
Fatta questa premessa però la politica dovrebbe impostare la propria comunicazione esattamente in questi termini: spiegare il contenuto della scelta da compiere, e non trasformare (come quasi sempre accade) un referendum in un sondaggio politico su questa o quella maggioranza, o su questo o quel leader. O peggio leggere in questo modo il risultato referendario.
 In Grecia oggi, in Italia nel 2016 o 2017 che sia…


Crede sia pratico consultare gli iscritti su temi anche complessi o ‘market sensitive’?


Doveroso. E la domanda – anch’essa provocatoria – è perchè tutti i partiti non lo facciano.
 Semmai anche mostrando e proponendo ciascuno un proprio modello differente, alternativo, così che possiamo tutti confrontarci su quale sia il migliore, come migliorarlo e come rendere questi strumenti “imparziali”. 
Chiaramente è una provocazione perchè se al popolo del centro destra venisse chiesto se sono a favore o contrari a primarie interne di coalizione, cosa pensate risponderebbero? Se chiedessimo ai cittadini se vogliono che i candidati (italicum o meno) siano scelti con primarie (chiuse o aperte) o dalle segreterie di partito, secondo voi cosa sceglierebbero?
 Tutti esiti che minerebbero alla base molte delle scelte politiche dei leader, scelte su cui si basa il loro potere, la propria maggioranza o le proprie clientele.
 Molti parlamentari da queste scelte – a torto o a ragione – sarebbero spazzati via. Non che sia un bene o un male, ma è la democrazia, e non la si accetta “a pezzi”.


In questo senso, crede possa funzionare la democrazia diretta proposta dal M5S?


No. La democrazia diretta non esisterebbe, non è mai esistita e non può esistere.
 Esistono varie forme di delega, e soprattutto varie forme di controllo e contrappeso dei poteri.
 Molti di questi controlli e contrappesi non dipendono solo dalle leggi ma soprattutto dai popoli. 
In Inghilterra se un parlamentare non risponde ai giornalisti la sua carriera politica è finita.
 Negli Stati Uniti uno scandalo che dovesse uscire anche su un sito o su un blog farebbe aprire un’inchiesta immediatamente. In Francia un servizio televisivo ha mostrato il ministro della sanità che andava a teatro con l’auto di servizio: solo per questo ha pagato settecento euro di multa e ha dovuto chiedere scusa pubblicamente. In paesi come la Germania, la Francia, l’inghilterra, anche i giornali più schierati – dichiaratamente – “danno la notizia”, anche se questa tocca la propria parte politica, con il risalto che merita la notizia in sé, non in base alla propria fede. È questo che i cittadini si aspettano.
Questi sono esempi di controllo democratico. Anche se non sono espliciti in leggi o regolamenti o nella Costituzione. Perchè la democrazia è, in fin dei conti, la percezione che ne hanno nella pratica quotidiana i cittadini e quanta pressione in tal senso riescono ad esercitare sui propri politici a che si adeguino.


I cittadini possono essere sempre abbastanza informati per esprimere una decisione? Uno dei benefici della democrazia rappresentativa è che vi sono degli esperti che si occupano della legislazione in vari settori. Come possono i cittadini fare delle scelte migliori degli esperti?



Quasto sarebbe vero in teoria. Se guardiamo alla prassi abbiamo avuto medici ministri della sanità che sono stati peggiori della storia, ed abbiamo avuto ottimi politici che senza essere tecnici puri hano saputo impostare una visione complessiva che ha miglioratomolto i settori di cui si sono occupati. Abbiamo una presidente della commissione antimafia che sino al giorno prima dichiarava tranquillamente che di mafia non sapeva nulla. E se guardiamo alla composizione delle commissioni parlamentari non sempre abbiamo esperti che le compongono.
 Al politico non deve essere richiesto (solo) di essere un tecnico, ma soprattutto di avere una visione politica complessiva, possibilmente almeno di medio-lungo termine.
 Per il resto esistono i tecnici e funzionari dei ministeri, i consulenti esterni, le audizioni…
 Ed anche qui interviene la partecipazione democratica, e la percezione della democrazia.
 Negli Stati Uniti esistono ampi canali aperti attraverso cui i cittadini possono interagine con le commissioni, con i parlamentari, esistono soggetti come lobby (le più potenti in termini elettorali sono quelle ambientaliste e degli insegnanti per esempio) o semplici think-thank che possono interagine sul processo legislativo di singole leggi.
 Ecco, usare i nuovi strumenti tecnologicamente disponibili per favorire la partecipazione dei cittadini è qualcosa che da noi va importato in maniera strutturale. Anche perchè i cittadini hanno una formazione, un lavoro, interessi, competenze, che possono essere utilissime in occasioni specifiche e tecniche. 
Tutto questo non è certo democrazia diretta, ma non solo è utile ai processi legislativi, ma soprattutto ad un rapporto diretto tra cittadini e Stato e migliora la percezione del concetto stesso di democrazia, per cui diventi parte delle scelte, e senti come tuo anche il dovere del controllo.

Influencers

Cos’è, cosa fa e come “si diventa” influencer nel web? 
Di questo argomento avevo già scritto tre anni fa, in un articolo dal titolo “chi sono e cosa fanno gli influencers” ed anche in un’intervista a Bonsai.


Torno sull’argomento perché negli ultimi tempi alcune classifiche mi vedono “protagonista” del tema.
 La prima è quella del 2014, classifica indipendente sviluppata dall’Università di Vienna sui top-influencers durante le elezioni europee. 
La seconda del 2015 elaborata da PolicyBrain riguarda specificatamente i blogger influenti tra i parlamentari divisi per area. 

In un suo articolo su MediaBuzz Riccardo Esposito ha detto qualcosa di chiaro su una delle definizioni meno chiare della rete, ma di cui spesso ci si riempie la bocca (e le pagine dei blog).
 “Un influencer è una persona che viene seguita da un pubblico più o meno vasto e che viene apprezzata per le proprie idee o azioni.


Io posso essere un influencer per un pubblico ristretto o vasto. Ed è proprio questa è la chiave: individuare un pubblico e parlare. Non pontificare, non dettare leggi e regole. Ciò che ha fatto la differenza tra l’attuale influencer e tutti gli altri si ritrova in pochi elementi: la sua capacità di comunicare con un pubblico ben preciso, la presenza di idee chiare e non riciclate, la capacità di produrre e condividere contenuti di qualità. L’influencer sul web non è vago, ha un viso e un nome: ha un’identità chiara. Un’identità che trova forma in idee forti. L’influencer non ricicla, non ribatte parola su parola cercando di definire la propria posizione riprendendo concetti già esposti.


Se tali sono li cita, sempre e con piacere, ma cerca sempre di formare la propria idea partendo dal proprio cuore e/o dalla propria testa. Deve avere una personalità forte, e deve avere una proprietà di linguaggio capace di far riconoscere la propria voce ovunque. Il vero influencer non è quello che si chiude nella torre d’avorio e lancia perle di saggezza, ma è quello che seleziona e condivide la qualità. Perché sa che il suo potere si autoalimenta, sa che quando è utile al proprio pubblico acquista fiducia. Le persone si fidano di chi condivide qualità senza doppi fini. Ed è questo il tuo obiettivo: diventare un riferimento. Diventare un riferimento positivo.”


Va in profondità su dailystorm Federico Sbandi
. Un social media influencer non è semplicemente una persona che ha un largo seguito virtuale. Avere 1.000 amici su Facebook e 5.000 followers su Twitter non basta.
Le 3 caratteristiche base di un influencer sono: in primis, l’attività: un profilo disposto a spendersi su più social media quotidianamente e con una certa propensione, magari, a stare sul pezzo nel commentare i fatti salienti del giorno sarà considerato meritevole di un feedback di base. Poi, l’interattività: un utente che non risponde e dimostra di voler imporre una comunicazione dall’alto verso il basso, sul lungo termine, non andrà da nessuna parte (non siamo in Tv!). Infine, c’è la questione della credibilità: in Rete basta un errore, un caso di censura, una bagarre di troppo e si può subire la gogna immediata (si pensi a tutti quei politici/giornalisti che hanno dovuto cancellare i propri account per via dei suddetti errori).


Da un punto di vista strettamente teorico/concettuale così definisce il fenomeno il sito InsideMarketing. Nel 1955, Elihu Katz e Paul Felix Lazarsfeld pubblicarono Personal Influence, un testo rivoluzionario per l’analisi delle comunicazioni di massa. Il suo punto forte risiede nella cosiddetta “teoria del flusso a due fasi della comunicazione”, secondo cui in genere un flusso di informazioni va dai media agli opinion leader e successivamente dagli opinion leader ad un gruppo sociale di riferimento. Quindi, la maggior parte delle persone basa le proprie opinioni su quelle degli opinion leader. Questi ultimi sono coloro che per primi vengono a conoscenza di un contenuto grazie ai media o ai contatti personali e, ovviamente, poi lo interpretano secondo le proprie opinioni.


Successivamente, tali idee vengono diffuse al grande pubblico che diviene un opinion follower. Secondo questo modello, dunque, i media non hanno influenza diretta sulle masse: essi possono solo rafforzare opinioni e posizioni già esistenti, grazie agli intermediari del flusso di comunicazione (gli opinion leader, per l’appunto). Così, il flusso di influenza non è da chi è interessato verso chi non ha interesse verso l’argomento, ma verso persone un po’ meno interessate. Ovviamente, sarebbe superficiale considerare questo modello a due fasi completamente attuale: dagli anni ’50, infatti, ne è passata di acqua sotto ai ponti. In primis, oggi la società è sempre più liquida, frammentata e dai confini sfumati, sempre meno legata alle rassicuranti istituzioni sociali di una volta (dalla famiglia, ai partiti politici) e, quindi, perennemente in angoscia. La società contemporanea, così, è tutt’altro che di massa (nel senso “moderno” del termine), specialmente grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi media. Tuttavia, le riflessioni di Katz e Lazarsfeld possono esserci d’aiuto come punto di partenza per analizzare i fenomeni postmoderni.


Oggi, infatti, l’influenza sociale è una dimensione molto analizzata, soprattutto grazie alle grandi potenzialità spalancatesi grazie ai social network e ai social media in generale. Questi ultimi, infatti, hanno un effetto moltiplicatore dell’influenza e garantiscono il passaparola online, lo scambio di informazioni e la partecipazione attiva alle dinamiche di costruzione identitaria e reputazionale. In particolare, una delle figure più importanti della società odierna è il social media influencer: cioè chi, per motivi diversi, s’è guadagnato una certa visibilità (ed influenza) sui social network e sul web in generale. Grazie a tutto ciò, questi brand in carne e ossa riescono spesso meglio delle aziende a indirizzare idee ed opinioni, compresi prodotti e servizi.


Provando a tornare sul tema possiamo dire alcune cose, partendo da chi “non è” un influencer di rete, e sfatando qualche mito sulle metriche spesso usate inappropriatamente o lette in maniera parziale e strumentale. 
Se su Facebook i like e le condivisioni sono certamente un indice i capacità di influenza, andrebbero maggiormente letti come “capacità di viralità”, perchè raramente parliamo di contenuti propri. Stesso dicasi per i retweet o i like, anche in questo caso quando i contenuti non sono propri dell’autore ma – come spesso accade – sono link condivisi e commentati.
 In questa ottica gli indici di engagement sono anche falsati dalla “facilità” con cui si cerca di attrarre la simpatia: si va dal populismo, al complottismo, al manicheismo, che possono essere visto come una sorta di “sottospecie social” di link baiting (ovvero quella tecnica acchiappa click usata anche da alcuni quotidiani online con titoli del tipo “incredibile, scopri cosa ha detto…” oppure “guarda cosa è successo…” e tu devi cliccare anche solo per leggere la fine del titolo).



Va anche peggio se consideriamo “gli indici di menzione”, senza fare un’analisi qualitativa di quante di queste “citazioni” in rete siano di critica, di insulto, di “inclusione in discussioni” senza alcun riferimento, ed anche quando le mensioni finiscono con il voler essere “un modo” per essere notati da quella persona (che semmai ha molti fan o follower). 
Gli indici di engagement vanno visti per quello che sono, ovvero indicatori di viralità, che molto spesso non significano altrettanta “influenza” sul lettore.
 Questa passa, al netto di tutto, attraverso due originalità: l’originalità del contenuto, e ancor più dall’originalità del punto di vista offerto su quel tema/contenuto/nnotizia.


Ciò traccia una linea di demarcazione importante e abbastanza netta tra “chi sono gli influencer”, ovvero coloro che in rete – volenti o nolenti – spostano opinione, e qualche volta la creano, e “attivisti di rete”, che possono anche avere un notevole seguito, molte interazioni, e raggiungere notevoli livelli di viralità dei contenuti condivisi, ma che di fatto non spostano opinione e non hanno alcuna centralità in termini di influenza.
 Una distinzione che, loro malgrado, tocca spesso i politici, ma anche i giornalisti o i comunicatori più o meno professionisti. 

Certo questa distinzione farà storcere il naso a molti, che proprio per numero di mensioni e citazioni invece si condierano influenti – e per carità in parte lo sono anche – ma molto del loro engagement è prevalentemente legato alla propria stretta nicchia: persone che la pensano come lui e rilanciano in continuazione quel contenuto perchè condiviso come “idea propria”, spesso acriticamente, in un circolo che finisce con il falsare l’autopercezione di sé.
 Un’analisi accurata – che nessuno spesso preferisce fare – dimostrerà che, per esempio su twitter – anche profili con 30 mila follower ricevono condivisioni e interazione sempre da pressoché le stese 100 persone. E sempre le stesse 100 persone sono quelle che condividono e commentano i post su Facebook. 



Ecco, profili che hanno queste metriche sono propri degli attivisti. Profili che spesso “ingaggiano” al di fuori degli stretti circolini relazionali sono quegli degli “influencer”.
La rilevanza di questa distinzione però riguarda anche un secondo aspetto. 
I veri e “potenti” influencer di rete non possono esserlo senza attivisti che ne amplifichino la diffusione dei contenuti, e non esistono attivisti social senza che vi sia uno o più soggetti influencer.
 Se nel marketing commerciale questa distinzione non è spesso chiarissima, nella comunicazione politica certamente è un fenomeno macroscopicamente visibile.

 Nel M5S certamente sono influencer Beppe Grillo, Paola Taverna, Carlo Sibilia, Giancarlo Cancellieri, Giulia Di Vita, qualche volta Fico e Di Maio. E questo indipendentemente dall’egagement medio e dai followers (veri e fake). Tutti gli altri sono “attivisti”, più o meno noti e più o meno autorevoli, e indipendentemente anche qui dai ruoli e dalle cariche.



Nel variegato centrodestra i profili davvero “influencer” sono pochi e molto marcati: Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Angelino Alfano, Lara Comi, Raffaele Fitto. Più o meno un “monocentrismo” dei leader delle varie anime del centrodestra, con tutti gli altri relegati a “contrno di attivismo” più o meno attivo.
 Nel PD certamente il massimo influencer è Renzi. Ma anche Roberto Speranza, Gianni Pittella, Simona Bonafé, Emanuele Fiano, Graziano Del Rio, Massimo Bray. La maggior parte degli altri account social finiscono con l’essere (per il limitato engagement con gli interlocutori) profili “attivisti”, anche in questo caso più o meno noti e più o meno autorevoli, e indipendentemente dai ruoli e dalle cariche. Ma in questo caso troviamo una novità: sono più influenti profili dichiaratamente satirici, ironici “interni” rispetto a quelli di dirigenti e parlamentari: da GianniKuperlo a RenzoMattei a L’unirenzità ai vari profili su Maria Elena Boschi.


Ed è proprio l’originalità del punto di vista, la capacità di interazione, la “criticità” del contenuto che, anche nella comunicazione politica, segna questa distinzione e anche un fake o un profilo satirico finisce con l’essere più influente di un attivista o un comunicatore o un parlamentare.
Il web ha cambiato la comunicazione – non solo personale e di marketing ma anche politica – sotto molti aspetti, e ci sono almeno tre considerazioni da fare.
La prima è che non conta “chi eri” ma come “usi lo strumento” – e quindi torniamo alla questione che il web è “un altro medium” non un uso diverso dei vecchi media…
 La seconda è che nel deserto digitale qualcosa sta cominciando a cambiare, e quindi anche i parlamentari (come tutti) ampliano i luoghi dell’informazione – e questo riporta alla considerazione della “responsabilità di ciò che fai rispetto alla audience che hai”.
La terza è che effettivamente esistono strumenti seri di misurazione del bacino di influenza, e sempre meno puoi barare sia sui numeri sia sui target – e questo riporta alla necessità di strumenti terzi (sempre) e alla necessità di conoscere il proprio peso per non usarlo mai in maniera impropria.