La cyberwar di ISIS/1

La strategia mediatica del sedicente “Stato islamico” è efficace e di successo. 
L’uso professionale dei social media ha permesso all’ISIS sia di proiettare una visione del mondo coerente sia di essere resistente a “narrazioni alternative” contro il gruppo. 
Pubblica video su base quasi giornaliera: oltre ai video di esecuzioni, il gruppo produce veri e propri film che mostrano la “statualità” della sua organizzazione e la ricostruzione delle infrastrutture. 
Lo Stato Islamico distribuisce una ricca miscela di narrazioni che vengono convogliate in immagini e legate a un corpus di scritti di varia estrazione provenienti da trent’anni di jihadismo. Attraverso la creazione di uno “stato” (in arabo: dawla) e rendendo i confini tra Siria e Iraq inesistenti, ha compreso e realizzato qualcosa su cui AlQaida si era impegnata per decenni: a erodere i confini e stabilire uno “stato” su basi teologiche di interpretazione estremista.


IS incarna il “nuovo AQ”, applicando l’ideologia qaidista all’interno dei territori nelle roccaforti sunnite-arabe di Siria, Iraq, e in una vasta area che tra Libia, Penisola del Sinai, Yemen.
 Quindi, la maggior parte dei combattenti stranieri tra le file di IS sono arabi e la stragrande maggioranza di video IS sono in arabo, sia a scopo di propaganda e proselitismo sia alla unificazione delle frange estremiste arabe.
Mandando in onda attraverso i suoi video uno “Stato islamico” fisico, IS incarna una visione del mondo positivo, fornisce una chiara visione videoregistrata di una “identità musulmana sunnita” e utilizza combattenti stranieri arabi e non arabi per le sue produzioni multimediali per rilanciare l’immagine di questo “stato”.

Sorgono quindi almeno due problemi per una corretta intepretazione da parte dell’occidente di questo nuovo fenomeno. Entrambe questioni fondamentali sia per come prenderlo e contrastarlo da un punto di vista della comunicazione (e quindi del contrasto propagandistico ma anche di quello teso al proselitismo) sia da un pinto di vista della scelta strategica per combatterlo.


Da un lato l’IS si presenta come uno “Stato liquido”, privo di quei confini definiti e di obiettivi logistici e infrastrutturali che consentano di immaginare una strategia bellica precisa e tradizionale.
Sino alla guerra in Afghanistan l’occidente si è sempre trovato di fronte a una duplice tipologia di nemici: all’estero individuati e individuabili i confini precisi (siano nazioni o regioni), all’interno con organizzazioni terroristiche organizzate in forma verticale. 
Questa struttura del “nemico” ha consolidato due modelli differenti di contrasto.
Uno sforzo bellico tipico delle guerre nazionali con basi ben precise e confini e regioni ben individuate. Uno sforzo di intelligence ben preciso teso a individuare i mebri delle organizzazioni, i canali di denaro/armi/approvviggionamenti/logistica ed una volta conosciuta e mappata la rete generalmente sgominarla.
Questi due modelli su cui abbiamo costruito la nostra forza di difesa ed attacco e di intelligence sono completamente superati.


L’assenza di confini e la dilatazione enorme delle aree regionali interessate dal fenomeno rende l’opzione bellica tradizionale impraticabile sotto ogni punto di vista.
 L’organizzazione su base qaidista cellulare – evoluta in un trentennio di esperienza ma anche di evoluzione tecnologica – rende l’azione di intelligence estremamente complessa soprattutto perchè differente rispetto ai modelli ed ai metodi sin qui adottati, anche sul capo ad esempio del cd. “terrorismo interno”.


Dall’altro l’IS non è una semplice organizzazione terroristica. 
La sua comunicazione e propaganda non tende semplicemente alla diffusione di un messaggio, a fare proselitismo e a individuare e ecombattere un nemico. 
Quello che l’IS propone, diffonde, comunica, in qualche modo “vende” al mondo musulmano è la concretizzazione di uno scopo “più grande”: la costituzione di un vero e proprio enorme Stato-nazione fondato sull’islamismo più estremo e su una precisa interpretazione del Corano e della Sharia, che sino a Bin Laden era solo strumentale, propagandistica e minoritaria (oltre che fondamentalmente relagata ad una dimensione tribale). 
La prova di questo obiettivo – ove mai non bastassero decine di video e documentari sulla “vita” nello Stato Islamico – è stata di recente fornita da due documenti rinvenuti grazie ad un uomo d’affari arabo. 
Questo – reso noto dal Guardian – è un documento in cui vengono definiti veri e propri organigrammi organizzativi ed istituzionali centrali e periferici dell’IS.


Una sorta di codice-base da cui partire nelle scelte delle cariche istituzionali e del funzionamento della macchina burocratica, amministrativa, fiscale, giuridica.

 Il messaggio – tanto implicito quanto esplicito – di questo lavoro organizzativo è tanto seplice quanto devastante: offrire un modello ed un’alternativa a quanto sino ad oggi conosciuto in una visione sostanzialmente occidentale del mondo.
Se da un lato la proposta al mondo musulmano era di vivere in paesi arabi poveri, spesso filo occidentali quando non direttamente gestiti o occupati dall’occidente, oppure di essere integrati in stati laici e occidentali, oggi la proposta è un’indipendenza territoriale con la costituzione di un modello estremista (venduto come semplicemente ortodosso) e religioso. Ma soprattutto indipendente ed autodeterminato.


Il nuovo richiamo quindi non è più definibile semplicemente come una Jihad (letteralmente “impegno”) di “lotta contro” – che pure ha avuto i suoi momenti topici – ma questa volta di “lotta per” la costruzione di un modello sognato, auspicato, desiderabile (almeno nelle intenzioni dei teologi dell’IS).

Questo salto di qualità – della proposta, del contenuto, dell’obiettivo e della propaganda – è qualcosa sino a ieri non solo ignota, ma soprattutto non tradizionalmente contrastabile, perchè incide sul modello culturale, e lavora e raccoglie consensi tra i musulmani occidentali in modo e quantità direttamente proporzionale all’odio raziale, all’esclusione culturale, all’esterofobia, alla chiusura delle frontiere, al degrado delle periferie, alla mancanza di servizi sociali, al razzismo, alla comunicazione ed informazione islamofobica.


Ci troviamo quindi di fronte ad un paradosso per cui un atto terroristico – come quello di Parigi ad esempio – alimenta in occidente una islamofobia e una ghettizzazione che alimentano le stesse fila dell’IS, sia in quello stesso paese colpito, sia in tutti gli altri paesi occidentali.
 Certo, la misura è tuttaltro che proporzionale, e certamente – come è sempre avvenuto, sia in casi di terrorismo interno che di terrorimo esterno – l’atto di terrore genera anche distanze e condanne da parte della “presunta base”, ma quello che non può essere trascurato è l’effetto “reclutante” che ha anche solo su poche decine di persone – che sono il vero obiettivo della comunicazione dell’IS.

La camorra a Quarto

Sarò ingenuo, ma a me queste polemiche su Quarto stupiscono molto. Forse perché a me queste “infiltrazioni” criminali prive di qualsiasi geografia tanto cara alla Lega non stupiscono affatto.
Scrivevo un anno fa, a proposito del rischio infiltrazioni nelle primarie del Pd, a proposito di Mafia Capitale a Roma e poco prima di tante elezioni amministrative: La criminalità organizzata agisce ed ambisce ad essere e funzionare come una vera e propria istituzione. Chiariva in modo efficace Paolo Borsellino “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Alla criminalità organizzata interessa entrare nella gestione politica e amministrativa per svariate ragioni quasi tutte rientranti nel “controllo del territorio” in senso lato.



Intanto per “dimostrare” che condizionando la vita politica e amministrativa di fatto “è più potente” dello Stato, che invece di certo non può fare la stessa cosa nello stesso modo con la stessa incidenza.
Da un punto di vista economico la criminalità organizzata ha un interesse preciso nelle amministrazioni locali per svariate ragioni: condizionare appalti, aggiudicarsi gare, ma anche gestire direttamente e indirettamente parte del mercato del lavoro, condizionando assunzioni in municipalizzate, partecipate o aziende vincitrici di appalti nei servizi.
Di cosa ci si stupisce dunque oggi parlando di Quarto? Comune nato nel 1948 per scorporo dal comune di Marano, di cui era frazione. Dalla sua istituzione ha avuto un boom demografico in seguito al terremoto dell’Irpinia del 1980 e al bradisismo di Pozzuoli del 1983, che comportò lo svuotamento del rione Terra a seguito dei numerosi danni alle strutture abitative.


La popolazione allora crebbe dai meno di diecimila abitanti ai circa quarantamila attuali. Abusivismo edilizio e concentrazione criminale inclusi. Un pezzo di quella cintura della città di Napoli che raccoglie circa tre volte la popolazione di Napoli e pesa molto in termini elettorali.
Secondo Berni “La grande anomalia della Campania è la presenza di una criminalità organizzata che controlla in maniera capillare il territorio… Dimensione economica, radicamento sul territorio, capacità di supplenza dell’amministrazione pubblica, reti di complicità, distribuzione del reddito come agenzie del lavoro illegale nelle terre dove il lavoro legale non c’è, fanno delle ecomafie molto più di un’emergenza criminale”.
Ma proprio questa “anomalia” dovrebbe indurre i partiti politici ad un maggiore rigore non tanto e non solo nella selezione della classe dirigente, ma soprattutto nella definizione di regole e codici interni chiari che rendano “sconveniente” non solo il favorire in maniera attiva, ma anche il restare passivi rispetto a certi episodi.



Mi stupisco quindi che qualcuno possa aver creduto anche solo per un momento che potesse esistere un solo partito esente da rischio infiltrazioni. Come se ci potesse essere qualcosa nel dna o per grazia divina ricevuta, che impedisse geneticamente o religiosamente che il singolo candidato, il singolo consigliere, potessero chiedere e ricevere voti criminali.
Certo, sino a che un partito politico è piccolo, marginale, di opposizione, questo rischio si riduce per due motivi: scarsa rappresentanza e scarso potere gestito. Ma quando un partito cresce, il rischio infiltrazione cresce con lui.
Risolvere la questione col semplice garantismo, con una veloce espulsione, con una dissociazione da azioni personali, non risolve certamente il problema. Non lo risolve nei grandi e vecchi partiti come non lo risolve oggi nel Movimento 5 Stelle.



Combattere la criminalità organizzata è atto concreto ben più difficile del semplice slogan elettorale, ed è questione che tocca tutti i partiti politici nel momento della responsabilità, ovvero quando selezionano e scelgono i candidati, e se ne assumono la responsabilità piena, e nel come poi gestiscono “il dopo”. Ma è anche questione che riguarda soprattutto i cittadini, nel momento del voto, nella propria conoscenza delle persone e dei territori. Perché non possiamo più dire “non sapevo” o che è sempre colpa di qualcun altro, semmai della politica marcia, come se questa stesse altrove. Oggi riguarda Quarto, ieri altri comuni. Tra pochi mesi ricordiamocene quando si andrà a votare per altre amministrazioni. Senza pensare che Napoli (come Roma e Milano) possano essere esenti perché grandi. E senza pensare che ci sia un partito o movimento che – in sé – possa essere immune.

Il disco, il libro, il film e la serie

Una volta al mese vi proporrò un disco, un libro, un film, una serie tv. 
Un modo per conoscerci meglio ma anche per (cercare di) proporre qualcosa di nuovo rispetto al normalmente iper-recensito. Ovviamente si tratta di cose molte legate al gusto personale.

La mia proposta musicale di dicembre è un cantautore poco conosciuto, Simone Avincola (su twitter @SimoneAvincola) – un misto di quella genialità che spesso emerge tra i tanti che fanno musica in questo paese. E nonostante e tenacemente oltre i modelli imposti dei reality e talent show alla facile ricerca del successo commerciale lungo una stagione.
Può piacere o meno ma Simone è un piccolo Makkox della musica, erede di lezioni apprese e studiate con una ottima conoscenza musicale sia nella tradizione popolare e folkloristica (suo anche un docufilm su Stefano Rosso) sia della vera tradizione della musica d’autore.
Una rara eccezione alla musica campionata, finalmente una melodia fresca, originale, moderna.
Per conoscerlo vi cosiglio:


Roma Far West



Plastica



FamoseNserfie



La Voglia



ma lascio a voi comporre la vostra playlist dal canale youtube


Il libro che vi propongo è “Napoli Brand” di Lucio Iaccarino (su twitter @lucioiaccarino).
È il racconto di una ricerca di marketing sulla città vista come “brand” e sul tema complessivo dell’accostamento di un brand alla città dov’è nato e dove risiede. 
Al di là della ricerca e del caso specifico, in questo libro c’è molta narrativa, il racconto di una città, della sua auto percezione e della percezione della stessa fuori dalla napoletanità.
Un libro utile a chi si occupa di comunicazione e marketing, per il suo resoconto preciso e metodologico oltre che per i tanti vari case-study. Ma soprattutto un libro utile a chi si occupa di politica, di “cose sociali” e di chi ha a cuore il bene comune, per avere una visione di come certi temi possano e debbano essere approcciati e analizzati.
Una ricerca del genere dovrebbe essere estesa ed istituzionalizzata per ogni amministrazione, di ogni città, per comprendere come dove investire per la crescita territoriale, per conoscere la percezione di un territorio, per avere una pianificazione autentica che crei sviluppo.


Il film che vi propongo è Lincoln (2013), e racconta gli ultimi anni del sedicesimo presidente degli Stati Uniti, in una nazione divisa dalla guerra cui mira a porre fine, unire il paese e abolire la schiavitù. Avendo il coraggio morale ed essendo determinato ad avere successo consapevole di obiettivi che avrebbero determinato il destino delle generazioni future. 
In un tempo di comunicazione politica estrema, tra svariate serie tv che ci raccontano una politica americana da spy-story e retroscena improbabili, questo film storico documenta forzature e compromessi necessari tra uomini di enorme spessore e consapevoli del loro peso di statisti e del momento storico in cui vivono.
Un film che ha molto da insegnare perchè ha molto su cui riflettere.


La serie Tv che suggerisco è Fleming – l’uomo che avrebbe voluto essere Bond. Si tratta di una miniserie in quattro episodi che racconta la vita (praticamente vera tranne qualche escamotage narrativo) dell’autore e creatore del personaggio di James Bond. In un’epoca in cui guardiamo allo spionaggio come tecnologicamente onnipotente in stile holliwoodiano non fa male tornare a quel (vero) lavoro di intelligence che, in altri tempi, con nemici altrettanto se non più potenti di quelli di oggi, diedero un contributo enorme.

La politica è morta. Viva l’hashtag-politik.

Un tempo c’erano gli slogan. Non temete, esistono ancora.
Senza troppa fatica bastano due righe di wikipedia (per una volta copiate da un’enciclopedia tradizionale) per intenderci su una definizione semplice ed efficace.
Uno slogan è una frase memorabile e intesa per essere facilmente memorizzabile. È usata in un contesto politico o commerciale, come espressione ripetitiva di un’idea o di un proposito. In lingua italiana può essere tradotto con motto. Il termine deriva dal gaelico scozzese sluagh-ghairm, pronunciato slogorm. È composto da sluagh (“nemico”) e ghairm (“urlo”) e originariamente significava “grido di guerra” o “grido di battaglia”.
Uno slogan politico esprime in genere uno scopo o un’aspirazione (“Proletari di tutto il mondo, unitevi!” o “Boia chi molla”). In pubblicità il termine veniva spesso usato per intendere l’headline (il “titolo” di un annuncio).



Lo slogan è rappresentativo però non solo di un momento, ma caratterizza qualcosa di più profondo. È la sintesi di un progetto, di un programma, di un’idea. Sia che parliamo di politica che di marketing commerciale (e le due cose sono sempre più divenute simili col passare degli anni e della anglosassonizzazione della comunicazione).
Lo slogan è stato sotituito dal “claim”. Vero e proprio “urlo pubblicitario”. Una parola o poche parole per racchiudere una campagna. Ma un tempo c’era chi a queste cose prestava molta attenzione. Perchè c’è stato un tempo in cui le parole erano importanti, perchè stamparle e ripeterle doveva “convincere restando impresse”.



Con la fine della memoria anche lo scopo di “restare inpresso” è venuto meno.
Sostituito con l’efficacia di un giorno, in una straordinaria confusione con “ciò che avviene in america” più raccontato e millantato che reale e vissuto davvero.
Eppure basterebbe un’osservazione semplice, facendo zapping su qualche rete oltreoceano per comprendere come invece l’efficacia di una campagna sia proprio legata al suo “claim” ed alla sua sinteticità.
Casi di scuola sarebbero “Change” e “forward” di Obama ma anche “Hillary for America” o semplicemente “I’m with her”. 
Eppure da noi – che pensiamo che quella politica sia la stessa di House of Cards – tutto questo viene apparentemente dimenticato. Non è proprio così. La realtà è che noi semplicemente non lo sappiamo fare. 

E allora capita di vedere il M5S che della comunicazione in rete dovrebbe essere il top, sfornare #vinciamonoi che si traducono in un troppo facile boomerang, o ripiegare su #cura5stelle – dimenticando proprio quella caratteristica basilare dello slogan “parlare di sé e non porre l’avversario politico al centro del proprio slogan”. 
E allora capita di vedere un PD che lancia #atestaalta e #senzapaura – due hastag che aveva lanciato Giorgia Meloni, che almeno sulla carta dovrebbe essere agli antipodi politici e sociali.
Fenomeni macroscopici solo perchè nazionali, perchè se prendessimo in esame i motti di candidati regionali e locali sarebbe un festival degli orrori.



La buona notizia tuttavia c’è, e non è da poco.
Se un tempo gli slogan erano capaci di segnare un’epoca ben oltre il marchio stesso (pensiamo a Ramazzotti che riuscì con il suo “Milano da bere” a raccontare e segnare un’intero ventennio benoltre se stesso) oggi questi hashclaim durano meno della TL di un giorno.
Liberi quindi di non restare impressi, di essere creati per essere dimenticati, di non segnare alcunché. Se non forse il vuoto pneumatico della mancanza di proposta sottostante.
La politica è morta. Viva l’hastag-politik.
[p.s. Lo so, non è sempre così. Ma non fa male rifletterci.]

Twitter e l’opinione della maggioranza

Con circa 450 milioni di utenti in tutto il mondo che pubblicano 900 milioni di messaggi al giorno, Twitter è uno dei social network che si è affermato più rapidamente. Una delle ragioni di questo successo è la marcata viralità della sua struttura, che consente a chiunque di seguire chi vuole senza bisogno di stringere legami reciproci: una caratteristica grazie a cui Twitter è diventato lo strumento preferito di politici, esponenti dei media e personaggi pubblici in generale per diffondere le loro opinioni sui più svariati argomenti dell’attualità.


In che misura questo mezzo riesce a incidere sull’opinione pubblica? Una prima risposta non viene come potremmo immaginare da analisti e guru occidentali, ma da due ricercatori cinesi, Fei Xiong e Yun Liu della Beijing Jiaotong University che hanno utilizzato alcuni algoritmi per analizzare le opinioni espresse da un gran numero di utenti del social network su specifici argomenti e soprattutto come esse evolvono nel tempo.


I risultati, illustrati in un articolo apparso sulla rivista “Chaos” sono abbastanza sorprendenti perché mostrano che le opinioni veicolate da Twitter evolvono rapidamente verso uno stato ordinato in cui emerge una posizione dominante, che riceve l’approvazione di gruppi di utenti sempre più grandi.
I dati mostrano che mentre all’inizio le opinioni su un argomento fluttuano notevolmente, questa variabilità si attenua molto in fretta, stabilizzandosi su un’opinione di maggioranza, largamente condivisa, che prevale nettamente sull’altra.


“Una volta che si è stabilizzata, l’opinione pubblica difficilmente cambia”, ha spiegato Xiong.
Sul lungo periodo, l’opinione che prevale è quella che all’inizio aveva un modesto vantaggio sulle altre. Questo fenomeno, tipico dei sistemi caotici, è denominato “dipendenza sensibile dai dati iniziali” o più volgarmente “effetto farfalla”, perché fu esemplificato da Edward Lorenz, pioniere della teoria del caos, in una celebre conferenza dal titolo “Il battito delle ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?”.


Le opinioni dominanti inoltre tendono a non raggiungere un consenso completo. Coloro che hanno una posizione di minoranza tendono a mantenerla anche quando si trovano di fronte a una maggioranza schiacciante. Twitter, infine, viene utilizzato molto per cercare di convincere gli altri delle proprie opinioni, e molto poco per ammettere di aver abbracciato l’opinione altrui.

Facebook e la libertà

Non mi paghi le fatture? Lo scrivo su Facebook, il Tribunale mi dà ragione e ti condanna a pagare le spese. 
Questa in sintesi l’ordinanza che certamente fa discutere del Tribunale di Roma anche per l’applicazione dell’art. 21 della Costituzione alle manifestazioni di pensiero in rete. 
A fronte della richiesta presentata da un imprenditore ”inadempiente” di rimozione dei contenuti pubblicati in vari Social network e Blog, perché ritenuti diffamatori ed offensivi della propria reputazione commerciale, il Tribunale ha respinto la domanda di rimozione e condannato il richiedente (cioè il debitore) al pagamento delle spese legali.



Secondo il Tribunale, infatti, le dichiarazioni postate “costituiscono espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, rappresentando – la divulgazione di uno scritto via internet – estrinsecazione del legittimo diritto di cronaca e critica”.
 Secondo il Tribunale affinché la divulgazione di notizie o commenti si possano considerare lesivi dell’onore e della riputazione devono ricorrere le seguenti tre condizioni (tutte ritenute sussistenti nel caso specifico): verità dei fatti esposti; interesse pubblico alla conoscenza del fatto; correttezza formale dell’esposizione. 




Un po come dire che da oggi chiunque ha -nella propria più o meno grande cerchia di amici – un modo per “denunciare” i torti subiti, quasi come se ciascuno di noi avesse un proprio “organo di informazione personale”.


SputtaNapoli

La vicenda in sé è un cliché, sia della politica che della tv del pomeriggio. Metti un presentatore e qualche ora da riempire (nel caso specifico Giletti e l’Arena), parli di Napoli, e ciò di cui parli è la spazzatura nelle strade adiacenti la Stazione Centrale. Metti qualche commento il giorno dopo sui social network – estensione digitale che ci fa sentire tutti opinionisti chiamati a intervenire – e il polverone diventa polveriera. Si va da “Giletti De Magistris due facce dello stesso populismo” alle accuse “occupati del tuo paese di provincia e non di Napoli”. Peggio se gli autori sono esponenti politici locali, e peggio ancora se uno lavora per il Sindaco e l’altro è un dirigente del Pd.
 Si scatena – ennesima, imperitura, sempiterna – la lotta tra “tu sei parte dello sputtaNapoli” e non vuoi bene alla città e il “tu neghi l’evidenza”. E il dibattito continua. Poi, come sempre, passeremo a parlare d’altro. Poi come sempre riprenderà identico alla prossima puntata. Perchè di Napoli ormai si parla (da anni) solo per camorra, spazzatura e traffico e disservizi.
 Il gioco – perchè alla fine questo diventa – vede le parti a ruoli alterni. Se sei maggiornaza che amministra, allora lo sputtaNapoli lo fanno gli altri e quindi ti indigni, se sei all’opposizione allora dici solo la verità da non nascondere sotto i tappeti. Quante volte lo abbiamo già visto, e quante volte i protagonisti – se avessimo memoria – sono stati pressoché gli stessi. Dovremmo cominciare a chiamare non solo i problemi, ma anche i responsabili per nome.


Quarant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Nel suo famosissimo “io conosco i nomi” scriveva “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.”


Ecco che qui emerge la vera lacuna di questa città, che fu un tempo capitale europea. Un male che tocca un po’ tutto il paese, ma da noi diventa cancrena e non semplice patologia. Da noi si rincorre, elezione dopo elezione, la famosa “società civile”, l’intellettuale di alto profilo che possa spendersi per dare volto credibile a una classe dirigente di mediocre cabotaggio, di interesse personale, di compromesso esistenziale, di statura minimale. Ma questo paravento intellettuale deve anche – per necessità di conservazione dello stato delle cose a che le cose non cambino mai – essere estremamente compromesso con quel potere, dipendente da quel potere, finendo per non avere più alcuna indipendenza critica, ma finendo con l’esserne alibi e difesa d’ufficio.


In questo gioco, l’intellettuale di turno si presta, per l’intervista, l’applauso, il plauso o like su facebook, ad essere – a seconda delle stagioni – parte dello sputtaNapoli perchè dice la verità, o amante e difensore della città contro chi ne sa solo parlare male. Sinchè non cambierà il vento e con questo vento la propria posizione personale. Ecco. Attori e spettatori, qualsiasi sia la posizione di oggi su questa vicenda specifica, sono tutti parte dello stesso gioco. Cui, per essere chiari, un intellettuale vero e indipendente, non si presterebbe mai.

Bassolino e la sua candidatura

Mi candido. Due semplice parole che su Facebook – il luogo da cui l’ex sindaco ed ex governatore sceglie da qualche tempo di parlare al popolo napoletano e del PD – raccolgono mille “mi piace” e quattrocento condivisioni in meno di due ore.

Lo fa dopo aver il giorno prima condiviso l’articolo che annunciava che la stazione di Via Toledo (di una metropolitana simbolo delle sue amministrazioni e di una tenacia estrema nel realizzarla) vinceva l’oscar delle opere pubbliche sotterranee.

Lo fa dopo che una segreteria regionale travolta dalla inefficienza con cui ha gestito le primarie regionali e dal caso De Luca – Mastursi è stata azzerata, ed in cui sono entrati – in cerca di visibilità e di ruoli di rilievo – i vari big della Regione in rappresentanza delle varie componenti di un PD in cui, Bassolino, ricorda che non è più “nemmeno dirigente di una sezione”.

Con un semplice “mi candido” Antonio Bassolino gela le ambizioni di improvvisati e improvvisabili quanto improbabili candidati mediocri in cerca di visibilità. Chi domani vorrà candidarsi – e c’è tempo sino al 7 febbraio – dovrà “sfidare lui”, dovrà avere la capacità che solo lui ha avuto in passato di tenere insieme le varie anime di un partito disunito e disomogeneo, dovrà avere credibilità programmatica ed amministrativa, e dovrà aver chiarito tutte le eventuali posizioni giudiziarie, come ha fatto lui stando lontano da cariche pubbliche.

Per qualcuno ha significato averlo messo all’angolo, ed i primi a tremare sono proprio tutti quelli che lui ha creato politicamente e che gli hanno prontamente voltato le spalle, semplici consiglieri comunali, ex parlamentari, assessori ed esponenti di primo piano, in una fase in cui – è bene ricordarlo – per fare il governo serviva avere dentro lui, Sindaco di Napoli ed ad interim Ministro del Lavoro.

Da quel tweet “state sereni” all’attuale “mi candido” è la sentenza decisiva su una classe dirigente che ha dichiarato rottamazione e rinnovamento, ha in realtà consolidato una “guerra tra bande” tra capibastone, e che oggi deve alzare le mani nella mancanza assoluta di una proposta altrettanto forte e credibile capace di mettere insieme più di lui, e di sfidarlo realmente. 
Una candidatura virtuale che lancia un segnale forte che va letto come un “Napoli merita di più e di meglio di essere vetrina per qualcuno per assicurarsi una posizione domani”. Napoli merita una proposta forte, dinanzi alla quale sono certo che per primo Antonio Bassolino farà un passo, non indietro ma affianco, per il bene di Napoli.

Perchè – ed anche questa è storia – Napoli da sempre è stata laboratorio politico non solo di alleanze ma anche di creazione politica, di coraggio per il bene comune che ha salvato questa città, se rileggiamo la storia, anche dalle peggiori amministrazioni possibili nei periodi più bui della prima repubblica.

Quel “mi candido” è il coraggio di chi si mette in gioco e pone una sfida politica, programmatica, di presenza fisica, nella latitanza delle scelte della deputata classe dirigente. È il coraggio che ci manca e che ci viene ricordato essere necessario per la nostra comunità.

In questa sfida Antonio Bassolino ha già vinto. E non solo per sé e contro chi lo voleva messo definitivamente all’angolo, ma soprattutto per Napoli. E sia De Magistris che il M5S che il centrodestra – oltre al partito democratico – da oggi sono chiamati ad “alzare l’asticella” del proprio livello di proposta politica. 
Ecco, da un leader politico dovremmo esattamente esigere questo: essere capace, oltre se stesso, di elevare il livello per il bene comune e di non accontentarsi della mediocrità opportunistica contingente, di stimolare il coraggio e di metterci la faccia. Chi pensa di poter accogliere queste sfide ha tempo fino al 7 febbraio. Il resto resta cronaca gossip che scema in un giorno tra i trafiletti.

Social e diffamazione

Postare commenti dal contenuto diffamatorio sulla bacheca di un social network come Facebook configura la fattispecie (aggravata) prevista dall’art. 595 c.3 c.p.?


La Corte di Cassazione si è pronunciata in questa direzione sulla questione già nel gennaio 2014 e anche recentemente nell’aprile 2015: nello specifico la Suprema Corte con sentenza n. 16712 del 22/01/2014 sancisce che sussiste l’aggravante del mezzo di pubblicità qualora il fatto sia commesso sfruttando la pubblicizzazione su un profilo di Facebook, in quanto l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti, che può essere più o meno ampia a seconda che il contenuto sia pubblico o riservato ad una determinata cerchia di soggetti.

 Lo stesso orientamento è stato ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 24431 del 28/04/2015 dove si evidenzia nuovamente come la funzione principale di un social network sia proprio quella di permettere a gruppi di soggetti di socializzare condividendo le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale che, per le caratteristiche del mezzo, è allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti.


Per questi motivi la condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, e se offensivo configura la fattispecie aggravata del delitto di diffamazione ex art. 595 c.3 c.p.


Il punto è chiaro, ed anche la ratio della sentenza.
E tuttavia vi sono alcune questioni che sarebbe – almeno per buon senso – chiarire. 
Abbiamo scoperto i social network circa dieci anni fa. Nessuno sapeva cosa fossero, come funzionassero, ma molti ne hanno intuito essenzialmente l’aspetto ludico e quello legato alle potenzialità di marketing. Pochi lo hanno usato in maniera consapevole. 
Anche peggio se consideriamo che si può aprire un profilo Facebook a quattordici anni – età in sé in cui si è difficilmente perseguibili per moltissimi reati – e tuttavia i social network sono un luogo privilegiatissimo per compierli e subirli (dalla violazione della privacy, allo stalking, all’adescamento, alle vendite illegali, e così via). 



Se certamente il principio de “l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti” equipara Facebook a livello di pubblico ad un giornale, possiamo considerare lo stesso reato se compiuto da un giornalista professionista adulto – e quindi sciente e cosciente e consapevole sino in fondo – rispetto ad un ragazzino che scrive su un social (anche se lo leggono forse più lettori di un quotidiano)? 
E basta affidarsi nella comminazione di pena e sentenza al “buon senso” del magistrato giudicante finale che dovrebbe poi tracciare questa differenza?


Sono quesiti aperti ma su cui – credo – sarebbe corretto e saggio riflettere a che la giurisprudenza non debba prevenire il legislatore. E una sana educazione digitale prima di tutto a casa e a scuola.

Il web sorpassa la tv

Un rapporto pubblicato da eMarketer ritiene che il tempo speso per l’utilizzo dei media digitali tra gli adulti degli Stati Uniti abbia superato il tempo trascorso con la TV in quest’ultimo anno. Una tendenza guidata dalla crescente proliferazione dei dispositivi mobili. 
Nel 2014, il tempo trascorso su smartphone e tablet negli Stati Uniti passa al 23,2%. Sorprendentemente, il mobile è diventato così popolare, che l’uso di media online classici si riduce costantemente dal 2012.

La somma dei dati mobile/computer tradizionali riesce a superare l’utilizzo della televisione come mezzo informativo, complice anche il calo di radio e carta stampata.


Anche l’impegno pubblicitario e gli investimenti nella pubblicità sul web hanno superato qualsiasi altro media, lo si afferma in un altro rapporto, diffuso da ZenithOptimedia e riportato da TechCrunch, che proietta gli investimenti pubblicitari globali per quest’anno in corso, con previsioni che parlano di una cifra record di spesa sul Web pari a 87 miliardi di dollari.

Quella annunciata sembrerebbe una rivoluzione epocale, soprattutto perchè drogata da commenti entusiastici di guru cyber utopisti.
Nelle analisi tuttavia non vengono considerati alcuni fattori importantissimi.
Parlare di web ha sempre seguito una sintassi per cui “un sito vale un sito”, qualsiasi sito fosse. L’idea che tutti siano uguali in rete è un concetto abbandonato tuttavia da tempo.


Facciamo qualche esempio.

Siamo invasi di offerte per aprire siti gratuiti o quasi. Poi si scopre che per avere un blog degno di questo nome si devono spendere alcune centinaia di euro ogni anno. Ma quello slogan iniziale fa si che si crei e alimenti il mercato del web. 
Non parliamo delle offerte “tutto compreso” per un sito di e-commerce. Che dopo che hai rifiutato preventivi onestissimi perchè li consideri alti, ti ritrovi a spendere il triplo facendo peggio e perdendo un sacco di tempo. 
Per non parlare di GoogleAdvert che avrebbe dovuto arrichire tutti i titolari di siti inserendo la pubblicità… senza sforzi. Mi chiedo a quanti sono stati chiusi account senza spiegazioni, senza numeri di telefono da chiamare senza aver visto un dollaro. Divenendo anche quello strumento una macchina “mangia soldi” (degli inserzionisti – che se smettono di fare inserzioni vengono penalizzati nei risultati di ricerca) e al servizio di pochi siti con grandissimo traffico, che spesso intensificano investendo i guadagni da Google su Google stesso!


In realtà il web venduto come “alla portata di tutti” è una rete globale sempre più in mano a pochissimi player sia delle infrastrutture (Google, Veracom, Amazon) sia delle piattaforme (Apple, Microsoft, Facebook) che dei contenuti. 
Si perchè questi sono i tre piani della rete: infrastruttura attraverso cui i dati viaggiano, piattaforme su cui vengono veicolati e grandi contenitori e produttori di contenuti.

Le statistiche che dicono che nel web verranno investiti oltre 90 miliardi di dollari nel 2015 non dicono che i 2/3 di quella cifra vanno in meno di 400 portali intenet. In modo diretto o indiretto. 
E quelle statistiche non dicono nemmeno quanta parte di pubblicità in calo su una televisione o su un giornale in realtà vanno sui relativi siti di informazione online di quella stessa tv e di quello stesso giornale.

Non sono cose da ABS o CNN. Basta leggere i dati di Repubblica.

La rabbia e la ragione

La prima reazione è certamente la desolazione, lo sgomento. 
Poi la rabbia. Profonda.

Colpire Parigi è certamente colpire tutti noi. 
Sono quindi normali anche le prime reazioni, chieste a furor di popolo. Anche venendo meno la capacità di ascoltare e osservare quella dignità profonda, quel senso di comune condivisione che non ha nulla di silenzioso né di arrendevole. Anzi che mostra una forza straordinaria. 
Quella dignità e compostezza che ha mostrato, ancora una volta, dopo il massacro di Charlie Hebdo, il popolo francese.

Un’azione così forte, eclatante, mostruosa, da più parti reclamava un’azione forte. 
E nessun governo, se guardiamo la situazione dal punto di vista di chi governa, poteva sottrarsi a dare al furore del popolo – quello europeo, più che quello francese – una risposta forte, immediata, travolgente.


È un conto che bisogna mettere nell’essere al governo di una nazione quando questa viene colpita con tanta barbarie. E tuttavia la barbarie non giustifica un’azione senza ragione.

Precisiamo. Esiste una responsabilità diretta, specifica, inequivocabile, che ha visto attori e ideatori delle stragi di Parigi nell’Isis e in Siria. Questo è un dato certo.
Ma altrettanto certo – se ci fermiamo a ragionare – è che non è pensabile che quegli ideatori non se l’aspettassero. 
Colpire la Francia, oggi, significa colpire uno dei paesi in cui l’Islam ha le forme forse più moderate e integrate. E significa colpire un paese che dell’integrazione e del rispetto reciproco ha fatto modello di Stato.


Ecco che colpire la Francia è colpire questo modello. È spingere l’Europa verso il baratro manicheo, verso la guerra ammantata di religione, verso un mondo fatto di blocchi contrapposti.
In questo senso il furore di popolo innescato dai terroristi è esattamente il migliore alleato di chi ha interesse e desidera come modello questo scenario. E di chi non accetta la pacifica convivenza, fatta necessariamente di non imposizione di un modello religioso e culturale e di democrazia.

In questo si, è uno scontro di culture. 
Ma proprio per questo la barbarie non può far dimenticare le conquiste di civilità di un Europa che queste barbarie le ha vissute e pagate col sangue dei suoi popoli sino a settant’anni fa, quando altre ideologie alimentavano una visione del mondo fatta di odio, razzismo, ed imposizione di un modello culturale unico e totalitario da imporre con la forza.


Le bombe che in questo momento aerei francesi, con il supporto dell’intelligence americana e logistica russa, stanno sganciando sulla Siria sono lo sfogo di tutti noi, di tutto l’occidente contro la barbarie.
È il “ricambiare con gli interessi di sangue e morte” quel gesto assurdo ed atroce vissuto per le strade di Parigi, che poi sono le nostre strade d’Europa.

Chi mai potrebbe condannarci? Chi mai potrebbe condannare quell’istinto e quella rabbia?

Eppure rivendichiamo il primato della ragione.

Ed a noi e a chi ci governa compete essere oltre la barbarie, proprio rivendicando le nostre conquiste ferite, e le conquiste di civiltà che vogliamo difendere e vendicare.


Colpire oggi la Siria non è colpire l’Isis.
Chi doveva e poteva da Raqqa è scappato.

Ma quelle bombe – per quanto le nostre ragioni ci assolvano – sono l’altra faccia della medaglia di quel terrorismo che ci ha inorriditi due giorni fa.

Sono la benzina che verrà usata per incendiare le nostre strade. Sono le immagini che gireranno per i paesi del mondo arabo degli inevitabili morti civili, donne e bambini usati come scudi umani nelle infrastrutture da colpire.

Quelle bombe occidentali saranno la prova – per qualcuno – della crociata occidentale contro cui combattere e contro cui fare nuovo proselitismo.


Dovremmo rifletterci quando la rivendicazione – fallace, banale, menzognera, apparente, ridicola, opportunistica – del prossimo attentato sarà “per vendicare le bombe di Raqqa”.


Sul muro c’era scritto col gesso
 viva la guerra
 chi lo ha scritto è già caduto.


Sono versi di Brecht. Ma forse questa volta sono meno veri di settant’anni fa.

Perché la sensazione è che quel “vogliamo la guerra” sia stato scritto da qualcuno che è ben al sicuro altrove. Che ha altri interessi, certamente più materiali di una religione, di cui evidentemente nemmeno conosce i precetti, ma di cui si riempie la bocca e riempie la testa di ragazzini manipolabili e plagiati che giocano ai guerriglieri. Nel deserto come nelle nostre città. Come fosse un videogioco della playstation in Belgio.


Ma la ragione – che non appartiene al sentimento del popolo e delle masse – deve (imperativo categorico in questa era sopravvivenziale) guidare le scelte di chi ha la responsabilità di governare.

Deve – per quanto difficile – ricordare tutte le volte, recenti e passate, in cui da azioni di rappresaglia sono sorte guerre che tuttora mietono vittime.

Dovremmo ricordare che dopo l’undici settembre c’è stato l’Afghanistan, e tutti i caduti in quella guerra. E di certo i talebani e Al Qaida non sono stati annientati.

Dovremmo ricordare le bombe in Libia e Iraq. E di certo quei paesi non sono in pace. Ed anzi, che proprio quelle guerre hanno generato nuovi conflitti, nuovi terrorismi e nuovi soggetti. Se possibile ancora più sofisticati nelle loro strategie di terrore ed odio.


Ed è per questo, anche per questo, che chi ha ruoli e responsabilità di governo, oggi più che in altri momenti deve stare nel mezzo tra quella rabbia, e quell’orgoglio cui ci richiamava Oriana Fallaci, bilanciati però almeno altrettanto da quella ragione, fondata sulla storia, che ci insegna anche dove porta dare solo sfogo alla rabbia.
Perchè il migliore alleato di un fondamentalismo è l’altrettanto fondamentalista smarrimento della ragione che non fa contenere la rabbia.

Continuava Brecht nella stessa poesia:


La guerra che verrà non è la prima. 
Prima ci sono state altre guerre.
 Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
 Fra i vinti la povera gente faceva la fame. 
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. 
La voce che li comanda è la voce del loro nemico.
 E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.