Strato Limite:
 Deframmentazione della paura e del suo ricordo

Strato Limite: Deframmentazione della paura e del suo ricordo

Il CityLab – centro d’arte visiva e audiosonora underground sulla Via Salaria – riapre con lo studio di Biancofiore che ha già pianificato la sua programma espositiva annuale. 

La prima mostra sarà la personale di Valerio Volpato, romano classe 1995. Il titolo scelto dall’artista è STRATO LIMITE – Deframmentazione della paura e del suo ricordo.

La ricerca dell’artista si sofferma, infatti, sull’emozione della paura – esperita come compulsione ripetitiva e pensiero ossessivo.

Volpato utilizza più media per esprimere il senso acuto dell’angoscia, derivata dall’aspettativa di un evento disturbante e inquietante, sempre in agguato dietro l’angolo: la pittura, la scultura spaziale-installativa, la musica. I materiali che coniuga nelle sue installazioni o che usa come supporti per la sua pittura provengono dall’industria aerospaziale, automobilistica e navale. Per quanto riguarda la pittura, l’artista ha una vena espressionista che si manifesta in segni vividi di catrame sulla superficie, neri e densi, stesi a colpi di spatola o in gocce “turgide” di “materia viscosa”. La texture, la pelle del dipinto, risulta quindi fondamentale e si riallaccia alle esperienze degli anni Cinquanta, soprattutto alle tele di bitume di Alberto Burri.

Come afferma l’autrice del testo critico Teresa Di Gregorio, Valerio Volpato indaga la materia dell’angoscia «tra le variabili percettive prodotte dallalterazione farmacologica, dalluso di suoni distorti in dialogo con la musica classica e con il jazzcore e la musica sperimentale, dallimpiego di resine e materiali plastici».

Il soggetto privilegiato è, come si anticipava, la sensazione della paura che viene rievocata a livello mnemonico in un «racconto che ci parla di nodi profondi, radicati nellinfanzia». Il tempo perduto dell’innocenza viene, inoltre, rievocato chiamando all’appello memorie sfocate. Eppure, le forme familiari del passato – legate all’infanzia e al primo periodo della giovinezza – perdono i loro connotati rassicuranti attraverso la manipolazione prima mentale poi organica, in risultati conturbanti. Valerio Volpato entra nella stanza dei ricordi, trova delle immagini e ne riconosce la familiarità – un piccolo scivolo, una casetta luogo di rifugio di ogni bambino – ma le forme risultano contagiate, di primo acchito: lo scivolo ha una trama dai toni isterici e ripetitivi; la casetta è murata e le sue finestre oscurate; l’erba, bagnata dalla pioggia, è cresciuta a dismisura; gli oggetti sono cotti dal sole e graffiati; le fronde degli alberi sono sostituiti da veli di plastica. L’incipit di una storia comune si colora di macchie d’olio e sfumature orrifiche che trovano risonanza in motivi musicali ripetuti in un loop nevrotico e in una cacofonia che stride nelle orecchie.

BIO

Valerio Volpato è nato a Roma nel 1995, trascorrendo la sua infanzia tra la città di Roma e il lago di Martignano. Ha vissuto un periodo della sua vita tra Londra e a Zurigo, arricchendo così il suo bagaglio di esperienze culturali e artistiche. Attualmente vive a Roma e studia Psicologia e Processi Sociali presso La Sapienza Università di Roma. È il Co-fondatore dell’artists’ run space BIANCOFIORE. 

Durante il suo percorso artistico, ha avuto l’opportunità di lavorare come assistente sia per l’artista Paolo Buggiani che per l’artista Andrea Sampaolo, con cui ha collaborato per la realizzazione della mostra “Urlo. Vibrazioni urbane” presso il Mattatoio di Roma. 

La sua formazione musicale, iniziata con l’autodidattismo al pianoforte, lo ha portato a suonare in quartetti jazz e a comporre musica sperimentale creando un’esperienza che si riflette nel suo approccio artistico. Ha partecipato a diverse mostre, tra cui la VII edizione della Biennale di Viterbo di Arte Contemporanea curata da Laura Lucibello e Environ Mental per RAW – Rome Art Week, in collaborazione con APAI Arte, presso il CityLab 971. La ricerca artistica di Volpato si concentra sulla complessità delle emozioni umane, in particolare sulla paura, il terrore, la compulsione ripetitiva e l’intrusione ossessiva, nonché sul ricordo e sull’analisi di queste esperienze. Il suo approccio pittorico passa da una fase complessa e caotica a una più minimale, con l’alterazione e la moderazione farmacologica che hanno giocato un ruolo attivo nel suo processo creativo.

Il gesto pittorico di Volpato è una pulsione dinamica e istintiva, che si manifesta attraverso diagrammi, textures, flussi e frammenti dinamici che riflettono le emozioni dell’ora e del momento. La sua esecuzione rapida e istintiva implica un’assenza di filtri razionali, permettendo all’inconscio di emergere e rendendo l’errore una parte essenziale del processo creativo.

La musica sperimentale, il jazz, il jazzcore, la musica classica e il noise hanno una forte influenza sul suo lavoro, così come l’uso di vernici industriali, acriliche e ad olio, principalmente nere, su una varietà di superfici di alta qualità, tra cui materiali compositi derivati dall’aerospaziale, dall’industria automobilistica, navale e edilizia.

Un week end a Firenze tra hotel ispirati alla Divina Commedia

Un hotel ispirato alla Divina Commedia, 25Hours di Firenze 

Il 25Hours di Firenze, proprio a due passi da Santa Maria Novella, ha una linea decisamente marcata. Paola Navone ha avuto carta bianca, unica clausola? Ispirarsi ai cieli e ai gironi danteschi. Così l’ex Banco dei pegni di Firenze ora sfoggia corridoi e stanze che si dividono in Inferno e Paradiso. E c’è chi chiama precisando che vuole dormire nelle stanze rosse dei dannati e chi delle Male Bolge non vuole proprio saperne e preferisce i toni avorio e azzurro dei beati.

Il 25 Hours di Firenze è parte di una rete di hotel sparsi in Europa ove ognuno si contraddistingue per un concept Copenhagen, Francoforte, Amburgo, Monaco, Berlino, Parigi, Vienna e Zurigo.

La particolarità di questo luogo, come degli altri 25Hours, è il senso di comunità: gli ambienti comuni sono creati per accogliere persone diverse e incoraggiarle a relazionarsi.

Da pochi mesi l’hotel a Firenze ha modificato il suo menu e tutta l’offerta gastronomica invitando un nuovo chef. Lorenzo Vendali di 32 anni (classe 1992) è forte delle esperienze maturate alla Ménagère e come sous-chef di Karime Lopez allo stellato Gucci Osteria by Massimo Bottura. 

La sua proposta che non vuole definirsi fine dining propone piatti che puntano sulla qualità delle materie prime e sulla cura nell’impiattamento. Inoltre, il 25Hours mette a bando gli sprechi: non solo tutto ciò che avanza viene donato alla Caritas, ma la struttura si sta muovendo per ottenere la certificazione Green Key standard di eccellenza nato in Olanda che ha come obiettivo la sostenibilità ecologica nel campo dell’ospitalità turistica.

Design

Il 25Hours occupa ben 115.700 metri quadrati e, grazie all’apertura dell’hotel, l’area prima in stato d’abbandono è stata riqualificata.

I due corpi principali sono un edificio ristrutturato di tre piani che risale all’epoca medievale e in passato è stato un banco dei pegni gestito da sacerdoti e un nuovo annesso di tre piani che sostituisce un magazzino fatiscente nel giardino adiacente. Gli interventi architettonici sono stati portati avanti insieme allo studio fiorentino Genius Loci Architettura e vigilati dal Dipartimento delle Belle Arti del Ministero della Cultura. In totale si possono contare 171 camere distribuite tra i due padiglioni. 

Sul bancone del check-in si trova Dollaro – una lampada da tavolo d’epoca di Lapo Binazzi – e, alle sue spalle, una carta da parati che si ispira alle carte fiorentine realizzata da Vescom su concept di Studio Otto/Navone. La reception è circondata da un’installazione dell’artista Patrick Bailly. Sono dei ripiani costituiti da vecchie valige, recuperate in giro per l’Europa e verniciate color verde argento, che ospitano dei souvenir dell’Hotel. Sono oggetti, libretti, piccole opere di design curate da Studio Otto e da Paola Navone.

Nell’ambiente comune centrale, un portico al quale si accede entrando da Via Palazzuolo, troviamo il ristorante San Paolino con tavolini di vetro sorretti dalle braccia di un polipo realizzati da Breccia Marble, le lampade topini distribuiti lungo la fascia del gigante tetto in vetro dell’ambiente centrale di Seletti (dell’artista e designer Marcantonio). Nonostante la vastità di questo luogo che ricorda una piazza il suono non rimbomba e la conversazione scorre piacevolmente. Questo grazie a un’installazione di foglie verdi fonoassorbenti, realizzate con tessuti e materiali di recupero dall’artista Linda Nieuwstad.

Cene vicino al caminetto

La lunga tavola conviviale è apparecchiata in maniera semplice, senza tovaglia o runner per far spiccare la tonalità del marmo verde che ben si sposa con le brocche per l’acqua, ideate da Navona in forma di pesce. Il piano e la struttura di tutti i tavoli, in agglomerato di marmo, sono state realizzate dall’azienda Santa Margherita, su disegno di Studio Otto.

Le sedie sono sia del modello “Gravéne” – fabbricate artigianalmente, in plastica riciclata e metallo di recupero da Maximum – sia di tipo industriale, come le storiche Chaises Nicolle. Le altre sedute in materiali vari sono di recupero.
Il pavimento caratterizzato da una scacchiera di piastrelle alternate nei colori verde e grigio è realizzato dall’azienda La Pietra Compattata

Una finestra aperta sulla cucina permette, inoltre, agli ospiti di vedere lo chef e la sua brigata al lavoro. 

Il  Bar, l’Alimentari, Il Cinema

Il Companion Bar, dove è possibile sorseggiare dei cocktail, è basato sul look viennese di fine secolo, la pavimentazione è in basalto, i tavoli in ottone satinato, le tappezzerie cremisi in contrasto alle pareti color petrolio. Qui, oltre a sorseggiare cocktail come una versione italiana del Mai Tai (solitamente rum, curaçao, orzata e lime) con l’Amaretto di Saronno, potete stuzzicare cruschi, nachos alla rapa rossa direttamente dal Messico e olive di Cerignola.

I Golosi è invece un alimentari dove ci si può fermare per la pausa pranzo o per una merenda nutriente. A decorare il soffitto, come in un’insolita giostra di leccornie, alternati a stoviglie in alluminio, pendono salami e prosciutti finti, realizzati all’uncinetto ma anche in tessuto, cartapesta e gesso dipinto. 
Per accedere al cortile, che si apre sul lato interno del portico, si passa per la Lobby Bar Sfere Celesti le cui pareti sono rivestite in specchio anticato dell’artigiano Franco Failli. A illuminare l’ambiente ci pensano dei grandi lampadari Globo di Slide.Nel cortile si insedia il Giardino Aromatico con grandi vasi in terracotta color smeraldo stracolmi di erbe medicinali e odori. Il Cinema Paradiso è invece un piccolo cinema (che può ospitare 60 persone), un salottino con mattoni a vista. Alle pareti, quelle che sembrano delle semplici stampe con scene celebri tratte dai film la Dolce Vita, Vacanze Romane, Un americano a Roma, Ieri Oggi e Domani si trasformano, all’occorrenza, in superfici sulle quali servire un rinfresco.

Le stanze 

Se si dorme in una camera a tema Inferno, appena varcata la soglia, si nota immediatamente il tono rosso fuoco che caratterizza il mobilio. Il pavimento è in gres porcellanato, effetto ferro, opera di 14Ora Italiana.

Dal soffitto sopra al letto, come una sorta di lampadario, pendono una miriade di cartellini con i nomi dei peccatori dell’Inferno: la composizione è realizzata da Vox Populi. I tappeti sono realizzati da Seletti, mentre le carte da parati – stile damascato rosso – da Vescom, entrambi su grafiche concepite da Studio Otto/Paola Navone. Il tutto condito da tendaggi in finto velluto, rigorosamente rossi.

Per le camere Paradiso l’aspetto complessivo è meno aggressivo, più rilassante. Accattivante la plafoniera con elementi mobili (alla Calder) che evocano i pianeti. Il pavimento è in resina, i tappeti riproducono degli angioletti e le poltrone sono disegnate da Navone. I lavandini riproducono la forma della valva di una conchiglia.

Cosa fare se andate a Firenze nel periodo natalizio

Vi suggeriamo di fare un giro al mercato storico del quartiere San Lorenzo, vicinissimo al 25Hours. Il mercato venne costruito nel 1874 da Giuseppe Mengoni, lo stesso architetto della Galleria Vittorio Emanuele di Milano. Nel Novecento viene aggiunto il piano superiore per dare spazio al mercato ortofrutticolo: qui si trova ora il Mercato Centrale – creato nel 2015 da Umberto Montani in società con famiglia Cardini – con ben 24 botteghe di ristorazione.

Prima o dopo pranzo, se siete appassionati arte contemporanea e di moda, vi suggeriamo due mostre da visitare. La prima Anish Kapoor, lirreale (unreal), a Palazzo Strozzi, è visitabile fino al 4 febbraio 2024. L’artista, nato a Mumbai nel 1954 in un Kibbutz, è uno degli artisti viventi più discussi (amato o odiato tra gli addetti al settore). Vive tra Londra e Venezia. Una delle sue opere pubbliche più celebri è Cloud Gate, soprannominata The Bean dagli abitanti di Chicago.Le sue opere giocano con gli specchi deformanti, le illusioni prospettiche, il senso di vertigine. Kapoor usa pigmenti puri, materiali come la cera, la terra, la vaselina. É famoso anche per il Vantablack, materiale formato da nanotubi di carbonio che assorbono più del 99% delle radiazioni dello spettro visivo. Le superfici dipinte con questa vernice sembrano inghiottire chi le osserva, evocando pozzi senza fondo. Nel 2016 Kapoor ha acquisito i diritti per l’uso esclusivo del Vantablack in ambito artistico. Ciò, come si può immaginare, ha scatenato un putiferio alimentando vive polemiche con i suoi colleghi.

La seconda mostra è ospitata dal Museo Ferragamo e omaggia la storia del fondatore. Salvatore Ferragamo 1898-1960 ripercorre le tappe della sua evoluzione, dall’apertura del negozio a Hollywood nel 1923 all’approdo fiorentino, dalla dedizione per gli studi anatomici (per migliorare il comfort e la vestibilità delle sue calzature) all’ispirazione creativa derivata dal contatto con l’arte contemporanea e con le culture occidentali e orientali antiche e moderne, sino al rapporto speciale con le star a cui proponeva modelli unici da sfoggiare e che lo fece soprannominare “Shoemaker to the stars”.

In giro per le botteghe di Firenze

Firenze ha sempre vissuto di artigianato non avendo risorse dal punto di vista minerario, famose sono infatti le sue botteghe sia storiche che neonate. Si passa a trovare la designer di gioielli Angela Caputi detta Giuggiu che lavora con le resine e ha aperto boutique in molte importanti località del mondo. Suggeriamo di entrare nella famosa Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella, nata come Farmacia dei frati domenicani nel 1221. Qui si comprano ottimi pot pourri e proprio in questo luogo venne ideata, dal profumiere Renato Bianco, l’acqua di fragranza agrumata, la famosa Acqua della Regina che Caterina de’ Medici donò al suo sposo Enrico II di Valois. Il sinonimo di profumo è diventato poi “colonia” perché Giovanni Paolo Feminis rubò i segreti di quest’essenza a base di bergamotto iniziando a produrre delle sue repliche a Colonia. In omaggio alla città tedesca la denominò appunto Acqua di Colonia.

Infine, si passa da Pitti Mosaici dove si possono acquistare opere realizzate con la tecnica del commesso fiorentino. Il laboratorio venne aperto nel 1982 da Ilio De Filippis. La particolarità di questi manufatti è la ricerca certosina delle pietre preziose, come fossero colori disposti su una tavolozza. Ogni pietra selezionata restituisce una tonalità di colore adatta a rendere l’incarnato, il dettaglio di un vestito, i riflessi su un bicchiere, il volume della frutta su una tavola imbandita. La composizione è studiata a livello tonale per corrispondere alle sfumature pittoriche.

24 ore tra Venezia e Mestre

24 ore tra Venezia e Mestre

Il 21 Novembre Venezia si anima per un’occasione molto sentita dalla comunità, quasi come quella del Redentore. La festa della Madonna della Salute celebra la liberazione dalla pestilenza del 1631. In tale speciale giornata si crea un ponte provvisorio di barche che va a connettere simbolicamente la Basilica della Madonna della Salute con Punta della Dogana e Santa Maria del Giglio. Il 21 Novembre per i veneziani è tipico mangiare la castratina, piatto che viene preparato sin dal Seicento proprio per questa speciale ricorrenza. La carne di castrato – il piatto è a base di cosciotto di montone, dal quale si prepara una zuppa molto saporita – veniva, in passato, importata dall’Albania e dalla Dalmazia, dove era anche salata, affumicata ed essiccata al sole.
Per chi non ama la carne, proponiamo un’alternativa a base di pesce.

Prima di arrivare a destinazione, nel cuore di Castello, passiamo accanto a un edificio che sembra una chiesa. Si tratta, in verità, dell’Ospedale Santi Giovanni e Paolo di Venezia, già Scuola Grande di San Marco: un edificio rinascimentale dalla bellezza sconvolgente. Le “Scuole Grandi” erano associazioni laiche per il mutuo soccorso, gestite dai cittadini che assicuravano ai confratelli assistenza in caso di malattia o di rovesci finanziari. Per chi non è di Venezia stupirà sicuramente vedere le idroambulanze gialle.

Venezia

HOSTARIA CASTELLO

Nel sestiere più autenticamente veneziano, legato alla festività della Madonna della Salute ma soprattutto – per gli amanti dell’arte, dell’architettura e del cinema contemporanei – a due passi dall’Arsenale e dai Giardini della Biennale, è nata nel 2021 Hostaria Castello. Vladimir Grigoriev è l’imprenditore di origini moldave ma d’adozione veneziana che ha voluto aggiungere questo locale agli altri già di sua proprietà: Bakarò in Campo Santa Margherita e Hostaria Sant’Aponal.

Si può raggiungere dal punto di imbarco del vaporetto di San Zaccaria, vicino Piazza San Marco.

Si trova all’interno dell’ex ufficio di un’agenzia che proponeva viaggi a bordo dell’Orient Express, il treno d’epoca, blu e oro, che collega la città lagunare con Istanbul attraversando l’Europa. Il locale cerca di suggerire l’atmosfera intima dei viaggi di lusso su rotaie grazie a luci calde e soffuse, dalla tonalità ambrata, e ai divanetti capitonné in velluto liscio, color ottanio. E ancora, il luogo è caratterizzato da tavolini con abat-jour, un pavimento di maioliche anticate, dal bancone decorato con arabeschi dal gusto bizantino. Le due piccole sale si ispirano inoltre ai café ottomani del Novecento.

Con appena 18 coperti che si vogliono ridurre ulteriormente a 16, il ristorante è aperto solo di sera durante la settimana, anche a pranzo il venerdì e il sabato. Il servizio è ben calibrato, accogliente ma non invadente.

L’interior design è a cura di Michela Amadio e Claudette Navarro che hanno voluto rievocare l’ambiente dei bacari veneziani. Il simbolo di Hostaria Castello è una finta porta blu – non di passaggio ma con funzione unicamente decorativa – in legno e ferro battuto che imita una porta (amata da turisti e influencer) localizzata in Calle de Mezo, vicino a Ruga Giuffa. Nella stessa sala, le lampade possono essere regolate grazie all’aggancio magnetico che permette di spostarle a piacimento.

Da Hostaria Castello potete trovare piatti tradizionali come il fegato veneziano, le sarde in saor, i bigoli con ragù d’anatra. Noi abbiamo optato per una degustazione a base di solo pesce, che lo chef seleziona dai banchi del Mercato di Rialto. Per chi è vegetariano suggeriamo di provare la parmigiana di melanzane, molto gustosa. È lo chef stellato Luca Veritti a prendersi cura del palato dei suoi ospiti. Partendo da un entrée con polpo scottato con spuma di patate e polvere di olive taggiasche accostato a un calice di Franciacorta La Montina Brut, extra secco con note di miele di acacia o cioccolato al palato. Come antipasto un delizioso millefoglie, i cui piani sono costituiti da tonno crudo, carasau e guacamole, mentre bagniamo le labbra con un Soave quasi incolore della cantina Corte Adami (Veneto)

Proviamo poi i famosi spaghetti con scampi alla bùsara e,in abbinamento, il Pecorino La Valentina 2022 (cantina abruzzese).

Il Filetto di branzino, servito con salsa di basilico e melanzana ripiena, lo accostiamo a un calice di un Blanc de noria dal nome evocativo: Come d’incanto di Cantine Carpentiere. È un bianco che nasce in vinificazione da un vitigno autoctono pugliese a bacca nera, il “Nero di Troia” del Parco Nazionale dell’Alta Murgia. Rimane 4 mesi su acciaio piccolo, un processo che ne enfatizza i profumi agrumati e il sentore di mora selvatica.

Da provare, in alternativa, il filetto di branzino accompagnato da una caponata di verdure e crema di sedano con mela verde e i calamari saltati con crema di finocchi aromatizzata alla vaniglia di Bourbon e mandorle tostate. 

Per finire, un tortino morbido al cioccolato con il cuore di salsa al passion fruit è servito per dolce insieme al Moscato di Pantelleria Lago di Venere.


Appuntamento con Arte contemporanea e Spritz

Ma cosa si può fare a Venezia oltre a passeggiare per le calli con occhi a cuoricino e bere uno Spritz rigorosamente con il Select? Visitare i suoi meravigliosi palazzi come Museo Fortuny casa museo dello stilista Mariano Fortuny y Madrazo, la collezione Peggy Guggenheim con la mostra Marcel Duchamp e la seduzione della copia (fino al 18 marzo 2024), il Museo Correr a Piazza San Marco. Potreste inoltre visitare la neonata Fondazione Le Stanze della Fotografia costituita il 18 settembre 2023 da Marsilio Arte sull’Isola di San Giorgio: trovate le mostre Paolo Pellegrin. L’orizzonte degli eventi e Pino Settani. I tarocchi fino al 7 gennaio 2024.

Personalmente, ho preso una scelta forse un po’ controcorrente e mi sono spostata sulla terraferma a Mestre per andare a fare uno studio visit da giovani artisti. Si tratta di Kadabra, un artist run space alias uno spazio espositivo gestito da artisti che lì hanno anche il loro atelier. Si trova appunto a Mestre, in via Giuseppe Verdi 57. Conta di 10 membri attivi, validissimi pittori e pittrici come Silvia Giordani. L’artista parte da una pittura di diverse stratificazioni in cui forme misteriose – rilievi montuosi, pietre preziose, lagune dalle acque impenetrabili – si stagliano su sfondi dall’allure digitale, per farci poi approdare in mondi fantascientifici che potrebbero essere stati immaginati da autori quali Philipp Dick o Stanisław Lem

Il lavoro di Silvia Giordani

Lucia Marcucci, la mostra “Poesie e no”

Lucia Marcucci. Poesie e no

Lucia Marcucci. Poesie e no è un’esposizione dedicata all’artista fiorentina nata nel 1933, che ha compiuto proprio quest’anno 90 anni, è stata concepita in collaborazione con Ar/Ge Kunst ove ha aperto lo stesso 9 giugno la mostra L’offesa che si concentra, tuttavia, sui suoi ultimi lavori fino a toccare la produzione degli anni Novanta.

Tutto nasce dal titolo di una performance, concepita da Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini. Da una versione di lancio del 1963 in un piccolo teatro d’avanguardia, il Grattacielo, dove Lucia Marcucci svolgeva un’assidua attività di aiuto regista, la performance finì per includere Marcucci stessa.

LA MOSTRA AL MUSEION

Si inaugura la mostra al MUSEION di Bolzano nello spazio dei Passage. In contemporanea apre anche Time Frame, ospitata invece nel Padiglione di Dan Graham, in quest’ambito si trova esposto il lavoro artistico-documentativo di Jeff Preiss, regista che filmò gli opening di una selezione di mostre dal 2005 al 2008 dell’ORCHARD Gallery di New York.

L’allestimento di Lucia Marcucci. Poesie e no, a cura dello Studio Bruno di Venezia, rispecchia la sua poetica – dirompente e spinta oltre i limiti – in maniera architettonica: a terra è tracciata una linea che va oltre il confine della parete e alcune opere sono collocate all’ingresso del Passages, come un autoritratto dell’artista datato 1967. In questo contesto viene ricostruita la sua poetica attraverso opere e documenti dal 1963 al 1979.

Si è puntato sull’esposizione di opere inedite come i cartelli stradali che Marcucci ha prelevato e modificato come “lavori forzati”, molte opere sono accumunate dalla tecnica del collage, mentre altre sono frutto di interventi pittorici diretti delle sperimentazioni degli anni Settanta. 

Poesia

È esposto uno dei tre “manifesti tecnologici” che Marcucci strappava davanti agli occhi del pubblico, durante le performance di Poesie No. Il manifesto tecnologico Loffesa dà infatti  il nome all’esposizione parallela, ospitata nella galleria Ar/Ge Kunst. Per “tecnologia” il Gruppo 70 intendeva il prelievo e l’estrazione, dai mezzi di comunicazione di massa, di significati e parole e il loro successivo rimontaggio, in forma di collage, per dare vita a nuovi concetti e allusioni. In alcune opere, ad esempio, l’artista fa uso dei caratteri mobili, li riordina e assembla a piacimento, in modo tale che, decontestualizzando le frasi di giornali e magazine patinati, il significato risulti riconfigurato in maniera corrosiva: Marcucci gioca spesso sugli stereotipi e sui luoghi comuni, cercando di rompere le righe, usa l’ironia per evidenziare come la donna venga confinata socialmente e investita di un ruolo subalterno, in qualità di diletto per gli occhi, madre, angelo del casolare, nuova consumatrice di prodotti per la cura del corpo e dell’ambiente domestico; prende, inoltre, nutrimento espressivo da testi filosofici, come gli scritti di Marcuse, sia attinge dalla cultura popolare, dal mondo del cinema e della pubblicità. Spiccano collage ricavati ritagliando le pagine dei quotidiani con la donna al centro della composizione. 

Presso il Museion, sotto teca, è possibile anche leggere alcune pagine dei copioni, utilizzati per le performance “Poesie e no”, la cui struttura ricorda quella delle pièce teatrali. Queste performance, solitamente, partivano con la sigla dell’Eurovisione, poi ognuno dei 3 componenti leggeva la sua parte, accompagnando le parole con gesti, in apparenza banali, eppure iconici e significativi, come bere una Coca-Cola, o azioni dissacranti, in contrasto con le abitudini comportamentali collettive.

Il display dell’esposizione non è organizzato secondo un ordine cronologico, al contrario, funziona per rimandi: sono presenti manifesti politici che si focalizzano sugli anni della guerra in Vietnam e sugli anni di Guantanamo a Cuba; ritagli di articoli di giornale che raccontano le reazioni sconcertate di pubblico e critica di fronte alle performance e alle operazioni di poesia visiva del Gruppo 70; poesie e scritti dell’artista. Interessanti soprattutto la copia originale del suo romanzo “tecnologico” Io ti ex amo composto con continui collage di testi scritti di suo pugno a macchina e estratti da testi di altri autori; l’originale lungo 6 metri del poema “tecnologico” L’indiscrezione è forte (1963), risultato di un assemblaggio di poesie, saggi, porzioni di poemi e letteratura in prosa che sembra alludere alla condizione femminile; la giuntatrice che utilizzava per creare le sue “cinepoesie”, unendo insieme pezzi di film ricavati da vecchie bobine. Purtroppo, a causa dell’alluvione di Firenze del 1966 che ha distrutto il suo studio, si sono salvate solo due delle sue  “cinepoesie”, in mostra è presentata quella ricavata dal montaggio sequenziale di scene di baci, sparatorie e pugni “rubate” da pellicole western o americane degli anni Cinquanta e Sessanta. È impossibile non pensare al capolavoro di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso (uscito nel 1988): i momenti più passionali in cui i protagonisti si baciavano venivano tagliati per eccessivo pudore, nella “cinepoesia” di Marcucci avviene il processo contrario ma senza intenti romantici, è come se l’artista stesse portando avanti un’indagine antropologica… emerge infatti un’estrema passività da parte dei soggetti femminili, quasi in balia del desiderio erotico dell’uomo, fragili prede e, raramente, femme fatale ma comunque sempre ninfe compiacenti nel mirino paralizzante dello sguardo maschile.

Raffaella Perna, arte e femminismo, espressività corrosiva. L’intervista

Intervista di Giorgia Basili

Abbiamo incontrato Raffaella Perna, docente, critica e curatrice specializzata nell’Arte del secondo cinquantennio del Novecento, conoscitrice soprattutto dei rapporti tra arte e fotografia, scandagliati a fondo anche alla luce dello stretto intreccio con le lotte del Movimento Femminista.

Giorgia Basili: Tu sei una storica dell’arte esperta di artiste degli anni Settanta e non solo… ti sei soffermata, da una parte, sui rapporti tra arte e fotografia, dall’altra, hai indagato specificatamente arte e fotografia legate al movimento femminista. La nostra intervista verterà proprio su questo movimento, iniziamo con le mostre che hai curato, che si concentrano sui rapporti tra arte e fotografia, in generale, e sull’arte e il femminismo, in particolare… mi viene in mente la mostra presso la Casa internazionale delle donne quando hai curato, nel 2022, a Marzo “L’oggetto femminista” con una personale di Lydia Sansoni e durante la diciassettesima biennale delle donne a Ferrara nel 2018 la mostra dedicata a “Ketty la Rocca 80. Gesture, Speech and World”  insieme anche a Francesca Gallo… se ci vuoi fare un po’ una panoramica del tuo percorso come curatrice.

Raffaella Perna: grazie per l’opportunità e grazie per l’intervista. La mostra alla Casa Internazionale della Donna è nata su richiesta di Giovanna Olivieri, presidentessa di Archivia, un centro formidabile per ciò che riguarda lo studio delle donne. All’epoca, Lydia Sansoni era viva… è morta subito dopo la mostra, aveva 92 anni. Un’artista lasciata ai margini del sistema dell’arte, anche perché lei stessa non aveva questo desiderio così forte di entrare all’interno di alcuni meccanismi del sistema artistico. Ha sempre cercato di utilizzare le sue opere e le sue illustrazioni per la lotta, ha lavorato anche come fumettista per una rivista di sole donne che si chiamava “Strix”, una delle primissime riviste dedicate al fumetto femminista in Italia quindi ha messo un po’ al servizio della causa femminista e della lotta politica la sua capacità creativa. Per me, è stata un’occasione molto interessante, non la conoscevo nonostante mi occupi di quest’ambito di ricerca da tanti anni, per me è stata una scoperta che devo alla Casa Internazionale delle donne …mentre il lavoro su Ketty la Rocca è un lavoro più legato all’attività di ricerca universitaria perché nasce da un progetto di avvio alla ricerca che avevo vinto nel 2012 e poi, dopo un po’ di anni, abbiamo realizzato con Francesca Gallo un libro, da lì, i familiari di Michelangelo Vasta che dirige l’archivio di Ketty la Rocca ci ha invitate a realizzare la mostra in occasione della Biennale della donna. Anche quella è stata un’opportunità interessante perché mi sono confrontata con le tante donne che gestiscono questa manifestazione che ormai va avanti dagli anni Ottanta ed è un punto di riferimento importante per la storia delle donne in Italia. All’interno di questa biennale, sono state curate veramente mostre importanti e poi mi ha dato l’occasione di conoscere meglio il lavoro di Ketty la Rocca che ho potuto poi approfondire ulteriormente per una mostra più recente da Camera a Torino, concepita in maniera specifica sul rapporto tra Ketty la Rocca e la fotografia. Sono due mostre personali, quindi, da un certo punto di vista, hanno un’elaborazione per certi aspetti più semplice… invece, il confrontarmi ad esempio nel “Soggetto imprevisto” con l’opera di più di 100 artiste e 300 opere è stato più impegnativo: ho dovuto organizzare il display della mostra, trovare i contatti, creare all’interno dello spazio espositivo un dialogo tra queste autrici…queste sono alcune delle mostre che ho curato.

Giorgia Basili: Femminismo, identità, esplorazione del sé: sono temi centrali che si intrecciano nelle opere di molte artiste italiane attive negli anni 70, come hai già chiarito in un’intervista. Quali sono, secondo te, le differenze poetiche e stilistiche più significative tra l’opera di Ketty la Rocca, Tommaso Binga e Lucia Marcucci, quali, invece, sono dei punti di convergenza?

Raffaella Perna: sì, diciamo che l’esplorazione del sé, l’indagine sull’identità e sul corpo delle donne è centrale per l’arte degli anni 60 e 70 in Italia. Sicuramente, artiste come Ketty la Rocca, Lucia Marcucci e Tommaso Binga sono autrici che hanno dei punti di contatto fortissimi, non soltanto dal punto di vista storico, perché hanno collaborato in tantissime occasioni, ma anche dal punto di vista del linguaggio… Ketty la Rocca e Lucia Marcucci, soprattutto negli anni 60, nel periodo della fase legata al Gruppo 70 e alla poesia visiva, hanno sicuramente delle affinità, anche dal punto di vista stilistico-formale molto forti, perché entrambe utilizzano e riprendono dalle prime avanguardie la tecnica del collage, quindi, questo uso straniante di immagini e parole; entrambe esplorano la dimensione della donna, della casalinga, della lavoratrice all’interno della società tardo capitalistica. Negli anni Settanta e fino alla morte di Ketty la Rocca, quindi nel 76, come dire, in qualche modo, la distanza dal punto di vista della poetica aumenta perché soprattutto Ketty la Rocca si dedica al recupero della corporeità, del linguaggio primigenio, della performance, una performance anche diversa rispetto a quelle più multimediali, più multisensoriali degli spettacoli realizzati da Lucia Marcucci nel decennio precedente. Tommaso Binga, diversamente da loro due, probabilmente ha esplorato molto di più l’aspetto fonetico, quindi la sonorità e l’aspetto fonetico. Il corpo della parola, in questo senso, della parola parlata e della parola agita, è un elemento più caratteristico dell’opera di Tommaso Binga sicuramente, anche se, anche nel caso di Tomaso Binga e Ketty la Rocca, soprattutto per ciò che riguarda le opere legate alla scrittura de-semantizzata, questa scrittura non più leggibile, che si fa disegno, che si fa linguaggio non più comunicante, c’è sicuramente un debito rispetto all’opera di Ketty la Rocca nelle riduzioni, e quindi ci sono dei punti di contatto comunque forti alla base di tutte e tre queste autrici perché sono tre autrici che hanno veramente riflettuto a fondo sulla condizione delle donne all’interno del sistema artistico e dell’immaginario visivo, della cultura visiva degli anni Sessanta e Settanta.

Giorgia Basili: infatti, qual è – penso a persone che ci stanno ascoltando e vedendo e non sanno poi quali siano proprio i linguaggi espressivi di queste artiste – anzi quali sono, secondo te, a livello esemplificativo, tre opere, una ad artista…

Raffaella Perna: “Sana come il pane quotidiano” è un collage iconico di Ketty la Rocca in cui l’artista mostra una donna giovane e bella, disponibile, quindi lo stereotipo della donna, l’immagine della donna diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, insieme però a delle parole che si riferiscono alla cultura cattolica… quindi c’è questa frizione tra l’immagine e, invece, quella che è la cultura patriarcale che contraddistingue la società. Per ciò che riguarda Lucia Marcucci, ci sono tanti collage che potrebbero essere presi in considerazione ma, un’altra opera interessante appartiene agli anni Settanta, è databile al ’70:  “Ama come lavora”, rappresenta una donna che è, appunto, vista come oggetto di produzione e riproduzione, quindi nella doppia accezione, nel doppio ruolo e nella doppia presenza che la donna riveste all’interno della società capitalista. Mentre, per ciò che riguarda Binga, anche nel suo caso, una delle primissime opere realizzate riguarda la cura del corpo: c’è questa donna inscatolata all’interno di un imballaggio di polistirolo… quindi, da una parte, c’è una sorta di gabbia che è una gabbia fisica – per corrispondere agli stereotipi di bellezza estetica che, appunto, portano una donna a una cura del corpo diversa anche da quella dell’uomo – e, dall’altra parte, c’è questo materiale di scarto, il polistirolo, lo stesso delle scatole da imballaggio, quelle tipiche del supermercato, quindi un’associazione tra il corpo della donna e un oggetto in vendita. Si usa un materiale che era, all’epoca, relativamente nuovo, anche se già esplorato da artisti come Piero Manzoni o come Fabio Mauri a Roma nel ‘68 con l’installazione alla Galleria La Tartaruga, però diciamo sicuramente era un materiale nuovo, legato proprio a quest’idea di consumismo, di scarto veloce…

Giorgia Basili: mi viene in mente anche, forse proprio legandola a questo argomento, Giosetta Fioroni in quell’opera sul voyerismo, con lo spioncino…

Raffaella Perna: …assolutamente, appunto, proprio al Teatro delle Mostre – dove figurava anche l’opera di Fabio Mauri, l’installazione “La luna”- a inaugurare quella rassegna, nel maggio del 1968, c’era stata l’installazione-performance realizzata da Giosetta Fioroni “La spia ottica” in cui il pubblico veniva invitato a guardare un’attrice-performer che, in realtà, non faceva altro che compiere dei gesti quotidiani all’interno della camera da letto di Giosetta Fioroni, riallestita per l’occasione in galleria: è un’azione, un’opera, che in qualche modo gioca proprio e lavora sui meccanismi voyeuristici, su questa idea di vedere il corpo della donna come oggetto reificato… molto interessanti rispetto a quell’opera sono alcune considerazioni fatte da Menna perché sosteneva che tutto, in realtà, si svolgesse fuori: il parlare, l’agire, la festa accadevano fuori da quella stanza. Quindi, è come dire, l’azione si trovava al di fuori di quella che era, invece, la domesticità tipica del del vissuto femminile.

Giorgia Basili: Tu hai scritto anche su Silvia Giambrone e mi vengono in mente anche dei lavori di altre artiste italiane come Chiara Fumai che ci ha lasciati e Vanessa Beecroft… proprio a questo punto ti chiedo, quali sono per te le artiste italiane e internazionali attuali alle quali dovremmo guardare e quali le artiste che, in questo momento, stanno portando sul tavolo dei discorsi essenziali per il Movimento Femminista, per l’identità della donna ma anche dei componenti del gruppo LGBT+ ?

Raffaella Perna: una tra le artiste che mi interessano molto, non dell’ultima generazione, perché ha più di quarant’anni, insomma sono tantissimi anni che lavora, è sicuramente Silvia Giambrone perché è riuscita, in qualche modo, a rileggere tutta quella che è stata dal punto di vista formale-estetico l’eredità dell’Arte Povera ma lo ha fatto con uno sguardo chiaramente legato a problematiche, a questioni sull’identità della donna, sui rapporti interpersonali, sui rapporti di violenza che si collocano o che si svolgono all’interno delle mura domestiche. Ha lavorato su tematiche connesse alla violenza psicologica e fisica, in una maniera però non diretta, non didascalica, non retorica… quindi, una cosa che apprezzo molto sulla sua opera è questa sua capacità di formalizzare poi il lavoro e di ricollegarsi a una storia dell’arte… penso alla sua performance “Teatro anatomico” in cui si fa cucire addosso un colletto ricamato da Nucci, in quel caso la performance fu al Macro… in qualche modo, rilegge tutta una simbologia e una tradizione da Gina Pane – ci sono anche saggi proprio che esplorano il rapporto con Gina Pane – però lo fa in una maniera assolutamente nuova e originale, collegata a dinamiche, come dire, molto contemporanee come la passività, ad esempio come il corpo femminile possa essere reso passivo, non soltanto sul piano fisico ma anche nell’immaginario del vestiario, dell’abito che è un modo di rappresentare se stesse… c’è questo collegamento anche con l’epoca vittoriana che ritorna spessissimo nel suo lavoro e credo che sia insomma un lavoro molto molto interessante, come  tutta la serie delle sue sculture con le spine, queste sue sculture che simulano proprio la pelle, l’aspetto dell’epidermide, a volte sembra ci siano delle macchie che solcano la superficie che ricordano veramente i lividi di una violenza, per cui c’è tutta questa tensione che viene generata nelle sue opere o ad esempio nel lenzuolo “Borders” tagliato a metà che ricorda un po’ i lenzuoli usati da Fabbro e da Kounellis, però con questo semplicissimo gesto di tagliare a metà, cucire e ricucire questo lenzuolo di un letto matrimoniale ci fa capire la difficoltà dei rapporti interpersonali…credo che questa sia una sua caratteristica molto importante poi ci sono artiste, in realtà, che… penso a un’altra una fotografa che forse nel campo specifico dell’arte contemporanea è meno nota ma adesso sta avendo un buon momento di visibilità perché le hanno appena dedicato una mostra al Centro  Pecci di Prato che è Lina Pallotta. Lina Pallotta è un’artista, una fotografa che ha seguito per tantissimi anni e ha fotografato Porpora Marcasciano, la presidentessa onoraria del movimento italiano transessuali, una figura chiave delle lotte LGBT qui in Italia e ha da poco pubblicato con Nero magazine un bellissimo libro fotografico, un bel libro anche perché non ha a corredo solamente la parte legata alla sua opera ma tutto un materiale archivistico di documenti storici legati al movimento omosessuale italiano, che sono preziosi perché sono utilissimi anche per conoscere questo momento della storia e della politica italiana. Le sue foto sono straordinarie, secondo me, perché non sono foto di denuncia immediate o stereotipate ma si privilegia nel racconto fotografico l’intimità, il rapporto di sorellanza e di amicizia, quindi non soltanto il lato pubblico delle lotte legate al riconoscimento dei diritti LGBTQ+ ma anche questa interiorità. Credo che sia una fotografa da tener sott’occhio,  magari meno nota rispetto a Chiara Fumai o alla Beecroft – che hanno un passato, diciamo, hanno avuto un’esperienza breve nel caso di Chiara Fumai, più lunga nel caso di Beecroft ma comunque con molta visibilità -. A me interessa guardare, scoprire,  insomma andare a soffermarmi su artiste-autrici che in qualche modo possano ancora essere valorizzate.

Giorgia Basili: grazie, avevamo citato, hai citato, Gina Pane, quindi mi viene in mente che ci sono molte artiste inglesi, americane o comunque internazionali su cui ti sei soffermata durante delle lectures o nelle lezioni durante la tua carriera  universitaria a La Sapienza, mi viene in mente Judy Chicago con l’opera dinner party e project, Ana Mendieta, Barbara Kruger con i suoi manifesti, Cindy Sherman con gli untitled film stills o comunque anche Joko Ono, Jenny Holzer, insomma Louis Bourgeoix, ce ne sono tantissime… secondo te, se volessimo in qualche modo ripercorrere alcune tappe fondamentali della storia dell’arte femminista, quali opere dovremmo considerare e quali artiste…sarebbe bello parlare insieme di dinner party per esempio, dell’opera di Ana mendieta o appunto se hai un’opera in testa anche quella di Martha Rosler sì sì c’è ne vuol parlare 

Raffaella Perna: sì anche quest’anno in realtà per gli studenti di Fashion Studies ho tenuto un corso proprio sulla storia dell’arte con una prospettiva di genere, si tratta anche di studenti che non hanno delle nozioni sistematiche di storia dell’arte basilari… quelle che tu hai citato sono artiste estremamente note, alle quali hanno dedicato mostre,  libri eccetera…e mi rendo conto che tutto sommato non è detto che tutti le le conoscano, anche se appunto per gli addetti ai lavori sono ormai dei nomi consolidati. Judy Chicago è uno dei nomi fondamentali, anche controversi, perché “Dinner party” è stata un’opera fondamentale, c’è un bellissimo libro di Amelia Johnson – e la mostra sexual politics non nasceva per essere dedicata interamente a lei – che ne ripercorre e contestualizza la storia dell’opera e affronta anche le difficoltà che l’artista ha avuto nella sua realizzazione perché si tratta di un’opera eseguita con una gestazione lunga oltre 5 anni e un numero incredibile di donne coinvolte, circa 400, negli anni dal 74 al 79. La regia e la direzione, la concezione appunto è di Chicago ma poi, in realtà, è un frutto collettivo. Si tratta di un’opera che, attraverso l’uso di questo altare cerimoniale basato su tre ali, ripercorre la storia di 39 figure di  donne reali come Virginia Woolf e Georgia O’Keefe o figure archetipiche come la grande idea, figure del del passato al limite tra il mitologico e il reale, provando in qualche modo a raccontare un percorso di empowerment di presa di consapevolezza, di  emancipazione femminile, un percorso anche contestabile e controverso, per certi aspetti, perché un’opera del genere prende poco in considerazione, ad esempio, donne afrodiscendenti. Solo uno dei piatti di ceramica inclusi in Dinner party ha come oggetto una donna nera, l’opera risulta comunque legata a uno specifico momento della storia del femminismo europeo e nord-americano, esprime quindi quelli che possono essere i limiti ma anche i punti di forza… i piatti sono decorati con forme che si riferiscono al corpo, central core, immagini di vulve o di fiori o di farfalle che però appunto alludono  sempre al sesso femminile… questa connessione tra la biologia e la donna è una connessione problematica, un po’ scivolosa perché in qualche modo sembrerebbe riconfermare lo stereotipo della donna-corpo, donna-natura… delle critiche hanno colpito l’opera negli anni 80, quando la teoria femminista si è sviluppata probabilmente con delle armi anche un po’ più appuntite e affilate… negli anni 70 il fatto già di interrogarsi su questi termini, di cercare di capire quale poteva essere anche, secondo me, è già un traguardo fondamentale. Oggi l’opera è esposta al Brooklin Museum ed è una delle opere cuore di questa collezione. Ana Mendieta è una di quelle artiste che per prime hanno  criticato questa poca sensibilità delle donne borghesi, bianche, nordamericane rispetto a un’alterità che è un’alterità non soltanto uomo-donna ma un’alterità che deve tener presente anche problemi legati alla geografia, all’etnia, alla classe…insomma viene introdotta quella che oggi noi definiamo una prospettiva intersezionale. Un’artista come Ana Mendieta sicuramente in questo è stata fondamentale, anche per opere che rimangono ancora oggi sconvolgenti… sono opere molto forti, per esempio, la performance in cui simula ciò che avviene dopo uno stupro: si fa trovare dai suoi compagni del campus universitario senza gli abiti, con la parte inferiore del corpo completamente nuda e ricoperta di di sangue, appoggiata e riversa su un tavolo. Fu un modo molto forte per comunicare quello che è uno dei problemi ancora attuale, legato alla violenza di genere, il problema della violenza sulle donne è una questione durissima purtroppo con la quale dobbiamo confrontarci ancora…

Giorgia Basili: certo, su questa tematica altre artiste hanno focalizzato il loro lavoro, una delle performance iconiche è quella di Marina Abramovic… anche il padiglione statunitense vincitore della Biennale di Venezia con l’opera dell’afroamericana Simone Leigh ci dimostra che siamo sicuramente più attenti a queste tematiche e che ci sono nuove artiste afrodiscendenti che finalmente vengono considerate, come in tutti gli altri ambiti d’espressione, anche se nel mondo dell’arte visiva si fa più attenzione ad artisti che non siano europei o americani. Si sta affermando finalmente uno sguardo più inclusivo di altre culture ed etnie. Visto che citavamo anche prima la Woolf, da “Una stanza tutta per sé” arriviamo a una situazione attuale che sembra cambiata ma che a volte ripercorre dei vecchi pattern mascherati. Secondo te, la situazione è effettivamente cambiata o c’è ancora molto su cui lavorare? È, se così è, quali sono le artiste che stanno puntando proprio su questo discorso?

Raffaella Perna: c’è ancora molto da lavorare credo… non vorrei fare un discorso di quote rosa, di percentuali, però forse anche partire da quelli che sono  dati oggettivi può essere utile… ricordo gli studi, pubblicati nel libro “Donne rappresentazione dell’Italia” pubblicato e curato da Caterina Iaquinta e dalla Simoncelli, che riportano delle statistiche legate alla scena italiana pre-covid e mi risulta che ci siano studi più recenti per ciò che riguarda l’Italia… sono dati abbastanza sconfortanti dal punto di vista della presenza delle donne all’interno del mercato dell’arte, per ciò che riguarda i risultati d’asta e anche la possibilità delle giovani artiste di avere delle mostre personali all’interno di gallerie e istituzioni pubbliche. Ecco i dati, non soltanto quelli italiani, anche se andiamo a guardare i report di Art Basel o altri resoconti, ci mettono in guardia che la narrazione secondo cui “ormai le donne hanno raggiunto una parità di visibilità e di possibilità di accesso al sistema” è una narrazione non completamente veritiera e, tutto sommato, anche andando a guardare le collezioni di molti musei ci rendiamo conto che le differenze siano ancora molto forti. La narrazione “va tutto bene” non mi trova particolarmente concorde, nonostante ci sia sicuramente una maggiore possibilità di studiare, raccontare, fare mostre eccetera rispetto a quarant’anni fa. Probabilmente questo è vero, però non è soltanto un problema di numeri, è un problema anche di cosa le artiste devono in qualche modo affrontare nel loro percorso, in  quanto il sistema richiede, in realtà, di confrontarsi con dei modelli di competitività, di iper competitività, di iper performatività nel senso proprio di iperproduzione e promozione del sé in senso pubblicitario… un modello ancora molto maschile e molto patriarcale, un modello con cui le donne e le artiste si devono continuare a scontrare, chiedendosi quanto corrisponda loro effettivamente…insomma, credo che alcuni problemi che ci sono stati in passato ancora oggi si ripresentino … naturalmente, rispetto al passato, come dicevi anche tu, c’è una consapevolezza maggiore di un’inclusività e anche gli studi decoloniali hanno portato nuova consapevolezza sul fatto che appunto non esistano soltanto le differenze legate al genere …che vada indagato anche molto a fondo anche come le differenze di partenza, le differenze sul piano dell’economia e della classe sociale possano ancora incidere sul modo di fare arte, sul modo di produrla e veicolarla. Credo che il modello di una buona prassi sia quello di interrogarsi su un sistema artistico da più punti di vista.

Giorgia Basili: Mi vengono in mente ovviamente le Guerilla girls che hanno portato proprio dei dati statistici davanti a un pubblico esterrefatto, perché per la prima volta c’era questo coraggio di urlare un dissenso, appunto le donne non erano rappresentate nelle maggiori collezioni museali e questo era un problema da risolvere e risolvere magari tutti insieme, serviva una risposta immediata… in questo momento, infatti, si stanno riconsiderando delle figure di artiste che non non erano passate inosservate ovviamente prima ma forse rispetto ai colleghi uomini sembravano sempre poco considerate e adesso proprio in questi giorni, un mese fa, sono state inaugurate due mostre importanti dedicate a Lucia Marcucci a Bolzano. La prima si intitola “Poesie e no”, è allestita nei Passages del Museion e si concentra sulle opere e le performance dal 63 al 79; la seconda, invece, “L’offesa” è promossa dalla galleria Ar/Ge Kunst e si concentra sugli ultimi lavori. Su cosa sarebbe bello soffermarsi? Ci sono dei suoi lavori che vogliamo rivedere insieme e che reputi significativi?

Raffaella Perna: ce ne sono diversi, naturalmente…alcuni sono legati a una cosa che m’ha sempre un po’ colpito di Lucia Marcucci: il fatto che avesse una precocissima sensibilità, per ciò che riguarda l’Italia, soprattutto la coscienza ecologica. Ci sono delle sue tele emulsionate in cui compare questa parola “ecologia” nei primissimi anni 70, anche questo insomma il nesso tra la donna e la terra, lo sfruttamento della donna connesso allo sfruttamento del pianeta è un tema, secondo me, molto attuale e in qualche modo che lei ha trattato e affrontato in tempi appunto in cui questo tipo di di contenuti non erano così usuali, soprattutto in maniera così esplicita non erano usuali, all’interno della scena artistica italiana. Ci sono naturalmente altri esempi però, sicuramente, questo aspetto e questa sua capacità di capire e di legare lo sfruttamento di genere su tendenza familiare con quello della terra è secondo me un aspetto importante. Poi ci sono anche altri lavori, a me interessano molto, per esempio, dei suoi lavori forse meno noti rispetto ai collage che consiste in questa serie di impronte del corpo che lei ha fatto nel 78 e che ha esposto, tra l’altro, nella mostra “Materializzazione del linguaggio” curata da Mirella Bentivoglio  che, negli ultimi anni, è stata oggetto di un grande rivalutazione. Era una mostra nel 78 che era stata fatta e voluta perché ci si era accorti che la presenza femminile nella rassegna della Biennale di quell’anno era bassissima… si correva il rischio di andare allo scontro con le femministe che, all’epoca, erano vigorose: avrebbero presumibilmente protestato e per riuscire ad arginare il problema, in maniera un po’ strumentale, si apre questa questa mostra. Tuttavia la si apre due mesi dopo l’apertura della Biennale del 78, quindi, in una posizione cronologicamente defilata e anche logisticamente defilata e con pochi mezzi. Mirella Bentivoglio, all’epoca, grazie alla sua rete estremamente capillare di rapporti con poetesse visive di tutto il mondo riesce a metter su una mostra importante. All’epoca, bisogna dirlo, non ebbe questo grande successo, mentre negli ultimi anni è stata veramente oggetto di letture critiche e di mostre. In quell’occasione, Lucia Marcucci presentò questa serie di impronte con il corpo che fanno un po’ il verso a Yves Klein, sono un po’ una parodia delle impronte delle “Antropometrie” di Klein, però, in questo caso, il corpo non è più quello di modelle nude che agiscono come pennelli umani, ma si tratta di un corpo vissuto, agito dall’artista e messo in contrapposizione con parole legate alla cultura patriarcale o anche al marxismo. Ecco perché un’altra delle questioni centrali in quegli anni, pensiamo alle riflessioni su Hegel di Carla Lonzi, è proprio quella di non vincolare la lotta delle donne soltanto all’interno della lotta politica più generale portata avanti dalla sinistra italiana, insomma, quella di scorporarla, o meglio, di cercare di capire quella che è la specificità della lotta di liberazione delle donne. Quelle opere di Lucia Marcucci, secondo me, sono opere interessanti anche perché pongono proprio in dialettica, in tensione, questa corporeità così primaria, così primigenia con idee e concetti legati alla cultura patriarcale.

Giorgia Basili: Benissimo, hai citato “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, ti vengono in mente altri testi fondamentali che hanno aiutato sicuramente l’artiste a trovare la strada da percorrere?

Raffaella Perna: beh sicuramente, all’epoca, oltre agli scritti di Carla Lonzi che sono stati fondamentali per una generazione, anche “Speculum. L’altra donna” di Luce Irigaray è stato uno di quei testi fondamentali che ha rimesso un po’ in discussione e ha criticato la lettura psicoanalitica freudiana… naturalmente in Francia, dove è stato pubblicato nel 74, ma anche poi – tradotto da Luisa Muraro nel 75 – in Italia, ha avuto un’eco fondamentale per tantissime artiste italiane. Poi, mi vengono in mente testi più recenti, dagli anni 80 in poi, “L’elogio del margine” (o anche “Insegnare a trasgredire”) di bell hooks (1952-2021), scrittrice afroamericana femminista che poi è scomparsa anche di recente: la sua visione della marginalità non soltanto appunto in un’accezione negativa come impossibilità, ma come spazio creativo come spazio di possibilità, di rivolta scardinante…ci sono poi tantissime altre teoriche e libri fondamentali.

The Guerrilla Girls – Image via Artspace

“PERUGINO. RINASCIMENTO IMMORTALE”

È in questi giorni –  il 3, 4, 5 aprile – che sul grande schermo si sta proiettando il docs-film PERUGINO. RINASCIMENTO IMMORTALE parte dell’iniziativa La Grande Arte al Cinema – progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital – con la partecipazione straordinaria dell’attore Marco Bocci. Il documentario di 1 ora e 20 minuti è stato prodotto da Ballandi e diretto da Giovanni Piscaglia, regista di Van Gogh. Tra il grano e il cielo e Napoleone. Nel nome dellarte, su soggetto dello stesso Piscaglia con Marco Pisoni e Filippo Nicosia. Accompagnano il racconto le musiche originali di Eraldo Bernocchi e Lorenzo Esposito Fornasari.

Abbiamo posto alcune domande al regista dopo aver guardato attentamente il film:

Perchè ha scelto di coinvolgere lattore Marco Bocci?

Marco Bocci è di origini umbre, la scelta non è stata legata solo a questo dato biografico. Bocci è anche sceneggiatore e drammaturgo, doppiatore e regista (a breve uscirà il suo secondo film da regista). È un cineasta, non solo un interprete e ha saputo farsi carico del racconto in maniera generosa, spendendosi molto per la realizzazione del soggetto. Abbiamo girato per due giorni consecutivi a Perugia fino alle 4 di notte, abbiamo fatto delle riprese uniche all’Isola Polvese sul Trasimeno, luogo disabitato che nei mesi di gennaio non si poteva neanche raggiungere con un trasporto pubblico. Lui ha capito la necessità drammaturgica ed estetica che avevo, siamo così riusciti a trovare i giorni buoni col bel tempo e il sole per girare. Bocci risulta magnetico e coinvolto, ma soprattutto leggero e non pedante, come se raccontasse una favola.

Perché dopo Van Gogh e Napoleone ha scelto di investigare la figura di Perugino?

Il 2023 sapevamo che era il cinquecentenario della morte di Perugino, collaboro poi da anni con il Museo Nazionale dell’Umbria. Il direttore Marco Pierini mi ha chiesto di fare un documentario sul pittore. Mario Paloschi è stato coraggioso e ha sposato questo progetto, abbiamo realizzato un film su un personaggio che non è conosciuto come Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Sulla carta poteva non attrarre un pubblico vasto ma ho scoperto, in realtà, poi parlando con le persone con cui mi imbattevo durante la realizzazione, che moltissimi non solo lo conoscono ma lo amano. Sono un amante della cultura e dell’arte antica ed era molto tempo che volevo confrontarmi con una figura del Rinascimento nonostante dovendomi confrontare con un personaggio così antica si debba fare i conti con la mancanza di testimonianze vive e non solo documenti verbali lacunosi e dipinti.

Quali sono le scelte registiche su cui ha puntato maggiormente, le sue cifre stilistiche che considera più rappresentative del suo lavoro?

Nei film che ho realizzato, soprattutto se si tratta di biografie, ho cercato di puntare sulla verità dei personaggi, sulla loro personalità quando abbiamo delle tracce, sul loro pensiero quando ci sono documenti che lo attestano. Nel caso di Van Gogh ho cercato di rintracciare il suo carattere reale, i sentimenti al di là della leggenda e del mito che hanno ricamato i posteri; per Napoleone ho cercato cosa c’era sotto al culto della persona e al lato propagandistico. Per Perugino ho cercato di evitare subito i cliché, le nomee, le etichette: tutto ciò che si è stratificato sopra come una spessa coltre. Ho pensato che le etichette di artista monotono e ripetitivo fossero attribuzioni successive, dettate da un occhio moderno… altrimenti, non si sarebbe spiegato il motivo per cui Perugino per più di 20 anni si affermò e rimase il maestro più richiesto d’Italia. Quest’idea di trovare la verità si è rivelata la chiave di volta del film. La fonte maggiore, quella delle Vite del Vasari, è stata eloquente. Inizialmente ho pensato: “c’è solo Vasari, bisogna cercare altro”. Lo stesso lo addita come un esempio dell’arte che non deve più esistere, essendo un suo postero e guardando ai geni che arrivano dopo Vannucci… Vasari lo fa risultare obsoleto e lo bolla con la sua firma imponente, da cui non prescinde la critica successiva. L’unico merito che gli assegna è di essere stato il punto di partenza da cui è poi derivata la rivoluzione di Raffaello. Non mi sono fermato a queste considerazioni.

Come ribadito dalle parole del regista Giovanni Piscaglia, la data non è casuale: sono infatti passati 500 anni dalla morte del grande pittore (Città della Pieve, 1448 circa – Fontignano, febbraio 1523)… ma come mai si è aspettato tanto per rivalutare la sua figura? L’artista che ha voluto fare gli onori della città di Perugia, facendosi chiamare in questo modo non appena la sua fama iniziava a circolare a Firenze, è stato in parte oscurato da due giganti, figure a dir poco ingombranti: Raffaello, suo allievo e campione della nuova maniera; Giorgio Vasari che senza riserve lo disdegna, raccontando nella sua biografia raccolta nelle Vite aneddoti negativi ed esaltando i difetti caratteriali a discapito dei pregi. Emerge una figura avida, arrivista, opportunista e miscredente. Il docs-film ha il merito di mettere in luce le qualità del pittore e la sua personalità. Parte con una ripresa, prima a volo d’uccello poi rasente la superficie, sulla sua terra d’origine, l’Umbria, soffermandosi in particolare su specchio d’acqua e canneti del Lago Trasimeno. Pietro Vannucci nasce infatti in un borgo immerso in quei paesaggi, a Castel della Pieve, al confine con la Toscana e importante snodo tra le due regioni.

La superficie del lago contraddistingue i suoi dipinti armonici con le sue acque calmissime soprattutto perché ricorda i limpidi sfondi della pittura fiamminga, ne è vera e propria presenza costante. È infatti il paesaggio, non più mero fondale, il vero protagonista dei suoi quadri in cui “i monti si fondono con cieli tersi”. Il Geologo Franco Farinelli dell’Università di Bologna parla di un paesaggio “idealtipico” – che mescola elementi materiali e ideali – e simmetrico secondo la struttura già insita nelle valli umbre. La sua formula che congiunge all’unisono uomo e natura lo trasforma nell’artista più richiesto in Italia nel ventennio che va dal 1480 al 1500. Non solo… i volti dolci e l’abbraccio accogliente dei colori vivaci e arditi, la gestualità evocativa ed eloquente, la capacità di inventare nuove iconografie di successo fecero in modo di plasmare un nuovo linguaggio che si diffuse a raggio nazionale, fondamentale dopo la prima rivoluziona apportata da Giotto. 

Pietro Perugino (1448 – 1523), San Bernardino risana da un’ulcera la figlia di Giovanni Antonio Petrazio da Rieti, Dalle Storie di San Bernardino, 1473, Olio su tela, 75 x 57 cm, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Il luogo dove si trova conservato il maggior numero di sue opere al mondo e la seconda meta dove ci portano le riprese è la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia nel Palazzo dei Priori. Tra le sale ci guidano Marco Pierini, direttore del Museo, e Veruska Picchiarelli, storica dell’arte. Il racconto ha inizio: Pietro Vannucci dovrebbe essere nato nel 1450 perché Giovanni Santi lo descrive come coetaneo di Leonardo. Il padre era stato priore, da lui riceve come eredità una posizione nella produzione del vino. Attorno ai vent’anni si trasferisce a Perugia, allora fermento esplosivo di orafi, pittori e architetti, con la famiglia Baglioni in testa come casata. Una delle questioni ancora irrisolte sul suo conto riguarda la misteriosa identità del suo maestro. Molti propendono per Bonfili o Caporali (artista eclettico che sembra prefigurare Perugino ma anche Pinturicchio), pochi altri per Piero della Francesca, con le sue ricerche avanzate sulla prospettiva. 

Ci spostiamo nella Cattedrale di San Lorenzo dove tra le 8 tavolette con le storie di San Bernardino si riconosce la mano di Perugino, forse nelle prime due con architetture ardite e paesaggio atmosferico. Alla Sant’Assunta di Cerqueto troviamo invece la prima opera effettivamente firmata da Perugino, rimane il frammento con San Sebastiano trafitto dalle frecce. La prima grande impresa, come racconta Veruska Picchiarelli, consiste nell’Adorazione dei Magi. A soli 25 anni, Perugino si confronta così con una pala d’altare dove si riscontrano forze contrastanti: i fiamminghi, i fiorentini e Piero della Francesca.

Il pittore si sposta poi a Firenze ed entra nella bottega di Andrea del Verrocchio – sorta di Bauhaus del Quattrocento – dove sono passati i migliori: Leonardo, Ghirlandaio, Botticelli, Lorenzo Di Credi. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, ci mostra le tre tavole per San Giusto alle Mura. Se nella prima le figure risultano ancora legnose “alla Verrocchio”, è nella Pietà che avviene la svolta: viene introdotta una soluzione architettonica con sequenza di volte su pilastri come insegna l’Alberti.

Anche Lorenzo il Magnifico non si fa sfuggire Perugino che per lui realizza “Apollo e Dafni”.

La Lotta tra Amore e Castità è un dipinto tempera su tela (160×191 cm) di Pietro Perugino, datato 1503 e conservato nel Museo del LouvreParigi.

Sempre Lorenzo – dopo la Congiura dei Pazzi e la morte del fratello Giuliano – manda i migliori pittori di Firenze ad affrescare la Sistina. Al suo ritorno a Firenze, Vannucci apre una bottega con pittori umbri creando un impero artistico ed economico, una catena di montaggio e di commissioni, grazie al suo talento imprenditoriale. Le richieste di suoi dipinti incalzano, la sua bravura si manifesta in maniera naturale nella leggiadria dei volti femminili, tanto che si dice abbia infatti inventato un inedito canone di bellezza. La sua tipologia di Madonna con viso insieme mesto e soave aprirà la strada all’indiscussa grazia delle Vergini di Raffaello. Vasari ci dice che la sua ispirazione potrebbe essere derivata da un modello reale, la moglie che amava “acconciare di sua stessa mano” con fantasiose pettinature, Chiara Fancelli. Inoltre, Perugino fu inventore di iconografie e portatore di un dinamismo effuso dai suoi personaggi, un moto interno a carattere devozionale. Cesare Brandi diceva che in Perugino “la pittura è aria e danza” e Virgilio Sieni coreografo di fama internazionale sta dedicando un suo studio proprio alla varietà gestuale nell’opera l’Ultima Cena.

Non mancano, a scandire la narrazione, gli interessanti affondi storici di Franco Cardini che ci riporta al periodo di confusione e severità mistica di Girolamo Savonarola che incitava i suoi seguaci a bruciare opere d’arte e averi sfarzosi in pire alzate nelle piazze. Appartiene a questo frangente il Compianto su Cristo morto (1495) della Galleria Palatina che bene seppe interpretare il messaggio di rigore del predicante e la tragedia della storia dell’umanità.

Tra i cicli pittorici del Perugino, capolavoro assoluto è Il Collegio del Cambio, nella Sala delle Udienze, che segue il programma iconografico di Francesco Maturanzio, mentre, la Pala Scaroni di Bologna, con la sua sintesi estrema – la scomparsa dell’architettura e la perdita della compenetrazione con la natura -, è un esempio di Protoclassicismo a cui si aderirà nel Seicento. È tuttavia “il tonfo della Santissima Annunziata” a Firenze a far decadere la stella di Perugino, schiacciato dalla nuova generazione di pittori e dalla sua reiterazione di soggetti e composizioni:  “ormai non stupisce più e il pubblico non glielo perdona”.

Lascia poi scontenta un’esigente e ambita committente: Isabella DEste gli commissiona una “Battaglia di Castità contro Lascivia”, dipinto dal soggetto profano; lui tarda la consegna e non la stuzzica con l’immaginazione. Gli ultimi capolavori ci riportano nella terra natale, l’Umbria; il maestro è ormai anziano ma continua a produrre in maniera prolifica. Il martirio di San Sebastiano di Panicale, non è una pittura “del tutto risolta, le figure sono serpentinate – annunciando il Manierismo – ma affettate” sostiene Veruska Picchiarelli che ne loda, comunque, la freschezza delle tonalità cromatiche.. Nel Febbraio 1523 il pittore, colto dalla peste, muore ancora strenuamente attaccato alla sua arte, il pennello stretto tra le dita come un’ancora di salvezza

Come chiosa la voce calda, chiara e suadente di Marco Bocci, le opere di Perugino, nonostante tutto, “arrivano eloquenti fino ai giorni nostri, portatrici di bellezza”…una bellezza, credo, capace di manifestare un candore frastornante. Perugino è uno degli ultimi interpreti di un “mondo della grazia in cui nulla turba e nulla è turbato”.

Il personale è Politico, il Politico è personale

Al XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil, Il sindacato dei Pensionati Italiani, tenutosi a Fiera di Verona dal 21 al 24 febbraio 2023 ha preso vita la mostra Il personale è politico, il politico è personale a cura di Tiziano Tancredi (Roma, 1989) che ha voluto interpretare in chiave artistica e con un approccio visivo il concetto di complessità. Quest’ultimo figura infatti come uno dei sottotitoli del congresso: INTERESSE GENERALE (Stato sociale – Rappresentanza – Complessità – Comunità). Il curatore emergente che si divide tra Roma e Parigi, arte urbana e mondo dell’arte legato alle gallerie, ha selezionato 4 personalità: Federica Di Pietrantonio, Verdiana Bove e i due collettivi Guerilla Spam e Collettivo FX.  Verdiana Bove (Roma, 1996) vive e lavora a Roma, è co-fondatrice dell’Artist-Run Space CONDOTTO48 di Torre Angela. Federica Di Pietrantonio, coetanea di Bove, vive a Roma ed è dal 2018 componente di Spazio In Situ, artist-run space e luogo di co-working situato a Tor Bella Monaca. Nel 2021 è stata selezionata da NAM – Not a Museum per la residenza Superblast presso Manifattura Tabacchi (Firenze), collabora con The Gallery Apart. Simone Ferrarini (Reggio Emilia, 1976) ha fondato nel 2010 Collettivo FX che, innamorato della terra, opera “su tutte le sue superfici, senza porsi limiti se non quelli di preservare tutte quelle storie troppo importanti per passare sotto silenzio”.

I Guerilla Spam sono, dal canto loro, nati nel 2010 a Firenze come spontanea azione non autorizzata di affissione negli spazi urbani. By-passando le gallerie, le loro opere sono già in tre musei (Pinacoteca Civica di Follonica, del Museo Archeologico del Casentino di Bibbiena e del Museo e Parco Archeologico dell’Antica Kaulon di Riace).

Abbiamo intervistato il curatore Tiziano Tancredi e posto una domanda a ciascun artista o rappresentante del collettivo di riferimento, per sciogliere i nodi concettuali dell’esposizione, del pensiero e dell’etica/estetica dei protagonisti di Il personale è politico, il politico è personale.

1. Come hai scelto il nome del progetto e come si è inserito allinterno di INTERESSE GENERALE, XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil?

Tiziano Tancredi: Il nome del progetto “Il Personale è Politico | Il Politico è Personale” trae ispirazione nella prima parte da un celebre slogan femminista degli anni ’70 coniato da Carol Hanish, e nella seconda da una volontà di integrarlo, rafforzandolo tramite un suo rovesciamento sintattico, ma non di senso. L’intenzione è stata dunque di proporre uno sconfinamento, un incontro, tra le pratiche personali di Federica Di Pietrantonio e Verdiana Bove, e quelle politiche di Collettivo FX e Guerrilla Spam. Le ricerche di Federica Di Pietrantonio e Verdiana Bove si nutrono infatti di archivi personali, intimi, privati, frutto di ricordi reali o esperienze virtuali, mentre quelle di Collettivo FX e di Guerrilla Spam assumono una connotazione più marcatamente politica, che si alimenta di spunti emersi in laboratori, dibattiti e confronti, nello spazio pubblico e non, con gli abitanti di un dato territorio. In mostra, le diverse opere dagli esiti formali e stilistici vari (figurativo “puro” di Collettivo FX, figurativo tendente all’astratto di Verdiana Bove, dallo stilizzato al simbolico di Guerrilla Spam, grafico di Federica Di Pietrantonio) si incontrano, dialogano tra di loro, creando una possibile declinazione artistica della parola “complessità”, uno dei sottotitoli del nome dato all’XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil, INTERESSE GENERALE.

2. Se dovessi associare ogni artist* in mostra a un genere letterario, cosa sceglieresti?

Tiziano Tancredi: Direi che Collettivo FX è giornalismo, Federica Di Pietrantonio architettura, Guerrilla Spam saggistica, Verdiana Bove poesia.

3. Come si colloca il progetto allinterno del tuo percorso curatoriale?

Tiziano Tancredi: Il Personale è Politico | Il Politico è Personale” è stato in assoluto il progetto più complesso e ambizioso con cui mi sono mai confrontato nel mio percorso, nonché la prima mostra collettiva mai curata. Fino a maggio dell’anno scorso (inizio del lavoro alla mostra), mi ero occupato quasi esclusivamente di mostre personali in gallerie medio-piccole. Quando sostieni un artist* nella realizzazione di una mostra personale in una galleria medio-piccola, si instaura un lungo e intimo dialogo, fatto di confronti e germinazioni quotidiane, intuizioni condivise e validate che, passo passo, prendono forma definitiva in mostra. Il che comunque non esclude cambiamenti all’ultimo minuto. Curare invece una mostra collettiva in un contesto fieristico all’interno di un congresso nazionale di un sindacato, ti pone davanti tutta una serie di obiettivi che allenano la tua mente a ragionare per scadenze, intese come punti di non ritorno: definizione del concept e degli artisti e validazione da parte dello Spi-Cgil; contatto e coinvolgimento effettivo degli artisti; progettazione dello spazio espositivo (non relazionandoti con uno già dato, come in galleria); selezione delle opere con gli artisti, avendo un’attenzione particolare nel caso di nuove produzioni (per l’opera “Da prendere e portare” di Collettivo FX, la progettazione ha coinvolto anche Lorenzo Rossi Doria dello Spi-Cgil); l’organizzazione logistica del trasporto delle opere; in termini di allestimento, il perseguimento di una visione d’insieme che armonizzi i rapporti di contrasto e/o di vicinanza formale tra opere di artisti diversi; la finalizzazione del foglio di sala con mappa e testi.

Vorrei ringraziare chi mi ha assistito nella realizzazione di questo progetto, carico di soddisfazioni professionali e splendidi ricordi scaligeri: tutti gli artisti; Lorenzo Rossi Doria, Claudio Cervellini, Isabella Sconda, Fabrizio Ruggeri, tutti della famiglia dello Spi-Cgil; Gianni Cioni, la fotografa Flavia Rossi. E ancora Chiara, Valeria Cetraro, Mimmo Rubino, Roberto D’Onorio.

4. A proposito dellallestimento, come lo hai pensato?

Tiziano Tancredi: L’allestimento che ho immaginato riflette l’articolazione dello spazio espositivo, strutturato come un percorso in cui due elementi speculari si intersecano verso il centro. Secondo il principio scacchistico denominato appunto “conquista del centro”, è proprio lì che si condensano la maggior parte degli stimoli visivi tra le opere: Saltare lo spazio di Guerrilla Spam dialoga con Youre in a post-apocalyptic bathroom with water dripping 03 di Federica Di Pietrantonio che a sua volta dialoga con il Trittico alla mia nazione di Guerrilla Spam; When will you see from my side?, Youre in a post-apocalyptic bathroom with water dripping 02Youre in a post-apocalyptic bathroom with water dripping 04 di Federica Di Pietrantonio entrano in contatto visivo tra di loro; È chiaro che ci andrei di Verdiana Bove entra in relazione con My bathroom is a public space di Federica Di Pietrantonio; in un unico colpo d’occhio è visibile il trittico di Verdiana Bove ovvero Stagione rossa, Buio rosso e Stanza dInverno.

Parlaci della tua poetica attraverso le opere scelte per la mostra

Federica Di Pietrantonio: Il mio bagno è uno spazio pubblico 2019 è una dichiarazione forte: da luogo privato, il bagno diventa spazio di confronto verso l’esterno, favorendo l’autodeterminazione. L’identità si definisce così in un luogo in cui ci si confronta con la propria immagine allo specchio e con la cura del corpo; ciò vanta un valore politico, non solo intimo. Per la serie “you’re in a post-apocalyptic bathroom with water dripping” la stampa dei frame è in PVC, i tubi sono quelli idraulici in polipropilene che normalmente servono per il passaggio di flusso e per il collegamento, mentre qui diventano pilastri di sostegno dell’immagine. L’immaginario a cui attingo deriva da videogiochi come The Sims, eppure avvicino il pubblico con uno sguardo che non si aspetta: il videogioco nasce nel settore dell’intrattenimento ma diventa per me campo di ricerca. Mi ispirano anche la Vaporwave o la Poolcore Aesthetic,corrente sugli spazi liminali, si tratta di una sottocultura web in cui circolano video di piscine enormi e vuote che, sembrando abbandonate, favoriscono una sensazione d’inquietudine nonostante il liquido, allo stesso tempo, rassereni. Il lavandino assume la forma di fontana come fosse un monumento commemorativo. Le pareti del bagno sono piastrellate ma l’ambiente non è connotato da altre componenti. 

“When will you see it from my side?” è stata realizzata appositamente per la mostra mentre i frame di “you’re in a post-apocalyptic bathroom with water dripping” sono stati selezionati da tre cortometraggi in cui un personaggio compie diverse azioni in tre diverse tipologie di bagno. Uno dei fotogrammi è ripreso da “Rain on me”, episodio conclusivo della trilogia in cui il Sim beve dell’acqua senza riuscire a fermarsi e viene enfatizzato il suono della deglutizione. Il video sarebbe infatti da installare su un soffitto in modo che il fruitore possa guardarlo con il volto rivolto verso l’alto: ciò è essenziale sia per rievocare il movimento della pioggia che cade seguendo la gravità, sia perché la posizione in cui il fruitore è costretto stimola l’epiglottide. Piano, piano la narrazione cambia: il personaggio incanala l’acqua nel suo corpo finché la stessa non inizia a sgorgare fuori dal bicchiere; a quel punto, il personaggio si immobilizza in una posa plastica. Diviene una scultura o, meglio ancora, una fontana.

Parlaci della tua poetica attraverso le opere scelte per la mostra

Verdiana Bove: Lavoro con fotografie d’archivio – spesso i personaggi ritratti, sospesi tra cielo e terra, sono componenti della mia famiglia – o con immagini che scatto in luoghi verso cui mi muove un’empatia particolare. Attraverso la fotografia metto in luce alcuni elementi, aspetti, eventi della mia vita essenziali. Lavoro per stratificazioni a olio, usando anche l’acrilico ma sempre in funzione dell’olio. Le stratificazioni sono metaforiche e alludono alle relazioni che intercorrono tra i personaggi che rappresento, calati e colti in una realtà immaginifica e sognante, in un mondo che non è di qua né di là. In molti dipinti si nota una luce preponderante, elemento di calore, che rimanda a un concetto di soglia. I contrasti tonali non sono mai eccessivi, il colore è usato in maniera allegorica. Mi interessa creare anche un’ambiguità di fondo, pensando anche alle posture delle figure, e che ci sia una narrazione non del tutto esplicita.

In “È chiaro che ci andrei” due personaggi stanno uscendo dall’acqua, sono degli amici che vantano una posa fiera adolescenziale. È come se scavassi nei motivi più intimi del mio fare pittorico. C’è un rapporto tra luci e ombre, tra ciò che voglio lasciar fuoriuscire e ciò che preferisco nascondere in una storia, come la dimensione celestiale che sottende alla dimensione quotidiana e mortale: una sorta di Paradiso terrestre. Le figure non sono mai descrittive e tracciate integralmente, assomigliano a delle presenze fantasmatiche. Lavoro spesso sulla stessa iconografia in maniera ossessiva, creando declinazioni differenti. La fotografia però è solo un espediente, una chiave di lettura visiva, una prima impronta. Scatto spesso immortalando scene personali o dinamiche biografiche altrui. La texture è frutto di miscele tra olio e acqua, acrilico, olio e smalto, quando trovo l’equilibrio che mi dà la sensazione di un’assolutezza formale, tra astrazione e figurazione, mi fermo.

Il trittico composto da “Stagione rossa”, “Buio rosso”, “Stanza d’Inverno” è più essenziale a livello formale, ci troviamo in un interno, come se assistessimo a una scena domestica. Ricalco una scatola, un microcosmo delimitato. Nei nuovi quadri come “Stanza d’inverno” le figure piombano in basso come se fossero cadute, sono mortali, terrene. L’astrazione pittorica spinge invece verso l’alto. La mia nuova personale, curata da Simone Zacchini, si intitola proprio “Quando cosa felice cade” riprendendo una poesia di Rilke sul dolore, sulla fine dell’esistenza e sulla ricerca di una beatitudine in ciò che perisce, si esaurisce e si consuma. Non è un guardare al passato in maniera nostalgica ma gioiosa. In questo trittico all’inizio c’è l’idealizzazione di un rapporto di coppia, poi un allontanamento e uno sviluppo verso la solitudine. In “Stagione rossa” le due figure potrebbero essere i miei genitori mentre “Stanza d’Inverno” presenta una sorta di autoritratto ma la figura potrebbe essere chiunque… è un lavoro sugli archetipi, sui legami primari. 

Come agite sul territorio, qual è la vostra pratica?

Guerilla Spam: Non facciamo mai mostre, solitamente non usiamo format di  (tele, sculture) rispetto al foglio A4 dei bozzetti e ai murales della dimensione pubblica. Lavoriamo facendo muralismo, poster, installazioni, workshop, seminari (nei carceri, con i bambini, con i rifugiati). Per il collezionismo privato facciamo stampe, riproduzioni, libri. L’opera del 2016 è un’eccezione, era per un progetto in una galleria di Torino che non esiste più. Per la prima volta abbiamo dipinto delle tele, per esasperare questa operazione siamo andati sul classico, scegliendo la tecnica ad olio, le tele e il trittico. La particolarità del lavoro è che le 12 tele in mostra insieme con il trittico, potevano idealmente essere unite per formare un’unica immagine. Infatti fotografando tutte le tele e stampando le immagini a mo di poster abbiamo attaccato il polittico in strada, in vari punti di Torino. L’opera completa era in strada, per ribadire che il nostro interesse è agire nel territorio pubblico. Nessuno avrebbe potuto comprare l’intera opera o almeno era irrealistico. L’opera in mostra è ispirata Alla mia Nazione, poesia di Pasolini degli anni ’60 che muove una critica agli italiani medi, con la chiosa augurio al Belpaese “sprofonda in questo tuo bel mare”. Il trittico è ispirato alla pittura a olio dei fiamminghi come Bosch e Brueghel ed è ricco di dettagli riferiti al testo: nella parte centrale, ad esempio, l’Italia sprofonda nel mare con il peso della televisione. È una trasposizione in chiave attuale che guarda all’Italia negli anni Duemila, attanagliata da guerra e violenze. Il personaggio che ha l’imbuto sulla testa si ispira a raffigurazioni fiamminghe e allude alla stoltezza.

Come agite sul territorio, qual è il vostro modo di rapportarvi con le comunità?

Collettivo FX: Siamo nati a Sant’Ilario, ci lamentavamo con alcuni amici di numerose questioni politico-sociali e così abbiamo deciso di metterci in gioco. I primi manifesti che abbiamo affisso erano legati alle agitazioni della Primavera araba. Abbiamo un DNA legato all’educazione sociale e alla lotta operaia. Vogliamo fornire uno strumento per provocare azioni/reazioni all’interno delle comunità. Ad esempio, al nord, ci hanno chiamati per arginare il fenomeno delle Baby Gang. Ad alcuni ragazzi che hanno commesso atti delinquenziali viene data la possibilità di fare recupero sociale invece di finire nel carcere minorile. L’importante è far sì che, in tre mesi di confronto, discussione e progettazione, questi adolescenti si sentano liberi di condividere i propri pensieri, la propria rabbia e le proprie idee da cui si partirà per realizzare un’opera collettiva nello spazio pubblico. C’è l’opera e l’operazione, a noi interessa sollecitare e guidare la seconda. Fondamentale è anche il ruolo della memoria storica. Ad esempio, se pensiamo alla Strage di Bologna, ci sentiamo più propensi a realizzare un’opera che serva non tanto a ricordare le vittime ma a sollevare la questione della giustizia, non raggiunta da più di 40 anni. Nell’entroterra siciliano sono stati chiusi alcuni ospedali con il rischio di spopolamento dei borghi più isolati… si sono formati dei comitati che hanno richiesto il nostro intervento. Noi forniamo uno strumento, come un murales, tuttavia è la comunità a doverlo attivare per conferenze stampa e incontri di sensibilizzazione.

Lavoriamo anche con le carceri, “Non me la racconti giusta” è un progetto portato avanti con la fanzine Ziguline. Abbiamo creato un progetto anche per la Reggiana, squadra di calcio della Serie C  ma molto importante per la comunità di Reggio Emilia e per i suoi momenti di aggregazione. In quel caso, abbiamo attinto alla memoria storica indiretta, omaggiando la storia dei suoi giocatori dagli anni Venti fino a oggi. Abbiamo creato due murales. Il primo ritrae calciatori degli anni Quaranta, uniti in un’unica azione, l’altro offre un punto di vista diverso sugli allenatori, quali mentori e personaggi di cultura – l’ambientazione prende infatti spunto da La Scuola di Atene di Raffaello.

Per “Da prendere e portare”, installazione composta da 42 opere tempera su tela 50 x 50 cm, ho usato la vernice al quarzo, solitamente impiegata per gli esterni dei palazzi. Non mi interessa la bella pittura, per me la pittura è medium per esprimere un contenuto specifico, un linguaggio tecnico di traduzione di principi e valori. Ci sono alcuni artisti come Marlene Dumas che hanno una potenza innata nel segno; dal mio canto, mi preoccupo di ciò che voglio comunicare, cerco di farlo nel modo giusto, con i vocaboli più consoni a estrinsecare il messaggio. Mi adatto al contesto e alla tematica, se dipingo per strada o in piazza, a Rione Sanità o sulle montagne della Valtellina. Ho creato qui un effetto di sintesi, chiaro a colpo d’occhio. Il disegno preparatorio solitamente è tracciato in giallo, qui ho usato il rosso in riferimento alla CGIL. I volti sono presi da foto d’archivio di manifestazioni del passato e del presente, mettendo insieme i motti e le parole d’ordine dagli anni Sessanta con le urgenze attuali. L’accordo è che questa serie venga usata dal mondo della CGIL ogni qualvolta sia richiesta, potendo essere spediti anche solo alcuni dei riquadri del puzzle complessivo.