Bologna accoglie La Camera. Sulla Materialità Della Fotografia la mostra, aperta fino al 28 febbraio presso Palazzo de’ Toschi (piazza Minghetti 4D), facente parte di un progetto espositivo più ampio, a cura di Simone Menegoi, che indaga il rapporto fra scultura e fotografia, il cui titolo complessivo è The Camera’s Blind Spot. Bologna segna la terza tappa di questo progetto dopo i primi due episodi che hanno avuto luogo al MAN – Museo d’Arte della Provincia di Nuoro (2013) e ad Extra City Kunsthal di Anversa (2015).
Un ciclo di mostre che ambisce a documentare tutti gli sviluppi del rapporto scultura-fotografia, non più inteso soltanto come la fotografia che documenta e rivisita opere tridimensionali già esistenti. Una formula questa, nata con la fotografia stessa e che ha visto una svolta creativa grazie a scultori come Medardo Rosso e Costantin Brancusi che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, imbracciarono la macchina fotografica e incominciarono a fotografare le loro stesse opere in condizioni mutevoli di luce e di spazio.
The Camera’s Blind Spot vuole andare oltre, dando spazio ad altre possibilità come quella che vede la materialità dell’immagine fotografica spingersi a tal punto da trasformare quest’ultima in oggetto. Una sfida a ciò che costituisce sin dal principio il “blind spot” della tecnica fotografica, il suo limite: l’impossibilità di rendere un oggetto tridimensionale su una superficie piana.
Questo terzo episodio della serie, sposta il baricentro della ricerca verso il medium fotografico stesso. All’interno della sala maggiore di Palazzo De’ Toschi sono così presentate opere realizzate con le tecniche fotosensibili più insolite e rare fra quelle attualmente in uso oggi presso artisti visivi e fotografi: dai dagherrotipi di Evariste Richer alle stampe al platino di Paul Caffell, dalle scansioni fotografiche sferiche di Attila Csörgő ai “monotipi a getto d’inchiostro” di Justin Matherly.
La rassegna presenta eccentricità, arcaismi, hapax legomena fotografici, con l’obiettivo di spiazzare le aspettative comuni dello spettatore rispetto alla fotografia, facendogli sperimentare, nuovamente, la meraviglia del suo avo ottocentesco di fronte a un’invenzione che ha rivoluzionato la cultura visiva e il rapporto stesso con la realtà. Una scelta che non si pone in contrapposizione alla fotografia digitale di per sé, ma che si pone contro alla sua egemonia assoluta rilanciando invece l’idea che ogni altra tecnica fotografica non debba considerarsi obsoleta e prossima all’abbandono.
Altro protagonista del progetto è poi la scultura. Un aspetto che riemerge nei soggetti: le sculture romane fotografate da Paolo Gioli con un procedimento di sua invenzione, che comprende una pellicola fosforescente, oppure le stalattiti e stalagmiti, vere e proprie sculture naturali, fissate su vetro da Dove Allouche con la tecnica ottocentesca dell’ambrotipia. Una scultura che si ripropone nella presenza fisica di opere basate su tecniche fotografiche, e che tuttavia si stenta a chiamare “fotografie”. Un esempio per tutti è la Structure for Moon Plates and Moon Shards (2015) di Johan Österholm, una costruzione realizzata con i vetri di una vecchia serra per fiori, spalmati di emulsione fotosensibile e poi esposti alla luce della luna.
Ecco l’elenco di tutti gli artisti dell’esposizione: Dove Allouche, Paul Caffell, Elia Cantori, Attila Csörgő, Linda Fregni Nagler, Paolo Gioli, Franco Guerzoni, Raphael Hefti, Marie Lund, Ives Maes, Justin Matherly, Lisa Oppenheim, Johan Österholm, Anna Lena Radlmeier, Evariste Richer, Fabio Sandri, Simon Starling, Luca Trevisani, Carlos Vela-Prado.
Info: www.bancadibolognaeventi.it/mostra-