Il film noir di Valentino

Il film noir di Valentino

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Nero assoluto, tranchant, assiomatico e perverso come in una favola dark ambientata nelle metropoli nordiche, che sarebbe piaciuta alla Liliana Cavani di ‘Il portiere di notte’ o a Newton e ad Araki per le loro foto peccaminosamente bondage e sadochic. Il mondo enigmatico e sublime di Valentino si materializza sulle note di un quintetto d’archi live, nelle silhouette inquietanti e sofisticate modulate da Pierpaolo Piccioli che ha finalmente riscoperto il glamour del marchio declinandolo in modo squisitamente contemporaneo.

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La Parigi ambigua e rutilante del ‘Sept’ e delle ‘nuits fauves’ allo Hotel de Ville approda in passerella per dare forma e stoffa ai sogni erotici della maison, proposti in chiave no gender per un ‘dialogo senza barriere’. Le ‘belles dames sans merci’ del grande couturier che si definì negli anni’60 la ‘Rolls Royce dell’alta moda italiana’, prendono forma rinnovandosi attraverso abiti apparentemente austeri, in realtà molto voluttuosi e di vibrante sensualità: cristalli e canottiglie accendono di desiderio le robes lineari accompagnate da boot neo punk issati su solide basi, mentre i cappotti più assertivi sono ingentiliti da micro ricami ton sur ton, quasi impercettibili. Sugli abiti trionfano le grafiche stilizzate delle foto di Inez Van Lamsweerde e Vinoodh Matadin che hanno rivoluzionato la fotografia di moda negli anni’90 alimentando il loro immaginario con spunti cari alla moda come l’identità, la manipolazione corporea e la bellezza artificiale.

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La ‘sposa in nero’ di Truffaut si materializza in passerella negli abiti forgiati a sirena: a interpretarla stavolta ci sono le nuove ninfe miliardarie del fashion system, le più belle, le più venerate del web, Lara Stone, Irina Shayk e Natasha Poly affiancate dalla nuova top model curvy Jill Kortleve, già vista da Fendi. Come nel film ‘Miriam si sveglia a mezzanotte’ la nuova vamp di Valentino non offre fianco a critiche, sensuale e provocante anche se quasi ieratica nel lungo fourreau ‘rosso Valentino’ iridescente e dallo spacco abissale, indossato dalla bellissima Adut Akech.

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Lo stilista ha raccontato la sua sfilata coed, la prima di ready to wear sviluppata secondo questa formula, servendosi del linguaggio dell’inclusione, assurto a ‘koiné dialektos’ della moda, che il creativo ha trasposto anche in un’eloquente ibridazione fra i codici del guardaroba maschile e femminile, per un self restraint che profuma di couture e di sartorialità digitale. Come nei cappotti dalle linee giacomettiane che inneggiano a una pudibonda carnalità sintetizzata dai generosi scolli sagomati che diventano ancora più sensuali nei corpetti in pelle da virago chic.

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E la femminilità ‘insouciante’ del maestro di Voghera si palesa in quelle deliziose borse da atelier, doviziosamente decorate da fiocchi, frivole rouches, borchie e fiori leggiadri in omaggio a un nuovo esprit sofisticato e concettuale che piacerà alle figlie delle più assidue aficionados dell’ultimo imperatore della moda italiana. Interessanti i virtuosismi botanici 3d che sbocciano sulle mise in pelle rosa carne che connota le bluse impalpabili declinate come mini cappe remboursé, mentre la sera la maliarda dark solca la pedana candida con vaporosi ed eterei abiti di tulle e chiffon punteggiati di luminescenze floreali, mentre incedono in passerella magnetiche mises inondate di paillettes nere completate da lunghi guanti in tinta che evocano la seducente e pericolosa ‘Carmilla’ di Le Fanu e certi capolavori dell’estetica dell’Espressionismo tedesco.

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I bijoux importanti amplificano il messaggio di stilizzata fluidità che definisce questa suggestiva collezione. Piccioli coglie ancora una volta nel segno, come ha fatto nella straordinaria collezione di Haute Couture presentata a Gennaio, un altro en plein che non delude, convincendo sempre di più sul talento dello stilista romano di riuscire a proiettare nell’hic et nunc il mondo dorato e inaccessibile di una maison leggendaria e tuttora in stato di grazia, secondo un’ottica di disarmante e interessante modernità. 

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Il Kolossal mediterraneo di Dolce&Gabbana

Il Kolossal mediterraneo di Dolce&Gabbana

La collezione autunno-inverno 2020-21 di Dolce&Gabbana sancisce molto più energicamente di quelle precedenti l’assolutizzazione del genius loci, nel segno di un insopprimibile ritorno alle radici, un appello appassionato ai codici che hanno definito l’immaginario della inossidabile coppia creativa dove il nero assume una molteplicità di nuances confermandosi come epitome di un nitore glamour ed espressione di un carattere poliedrico e talora contraddittorio funzionale alla celebrazione dell’identità femminile contemporanea dove, in ossequio alle radici estetiche del marchio, il pop diventa concettuale. Ed ecco quindi che i due stilisti riaffermano la validità di un assioma estetico da loro portato avanti con orgoglio per anni con successo: sicilianità, sartorialità, sensualità ovvero le tre S di Dolce&Gabbana, una trinità davvero vincente. A simboleggiare un marchio che nella sua identità è ‘sintesi di opposti’ secondo una definizione rubata al filosofo rinascimentale Niccolò Cusano Mistero e seduzione, ma anche gioia e carnalità, celebrano i cliché dell’iconografia femminile: fra i due poli dicotomici della santa e della peccatrice le sfumature sono molteplici e sottili, per rilanciare un’idea quanto mai autentica di femminilità che è sempre attuale, da Sofia Loren a Malena, da Bagheria a Hollywood, da Anna Magnani a Isabella Rossellini. Che tutte si riassumono nel portamento deciso e nelle vaporose chiome frisé della bella Chiara Scelsi, scelta insieme a Bianca Balti come incarnazione moderna dell’ideale femminile, sensuale e mediterraneo concepito dai due stilisti, la Gilda dell’era digitale.

Il tributo all’artigianalità, che è il fulcro di questa ultima collezione, è coerente con la nostalgia di un classico che è certificazione di solida qualità e di inequivocabile eccellenza in un mondo incerto e precario come quello in cui viviamo. Incede ipnotica e radiosa in passerella una maliarda dolce e assertiva, morbida ma tosta, solida e sognatrice che emerge in tutta la sua carica vitale nelle silhouettes body coscious dove il punto vita è sempre segnato. L’immanentismo ferino e un po’ wilde di certe mise in pizzo, pelle, cashmere, richiama un erotismo gioioso e vitale in bilico fra Ferdinando Scianna e Helmut Newton, dove il desiderio palpita incarnandosi in vibranti mise in rosso e nero, che tradotto coincide con il dualismo freudiano eros-thanatos, volutamente sopra le righe, molto ‘Sangue e arena’.

Il corsetto fotografato da Jean Loup Sieff (uno dei primi fotografi dopo Scianna a immortalare i modelli della maison per una campagna pubblicitaria fra raffinatezza e provocazione) e il pizzo Chantilly che vela la maliziosa scollatura dell’abito nero indossato da Marina Schiano, musa di Lagerfeld e interprete del glamour maledetto di Yves Saint Laurent nella controversa collezione anni’ 40 del 1971: sono queste le icone irrinunciabili di una collezione che è un memento costante di un immaginario vivido e riconoscibile, una recherche di ciò che ci rende unici, perché l’unica panacea alla endemica pornificazione di Internet e dei social network è l’individualità, purchè non degeneri né in solipsismo né in narcisismo patologico, in una parola monomania. Proprio come Franco Moschino negli anni’80, così Dolce&Gabbana negli anni’90 ha glamourizzato il genius loci tricolore, rivendicando la centralità di una linfa creativa indissolubilmente legata alla propria terra, un’istanza identitaria molto forte che in questo momento diventa sempre più fondamentale e pregnante. La manualità, valorizzata dalle mille certosine lavorazioni di abiti fascianti, corsetti prorompenti, body e completi mannish torridamente sensuali, diventa l’antidoto alla massificazione imperante dettata da un miope globalismo e anche una risposta energica a qualcosa che, in nome dello scellerato mantra ‘consumo dunque sono’ sta annientando il pianeta.

L’artigianalità, sommata alla estrema portabilità dei capi, è anche sinonimo del recupero di un’intimità perduta con le cose, i materiali e noi stessi, il nostro lavoro, la nostra creatività e la nostra professionalità: in breve con la bellezza che nella sua eticità pensosa è la sorgente dell’universo e anche il suo balsamo rigenerante. E questo si traduce nella raffinata maglieria crochet e nelle preziose lane bouclé lavorate ai ferri dalle italiche ‘tricoteuse’ che il marchio nutre ed esalta, come anche nei velluti trattati in varie soluzioni, sempre fra l’aristocrazia racé e il rustico chic di siciliana matrice. Senza dimenticare il grande solista della collezione, il pizzo, proposto in mille e una versione e che è la quintessenza della sensualità Made in Dolce&Gabbana, dagli abiti fino alle sontuose e desiderabili borse, declinate in varie dimensioni, veri e propri bestseller del sell out della maison. Il rigore radicale del nero, ieratico ma conturbante, è mitigato anche da un bianco immacolato che evoca il biancore delle porcellane ottocentesche ne ‘Il Gattopardo’ e che trionfa esuberante nelle bluse da moschettiere con colli e dettagli di pizzo che hanno reso famoso il brand fin dal 1988. E anche se il genius loci qui acquista un risalto preponderante, tuttavia appare quasi inevitabile il rimando all’indimenticabile Jeanne Moreau di ‘La sposa in nero’ di Truffaut come alla sensualissima e procace Brigitte Bardot nell’episodio ‘William Wilson’ diretto da Louis Malle per il film del 1968 ‘Tre passi nel delirio’. Il tutto senza dimenticare la burrosa Stefania Sandrelli di ‘Sedotta e abbandonata’ e di ‘Divorzio all’italiana’, la formidabile e sensualissima Monica Vitti in ‘La ragazza con la pistola’ e in parte, per un certo languido e ammiccante erotismo, le piccanti mise da boudoir borghesizzato di Laura Antonelli in ‘Malizia’ di Salvatore Samperi. In omaggio a una carnalità tutt’altro che algida, grafica ma mai stilizzata. E’ anche per questo che passa il ‘neorealismo’ di Dolce & Gabbana, cartina di tornasole e insieme paradigma dell’estetica dei nostri tempi.

La giostra della moda secondo Gucci

La giostra della moda secondo Gucci

Il gusto per la performance teatrale e per la messinscena abilmente orchestrata per ‘épater les bourgeois’ è, da Cecil Beaton in poi, il fattore trainante del successo ecumenico di alcuni marchi della moda, artefici della nuova architettura lessicale del contemporaneo. Si pensi alla sofisticata operazione culturale e anche lato sensu ‘politica’ realizzata da Alessandro Michele per Gucci: il ragazzo romano dalle chiome fluenti corvine che sembra uscito da ‘Hair’ e che sussurra e parla ai cervelli ma ‘urla’ messaggi di libertà perentoria con i suoi abiti dalla passerella, ci sa fare. E lo conferma con una trovata davvero speciale che elide i confini fra pubblico e privato, fra passerella e backstage. Se sfilata deve essere, che sia spettacolare, mastodontica, spiazzante. L’archeologo della moda, come lui stesso ama definirsi per via del suo citazionismo spinto e talora esasperato, (ma mai gratuito), guida gli spettatori attraverso un ‘Truman show’ in chiave fashion, in una rappresentazione epicamente felliniana di un pastiche estetico che solo lui riesce ormai ad assemblare così bene, come nemmeno un deejay pop saprebbe fare. Per Michele nulla è ciò che appare. Quello che conta, qui (e questo è palese) non sono tanto gli abiti (e gli accessori che pure sono studiatissimi e si vendono come panini nelle boutique ai quattro angoli del pianeta) quanto la narrazione che si trova dietro di loro: il profeta dell’inclusione racconta un’estetica che è fuori dal tempo e che entra a gamba tesa nel dibattito culturale e ideologico.

La moda esprime e spesso anticipa lo zeitgeist, e così è per Michele: come negli anni’90 che segnarono l’affermazione di Peter Lindbergh che fotografava le top senza veli nei backstage dei servizi fotografici, anche qui Michele ricostruisce quel ‘bordello senza mura’ di cui parla McLuhann con toni però non duri o aggressivi ma assolutamente elegiaci, nel segno di un realismo favolistico che per una volta non si esaurisce in un ossimoro. In sostanza gli invitati alla sfilata venivano guidato al loro seat attraverso un percorso che rivelava loro il dietro le quinte dello show, e quindi l’essenza dell’affabulazione fashion, in una logica paragonabile alla paradossale esperienza del ‘metateatro’ che da Plauto in poi è parte integrante della storia della drammaturgia. Così lo stilista, il creativo, dialoga direttamente con il suo pubblico senza però sottrarre un grammo di verve a uno show che resta come sempre faraonico, graffiante e assolutamente imprevedibile.

Quello di Michele è un manierismo in salsa pop che colpisce anche chi non è avvezzo ai paradossi della moda. E che risponde all’esigenza insopprimibile di senso che sempre di più soprattutto i giovani chiedono alla moda, alimentando l’immaginario degli artisti e dei loro proseliti. Per maggiormente disorientare i suoi invitati lo stilista li ha convocati al défilé con un messaggio whatsapp, una trovata bizzarra e molto singolare, coerente però con la originale ed estrosa comunicazione del marchio. Sulle note del Bolero di Ravel che già di per sé ha qualcosa di ieratico, Alessandro Michele squarcia il velo di Maya svelando i segreti e la mistica del rituale profano della moda che diventa parte integrante della mitologia contemporanea nell’era postdigitale. Dalla pedana circolare a forma di carillon scendono una alla volta officiando appunto il rituale dello spettacolo della moda, le modelle che esibiscono toilette complicate ma in realtà semplicissime dove il collage degli stili stavolta propende per un viaggio attraverso le età della donna dall’infanzia fino alla maturità, dal settecento ai giorni nostri.

Alla crinolina subentra il robemanteau da collegiale, al cappottino da scolaretta cede il passo la blusa virginale di pizzo da portare sui jeans lacerati, alla scenografica crinolina da signora delle camelie si sostituisce gradualmente l’abitino con il corpetto imbrigliato da harness sadomaso, la maxi gonna kilt e così via. Pezzi facili e di gusto vintage anni’70, che paiono usciti dai bauli di un costumista cinematografico. Grandi protagonisti della collezione, oltre gli accessori come it-bags soprattutto piccole e medie, scarpe mary jane e mocassini, cappelli morbidi come colbacchi e sciarpone tricottate, il velluto, liscio o a coste, l’eco-fur, i print botanici in stile Laura Ashley, il camoscio e soprattutto tinte smaglianti per allietare l’inverno: giallo sole, verde bosco e smeraldo, rosso carminio. Tutti a bordo della giostra della moda allora e che il rituale si compia.

La ‘maglifica ossessione’ di Missoni

La ‘maglifica ossessione’ di Missoni

L’ordine geometrico, frutto della metodica disciplina del Nord e di una matrice ideologica calvinista, è un linguaggio decorativo che viene da lontano, da Spinoza e da Mondrian, e che da Missoni si ingentilisce con un nuovo femminilismo che coniuga il potere delle donne con la percezione di una nuova, insolita morbidezza espressione di quello che Pascal avrebbe definito ‘esprit de finesse’. E così grafismi e linee rette perdono ogni spigolosità per comporre quadri degni delle avanguardie pittoriche del primo Novecento, ma senza retromania. L’archivio della casa è dovizioso e Angela Missoni e il suo staff creativo sanno come valorizzarlo, proiettandolo nel futuro con uno spirito di libertà che, scaturito dalla fronda studentesca, continua a incontrare consensi. La collezione, ricca, importante, di nuovo basata sul sincretismo di maschile e femminile e presentata con una formula coed, è di disarmante modernità. la maison di Sumirago non è mai apparsa in tale stato di grazia, di freschezza, di spumeggiante charme.

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E’ una collezione ‘maglifica’ che cioè eleva al rango di magnificenza immaginifica una maglieria che ha fatto la storia del Made in Italy e che ha ancora tanto da raccontare in termini di classe, qualità, creatività, in una parola comfort lussuoso, endiade assolutamente desiderabile. E’ una sequenza galvanizzante di tableaux vivant, fatta di oufit fluidi nati per essere indossati, questa crestomazia di fantasia e bellezza allo stato puro. Dove trovano spazio anche i capi maschili, perfettamente complementari alla proposta per lei. Il cardigan blouson è il capo chiave di questa superba collezione che parte dai caratteristici arazzi che il leggendario Tai Missoni era solito comporre per estro e per piacere. Il comfort che diventa sexy per assumere nuove connotazioni è perfettamente coerente con il cosiddetto ‘heritage’ di questo fortunato, iconico brand. Fu di Ottavio e Rosita Missoni appunto, pionieri della rivoluzione dello stile tricolore l’intuizione brillante di mandare in pedana a Firenze nella mitica Sala Bianca di Palazzo Pitti abiti di lurex scintillanti e trasparentissimi portati senza lingerie, trovata spudorata che all’epoca suscitò scalpore: fu così che iniziò l’epica parabola dell’italian style.

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Il soft suit anni’80 codificato dagli stilisti dell’epoca, torna ora riletto con proporzioni nuove, adatte ai fan di Instagram, ma ancora easy, a misura di donna, e di uomo. Si materializza in passerella, attraverso le silhouette di Gigi e Bella Hadid, una nuova visione dei japonismes, tipici di quell’epoca gloriosa, che Angela Missoni rielabora nei volumi generosi dei kimono di maglia, avvolgenti come vestaglie, caldi come abbracci ai quali fanno da contrappunto i leggings dai disegni astratti e le tuniche drappeggiate come pure i lineari tailleur pantalone di gusto tailoring in cui i pants si infilano negli stivali. Le nuove borse i cui sciarpe strette soppiantano le tracolle, hanno una presenza geometrica assertiva come anche i gioielli voluminosi e i berretti molli da pittore. La metrica del knitwear missonologico degna di un poeta ha un appeal romantico e contemporaneo: i pattern stilizzati dal sapore tribale, fiore all’occhiello della maison, sembrano cortocircuiti cinetici illuminati da trame shiny di lurex, come negli anni’70 quando il vento della ribellione soffiava sulla moda preparando una svolta profonda quanto radicale.

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La dandificazione dell’uomo Missoni passa per camicie patchwork che riproducono i temi dei pullover da giorno, gli smart suit dai disegni marezzati conciliano rigore e magia, stile e fantasia, attraverso lunghezze e fit più moderni, aderenti ma anche no. L’immaginazione al potere, come diceva Marcuse, si avvale della tavolozza più dégagé: al posto della giacca un maglia, da portare con nonchalance dalla mattina alla sera nel segno di una studiata, raffinatissima casualità. Non è da tutti assemblare un pentagramma di toni tanto in armonia fra loro, come nella sinfonia del più grande dei compositori: i toni metallici e bruciati della palette invernale si accendono di lampi di rosso, giallo e turchese con un impatto visivo davvero suggestivo ma senza clamori. Il patchwork consente infinite variazioni caleidoscopiche e come tale, è una narrazione sontuosa, che finalmente dimostra il teorema: il potere emotivo della geometria è assoluto. Il put together, gli chevron, i fiammati: in una parola il Missonismo acquista un risalto 3D in questa magistrale collezione. 

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Il boudoir fetish di Fendi

Il boudoir fetish di Fendi

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Nel 1975 un giovane Karl Lagerfeld che all’epoca si divideva fra i salottini di prova di Chloé, l’atelier di Fendi e le notti selvagge al Sept in compagnia di Yves Saint Laurent e del controverso, affascinante giovane dandy Jacques De Bascher nella discoteca più branchée e più gaia di Parigi, accettò di disegnare gli abiti di scena per il film ‘Maitresse’, un mélo con un giovane Gérard Depardieu. L’attore, allora già un sex symbol, si apprestava a girare ‘Novecento’ con Bernardo Bertolucci mentre Marco Ferreri lo avrebbe trasformato in una star con ‘Ciao maschio’ e con ‘L’ultima donna’ accanto a una giovane, acerba Ornella Muti. Rivedendo i bozzetti di Karl per i costumi di quel film che raccontava la vita segreta di una giovane e sensualissima mistress, Silvia Venturini Fendi, oggi direttrice artistica della maison fondata da sua madre Anna e dalle sue 4 zie, ha distillato una collezione fatta e pensata per le donne ma con un filo di erotismo malandrino, un po’ coquine come direbbero a Parigi. Chi lo dice che una donna non possa utilizzare i cliché della seduzione per riformulare il linguaggio della femminilità? La risposta a questa domanda è la nuova collezione femminile per l’autunno-inverno 2020-21. Aldilà dei richiami espliciti al mondo sado maso e bondage rieditato in una chiave lussuosissima, nella sfilata abbiamo ammirato una panoplia di strumenti ad alto tasso di sensualità in cui Fendi emula Gaultier per le guepières e i reggiseni a cono e a balconcino, Alaia per la silhouette che valorizza un vitino da vespa enfatizzando una femminilità prorompente, provocatoria, irresistibile che occhieggia anche all’imagerie carnale di Araki, e infine Chantal Thomass e Bettony Vernon per il sapore speciale delle fogge e la palette intrigante. Il casting trasversale evoca una ageless beauty in equilibrio fra perennial e instagirls: da Kaia Gerber e le ubique Bella e Gigi Hadid si passa poi a Maria Carla, ma anche Caroline Murphy, Karen Elson, Lya Kebede e la top curvy Jill Kortleve apparsa recentemente sulla copertina di Vogue Paris ed epitome dell’inclusione in passerella.

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Con questa ultima collezione Silvia Venturini Fendi si addentra nella dualità della donna Fendi, descrivendo le idiosincrasie della sua potente, conturbante femminilità. Emerge così il concetto sovversivo di “soft power”, dal boudoir alla boardroom, espressione di un mondo carico di emozioni e di ritualità che già in parte Horst aveva tratteggiato con la sua celeberrima foto ‘Corset Mainbocher’ del 1939. I contrasti, cromatici e di texture, accostano sfumature di grigio e calde tonalità neutre a pennellate di colori pastello e al luminoso giallo emblematico della maison. Struttura e morbidezza regnano incontrastate, portando alla ribalta un equilibrio proibito tra severa austerità e sensuale malia. La donna di Fendi è una femme fatale sobria e provocante al tempo stesso, che alterna coat militari tagliati a redingote, grande ritorno del prossimo inverno, rielaborati in stile virago sartoriale spesso doppiati di neoprene, e abiti color cipria dalle maniche magniloquenti stile Giulietta simili a vasi di vetro soffiato, stole di pelliccia portate a bandoliera e cappotti di pelliccia intarsiata decorati da sprazzi animalier che simulano il paisley, corsetti in raso matelassé e feltro e bluse di organza con pettorina, abiti confetto inondati di frange di perline Charleston o abiti di frange lunghe stile Weimar e tailleur di nappa impunturata con gonna a ruota, pullover generosi e gonne danzanti di pelle plissé, robe-manteaux a camicia con pannelli a foulard e lievi abiti di chiffon imprimé a motivi cashmere, tuniche di velluto dallo scollo sagomato e tailleur di visone rasato o di breischwantz.

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I look ultraglamourous del défilé sono corredati da borsette di satin impunturato, da una nuova versione della borsa Peekaboo con interni dorati o con design a fisarmonica in tre dimensioni presentata perfino con frange dorate, o profili in pizzo applicato e nappine perlate, stivali imbottiti in pelle con gabbia, anfibi zippati e le pump in satin con cinturino. In collaborazione con il brand londinese di accessori Chaos, disegnato da Charlotte Stockdale e Katie Lyall, la maison presenta una linea di “gioielli tecnologici” e piccoli accessori, offrendo una lussuosa risposta all’esigenza quotidiana di portare con sé i propri oggetti. Non manca nulla, dalle custodie per smartphone in maglia d’oro intrecciata alla minaudière FF traforata, dai porta smartearplugsai porta smartwatch. Cinturini in pelle, cordoncini con zip e braccialetti con maglie presentano un assortimento di charm con lettere dell’alfabeto, accendini dorati e un set minimalista di bicchieri da liquore, mentre un orecchino a forma di penna funziona sia sulla carta che sui tablet.

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Prada e la militanza glamour

E’ possibile vivere un sogno ogni giorno? Come si manifesta la forza delle
donne? E la moda è utile o solo bella? C’è qualcuno che pensa e che ogni
sei mesi racconta il suo pensiero attraverso degli oggetti apparentemente
futili come i vestiti. Vestiti che in fin dei conti tanto futili non sono visto
che di vestiti, di tessuti e di paillettes come si suol dire, campa tanta gente
in Italia. E non solo in Italia. Oggetti nati per durare e probabilmente
destinati a vivere dopo di noi. Miuccia Prada tutto questo lo sa, e lo
conferma, puntuale, ogni sei mesi quando decide di dire la sua e metterci
la faccia presentando non solo una collezione ma una riflessione profonda,
interessante, che è anche una esegesi autentica della contemporaneità.
Senza artifici, senza inseguire i consensi della massa, ma solo con la forza
del pensiero, il pensiero di una donna creativa, brillante, indipendente
come lei, Miuccia Prada, colta, intelligente, acuta, decisa. Più che una
stilista, una solida certezza per chi crede ancora nonostante tutto che la
moda sia un valore culturale, qualcosa su cui riflettere appunto. Lei,
Miuccia, pratica e lombarda pur essendo cittadina del mondo, si reinventa
ogni sei mesi ma sempre restando fedele a sé stessa, una grande
scommessa questa. Il preambolo, un po’ lungo forse, serve a inquadrare
una collezione che è ancora una volta un esercizio di talento puro, di
bellezza irripetibile, costruita però sull’essenzialità che è espressione chic
della libertà di ogni donna di essere sé stessa, anche quando indulge,
perché no? Alla vanità. E la stigmatizzazione della vanità non ha ragion
d’essere quando sottende come in questo caso un pensiero profondo. Un
pensiero stupendo. Incoronata sacerdotessa dell’ugly chic nel 1996,
Miuccia Prada è in realtà assolutamente curiosa quando si parla dei cliché
della moda, perché una come lei è allergica alla banalità.

E così anche un parola molto trita come ‘glamour’, che poi significa sexy chic, assume significati inaspettati fino a giustificare una intera collezione. Non è un caso che a seguirla con attenzione nel parterre ci siano sempre personaggi interessanti per la loro statura intellettuale e per la loro creatività: Jasmine Trinca, ma anche Gemma Arterton, Alba Rohrwacher, e poi Francesco Vezzoli e colleghi estimatori come Pier Paolo Piccioli, anima creativa di Valentino, lontani però dall’eclatante fulgore dei flash dei paparazzi.
La scultura sistemata da Rem Koolhas al centro della scenografia dello show
raffigura un’allegoria del nostro tempo: Atlante che regge il peso
dell’universo. Una figura mitologica in cui in un momento duro come
questo ognuno di noi può riconoscersi, perché ognuno di noi è chiamato a
sobbarcarsi un macigno sulle spalle, e a lottare per sopravvivere. E ora i
vestiti, anche se in parte il preambolo ha già forse parlato abbastanza della
collezione, perché ha cercato di cogliere lo spirito della sua artefice.

Nell’età della resilienza il Prada pensiero postula un nuovo modernismo
post-industriale, l’evoluzione 4.0 di una concezione neo bahausiana della
realtà che riesce ancora una volta a conciliare estetica e funzione, in
memoria di quel famigerato 1929 in cui davanti al tracollo della borsa e
della società intera la copertina di Vogue America realizzata da Edward
Steichen evocava uno chic senza orpelli che apriva un varco nell’oscurità,
una superiore consapevolezza estetica ma anche etica, perché è grazie alla
percezione della realtà filtrata da una opportuna e salvifica bellezza che
potremo finalmente uscirne se non trionfanti almeno più saggi, e non è
poco. Gli abiti appunto: le frange danzanti da flapper digitale in seta o
cristalli neri che diventano gonne e si muovono con il corpo, quindi il
dinamismo elegante della donna di Muncaksi anni’30, che si concilia con
il power dressing anni’80 stile Sean Young in ‘Blade Runner’ o Diane
Keaton in ‘Baby Boom’. E quindi spalle ampie e marcate, vita segnata da
alte cinture (sempre) e baschina leggermente pronunciata, perché i fianchi
generosi sono simbolo di femminilità e di fecondità. Il catwalk si snoda fra
sottili coat e tuniche verticali, montoni spalmati senza maniche e shearling
con alamari, blazer in piuma d’oca, lineari pigiami di seta decorati da print
stile liberty.

La collezione è qui: fra trasparenze e ricami, volumi over ma calibrati e decori Art & Craft rischiarati da bagliori metallici, gonne a
pieghe che diventano nastri decorati da cristalli, pantaloni di organza e
surreali accostamenti di colore, lampi di luce per fendere il buio di una
crisi epocale grigio asfalto che accendono l’inverno sempre troppo lungo,
e aiutano a vedere la luce. “Volevo glamourizzare il quotidiano perché
intendevo comunicare un messaggio di ottimismo: il glamour può essere
utile ed è difficile rendere intelligente la frivolezza-spiega la stilista-anche
nella frivolezza risiede la forza delle donne”. Il glamour descritto
magistralmente nel volume ‘Glamour: a history’ di Stephen Gundle,
trionfa anche nella sensualissima colonna sonora in stile ‘Last days of
disco’: acuti di emozioni musicali fra Donna Summer e Blondie, Giorgio
Moroder e le sonorità pop di un mondo purtroppo lontano. Le ragazze però
hanno ancora voglia di divertirsi nonostante tutto. Perché la moda è fatta
anzitutto per giocare. Loro, le donne, pur umiliate e offese da un
machismo scellerato che non accenna a scemare, sanno giocare e marciare
a testa alta anche con gli accessori, indovinati, desiderabili, moderni:
sandali di vernice nera, rosa o silver con tacco importante e sinuoso, gli
stivali imbottiti di pelo genere galosce in gomma con carrarmato sulla
suola, le sneaker leggere, le stringate a fiori, i cerchietti come diademi, le
calze in tinte flashy, le cravatte, ornamento sexy in una donna di oggi, le
shoulder bag in nylon iconico come riedizione del borsello ma al
femminile, borse macro ad astuccio, sottili dalla foggia aerodinamica e
vintage memori di una borsa cara alla mamma, bracciali ornati da rossetti e portacipria, totem del desiderio femminile. Vanità? Sì grazie, ma sempre e
comunque combinata con un concetto.

Il ritorno all’ordine di Versace

Il ritorno all’ordine di Versace

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La sensualità è una categoria del mondo contemporaneo che per Versace è
la cifra dell’avanguardia, la chiave per leggere il dinamico e mutevole
mondo che ci circonda. L’abito corporeizzato, frutto della rivoluzione
sessuale degli anni’70, diventa nell’epoca dei social media il principio di
una vita dilatata che amplifica il senso del desiderio in una dimensione di
carnalità virtuale. E così la moda incontra la tecnologia e ancora una volta
si avvera quel sincretismo che per Donatella Versace si traduce in una
osmosi fra maschile e femminile, una concordia d’intenti che è sintesi di
opposti, una indifferenziata comunione di interessi e valori che nello show
di Versace non sembra più una mera utopia.

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Per la prima volta dopo anni la maison sceglie di presentare nuovamente il menswear unitamente alla collezione femminile, proprio come negli anni’80 quando Gianni Versace anticipando la tendenza coed, tratteggiava il nuovo orizzonte del rapporto simbiotico fra i sessi, immaginando l’alba di una nuova galanteria intesa come l’anticamera dell’ibridazione in cui attualmente viviamo. Una ibridazione che in questa nuova collezione assume un timbro marziale.

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L’estetica del marchio in omaggio a una normalizzazione imperante,
predica una sobrietà calvinista che non è affatto estranea all’identità della
maison, celebrando la supremazia del nero più assoluto, drammatico e
misterioso, che sigla l’incipit della sfilata ricordando le spy story degli
anni’80 ma anche la femminilità assertiva di Charlize Theron in ‘Atomica
bionda’ e di Jennifer Lawrence in ‘Red Sparrow’.

Il tema dell’uniforme glamourizzata da Donatella Versace torna alla ribalta. Gli anni’80 di Gianni Versace tornano rimodulati in forme e proporzioni più asciutte e attuali ma non meno conturbanti: i berretti simili alle bustine di astrakan dell’autunno-inverno 1986-87, la collezione della Perestroika e dell’arte cinetica, si sposano con i completi e i cappotti che rileggono la magicaantinomia di bianchi e neri resi vibranti nei print zebrati più anni’90 e nelle nuove versioni del logo reinterpretato in divertissement grafici.

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Il sexy tailoring della nuova collezione nella sua nuova accezione aristo-army gioca con i codici dell’austerità sdrammatizzandoli perché essere Versac significa scombinare le carte per spezzare la trita prevedibilità borghese: tailleur e cappotti adottano uno stile sofisticato ma dégagé dove i pattern più moderni si modificano geneticamente in un originale foliage grafico che rielabora stilizzandolo l’iconico motivo barocco convertito in un paisley davvero inedito. Lo stesso logo, la V dorata che campeggia sulle
borse Virtus, le nuove it-bag del brand virate perfino in macro principe di
Galles oppure in pied de poule, viene riprodotto in nuove versioni sugli
abiti da sera ricamati e sulle giacche gioiello da uomo dai volumi generosi.
Rosso e nero si alternano in pedana insieme al verde sommato al blu. Le
super top di oggi, le star di Instagram, dalle sorelle Gigi e Bella Hadid passando per Vittoria Ceretti e Kendall Jenner, fino a Kaia Gerber, Irina
Shaik e Adut Akech, esibiscono piccanti tuniche succinte stampate e
ricamatissime come i nuovi feticci di una carnalità inattingibile, il nuovo
edonismo dell’era digitale più visivo che tattile, in una dimensione di
austerità sanitaria. Le proporzioni appunto.

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Per lui i pantaloni larghi in cui si infilano le maglie a tre colori, fanno da contrappunto alle giacche poggiate in vita e ai giubbotti con colli in maglia a coste con cappuccio, connotate da un’attitudine sport couture. La forma è bodyconscious per la donna, atletica e scostata dal corpo per il menswear che spesso condividono colori e fantasie, in un perenne gioco di ruoli. Per lei e per lui ecco calcare la passerella stivali di gomma e tacchi massicci con
carrarmato sulla suola per lei. La linea a clessidra definisce silhouette femminili scultoree traslate in tailleur da executive woman con spalle importanti e falde a bauletto oppure in abiti rigorosi ma sensuali dalla
gonna svasata, corti o longuette. Interessanti le fessure tracciate sul corpo
attraverso fenditure create da clips che sostituiscono nella funzione i safety
pins del 1994.

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La pelle, che nel lessico di Versace ha sempre assolto anche
negli anni’80 una funzione semiotica di protezione, diventa ora un terreno
di sperimentazione inesauribile: i blouson dall’impostazione mannish abbinano alle gonne in nappa al ginocchio che terminano con ampiezze
godet a ingentilirne il rigore, mentre giubbini e pantaloni sono impreziositi
da patchwork di strisce verticali di pitone di vari colori, dal verde menta al
senape fino al nero e al testa di moro. Per brillare di notte torna la maglia
metallica più siderale ma in versione very hot per i miniabiti disco-glam da
falena galattica sfoggiati da Kendall Jenner in silver e da Bella Hadid in
color lime, mentre lui esibisce il tuxedo sartoriale maledetto dall’attitudine
rock. Per una nuova Versace experience.

Da Milano a Parigi lo style nouveau fra Artisti e Modelli

Vissi d’arte, dalla Tosca di Puccini allo zeitgeist del terzo millennio. Un mondo boho chic che gli uomini sanno rivivere, almeno nel limbo aulico della moda, in un’ottica virile ma morbida, nel nome di una mascolinità che non teme il suo coté femminile. Non a caso sulle passerelle per l’autunno-inverno 2020-21 proliferano i rimandi a una sensibilità artistica autentica, che dilaga fra i musicisti e i pittori, fra gli scrittori e gli architetti, corteggiati dai sarti, dagli stilisti e dai direttori creativi, assurti a nuove star del web. Sulle passerelle esplode una grande voglia di tenerezza che scorre come un fiume in piena alla ricerca di una nuova idea di virilità, fluida, accogliente, ibrida e sensuale. Si afferma da Parigi a Milano un certo senso degli uomini per i decori tipicamente femminili dal gusto squisito e aristocratico e si diffonde un desiderio di rivendicare una primigenia coquetterie come era in voga nel settecento fra i cortigiani di Luigi XV o fra i dandy inglesi dell’epoca vittoriana, prima e durante la ‘grande rinuncia’ teorizzata da Flugel.

Berluti backstage ph. benoit auguste
Berluti backstage ph. benoit auguste


Jil Sander
Jil Sander


Marceo Burlon County of Milan
Marceo Burlon County of Milan


DSquared2
DSquared2


ralph lauren purple label
ralph lauren purple label


Nell’epoca del metoo l’uomo rinasce dalle ceneri del paradigma di una obsoleta mascolinità patriarcale e si scopre più gentile, più duttile, per smorzare i toni nel nome dell’inclusione e della contaminazione multietnica. In omaggio alla rimonta del ‘New man’ torna il soft suit codificato negli anni’80 da Giorgio Armani e Gianni Versace, i dioscuri dell’eleganza maschile di ieri, oggi e domani. Superato lo streetwear puro e duro delle precedenti stagioni, oggi le proporzioni sono riviste e si fanno imprevedibili, i volumi diventano più generosi, i cappotti si alleggeriscono così come le giacche, sempre più destrutturate, morbide come vestaglie o come cardigan secondo la lezione di Giorgio Armani, spesso completate dai gilet che flirtano con il torace levigato da un allenamento mai prevaricatore per una muscolarità tutt’altro che contundente.

B+Plus
B+Plus


JW Anderson
JW Anderson


Viktor &Rolf Monsieur
Viktor &Rolf Monsieur


Marni by Francesco Risso
Marni by Francesco Risso


Collini Milano 1937
Collini Milano 1937


E’ il fascino discreto dell’ambiguità, quella che emana dal Buffalo Style di Ray Petri e che trapela dai disegni delle giacche che riproducono i nodi del legno citando le marezzature delle toghe cardinalizie oppure da una rosa di tessuto appuntata su un trench in faille di seta o riprodotta su un coat sartoriale, o ancora da un ricamo di seta o di cristalli che dai pantaloni sale su fino alle spalle come un rivolo prezioso. L’eleganza è una forma di educazione, è nei gesti e nella capacità di discernimento, è scienza e senso artistico della vita, una percezione sottile quasi inconscia, latente perché senza sforzo, fra Leonardo e Francis Bacon, fra Magritte e Bob Dylan. Il dialogo fra i sessi diventa fondamentale per plasmare una società aldilà delle angustie ideologiche di conio sovranista, finalmente aperta dove l’empowerment femminile non è più una minaccia ma semmai un terreno di confronto dialettico.

Prada
Prada


Dolce&Gabbana
Dolce&Gabbana


gucci by alessandro michele
gucci by alessandro michele


Loewe
Loewe


Cosa vogliono le donne? E gli uomini? Riscoprire la paternità e gli affetti familiari ma anche il contatto con la natura. Sulla scena dello stile si affaccia un glamour bucolico che da Dolce & Gabbana spazia fra furry knitwear in lana e seta e maestosi cappotti a vestaglia in principe di galles con endecasillabi in maglia per nuovi satrapi metropolitani, in un divertissement di intermittenze poetiche dalle ecloghe virgiliane fino ai pastori dannunziani, passando per il ‘cristianesimo campestre’ di Giovanni Pascoli.

Valentino
Valentino


tod's men
tod’s men


random identities by stefano pilati
random identities by stefano pilati


Brunello Cucinelli
Brunello Cucinelli


Serdar
Serdar


Ed è il fanciullino del poeta di ‘Aléxandros’ la materia delle fantasie un po’ idilliache e un po’ dark vagheggiate da Alessandro Michele che da Gucci, divenuto negli ultimi cinque anni il marchio feticcio della generazione gender fluid, si interroga sul nuovo orizzonte della mascolinità, allergica ai diktat fallocratici del macho pater familias, ludica e autoironica, capace di illuminarsi per un fiore, un componimento poetico o un bel quadro come nel film ‘Il cardellino’ tratto dall’omonimo, struggente romanzo di Donna Tartt. Il loden con lo sprone a chevron, il piumino dalla fantasia impressionista come anche il suit celeste stile ‘Piccolo lord’ con i pants alla zuava lasceranno il segno nella revisione del guardaroba maschile. Perché di classico surreale si tratta come sottolineato da Miuccia Prada che reinventa il cappotto attraverso un linguaggio cromatico scanzonato e vibrante dove il colore transita dagli abiti alle borse, ampie, voluminose, eloquentemente agender eppure molto virili, che spesso riprendono i pattern a quadri dei coat sottili, grafici, quasi piatti che piacerebbero forse al giovane Mattia Santori. Surrealismo, in omaggio a Fellini, di cui ricorre quest’anno il centenario, ma anche di Magritte, è la buzzword di Virgil Ablooh, il nuovo guru dell’eleganza maschile che professa una fede incrollabile nel cappotto e nello smart suit ricamato ravvivato da nuvole bianche campite su un fondo azzurro, come nell’ultima sfilata uomo di Louis Vuitton. Qui sprazzi di rosa ciclamino animano cappotti e borse, perché il rosa è ormai un colore asessuato, come abbiamo visto nel bel film con Elio Germano ‘L’uomo senza gravità’.

marco de vincenzo uomo
marco de vincenzo uomo


alexander mcqueen
alexander mcqueen


MSGM
MSGM


miaoran
miaoran


L’uomo che calca la pedana è un sognatore amante dell’avventura, un grande Gatsby come prevede il dress code sibaritico di Billionaire dedicato ai nuovi pavoni digitali o è un dandy blasonato d’altri tempi, un barone di Charlus redivivo formato 4.0 come nel poetico, sontuoso défilé di Dior Homme dove Kim Johnes reinventa la silhouette maschile attraverso virtuosismi d’atelier e lavorazioni da caveaux come quella della fitta broderie di cristalli che illuminano il cappotto ispirato a un modello d’archivio di Marc Bohan per Dior. L’istinto animale di questo ‘buon selvaggio’ affiora nei coat animalier di N.21 come nei montoni succinti di Ermenegildo Zegna che grazie al geniale Alessandro Sartori acquista una nuova dimensione estetica vincente dove la sensibilità ecologica diventa parte di una riflessione più ampia sulla virilità contemporanea. La vena jazz di Miles Davies si materializza fra gli arazzi in maglia jacquard di Missoni che compone una sinfonia policroma sempre equilibrata dove il colore diventa davvero una poesia dell’anima. E se Giorgio Armani rivisita i begli spolverini simili a pastrani indossati da Michael Paré in ‘Strade di fuoco’ nel 1984 e le giacche sensualmente languide portate da Richard Gere nel 1980 in ‘American gigolò’, Ralph Lauren ripercorre i 25 anni della sua linea maschile più sofisticata che il magnate della moda americana che vestì Robert Redford sul set de ‘Il grande Gatsby’ del 1973, dedica agli amanti di un tailoring che non delude mai, porto sicuro degli uomini dai 20 ai 70 anni, per una vera ‘ageless beauty’ e una regalità evergreen.

emporio armani
emporio armani


Fendi
Fendi


giorgio armani
giorgio armani


dior homme
dior homme


Ermenegildo Zegna
Ermenegildo Zegna