La svolta bipolare di Prada

La svolta bipolare di Prada

Due menti, una svolta: per la prima volta nella sua storia Prada sceglie di essere retta da una diarchia creativa. Miuccia stilista ironica, dadaista, intelligente ed elegantemente spregiudicata, ha lavorato gomito a gomito con il radicale e iconoclasta Raf Simons, demiurgo dell’estetica maschile anni’90, per forgiare un’identità stilistica nuova, resiliente e semplificata che fa del nitore cocooning la sua cifra distintiva, il segno della sua palingenesi artistica. Simons, che ha disegnato le collezioni di Jil Sander quando era ancora controllata dal gruppo milanese quotato alla Borsa di Hong Kong, ha una certa dimestichezza con il linguaggio della femminilità dal momento che si è distinto come direttore creativo della maison Dior tanto che al suo debutto chez Dior è stato dedicato anche un bel docu film. E per questo storico esordio da Prada Raf Simons, che con ‘Il quarto sesso’ ha ideato la narrazione genderless in notevole anticipo rispetto a Michele da Gucci, è partito da una riflessione sul concetto di uniforme, come fulcro della filosofia aristo-bourgeois di Prada ma anche come elemento insieme standardizzante e individualistico, perché è proprio con la divisa che riusciamo, come singoli, a esprimere la nostra peculiarità estetica. Uniforme: ordine e disordine, disciplina e caos. Si affaccia in pedana una donna nuova, più pensosa, essenziale ma elegantissima, solo apparentemente borghese che si interroga sulla relazione fra uomo e tecnologia. E’ ammantata da cappe cocooning che il duo ha definito ‘The wrap’, bozzoli leggiadri e quasi preraffaeliti nati per esprimere un desiderio di protezione evocato dal gesto pudibondo e femminilissimo del chiudersi sul cuore la stola-cappa camaleontica, è infilata in minuti ed eleganti completi pantaloni vagamente esotici che citano il pijiama palazzo ma in una chiave concettuale, adotta top sleeveless.

Il Dolce Stil Novo di Miuccia e Raf passa per outfit in felpa, piccoli origami 3D sulle sete crude, moiré, renylon nobilitati, duchesse croccanti e brillanti sdrammatizzate da un’allure funzionalista, iconiche e romantiche gonne a ruota accostate a briosi mini cache coeur in maglia sottile cosparsi di cut out circolari, accostamenti inconsueti di grigio e arancio, scarpine appuntite da Cinderella in tinte shock, stampe d’archivio riprese dalla dissacrante e leggendaria collezione ‘ugly chic’ del 1995. Miuccia, così come Raf, non cerca il consenso ma di fatto lo ottiene innegabilmente grazie a una visione estetica alternativa intessuta di cultura e intelligenza illuminista e progressista. La sigla, inconfondibile, un triangolo simbolo della vocazione grafica e intellettuale della griffe, diventa quasi una spilla da appuntare orgogliosamente sul petto, vessillo di personalità, individualità, carisma. Così è la nuova ‘Pradaness’. 

L’Eden marino di Versace

L’Eden marino di Versace

Utopia ecologica griffata Versace. A Milano Donatella Versace si immerge negli abissi del magico mondo di Atlantide trasfigurato in ‘Versaceopolis’, fra flessuose sirene, divinità epiche come la dea Calipso e tritoni redivivi convertiti in aitanti surfisti digitali, svelando un mondo decorativo ricco e immaginifico fatto di stelle marine ricamate di strass, abiti plissettati finemente, e stampati a motivi di fauna marina, maglie sottili con i giochi grafici di Vasarely e fourreau spagnoleggianti zampillanti rouches e volants stile Flamenco. La palette é come di consueto esplosiva, in linea con l’edonismo vibrante che da sempre definisce lo spirito della maison: verde menta brillante, arancio, rosa, azzurro intenso, blu oltremare accostati e giustapposti con un’energia incontenibile e un inarrestabile vitalismo che nel menswear ricordano la primavera-estate 1993.

Il nero inappuntabile ma sexy dei gessati da executive hot che aprono lo show é illuminato da imprimé esuberanti che rifanno il verso alle collezioni di Gianni Versace del 1992 e a quella del 1994 con i barré adrenalinici verticali dai toni carioca, con i pants zampa d’elefante. Le tunichette succinte terminano con rouches scultoree mentre i doviziosi ricami esprimono l’amore per il mondo ittico con coralli e stelle marine. Bello il coat maschile di nappa finemente pieghettata, fascinoso il suit rosa pastello e quello verde menta pensati per un uomo che non ha bisogno di sentirsi macho per esibire la sua virilità. Il tema marino è declinato dal formalwear alle mises balneari con una vena glamour e originale. Le maglie da surfista hanno una attitude rilassata. Il seno é incorniciato da reggiseni e top sovrapposti che fasciano ed enfatizzano l’ubertosa bellezza delle modelle in omaggio al mantra bodyconscious di Versace.

Chiude lo show, ambientato in un setting onirico che coniuga le atmosfere di De Chirico e le scenografie dei film peplum con tanto di Ercole Farnese e torso del Belvedere in primo piano, la bellissima top russa Irina Shaik con un favoloso abito celeste in cadì con il corpino gioiello rosso corallo, un abbinamento cromatico che Gianni Versace propose in passerella per la prima volta su Claudia Schiffer nel 1996. La collezione é molto green: la bionda stilista paladina dell’epowerment femminile fa sapere che per questa collezione, presentata davanti a un pubblico composto solo dai dipendenti della maison tutti rigorosamente negativi al Covid, ha utilizzato cotoni organici e poliammide riciclato proprio con l’intento di preservare l’ecosistema.

La nuova linea di borse Medusa, lanciata questa stagione, prende il nome dalla firma iconica del brand. Il volto di Medusa decora le porte del bellissimo palazzo Rizzoli di Via Gesù, headquarter milanese di Versace, e fa parte della storia del brand fin dalle sue origini. La Medusa è una borsa comoda e sofisticata creata in pelle pregiata con una silhouette morbida e giovanile. Questa linea di borse si declina in una serie di colori pop ma in tutti i modelli la fodera è lilla. La tracolla Greca, realizzata in un caleidoscopio di colori, accentua il carattere ludico che caratterizza questo nuovo modello. Versace si riorganizza anche a livello di home collection e di linee young. Dalla maison fanno sapere che l’azienda, oggi controllata da Capri Holdings, ha siglato un accordo di licenza con Lifestyle Design, la divisione tricolore della compagnia americana Haworth Group, per lo sviluppo, la produzione e la distribuzione dell’arredo Versace Home. Inoltre oggi la maison continua a diversificare sempre nel segno dell’eccellenza firmando una riuscita linea di accessori connotati dal logo reinventato della V decorata da foglie di acanto, e anche Versace Jeans Couture che ha ingaggiato una serie di artisti multimediali con il compito di esplorare, attraverso uno strumento espressivo a loro scelta, la loro personale visione per il futuro. Il brand ha scelto la nuova generazione di creativi per creare contenuti social, esplorando temi come l’amore, l’unità e la solidarietà in modo ludico e ottimista. I video legati a questo progetto ad alto tasso di sostenibilità sono già visibili sul portale della maison, www.versace.com

Eccellenza pura anche per la linea Atelier che per l’autunno-inverno 2020-21riedita nel segno dell’esclusività, il meglio dello heritage della maison attraverso un sapiente e seducente impiego di pizzo e maglia metallica, ma anche charmeuse e sete preziose che accarezzano il corpo senza mai strizzarlo, in un tripudio di sinuosi drappeggi, conturbanti asimmetrie, panneggi da dea greca, finissime pieghettature e soluzioni decorative di grande malia e suggestione che riecheggiano la sensualità delle sirene impreziosendo le toilette di gala con scintillanti ricami in stile via lattea. Il tutto tradotto in nuance estremamente delicate e suadenti, dal rosa peonia al verde chartreuse, dal glicine all’oro rosé fino al turchese squillante, al color pepita, all’arancio carioca, al magenta e al nero sublime, attraverso forme scultoree, riflessi iridescenti e vertiginosi virtuosismi sartoriali che da sempre definiscono l’identità sperimentale e body conscious della maison della medusa. 

Il viaggio nell’anima di Giovanni Gastel

Il viaggio nell’anima di Giovanni Gastel

Quando lo definiscono ‘dandy’ lui arriccia il naso. Ma vedendolo parlare, muoversi, e ammirando il suo look sempre impeccabile e soigné da perfetto gentleman noncurante che lo contraddistingue, allora si capisce che quell’appellativo gli calza a pennello. Non a caso di ‘dandismo’ parlava per descriverlo il grande critico d’Arte Germano Celant, suo grande amico e mentore. Giovanni Gastel è un fotografo di moda e ritrattista che non ha certo bisogno di presentazioni. In questi giorni a Roma si apre al Museo Nazionale delle arti del XXI secolo presso il Maxxi di via Guido Reni ‘The people I like’, una grande mostra aperta fino al 22 novembre. Curata da Uberto Frigerio in un suggestivo allestimento in bianco e nero di Piero Lissoni, l’esposizione racchiude in una selezione di 200 immagini, alcuni dei suoi ritratti più intensi, quasi tutti rigorosamente in bianco e nero.

Classe 1955, sensibile, colto, elegante, carismatico, cittadino del mondo, Gastel, nipote di Luchino Visconti, ha segnato con le sue immagini di moda ma anche con i suoi folgoranti ritratti e i reportage, la storia della fotografia negli ultimi 30 anni. Poeta mancato, inizia a fare il fotografo negli anni Settanta diventando presto uno dei fotografi di punta di Vogue e dei periodici ‘Donna’ e ‘Mondo Uomo’ editi da Flavio Lucchini. Nel 1984, nel suo romanzo ‘Sotto il vestito niente’ che pubblica con lo pseudonimo di Marco Parma, Paolo Pietroni, guru dell’editoria di moda, lo trasforma in un personaggio della trama destinata a diventare poi un film scandalo vagamente ispirato al delitto Terry Broome. Dagli anni’90, dopo una grande retrospettiva alla Triennale di Milano curata da Germano Celant, Gastel viene affiancato ai grandi maghi dell’obbiettivo della moda: Avedon, Newton, Leibovitz, Testino e Teller, entrando così nell’Olimpo. Nella sua carriera artistica Gastel alterna il banco ottico, usato da Newton e Barbieri, al digitale evitando però quella che lui definisce ‘la bulimia da photoshop’.

La mostra, allestita come un ‘labirinto manicheo’ come lo descrive Piero Lissoni non senza una vena ironica, presenta una crestomazia di personaggi, i più noti, i più osannati, i più popolari e controversi del nostro tempo colti nell’atto di mettersi a nudo con la loro anima davanti all’obbiettivo del maestro, in una luce che, citando Gastel, “emana dall’interiorità”. C’è il raggiante sorriso di Obama che sembra essere il coronamento di tante battaglie civili culminanti nel movimento odierno ‘Black lives matter’. C’è il ghigno beffardo di Mimmo Iodice e il volto pensoso di Ferdinando Scianna che detesta farsi fotografare e ha sempre la testa fra le nuvole. Il bellissimo Roberto Bolle viene raffigurato come un amletico pensatore nel suo regno, alla Scala, mentre Stefano Accorsi cavalca dei cavallini di legno colorato. E poi Marco Pannella, Ettore Sottstass, Luciana Litizzetto, Lapo Elkann, Antonello Venditti, Miriam Leone, Marisa Berenson, Carla e Franca Sozzani, Tiziano Ferro e la performer Bebe Vio che con le sue protesi metalliche appare quasi una super eroina in stile ‘Metropolis’ o una cyborg che prefigura il corpo postumano. Uno spazio particolare nella mostra è dedicato a una galleria degli 80 ritratti in dolcevita nero, vagamente ispirati alla serie dei ritratti col black turtlenck realizzati fra gli anni’60 e la metà dei seventies dal grande Victor Skrebneski, mentore di Cindy Crawford. Gastel è un cultore dello scatto spontaneo e originale, ama improvvisare sul set e non si accontenta mai del primo scatto perché di solito non è mai quello migliore. “Il ritratto è un atto di seduzione; io cerco la bellezza ovunque, anche nei soggetti più improbabili” dice Gastel al vernissage dell’esposizione davanti a una compiaciuta e radiosa Giovanna Melandri, la charmante direttrice del Maxxi e madrina di questa suggestiva mostra. D-Art ha incontrato il grande fotografo per una conversazione esclusiva. 

Signor Gastel, la fotografia da sempre snobba la moda definendola un’attività mercenaria, sulle orme di Jean Loup Sieff che alla fine degli anni’60 sentenziò: “La fotografia di moda non esiste”. Lei che ne pensa?

Tutta l’arte è sempre stata finanziata dai mecenati, fin dal Rinascimento. La moda ha finanziato la mia ricerca artistica e io le sono molto grato. Molti dimenticano che il soggetto della fotografia di moda è il vestito, non la persona, e questo può sminuire chi sopravvaluta il soggetto fotografato rispetto all’abito. Ma questa distonia è ormai superata.

Lei ha fotografato gli abiti di tutti i più grandi stilisti italiani. Qual è il couturier che le è rimasto nel cuore e che l’ha influenzato di più?

Gianni Versace. Lo adoravo. Quando ero alle prime armi sui suoi set lui mi dava carta bianca, io gli chiedevo cosa desiderasse e lui mi diceva che voleva che lo stupissi e che mi divertissi. La più bella art direction che potessi desiderare. Mi manca molto il suo coraggio e la sua voglia di sperimentare e di cambiare, oggi quasi del tutto assente nella moda.

Qual è fra i grandi maestri della storia della Fashion Photography quello che l’ha segnata maggiormente?

Irving Penn. Io sono un fotografo ‘classico’ e come lui ho sempre perseguito l’idea di una bellezza neoclassica, assoluta. Come Penn ho spaziato dal paesaggio allo still life, dai ritratti alla moda, fino al beauty. Amo molto anche Avedon ma sicuramente nella mia ricerca Penn ha lasciato una traccia più profonda anche perché è il più completo.

C’è un personaggio celebre che prima di una sessione di ritratto l’ha pregata di trattarlo con clemenza, come fece Kissinger con Richard Avedon?

Ricordo un episodio divertente durante gli scatti che ritraevano Michele De Lucchi. Mi chiese di non eliminare le rughe il che è davvero divertente e inusuale perché spesso tutti i soggetti ti chiedono di alleggerirle.

Cosa ricorda di suo zio Luchino Visconti?

Quando morì avevo 22 anni, incoraggiava molto la mia attività e mi portava spesso con lui sul set. Lui anteponeva l’arte e l’opera a tutto, vendeva le sue case per finanziare i suoi film, era un vero artista, lui sì dandy puro e allergico alle questioni finanziarie. Spero di aver ereditato da lui il mio senso estetico.

Giovanni Gastel

Tisci per Burberry plasma la forma dell’acqua

Tisci per Burberry plasma la forma dell’acqua

Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito. E non c’è nulla che meglio dell’acqua esemplifichi questo perenne divenire, questo fluido e tumultuoso processo di rigenerazione costante che determina la mutevolezza transeunte dell’universo. Nella apoteosi della bellezza empirica della natura Riccardo Tisci, talentuoso direttore creativo di Burberry, vede rappresentata l’epifania dell’armonia terrena e il simbolo più vibrante della libertà che finalmente abbiamo riconquistato. Navighiamo a vista in un mare che solo temporaneamente è piatto ma l’estetica organica e seducente di Tisci per Burberry è un porto sicuro. Classe e creatività si combinano con nonchalance in una collezione, quella coed per la primavera-estate 2021, che è un inno alla rinascita della natura e dell’uomo che sappia convivere con essa per un futuro più responsabile e vivibile. Dalle acque sorge una sirena che ondeggia fra i flutti giocando con gli squali come in una onirica favola che getta un ponte fra sabbia e acqua, fra la Gran Bretagna urbana e quella rurale nel segno di una mitologia contemporanea. Nella nuova Atlantide riletta da Tisci, che lo stilista pugliese ha voluto echeggiare con la complicità dell’artista Anne Imhof, un’artista sinonimo delle sue rivoluzionarie performance di resistenza e installazioni, si materializza una collisione tra moda e arte. Come le onde che si infrangono, incontrollate sulla riva, la performance, musicata da Eliza Douglas, presenta un flusso e riflusso di corpi, modelli e artisti come se fossero un’unica cosa – una marea crescente e decrescente di figure che si muovono attraverso lo spazio creato all’interno del fiorente paesaggio inglese. Celebra una simbiosi di natura selvaggia, incontaminata e struttura umana materializzando un immaginario di ninfe e tritoni, le prime accarezzate da pizzi candidi, tulle impalpabili e lievi chiffon, e da bluse stampate nei toni dell’indaco, i secondi vestiti di arancio e di bluette, fra giacche zippate e t-shirt over dalle stampe allegoriche, con capi che rivangano l’iconografia nautica. Nel womenswear prevale una giustapposizione di romanticismo e funzionalità, nel segno di una sofisticata naturalezza che si traduce in abiti arricciati body conscious, in lievi trasparenze che simulano le reti da pesca, in soprabiti tagliati quasi a evocare gli oblò delle navi ai quali si rifà anche con i suoi manici, la nuova borsa must have pocket bag. La sera segna il trionfo di iridescenti texture di cristalli che riproducono le superfici increspate del mare al chiaro di luna in una mistica malia d’estate. La collezione, come al solito riuscita e immaginifica, è un dialogo fra mondi diversi in cui l’acqua campeggia con la sua ancestrale energia espressiva come fattore centrale nello Heritage di Burberry. Il fondatore Thomas Burberry brevettò infatti per i suoi iconici trench il gabardine, un tessuto impermeabile progettato per respingere l’acqua e per proteggere il corpo. Oggi il trench, fulcro del progetto artistico di Tisci chez Burberry, si arricchisce di pannelli in denim, di tagli inediti come cut-out e code di denim a contrasto oppure perde le maniche, quasi sempre abbinato a stivali da pesca gommati. 

Danzano sul Campidoglio le vestali di Laura Biagiotti

Danzano sul Campidoglio le vestali di Laura Biagiotti

“E’ bello scoprire ritmi di lavoro diversi, più umani di quelli milanesi; questa serata mi ha fatto vedere la mia città con occhi differenti e sono convinta che d’ora in poi nulla sarà più come prima nella moda, è un processo di cambiamento irreversibile. Intendiamoci, amo molto la frenesia di Milano e del grande bailamme della moda, la sua adrenalina talvolta è anche rigenerante, ma forse la dimensione della mia città è più congeniale a me e ai miei collaboratori, anche perché stando qui dove sono nata, posso creare valore per il mio territorio ricco di maestranze artigianali e di eccellenze manifatturiere che vanno rilanciate e potenziate”. Lavinia Biagiotti Cigna, figlia e degna erede di una delle sovrane della moda italiana, Laura Biagiotti, è stanca ma emozionata dopo la suggestiva ed emozionante passerella che si è concessa, la prima in cui viene svelata in esclusiva a Roma la sua collezione, disertando coraggiosamente Milano. Per la prima volta infatti, dopo 55 anni di storia, Laura Biagiotti porta le sue 23 modelle tutte italiane, tranne la super top Anna Cleveland, figlia della leggendaria Pat Cleveland (che ha aperto e chiuso il défilé), nel cuore della Caput Mundi, sulla Piazza rinascimentale per eccellenza, quella Piazza del Campidoglio progettata da Michelangelo che è il fulcro della città eterna e anche la sede del governo municipale. La stessa città in cui Laura Biagiotti, ribattezzata da Bernardine Morris ‘regina del cashmere’ e prima stilista italiana ad approdare in Cina nel 1988 e a Mosca nel 1994, ha deciso di vivere e creare le sue collezioni fin dagli anni’70 insieme al marito Gianni Cigna.

Colta e raffinata mecenate, Laura Biagiotti ha ristrutturato il Castello Marco Simone alla fine degli anni’70 per farne la sua sede e il suo quartier generale ma anche il suo buen retiro. Testa solida e cuore tenero, la ‘dama bianca’ della moda italiana ha saputo tracciare un percorso illuminato di stile e raffinatezza nel segno della nobiltà del cachemire, un itinerario avventuroso volto anche alla valorizzazione della bellezza che ci circonda, partendo da Roma. Qui ha finanziato nel 1999 il restauro della scalinata cordonata del Campidoglio, dei Dioscuri e della fontana di Piazza Farnese. Ora Lavinia, prosegue il retaggio della sua grande mamma, scomparsa nel maggio 2017, finanziando il restauro estetico e funzionale della fontana della dea Roma in Piazza del Campidoglio, un’operazione importante per la città, supportata anche da Banca Intesa che prima della serata ha annunciato nuove iniziative a sostegno della moda italiana ma anche dei suoi giovani virgulti. In scena al tramonto sulla storica Piazza in cui la statua equestre di Marco Aurelio sorveglia sempre vigile le sorti della capitale, scivolano sulle note delle magiche musiche di Ennio Morricone, le eteree creazioni per la primavera-estate 2021 della maison.

Sono abiti lunghi e lievi, plissettati e stampati a pois o con motivi floreali ricamati, sono completi che accostano in modo audace lampi di colori smaglianti a volte inconciliabili come il rosa ciclamino e il verde clorofilla, sono sensuali princesse imprimé a motivi neoclassici in sete impalpabili ma anche tailleur dalle spalle pronunciate ricchi di tasche, perché il comfort é l’arma segreta di ogni donna. Non manca l’iconico abito bambola ‘spazialista’ e mono taglia in taffetas cangiante color melanzana, più corto e frizzante. La novità è una stampa delicata di soggetti neoclassici mutuati dall’iconografia capitolina e applicati con grazia su reticoli di cristalli che irradiano luce e sicurezza.

“Sono abiti con l’anima quelli che sfilano in questa magica cornice, luminosi, confortevoli e fatti per durare, pensati per regalare libertà a chi li indossa; è bello quando qualcuno ti ferma per strada e ti racconta che ancora possiede e indossa un capo disegnato da tua madre, perché significa che quello che facciamo ha un senso, che può durare nel tempo”, dichiara vibrante Lavinia. “Con questo evento, reso possibile anche dal Comune di Roma e dalla sindaca Virginia Raggi (presente all’anteprima stampa dell’evento in Campidoglio nell’aula consiliare n.d.r.), intendiamo ribadire la centralità del genius loci nel nostro percorso futuro perché la nostra rinascita parte proprio dai luoghi che amiamo e in cui viviamo, e dei quali abbiamo il dovere di preservare le eccellenze artistiche e culturali”. Ed è un’ipnotica performance di danza a siglare e coronare questa ideale ‘rinascita’ in Campidoglio della moda italiana alla fine di questa memorabile serata di moda e musica diretta magistralmente da Sergio Salerni.

L’étoile dell’Opera di Roma Eleonora Abbagnato aleggia come una libellula avvolta in seta lamé plissé soleil guidando una schiera di leggiadre vestali che si muovono come sospese in aria sulle note del tema musicale del fim ‘Mission’ creato negli anni’80 da Ennio Morricone, altro pilastro del Made in Italy. Uno scroscio di applausi accoglie nel gran finale dello show la carismatica Anna Cleveland, altra performer in stato di grazia, che volteggia sulla piazza accarezzata da un peplo insostenibile in chiffon avorio. La precede una sposa con un abito che riproduce il sublime disegno della piazza. Esultano nel parterre (solo 100 invitati selezionatissimi) Romina Power e Nancy Brilly, Mara Venier e un’abbagliante Cristina Chiabotto, Massimiliano Rosolino e Milly Carlucci, senza contare Laura Chiatti, ambasciatrice dell’ultimissima fragranza della maison, e le autorità istituzionali: Virgina Raggi, Luigi Abete, Stefano Coletta Direttore di Rai 1 e Pierluigi Monceri direttore regionale di Intesa San Paolo. Un en plein fra fashion e mondanità, perché ciò che conta è ripartire col piede giusto, ed è nella bellezza in fondo che la società può disegnare il suo futuro. 

Look Festival di Venezia 2020- fra gara d’eleganza e scivoloni trash

A Venezia fra gara d’eleganza e scivoloni trash

Nuovo cinema fashion. A Venezia, insieme alla settima arte, sfila una grande parata di stelle, soprattutto italiane, per sancire l’ottimismo della ripartenza in grande stile. A dimostrare l’indissolubilità del connubio fra moda e cinema. La palma dell’eleganza nella Serenissima spetta sicuramente a Elodie che si è palesata sul red carpet della Serenissima fasciata in un abito siderale in maglia metallica silver con spacco molto audace e lo scollo fittamente ricamato insieme al compagno Marracash in tuxedo dai dettagli argento: coppia clou e cool inequivocabilmente abbigliata da Donatella Versace e con ‘l’argento vivo addosso’. Inneggia a Eldorado vestita come una sirena da Atelier Versace la bellissima Maya Hawke, figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman. La madrina della 77esima edizione della mostra del cinema della città dei dogi, Anna Foglietta, si rivela una vera e propria icona di stile brillando per grazia, talento, ironia e intelligenza. Inaugura il festival con una superba toilette con vaporosa gonna di tulle e top tintinnante di cristalli a cascata, firmata Armani Privé.

Re Giorgio in fatto di stile la sa lunga: oltre ad aver vestito il talentuoso Pier Francesco Favino, il nuovo Vittorio Gassman, che ha calcato il tappeto rosso in giacca da smoking greige insieme alla piccola figlia, attrice in erba nel suo ultimo film ‘Padrenostro’, ha dettato il look della presidente della giuria di quest’anno, l’ineffabile Cate Blanchett, per poi sfoggiare toilette da fulgida sirena griffate Etro, Gucci, Brunello Cucinelli e Alberta Ferretti, una delle attuali regine del Made in Italy che oltre ad aver curato l’immagine in nero assoluto e iridescente della bella Cristiana Capotondi, ha anche abbellito la splendida Arizona Muse, top model impegnata, con un trionfante fastello di rouche di georgette plissettata scarlatta.

Rosso Valentino per la bella Fotini Peluso e per Vanessa Kirby che ha interpretato Margareth di Windsor in ‘The crown’. Rosso sì ma un po’ surreale e francamente molto trash l’abito da bombardona, di Zuhair Murad (che sa fare di meglio…) sfoggiato da una vamp de noantri come Madalina Ghenea, archetipo della starlette di regime (qualcuno sa dirmi per quale motivo è famosa?) che pare la clonazione triste di Gilda.

E’ una donna in rosso ma super chic, fasciata da un abito drappeggiato di Dolce&Gabbana, la florida Vanessa Incontrada, tradizionalmente legata al gruppo Miroglio come stilista e ambasciatrice del brand curvy Elena Mirò. Furoreggia in bianco ottico ohimé l’influencer Giulia De Lellis sulla cui toilette banalotta a forma di meringa tristemente firmata da un oscurissimo atelier di bridal e palesemente ispirata all’abito di Sarah Jessica Parker nella sigla di ‘Sex and the city’, stendiamo un velo. Da dimenticare l’abito con crinolina tricolore di Eleonora Lastrucci, un flop galattico. Inguardabili Ludovica e Beatrice Valli che ostentano due improbabili abiti bianco latte di Rami Kadi al quale chiediamo: perché?

Vola alto come una colomba invece il bianco immacolato della magnetica Tilda Swinton, musa di cineasti ma anche di stilisti, che ritira il Leone d’oro alla carriera con un magnifico e sinuoso abito di candido pizzo di Chanel corredato da una maschera veneziana d’oro, perché la classe non è acqua. Intrigante e sexy chic la tuta candida di Genny in organza sfoggiata da Giorgia Surina e impreziosita da frange d’argento. Bianco etereo il lungo Armani che illumina Greta Ferro ed Emma Marrone in blazer ammaliante e niente altro. Raffinata come sempre come una casta diva la regale Cate Blanchett che apre il festival con un magnifico modello grafico e sensuale nero luminoso del 2015 profilato di bianco di Esteban Cortazar, per poi esibire un top scultoreo brodé di Alexander McQueen di qualche stagione fa, dando un lusinghiero esempio di grande upcicling sulle orme di Jane Fonda che ha ‘riciclato’ il suo abito rosso di Zuhair Murad già sfoggiato prima degli Oscar 2020. E la Blanchett appare di sicuro in tutto il suo splendore fasciata da un mermaid dress nero ricamato effetto bambù disegnato Re Giorgio versione Privé.

Non offre fianco a critiche (ma non convince del tutto) Carolina Crescentini con il suo toy boy Francesco Motta, avvolta in un abito glamour che la fa sembrare una fata turchina versione 5G. Alessandro Michele per Gucci sul red carpet alza il tiro con l’abito di gala a balze multicolori, molto garbato, indossato da Gia Coppola, figlia d’arte. Non passa inosservata la caduta di stile del nude look di Matilde Gioli con un top francobollo che lascia troppo poco all’immaginazione. Interessante l’evoluzione del look della cantante Levante che, grazie a Re Giorgio, si trasforma in una signora di classe, anche per farsi perdonare lo scivolone del look sanremese targato Marco De Vincenzo. Sexy ma elegantissima in blazer con cintura la bella Adèle Exarchopoulos che ha scelto Prada come pure la magnifica Jasmine Trinca, star di ‘La dea fortuna’ di Ozpetek avvistata all’ultima, suggestiva sfilata femminile del brand a Milano. Nero, elegantissimo l’abito di velluto solcato da tagli e frange indossato da Catherine Waterston. Scintilla come caviale prezioso l’abito di Baby K firmato da Moschino by Jeremy Scott. Non convince affatto il look premaman anch’esso total black, di Arisa che ha pur scomodato un grande come Marras ma ci vuol altro purtroppo per convertire la signora al buon gusto.

E’ una piacevole sorpresa invece la splendida Miriam Leone, una delle nuove dive del nostro cinema, ammiratissima nella trilogia Sky su Mani pulite 1992-1993-1994, che abdica finalmente a Gucci che non le donava granché, per sfoggiare un tuxedo nude laminato d’oro firmato Blazé Milano, marchio emergente italian style affidato alla matita di tre giovani designer e amato anche da Margherita Missoni e Giorgina Brandolini D’Adda. Largo ai giovani. E i maschi? Non stanno certo a guardare. E anche qui si contano varie bucce di banana. Come i fratelli d’Innocenzo che appaiono piuttosto inquietanti come le gemelle di Shining targati Gucci crivellati da doppie G e uno styling davvero sbagliato. Scelgono Prada invece James Norton e Dario Yazbek Bernal. Di Marracash e Favino abbiamo già parlato. Bello e sempre più interessante come un vero divo hollywoodiano, nonostante abbia superato le 50 primavere, giganteggia Matt Dillon, giurato di Venezia 77 che ricordiamo per il grandioso ‘Rusty il selvaggio’ di Coppola ma anche per l’estremo ‘La casa di Jack’ di Lars Von Trier. Per non sbagliare si è affidato a Re Giorgio che fra i gentlemen della settima arte si è accaparrato le vere star. Nella scuderia veneziana dei purosangue vestiti da Re Giorgio spiccano una leggenda come Almodòvar che ha presentato la sua ultima fatica ‘The human voice’, Anthony Delon, Daniele Luchetti e il sex symbol Miguel Angel Silvestre, star di Almodovar e di Netflix, griffato Emporio Armani al pari di Diodato trionfatore di Sanremo, ma anche Alessandro Gassman che ha esibito un completo nero illuminato da t-shirt rossa per il photocall di ‘Non odiare’, film meritorio pervaso da un vibrante impegno civile sulla denuncia della aberrante rimonta antisemita nel nostro paese, anticamera del neofascismo digitale. Su tutti svetta senza dubbio l’elegante e fascinoso attore Diego Boneta che si fa notare, ma con classe, con il suo blazer da gran sera di Atelier Versace ricamato di cristalli che scendono in degradé dalle spalle, epitome di superba e glamourous couture maschile aggiornata ai codici odierni.

Il dramma dell’alienazione in Dogtooth di Yorgos Lanthimos

Il dramma dell’alienazione in Dogtooth di Yorgos Lanthimos

Spiazzante e minimale, approda nelle sale italiane dal 27 agosto l’atteso film ‘Dogtooth’ dell’acclamato regista greco Yorgos Lanthimos. Premiato a Cannes con ‘Un Certain regard’ e candidato all’Oscar come miglior film straniero, il film distribuito dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti, arriva sugli schermi con undici anni di ritardo e promette il massimo della ferocia dissacrante e surreale di cui un geniaccio come Lanthimos, che ha già scalato le vette del gotha del cinema con ‘La favorita’ e con ‘Lobster’, è assolutamente arbitro e padrone.

Una famiglia molto bizzarra vive segregata in una villa blindata da un’alta recinzione. Solo il crudele e assertivo patriarca, vero e proprio padre padrone imborghesito, può uscire e rientrare indisturbato mentre la moglie e i tre figli devono subire i diktat del despota sadico che li costringe a vivere sotto una campana di vetro, al riparo da pericoli e presunti rischi del mondo esterno. Quando però il padre cerca di soddisfare i crescenti bisogni sessuali del figlio adolescente procurandogli una ragazza, Christina, la quiete claustrofobica e artificiosa all’interno dell’imperturbabile famiglia borghese sembra lacerarsi.

Immersa in un bagno di luce pallida e lattiginosa e avvolta in un set minimalista ed estremamente epurato dal decorativismo grafico ma barocco ammirato nell’opulento ‘La favorita’, la pellicola riporta l’accento sui grandi temi di punta della weltanschauung del cineasta greco: la solitudine, la libertà, il lutto, la famiglia, l’oppressione, l’incomunicabilità. E lo fa con un linguaggio asciutto ma pregnante, spesso lapidario, che affida a inquadrature taglienti e a fotogrammi spezzati il compito di definire la storia conferendole carattere e tensione drammatica.

Le scene carnali sono spesso pervase da un’algida visione dell’erotismo, esacerbato in forme spesso geometriche e astratte che esaltano la forza semantica dei dialoghi sempre improntati a una trasgressiva ironia mentre la provocazione e la ribellione all’ordine sociale serpeggiano in ogni scena ammantate di verecondia puritana e borghese. All’apparente pauperismo di set e costumi non corrisponde la ricchezza contenutistica del plot solcata da lampi di rabbia e di schizofrenia dettati da un controllo maniacale di gesti e comportamenti, laddove l’olimpica armonia del nucleo familiare che apparentemente nulla potrebbe scalfire, viene profanata da improvvisi scatti di violenza che evocano il clima di repressione in cui i membri della famiglia si trovano a vivere soggiogati e inermi, interpretati da Christos Stergioglou e Michele Valley(i genitori) e da Hristos Passalis, Mary Tsoni e Angeliki Papoulia (figli).

Il cinema di Lanthimos non è dedicato a chi è delicato di stomaco né a chi detesta le distopie linguistiche ed eidetiche, bensì a chi apprezza un cinema autoriale ricco di interessanti sfaccettature che si rivelano allo spettatore nel prisma di una critica lucida e paradossale della società e di una disamina puntuale ed eloquente dei drammi interiori dell’individuo. Chi scrive ha colto alcune assonanze, magari non esplicite né volute dal regista, con Bergman e Von Trier, con una vena surreale e grottesca che richiamano il migliore Bunuel. Ottima prova e sicuramente un ennesimo successo per Occhipinti che a quanto pare non sbaglia una mossa nella selezione di registi e opere dall’indubbio valore artistico, anche se in fondo, e questo è pacifico, non si tratta di un film per tutti.

Paola Santarelli: il mio Capucci fra arte e moda nel segno dell’eternità

Paola Santarelli: il mio Capucci fra arte e moda nel segno dell’eternità

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Roma, culla d’arte e di storia, caput mundi e città eterna, meta di turisti e di amanti dell’arte. E’ nella capitale, definita da Luigi Pirandello ‘acquasantiera e posacenere’, che Paola Santarelli, affermata imprenditrice del settore immobiliare che avrebbe voluto vivere nel Rinascimento, ha deciso di mettere radici in nome della bellezza, dell’arte e della cultura. La sua famiglia, una vera e propria dinastia di mecenati di origini abruzzesi capostipite di una munifica fondazione intorno alla quale hanno gravitato Federico Zeri, Andrea Carandini, Antonio Giuliani e Andrea De Marchi, ha donato 600 opere d’arte rarissime realizzate con la tecnica della glittica ai Musei Capitolini. Nel suo meraviglioso studio incastonato nei cunicoli dell’Aventino e immerso nel verde, a pochi passi dall’aranciera, Paola Santarelli, colta e raffinata collezionista con il pallino dell’arte che sogna una Roma città europea, porta avanti il retaggio di una gloriosa maison dell’alta moda italiana: Capucci.

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Per me è un gioiello inestimabile, piccolo ma carico di storia e di luce, depositario di grande maestria artigianale, uno dei simboli della grandeur dello stile italiano, in perenne equilibrio fra moda e arte. Capucci è sinonimo di lusso vero, una nicchia esclusiva che va preservata e che nel gotha fashion si situa a mio avviso fra Chanel e Hermès”.

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Ne è passato di tempo da quando Roberto Capucci, figlio di un medico e architetto mancato, conquistò Parigi con la benedizione di Christian Dior che negli anni’50 lo definì lo stilista italiano più promettente della sua generazione. Alla sua scuola si sono formati Maurizio Galante e Giambattista Valli; le sue forme scultoree, le sue volute di seta sauvage, i suoi scenografici plissé, le sue vestali angelicate come la ‘Norma’ di Bellini, la sua palette di tinte sature pervasa da una teatrale magniloquenza, hanno ispirato centinaia di creatori di moda e hanno calcato le passerelle più prestigiose del mondo entrando fin dagli anni ’80 nelle gallerie d’arte più blasonate. Un archivio sensazionale oggi conservato dalla Fondazione Capucci che temporaneamente ha trovato sede a Udine, all’interno di Palazzo Manin. E a Roberto Capucci si riferisce sempre con estrema ammirazione questa elegante signora dalle lunghe chiome corvine che sembra quasi bisbigliare le parole, circondata dai marmi e dalle sculture che decorano gli ambienti della sua magione capitolina in un silenzio ieratico, lo stesso che circonda ed esalta la magnificenza delle ‘sculture seriche’ del maestro romano che ha sempre ripudiato l’appellativo ‘stilista’.

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Capucci è un genio, mia madre e le mie sorelle si vestivano nel suo atelier, è così che l’ho conosciuto-racconta Santarelli-è stato un autentico visionario e ha cambiato la storia della moda, la sua non è neppure haute couture, è arte pura. Oggi, dopo aver acquisito la maison nel 2015, stiamo cercando di ringiovanirla proponendo un ready-to-wear valido e fruibile dalle 9 del mattino alle 9 di sera, ricco di eleganti capi passe-partout da sfruttare costantemente sia per il giorno che per la gran sera e la cerimonia, in linea con le esigenze delle giovani donne di oggi sempre connesse, dinamiche ed emancipate. In un certo senso sono l’evoluzione di quelle donne sofisticate che un tempo si abbigliavano in Capucci sulla falsariga di una casta diva come Silvana Mangano che Roberto vestì sul set di ‘Teorema’: da Olivia Hussey a Maria Pia di Savoia, da Esther Williams a Gloria Swanson, da Valentina Cortese a Raina Kabaivanska, da Elvira Pallavicini che a Roma creò il circolo delle ‘capuccine’ a Rita Levi Montalcini. Fino all’ammaliante Naomi Campbell che poco tempo fa ha deciso di indossare una nostra recentissima creazione per la copertina di Vogue Spagna”.

La prima boutique di Capucci in via di Fontanella Borghese, nel cuore del Tridente, ospita le nuove collezioni di demi couture della maison italiana attualmente affidate alla vena creativa di Luisa Orsini e Antonine Peduzzi, it-girls e fondatrici del marchio di borse TL-180, che Santarelli ha scelto, in tandem con la figlia, la talentuosa curatrice d’arte Vittoria Bonifati, per ‘la loro cultura e il loro background personale e familiare’ per citare l’imprenditrice romana.

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“I capi delle nostre collezioni, che potrebbero in futuro essere completati da una linea di accessori, hanno un’allure contemporanea e sono realizzati per lo più nel Lazio con un elevato tasso di sapienza manifatturiera; oggi non mi interessa espanderci a livello globale oppure fare grandi numeri, mi interessa piuttosto mantenere e conservare la dimensione unica e irripetibile di questo gioiello di fashion design perché la moda è cultura e aspirazionalità, proprio come dimostra la lezione del grande ‘ricercatore’ dell’alta moda italiana”.

L’allure cinetica di Bottega Veneta

L’allure cinetica di Bottega Veneta

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Daniel Lee è senza dubbio uno degli interpreti più stimolanti della scena fashion odierna. Per la collezione autunno-inverno 2020-21 presentata al Palazzo del Ghiaccio rivisitato da scenografie palladiane, il giovane designer (che per chi non lo sapesse è da circa due anni il nuovo direttore creativo del brand ed ha già vinto i British Fashion Awards) esprime una visione ancora più netta e inoppugnabile della sua estetica: il suo mantra di stagione è il dinamismo mutuato dalle coreografie di Pina Bausch. Le frange danzanti degli abiti e coat femminili, motivo conduttore di questa collezione, catturano in prima fila l’attenzione di un cineasta rigoroso ma romantico come Luca Guadagnino che, dopo la sfilata, ha dichiarato: “Mi piace, ha una visione precisa e la persegue con determinazione e caparbietà, ottimo lavoro”.

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Daniel Lee, nuovo golden boy del gruppo Kering, non ha mezzi termini, sa quello che vuole ed è straight to the point: qualche critico per definire il suo stile ha usato il pomposo termine ‘brutalismo’. Non sappiamo sinceramente se questa definizione possa attagliarsi alle sue proposte ma di sicuro la sua filosofia così nitida e senza fronzoli fa pensare a una rimonta di quel minimalismo anni’90 che ha segnato un intero decennio. I colori sono fluo, accesi, vividi, quasi accecanti: rosso carminio, giallo lime, verde fluo, viola ametista. Gli abiti a volte sembrano paracadute tanto sono drappeggiati e arricciati, altre volte si portano lunghi fino ai piedi seguendo verticalismi briosi. I suit evocano lo stile degli anni’90: Kaia Gerber spunta in pedana con un severo outfit da manager amburghese ma illuminato da colli verde kiwi che sarebbe piaciuto alla Sharon Stone di ‘Sliver’. Il casting maschile è spiazzante: ragazzi efebici, giovanissimi e assolutamente glabri ma con personalità, in linea con il rigore asburgico di certi cappotti a ricordare quasi Helmut Berger in ‘La caduta degli dei’ di Luchino Visconti ma senza indulgere troppo nel dandismo d’antan.

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Tutto è solenne ma anche no, pronto a sdrammatizzarsi. Frange anche sui lunghi cappotti di ecofur bicolori mentre le borse lievitano sui fianchi: ampie, capienti come bisacce, voluminose e ludiche, nota ironica e sferzante nei look austeri, ascetici, della sfilata che piacerebbero a un monaco stilita in odore di beatificazione. Si comprende subito che molti capi servono essenzialmente per enfatizzare gli accessori, forza trainante del marchio: ne è passato di tempo da quando la bellissima Lauren Hutton incontrava Richard Gere in ‘American gigolò’ portando la sua inseparabile borsa dalla texture intrecciata firmata Bottega Veneta. Un motivo decorativo che oggi rivive ingigantito in versione 3D, formula insolita a cui dovremo, volenti o nolenti, fare l’abitudine. Un frisson erotico trapela dalla camicia nera per lui ma molto agender completamente see-through secondo un effetto ragnatela disegnato dal crochet.

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I pantaloni sono per lo più dritti e a vita altissima e qualche giacca succinta assume un taglio volitivo ma civettuolo ‘à la Robespierre’ alternandosi a giacconi di pelo. Interessante questa operazione di restyling chirurgico e a tutto tondo ordita dall’enfant gaté di Bottega Veneta: il glamour asciutto delle sue collezioni è sprigionato perfino dalle campagne pubblicitarie di Tyrone Lebon dove le allusioni a una carnalità tutt’altro che algida risultano palesi, quasi occhieggiando a un mood fetish sulla falsariga di Helmut Newton. Perché come si dice: ‘sex sells’. La sensualità si stempera nel rigore, il vitalismo cromatico nel design più epurato: tutto è molto incisivo e pregnante, poche parole, lasciamo parlare i fatti. E allora via libera alle micro purse verde prato da portare con la tunica ampia da vestale discoglam 4.0 scintillante di cristalli all over, alla enorme borsa oversize da portare a spalla in nappa bianco ottico con macro intreccio, alle scarpe dalla punta quadrata (grande ritorno nineties) e ai tocchi di eleganza sporty ma anche un po’ gipsy come la borsa fluffy in pelle intrecciata tutta ondeggiante di frange, ai piedi stivali marziali o babbucce fluo. Una collezione coraggiosa e assertiva che sembra un drink galvanizzante ad alto tasso etilico: è inebriante per i sensi e la sorbisci tutta d’un fiato.

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L’esotismo metropolitano di Riccardo Tisci per Burberry

L’esotismo metropolitano di Riccardo Tisci per Burberry

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Alla sua quarta prova come direttore creativo di Burberry, Riccardo Tisci inanella un altro formidabile successo fondendo la sua matrice multiculturale e prettamente indiana con la tradizione british di un marchio inossidabile. E il risultato è inebriante. Tisci si conferma, con la sfilata autunno-inverno 2020 del brand, uno degli interpreti di maggior talento della scena fashion globale e sicuramente uno dei pochissimi creativi al mondo (lui e JW Anderson in testa) in grado di giocare in modo credibile e assolutamente moderno con i codici di un marchio che è legato più di altri all’identità della Perfida Albione.

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In una location scenografica in cui giganteggia una lettera H cubitale e dove si sono un tempo esibiti i Primal Scream e i Chemical Brothers, Tisci manda in pedana un en plein scandito dalle note live di due colossali pianoforti a coda. Il check iconico della maison si coniuga, fino a diluirsi, con i motivi madras dei seducenti abiti drappeggiati come sari moderni palesemente ispirati all’India e alle sue suggestioni, puntando su un paese che è anche un mercato chiave oggi per l’Inghilterra della Brexit.

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Lo stilista dà il meglio di sé attraverso una carrellata di magnifici capispalla zippati e spesso cerati, di trench che occultano sorprese lievissime e soavi in chiffon tagliato a vivo quando non aderiscono al corpo in una vertigine di drappeggi, di montoni assolutamente imprevedibili perché spesso inside out e declinati anch’essi nel check maison, di dress accostati al corpo che fasciano la figura con una profusione di piegoline e arricciature di grande effetto.

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Tisci infonde nella sartorialità britannica di Burberry un flair dolcemente italiano e un’allure molto glamourous che lo definisce agli occhi di chi scrive come l’erede legittimo di Gianni Versace. E questo si coglie nei tagli assolutamente inconsueti, nelle linee flessuose ma svettanti, nell’uso di materiali piacevoli e innovativi dal sapore rustico ma classy, nell’impiego di colori tenui virati in una versione molto hot eppure portabile. Come quando una cappa a uovo circonda senza stringerla una giacca classica, come quando la maglia da rugby solcata da macro bande diventa un poncho, o quando il montgomery si veste di velluto o la robe da sera total black svela gentili maniche di chiffon plissettato.

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Le silhouette sono affusolate, i trench si ammorbidiscono senza enfasi sulle spalle e con tagli godet, il duffle coat per lui si tinge di rosa, le camicie si portano assemblate e giustapposte in una unica over shirt, la palette alterna lampi di rosso lacca al color cammello e al cappuccino per poi virare verso il verde acido e l’argento assoluto per la sera più siderale e scenografica in cui la maglia metallica flirta con decorazioni di micro borchie, piercing couture e fluttuanti frange di cristalli. Mai estremo ma visionario, Tisci declina la sua maestria, applaudita da Cate Blanchett, Mahmood, l’icona nineties Kristen McMenamy e la ‘pantera’ Naomi Campbell, anche negli accessori come la nuova borsa Olimpia, capiente e sbarazzina, la duffle bag in tessuto plaid, la purse metallica da nottambula tempestata di borchie, e la sneaker ibrida fra maschile e femminile come prevede la nuova fluidità al potere che però il talentuoso Tisci pare assecondare a modo suo. Chapeau!

Il soft tailoring di Brunello Cucinelli

Il soft tailoring di Brunello Cucinelli

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Diceva Kofi Annan, compianto segretario generale dell’Onu che “solo i ladri e i venditori ambulanti urlano”. E Brunello Cucinelli è di questa stessa scuola: invece di parlare sussurra, invece di gridare bisbiglia, parole di stile, pillole di eleganza. Un certo mondo lo segue come un vate dello stile, come un sapiens che vede aldilà e lui non li delude mai. Chi lo conosce sa che è una persona discreta, gioviale, affabile e brillante senza contare il suo innato magnetismo personale, che rispecchia quello che fa e che ama con coerenza, da sempre. Le sue collezioni riflettono il suo spirito illuminato da umanista colto e raffinato e il suo senso effortless per un’eleganza che non cambia perché un abito di qualità è per sempre. I cambiamenti nelle sue collezioni in verità ci sono ça va sans dire, ma sono impercettibili così come deve essere, perché oggi vince chi ha un’identità e sa sintetizzarla intorno a pochi capisaldi. Proprio come Brunello Cucinelli.

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Dal borgo di Solomeo nella ridente Umbria dai paesaggi incantati, le sue lavorazioni certosine, la sua maglieria soffice e all’avanguardia, i suoi filati ricchi ma sobri, gli abbinamenti insoliti e piacevolmente inconsueti da outsider della moda ammantano la silhouette di naturale morbidezza e di tinte pastose e neutrali come neutrale è lo stile che non passa mai di moda. Si può parlare di minimalismo a proposito delle sue creazioni? Forse sì ma non in un’accezione né letterale né restrittiva del termine e soprattutto non in una versione didascalica.

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Il manufatto italiano emerge in tutta la sua potente energia trasfiguratrice infondendo una verve decorativa all’insieme dei look: per la collezione autunno-inverno 2020-21 il creativo sviluppa il tema dell’androginia in modo gentile, senza calcare mai la mano. I materiali no season e le combinazioni dal gusto contemporaneo rendono versatile e fresco lo stile delle gonne. Fluide e impalpabili, in tulle, in nappa, laminate, a pieghe e a pannelli, le jupes rispondono a un crescente desiderio di una nuova femminilità.

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Delicate stampe floreali, effetti dégradé in tulle e in tela di lana, lavorazioni embossed, sono tutti interventi artigianali che ne accrescono il valore. Un understatement romantico conferisce carattere agli outfit dal timbro equestre, in omaggio a un dress code blasé e vagamente snobbish, assolutamente irresistibile. Il cuore della collezione è come sempre la maglieria, preziosa e blasonata come non mai. Effetti ramage, corteccia, feuillage sono tradotti in punti tridimensionali, irregolari, fatti all’uncinetto, intarsiati o ricamati. Anche tutti i punti della tradizione, trecce, maglie inglesi, coste e punti nordici si alleggeriscono grazie a lavorazione traforate e a rete per acquisire un’allure più delicata e femminile.

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La lavorazione più strepitosa è una maglia tridimensionale muschi e licheni ispirata al mondo organico mentre per alcuni, esclusivi pezzi in knitwear della capsule Opera che evoca il mondo naturale, sono occorse circa 20 ore di lavorazione manuale. E poi c’è la over shirt, nuova protagonista del guardaroba femminile: la camicia sconfina dal proprio ruolo e si impone come giubbotto, in alpaca imbottita o in pelle sopra abitini o maglie a collo alto; come cappotto, in montone, in double di lana o in cashmere; infine come outerwear, in tessuti moderni, anche imbottita con soffice piumino. Fondamentali le giacche, declinate in una ricca varietà di stili: con spalle importanti e belted waist, sagomate dal gusto equestre con punto vita segnato da pinces e impunture, e soprattutto in volume over per rivoluzionare audacemente lo styling, da indossare sopra leggerissimi abiti e con stivali da amazzone, ricordando Marie Antoinette e Sissi. La sobrietà del tailleur è mitigata dall’uso del colore o dai volumi loose dei pantaloni, oppure si rinnova attraverso gonne e tailored bermuda. Eleganza senza tempo e femminilità si uniscono per esprimere un nuovo soft power dressing e soddisfare, in un giusto equilibrio, le necessità della vita professionale e della vita privata. Quando la semplicità diventa arte.

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