Efrem Raimondi: in buona sostanza ho un ottimo rapporto col mio invisibile, sono io!

Efrem Raimondi nasce a Legnano il 16 agosto 1958. La sua fotografia ha come soggetto nient’altro che se stessa. Le sue immagini si collocano in una zona in bilico tra il sogno e la realtà. Esse vanno alla ricerca dell’essenza profonda di ciò che viene visto, indipendentemente dal soggetto. Raimondi parla, precisamente, di “Invisibile”.

Il mese di ottobre La vede impegnato in tre città: Milano, poi Siena e Pordenone. Può anticiparci qualcosa?

Con piacere. Premesso che è un impegno in parte didattico coi workshop sul ritratto a Siena e a Pordenone. E con un corso avanzato, sempre sul ritratto, a Milano. Entrambi i percorsi si pongono il problema di come poter produrre fotografia di ritratto superando gli stretti argini del genere. Che in alcuni casi, il genere, ha la sua motivazione e collocazione, ma più spesso finisce per soffocare la fotografia, quella maiuscola, nella morsa di cliché e manierismi: qui si intende andare oltre. Facendo in primis fotografia, che poi sia di ritratto non cambia nulla.
Poi ancora a Siena la lectio magistralis Presente imperfetto , sulla falsariga di quella tenuta a giugno al MAXXI di Roma, insieme alla curatrice Benedetta Donato che è stata fondamentale. Questa volta ad accompagnarmi c’è Alessandro Pagni. E confido molto sulla sua presenza, perché ha uno sguardo acuto. La lectio è una sorta di viaggio sull’idea che ho di fotografia attraverso quella che è la mia produzione. A partire dal 1980 sino ad oggi. Non si può spiegare in due righe, bisogna esserci.
E poi ancora Siena con una piccola mostra, PORTRAIT FOR SALE: 19 opere, ritratti, a figure internazionali di primissima grandezza e a persone che il circo mediatico definirebbe comuni – incluso un mio nudo, un autoritratto del 1986 – ma che per me hanno una valenza particolare. Il differenziale vero è sempre il COME si fotografa. Non COSA, non CHI. Per un autore il soggetto è solo il pretesto per raccontare sé stesso. Sempre. E questo è il mio PERCHÉ. Non ne conosco altri.
Comunque tutte le informazioni di questo ottobre denso si trovano sul mio blog. Per chi volesse: http://blog.efremraimondi.it/

Nei Suoi ritratti, il gesto assume una rilevanza particolare e sembra quasi diventar soggetto. Come si approccia a fare un ritratto?

Per me il soggetto della fotografia è la fotografia stessa, tutta quanta. Tutto ciò che è nel perimetro compone il soggetto e esiste. Ciò che non c’è non esiste. Anche una cosa apparentemente marginale, ficcata in un angolo, ha un suo peso specifico ed è partecipe dell’immagine che restituiamo. Con una premessa del genere la risposta è abbastanza scontata: con l’intento di portarmi a casa qualcosa che soddisfi me in primis. Non cercando mai, ma proprio mai, alcuna stranezza, alcun artificio.

Questo modo di approcciarsi al ritratto è rimasto immutato negli anni o reputa che abbia subito un’evoluzione?

L’approccio è sempre stato lo stesso. E passa per un concetto chiaro: essere diretto e molto semplice. La mia è una fotografia semplice. Certo, nel corso del tempo la capacità di modulare questa semplicità ha contribuito a precisare la mira. Ma non è stato un travaglio. Proprio un percorso: l’ambizione è sempre stata far coincidere ciò che produco con ciò che intendo produrre. E perché questo diventi possibile servono due elementi: ampliare lo sguardo e affrontare i dubbi, riflettere su ciò che si sta facendo, prima e dopo. Durante, non penso. Fotografo.

All’interno del suo blog, in più sezioni, lei afferma: “La fotografia si occupa dell’invisibile”. Come definisce il Suo rapporto personale con l’invisibile?

Ognuno di noi intercetta solo ciò che intimamente gli appartiene, sforzarsi non serve a nulla. Alla fin fine sei come che fotografi. Il vero differenziale lo fa il linguaggio, quella proprietà soggettiva che permette o meno di esprimersi. L’invisibile è tale finché non lo cogli. Ma appunto non basta, poi devi renderlo espressione. In buona sostanza ho un ottimo rapporto col mio invisibile: sono io! Ed è un buon rapporto solo quando lo traduco in immagine, altrimenti è un tormento.

Sempre all’interno del suo blog, lei accenna che fin da bambino le piaceva fantasticare mentre sfogliava riviste di fotografia come “Popular Photography”, alla quale suo padre era abbonato. E’ iniziata così la passione per la fotografia?

Anche così. Ma era un altro mondo, stiamo parlando della metà degli anni ’60: allora, piccolissimo, girovagavo per mostre e musei coi miei genitori. Accompagnavo mio padre a sviluppare e stampare in una meravigliosa camera oscura persa nella nebbia della periferia di Milano, proprio di fronte all’aeroporto di Linate. Vedere l’emergere di un’immagine da una bacinella mi affascinava un po’ come quando vedevo gli aerei spuntare dalla nebbia, a 50 metri dal tetto di casa mia. Con quella luce rossa lampeggiante dalla pancia dell’aereo e nient’altro. Solo il suono dei motori.

Cosa significa, per lei, fotografare una donna? Qual è l’elemento che adora catturare maggiormente in un soggetto femminile?

Significa fotografare una persona. Coinvolgersi. Coincidere. Ma è esattamente come quando ritraggo altri soggetti. Per intenderci non la butto mai sulla sessualità, semmai sulla fascinazione. E basta davvero uno sguardo. E lo sguardo non ha età. Ho ritratto fanciulline e donne anziane: in ognuna trovo quello che cerco. E non è mai definibile a priori.

MILANO, IDROSCALO. JUNE 2012. Alias Charlyn "Chan" Marshall. U.S.A. SINGER-SONGWRITER.
Cat Power, 2012 per Rolling Stone Italia


Se dovesse definire la sua fotografia con una parola, quale preferirebbe utilizzare?

Detto: semplice. Che non significa facile. E trasversale: fotografo tutto l’invisibile che mi riguarda.

Fotograficamente parlando, come si pone nei confronti dell’errore?

L’errore, la consapevolezza dell’errore, è il prodotto di una conoscenza. Se lo individui diventa prezioso contributo del tuo percorso espressivo. Ho fatto dei redazionali in cui l’errore era il soggetto. Poi sa, a volte si equivoca sull’errore. C’è chi pensa che esistano delle regole ferree non trasgredibili. In genere chi pensa questo è un subordinato della regola. E di fatto ne sottolinea la non consapevolezza. La scarsa padronanza. Le regole esistono. Il linguaggio, per essere tale, le possiede e le usa a suo piacimento. La perfezione non esiste ed anzi è proprio grazie all’imperfezione che sottolineamo la nostra cifra espressiva.

Che rilevanza attribuisce alla quotidianità e all’intimità?

Alta. Ma non è detto che abbiano una relazione direttamente proporzionale. Può accadere che ci siano singoli elementi di intimità con una persona sconosciuta. Per una fotografo, per chiunque esercita lo sguardo, è un elemento vitale.

Ultima domanda. In che direzione si sta dirigendo la fotografia nel mondo contemporaneo?

Dobbiamo, credo, fare un distinguo: le fotografie non necessariamente sono il prodotto di una consapevolezza. Se invece è di consapevolezza che parliamo, allora sì, il prodotto sarà realmente rappresentativo del produttore. E quindi fotografia. Penso che la forbice qualitativa, espressiva, sia destinata ad allargarsi. Già accade. E paradossalmente a fronte di una spropositata, spaventosa produzione di immagini, corrisponde una produzione autoriale che va per la propria strada. Ma esattamente come sempre gli artisti hanno fatto.
Poi c’è il mercato e il marketing, che cavalcano la massificazione iconografica. Instagram ne è l’esempio: una grande bolla. C’è tanta demagogia nel concetto di democrazia in fotografia: la fotografia, come qualsiasi linguaggio complesso, e perciò davvero significativo, non è democratico. E non media l’espressione col mercato.

Ottobre sarà un mese intenso per Efrem Raimondi, in quanto lo vedrà protagonista di un ciclo didattico di grande interesse. Il prossimo anno, come egli sottolinea anche all’interno suo blog, si aprirà con delle novità. Nel frattempo, non resta che augurargli un buon lavoro e di continuare al meglio la sua splendida carriera.

http://blog.efremraimondi.it/
http://www.efremraimondi.it/

Mostra del cinema di Venezia 74: applausi per «The Leisure Seeker» di Paolo Virzì

E’ stato presentato il 3 Settembre alla 74^ Mostra del cinema di Venezia il primo film italiano in concorso: «The Leisure Seeker» di Paolo Virzì.

Dopo “La Pazza Gioia” il regista livornese racconta la storia commovente dei due coniugi Ella e John che si amano nella malattia fino alla fine delle loro vite. In occasione della prima proiezione, Virzì e i due interpreti stranieri (l’inglese Helen Mirren e il canadese Donald Sutherland) si sono aggiudicati intensi e lunghi applausi.

John è un ex professore di letteratura e un grande appassionato dello scrittore Ernest Hemingway, affetto da un Alzheimer destinato progressivamente ad aggravarsi. La moglie, Ella, è affetta invece da un grave cancro allo stadio terminale. I due scelgono di avventurarsi in un lungo viaggio segreto verso Key West, dirigendosi verso la casa dello scrittore che John aveva tanto adorato ai tempi dell’insegnamento.

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Il film, che si apre con l’immagine della campagna presidenziale, è anche la raffigurazione dell’attuale America: un Paese in cui Ella e John stentano a riconoscersi. Esso è al tempo stesso la metafora della fuga da un destino doloroso. L’anziana coppia sceglie il divertimento e l’avventura alle cure ospedaliere. Il loro ultimo viaggio rappresenta dunque la scelta della libertà e della dignità, anche negli ultimi istanti di vita e nella malattia. L’avventura prosegue poi per la Route 1 sulla East Coast degli States e termina a Key West.

Tra le parole e i lunghi silenzi, tra il dipinto della condizione attuale e i ricordi, il regista è riuscito a mettere alla luce con grande sensibilità una tematica così delicata come l’anzianità.

The Leisure Seeker è per Paolo Virzì il primo film girato interamente in America, in lingua inglese e s’ispira all’omonimo romanzo di Michael Zadoorian.
L’uscita al cinema è prevista per il 25 gennaio 2018.

Conversano ospita “L’uomo infinito” di Man Ray

L’uomo infinito” è il titolo della mostra del celebre artista Man Ray allestita nel castello di Conversano, in provincia di Bari, dal 15 luglio al 19 novembre 2017; organizzata dall’Associazione Culturale Artes in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Conversano, la Fondazione Marconi ’65 di Milano ed il Man Ray Trust.

Il titolo della mostra attinge dal nome dell’omonima opera dell’artista americano, “Lhomme infini”, risalente al 1970. La mostra presenta circa 100 opere tra fotografie, sculture, dipinti, disegni e litografie di colui che viene considerato il massimo esponente del Dadaismo. Le sezioni che si susseguono sono otto: “”New York 1912 – 1921”, “Il rapporto con Marcel Duchamp”, “Gli amici artisti e autoritratti”, “Muse e Modelle”, “Dadaismo ed avanguardie”, “”Realtà e finzione-voyeurismo e sadismo”, ‘Juliet’ e “Ritorno in Francia”.

La mostra ripercorre l’intero percorso artistico di Emmanuel Rudzitsky (il vero nome di Man Ray) in tutta la sua evoluzione ed ha inizio a partire dall’incontro con il grande artista Marcel Duchamp e con la nascita di un Dadaismo di stampo americano. Ben presto, Man Ray abbandonerà la sua terra natale per recarsi nella capitale francese dove troverà un luogo culturale più accogliente e più adeguato per la sua poetica dadaista. Ed è proprio a Parigi che Man Ray comincerà a ritrarre le figure intellettuali più importanti di quell’epoca, come Jean Cocteau.

Noire et Blanche, 1926 Photo de Man Ray
Noire et Blanche, 1926
Photo de Man Ray


Nell’ambito dell’arte fotografica, egli dimostrerà che la fotografia non è affatto la riproduzione della realtà ma la creazione di concetti completamente nuovi attraverso associazioni di idee e l’utilizzo di linguaggi preesistenti. Meritano una menzione speciale i suoi “rayographs”: fotografie ottenute poggiando direttamente gli oggetti da ritrarre sulla carta sensibile.

Oggigiorno Man Ray, attraverso la sua capacità di sperimentazione, si rivela agli occhi del pubblico come un artista completo. Le sue opere, avvalendosi delle tecniche e poetiche più disparate, rappresentano la sintesi perfetta delle avanguardie della sua epoca e sono la dimostrazione dell’abilità dell’artista a creare un linguaggio innovativo personale.