Le 10 case più belle del mondo

Chiunque desidererebbe vivere in una stupenda dimora dallo scenario mozzafiato o in un vero e proprio capolavoro architettonico. Se per alcuni non può che essere un sogno, per molti altri è indubbiamente una piacevole realtà.


1. FALLINGWATER IN PENNSYLVANIA


La Fallingwater, meglio nota come Casa sulla cascata, è ubicata in Pennsylvania ed è stata costruita sul ruscello Bear Run utilizzando materiali facilmente reperibili nelle vicinanze, come la pietra.  Anche il noto regista Alfred Hitchcock  ne rimase talmente affascinato da sceglierla come set del suo film Intrigo Internazionale (1959) come abitazione del personaggio Vandamm.


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2. VERSAILLES HOUSE IN FLORIDA


La Versailles House è l’evidente dimostrazione di come il fascino della dimora di Luigi XIV abbia colpito persino gli americani.  David Siegel, il proprietario, ha deciso di costruirla appositamente per sé e la propria famiglia. E’ rivestita interamente con del legno brasiliano al suo interno, e con del marmo Pavonazzo all’esterno.


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3. SILICON VALLEY MANSION, CALIFORNIA


Anche la Silicon Valley Mansion s’ispira alla Francia e, più precisamente, ai castelli che sorgono lungo il fiume della Loira. Con il suo stile elegante e sobrio, incanta gli osservatori soprattutto per il gioco di luci  che si crea al suo interno, così come quello della fontana circolare posta all’esterno della casa.


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4. ONE HYDE PARK, LONDRA


One Hyde Park è sicuramente il grattacielo più caro al mondo. E’ dotato di innumerevoli gadget lussuosi, rivestimenti in marmodivani semicircolari ricolmi di cuscini. In generale, predilige forme semplici e lineari. “Detto semplicemente, non c’è niente del genere da nessun’altra parte”,  come ha anche dichiarato il proprietario di un’agenzia immobiliare


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5. CASA ANTILLA, MUMBAI


Il proprietario della Casa Antilla è Mukesk Ambani, l’uomo più ricco dell’India. L’abitazione, che si ispira al fiore di loto e al sole, ospita la famiglia Ambani nei piani superiori. I piani inferiori, invece, sono stati progettati per gli ospiti. La parte sottostante, infine, è adibita a garage per le auto della stessa famiglia.


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6. HALA RANCH, COLORADO


Hala Ranch sorge in una località montana sulle montagne di Aspen  ed è attualmente considerata una delle abitazioni più costose degli Stati Uniti. Inizialmente è stata costruita appositamente per il principe saudita Bandar bin Sultan che, dopo averla utilizzata pochissime volte, ha deciso di metterla in vendita. Il pezzo forte della casa è il salone, interamente costruito in legno di mogano e pietra. Oltre al salone, l’abitazione ospita: una stalla, una sauna, una piscina con cascata, un percorso privato di sci, due campi da gioco, un impianto di depurazione e persino una pompa di benzina.


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7. FLEURS DE LYS, BEVERLY HILLS


L’abitazione Fleurs De Lys, costruita dall’architetto Richardson Robertson III e ispirata alla Reggia di Versailles,  si estende per circa 4200 mq e possiede 12 stanze. La stanza che maggiormente riflette il gusto fastoso del palazzo parigino è il salone, con le sue pareti ricche di decorazioni e con stucchi dorati. Attualmente, è la dimora privata della cantante Mariah Carey, che l’ha acquistata per 125 milioni di dollari.


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8. THE MANOR, LOS ANGELES


L’abitazione The Manor, con le sue 123 stanze, è stata acquistata per 85 milioni di dollari da Petra Ecclestone, figlia di  Bernie Ecclestone.  Così come la  Silicon Valley Mansion, The Manor s’ispira ai castelli della Loira e a tutto il loro sfarzo. La scalinata dell’ingresso, costruita in marmo e  ferro battuto. Gli arredi richiamano lo stile parigino classico di Luigi XIV. 


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9. HOUSE OF REAF, RIO DE JANEIRO


Così come la Fallingwater, l’House Of Reaf rappresenta un esempio di costruzione organica attrezzata con le più avanzate tecnologie green. La casa delle foglie si caratterizza per l’altezza  degli spazi interni variabile dai 3  ai 9 metri. L’arredamento interno è prevalentemente in legno. All’esterno, la location è resa ancora più affascinante dal laghetto che circonda il patio.


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10. VILLA LEOPOLDA, FRANCIA


Situata in Costa Azzurra, Villa Leopolda si estende per circa 8 ettari e si caratterizza soprattutto per i suoi innumerevoli giardini. All’interno della tenuta, c’è anche un uliveto, una piscina dotata di una decorazione in marmo e un solarium. L’attuale proprietaria dell’abitazione è la vedova di un banchiere libanese, Edmund Safra. La villa, in origine, è stata costruita tra il 1929 e 1931 nel territorio appartenuto un tempo a re Leopoldo II del Belgio.


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Intervista a Paolo Barretta: Ho sempre una grande esigenza di raccontare

Paolo Barretta è un giovanissimo fotografo italiano, che nonostante l’età, si caratterizza per l’eleganza delle immagini dove lo spazio assume un carattere dominante. Servendosi dei soggetti ritratti e della geometria, riproduce un mondo altamente intimista ricchissimo di immagini potenti, richiami musicali e cinematografici. Ha inoltre partecipato al famoso talent di Sky “Master Of Photography” per l’edizione del 2018.


Fotografia e cinema: come s’incontrano nelle sue immagini?


La fotografia ed il cinema sono due mondi che viaggiano parallelamente nel mio immaginario artistico. Basti pensare che uno dei miei punti di riferimento in giovanissima età è sempre stato Gregory Crewdson, che reputo esser stato un pioniere della fotografia cinematografica e scenica. Personalmente, nonostante non mi piacciano le etichette, mi definisco un fotografo ritrattista, e fondamentalmente ciò che inseguo è un ideale intimo della stage photography. Cerco di unire la mia visione ritrattista ad un’impronta cinematografica, e ciò a cui aspiro è l’idea di riuscire a creare un nuovo modo, diverso, di vedere la moda.


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Può parlarci del suo ultimo progetto?


Il mio ultimo progetto, ormai di qualche mese fa, riguarda un viaggio in crociera trascorso intorno il Mediterraneo. Ho parlato della solitudine dell’essere umano catapultato in mezzo al nulla più assoluto, come riferimento esterno al mare che porto dentro di me.
Ultimamente, per lavoro e per mio diletto personale, mi sto dedicando meno alla realizzazione di progetti e più al fotografare le modelle con cui solitamente lavoro.


Reputa la fotografia una forma di terapia personale?


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Beh, assolutamente sì, in caso contrario non sarebbe mai arrivata fino a questo punto ben radicato della mia vita. In primis esiste la musica, ma subito dopo la fotografia.
La vera terapia però risiede nella prima, tramite cui riesco a creare immagini. E’ la base, l’ispirazione madre.


Come l’avvento dei social ha influenzato la fotografia?


Ha cambiato tutto radicalmente. La frenesia di caricare tutto sui social ha fatto sì che, specialmente nei giovanissimi, non ci sia più un senso critico e di selezione, ma essenzialmente la brama di pubblicare qualunque tipo di contenuto.
Chiaramente mi riferisco solo ed esclusivamente alla fotografia, in quanto altrimenti dovremmo affrontare un discorso gigantesco. Tutto è diventato troppo fast, nessuno ha intenzione di dedicare più di qualche secondo nella valutazione di un contenuto che gli si palesa davanti, e questa dinamica, a mio avviso, è molto pericolosa.


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Come concilia la ricerca estetica all’esigenza di raccontare?


Ho sempre una grande esigenza di raccontare. Ho sempre anche una ricerca estetica. Queste due peculiarità viaggiano insieme, motivo per cui non mi risulta complesso conciliarle perché già intrinseche in me. La mia ricerca estetica è sempre condizionata da ciò che voglio comunicare, e viceversa.


Come nasce la sua passione per la fotografia?


La grande passione, odi et amo, per la fotografia nasce una manciata di anni fa, in tenerissima età, durante un periodo di grande bisogno espressivo già iniziato qualche anno prima con la musica. Mi sono avvicinato alla fotografia per creare qualcosa di diverso e alla fine è diventata, spero ancora per molto, il mio lavoro.


Quali sono i fotografi o i registi che crede abbiano potuto influenzare la sua fotografia?


Crewdson come già accennato, Nolan, Laura Makabresku, ed Edward Hopper, che mi ha davvero illuminato.


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I soggetti fotografati sono sempre giovanissimi. Racconta qualcosa di loro o si serve di essi per dar voce a suoi sentimenti o pensieri?


I soggetti che fotografo non sono sempre giovanissimi, ma capisco la domanda. Tendo a non comunicare mai nulla della persona che ho davanti, ma la utilizzo per far sì che lei/lui comunichi ciò che è dentro di me. Dinamica a cui mi rifacevo molto di più qualche tempo fa, ora le cose stanno leggermente evolvendosi.


Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?


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I dettagli, la geometria, lo spazio, davvero tantissimo. Se sto scattando ritrattistica, ovviamente l’intensità di ciò che sto per creare, anche se tendo quasi sempre a considerare prima lo spazio che ho intorno a me.


C’è qualcosa che vorrebbe non trasmettere mai tramite le sue immagini?


Non vorrei mai comunicare estetica fine a se stessa. O che io mi occupi di moda. Credo sia errata. Non mi interessa la bellezza statica, non ho mai saputo cosa farmene. Non vorrei che le mie foto arrivino nella maniera sbagliata, ma credo fino ad ora, di essere stato su una buona strada.


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Intervista a Coma Empirico: I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti

Gabriele Villani , classe 1990, vive a Taranto, dove è tornato dopo gli studi a Roma dove ha frequentato il D.A.M.S.. Comincia a dipingere durante il liceo artistico, la sua formazione si amplia durante il periodo universitario nel campo della cinematografia e della scrittura.
Illustratore, disegnatore, appassionato di fumetti e da sempre interessato a spaziare nel campo dell’arte, dal 2016 è ideatore di “Coma Empirico”.


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Quando ha iniziato a disegnare?


Ho iniziato a disegnare da bambino, molto piccolo, mio padre mi comprava i fumetti di Batman, Superman e Topolino e io cercavo di ricopiarli.


Ricorda un aneddoto?


Mi piaceva disegnare sui muri, ma ero troppo piccolo e venivano fuori degli scarabocchi. Dicevo di voler diventare da grande un artista “pazzo”.


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Il disegno lo ha portato anche alla pubblicazione di un libro. Come è nata l’idea?


E’ nata prima l’idea di creare un personaggio, da questa poi quella di creare una pagina sui social per assecondare il bisogno di condividere alcuni dei miei pensieri. Non mi aspettavo di poter avere tanto seguito ma la cosa è andata avanti, sono nati altri personaggi e sono arrivate le prime proposte dalle case editrici. Quando mi sono sentito pronto ho raccolto alcuni dei miei lavori, ho aggiunto degli inediti ed è nato il primo libro “Tutta la notte del mondo”, edito da BeccoGiallo.


I suoi disegni sono introspettivi, quasi esistenzialisti. Qual è l’idea che prova a rappresentare meglio?


In realtà non mi prefiggo nulla, ogni vignetta parte da uno stato emotivo, lascio molto spazio all’istinto e poco alla ragione nella scelta del tema, cercando di sentirmi il più libero possibile. Una volta che affiora l’idea, il passo successivo è cercare di trovare la maniera più diretta e semplice per esprimerla.


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Nel disegno si mescola humor (molto sottile) e malinconia. Come si conciliano nel suo mondo?


Si conciliano nella costruzione di uno stile che risponde alle mie esigenze. Cerco di affinare il mio gusto personale e usarlo come metro di giudizio principale. Ciò che mi piace poi finisce con avere una certa coerenza, nonostante i temi che tratto siano spesso molto distanti fra loro.


Qual è l’aspetto che cura maggiormente mentre disegna?


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La chiarezza, la semplicità del tratto. Cerco di esprimermi in maniera diretta anche nel disegno, la parte difficile è comunque riuscire a tenere aperta la porta a varie interpretazioni. Mi piacciono i contrasti e le ombre.


Crede che il cinema abbia influenzato le sue immagini?


Sì, il cinema come la musica e la letteratura, ma non solo, tutto ciò che mi colpisce mi influenza.


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Sente di aver trovato il proprio stile?


Credo di aver trovato un principio di stile, ma forse ho ancora bisogno di affinarlo.


I social la influenzano, in parte, in ciò che intende trasmettere?


I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti. Quello che scrivo e che disegno è sempre una condivisione onesta di quello che penso e sento.


Che musica ascolta mentre disegna?


Ogni periodo ha una sua colonna sonora, poi ovviamente ci sono gli artisti che mi accompagnano sempre, uno su tutti Bob Dylan.


Nuovi progetti in cantiere?


Sì, tanti progetti: uno di questi sicuramente è un secondo libro, non una raccolta ma una storia.


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Le vignette di Coma Empirico esprimono riflessioni e affanni generazionali, propri di chi è alla ricerca di un posto nel mondo. Ricche di spunti esistenzialisti, sono divenute in pochissimo tempo virali nei social, conservando tuttavia quell’onestà intellettuale tipica di chi ha qualcosa di sincero da raccontare.


http://www.comaempirico.it/chi-sono/

Calendario Pirelli 2019, Albert Watson e i sogni delle donne

Dreamer” è il titolo del nuovo calendario Pirelli firmato dal fotografo scozzese Albert Watson e presentato a Milano, presso HangarBicocca .


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Come è possibile intuire dal titolo, l’attenzione del fotografo si sofferma sui sogni di quattro donne alle prese con le proprie vite e i loro obiettivi: Gigi Hadid, Julia Garner, Laetitia Casta e Misty Copeland.
Ognuna di esse è ritratta in stile cinematografico, in linea con la grande passione di Watson per il cinema. Si tratta di quaranta scatti in formato 16:9, sensuali, affascinanti e stracolmi di femminilità.


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Laetitia Casta interpreta una pittrice che fa il lavoro da cameriera, vive in un appartamento insieme al compagno (il ballerino Sergei Polunin) ma sogna un futuro in grande, come una brava e famosa artista.


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Julia Garner interpreta, invece, una giovane fotografa appassionata di botanica. La modella Gigi Hadid è una donna ricca appena separata dal marito che soffre la solitudine e che trova nell’ amico e stilista Alexander Wang, che le restituisce fiducia nel futuro. Misty Danielle Copeland incarna più di tutte l’intento del calendario: quando a 13 anni si affaccia al mondo della danza classica, le dicono che il suo corpo non è adatto.


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Watson ci restituisce, così, una visione positiva delle donne di oggi e sprona a non abbandonare mai i propri sogni, nonostante gli ostacoli che quotidianamente incontriamo o con i quali ci scontriamo.


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Helmut Newton e la tensione erotica dei corpi femminili

Helmut Neustädter, il vero cognome del corrispettivo inglese Newton, nasce a Berlino il 31 ottobre del 1920.


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All’età di solo otto anni, il fratello lo accompagna ad un quartiere a luci rosse dove lavora anche la nota Red Erna. La frequentazione di questi ambienti degradati segnerà profondamente la visione di Helmut e la sua passione fotografica.


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Gli inizi fotografici risalgono, in particolare, al 1961 quando si trasferisce a Parigi e ha la fortuna di collaborare per French Vogue. I suoi scatti faranno in breve il giro di tutto il mondo, affascinando per il loro grande potere provocatorio per l’epoca. Collaborerà, inoltre, con le riviste di moda più importanti di sempre.


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Fin da subito, dimostra un interesse per le donne: alte, slanciate, spesso sui tacchi alti, forti, sicure di sé e del proprio corpo. Il corpo femminile è catturato dal suo sguardo in pose provocatorie, ma al tempo stesso estremamente eleganti. Helmut è il primo fotografo a introdurre il nudo nel mondo della moda, non senza polemiche.


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Immediatamente, ci prese gusto a costruire intorno a sé l’immagine di colui che intende provocare. Lo spettatore diviene, pertanto, un voyeur involontario intento a spiare centimetri di pelle scoperta di modelle e donne note. A distanza di anni, Helmut resta uno dei fotografi più noti e interessanti, continuando a incantare e ad essere emulato.


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Nonostante ciò, egli resta unico nel suo genere: ogni singolo scatto continua incessantemente a coinvolgere, a raccontare e a sprigionare tensione erotica, anche in un mondo dove il nudo è a portata di mano e la capacità immaginativa scarseggia.


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Intervista a Kourtney Roy: “Voglio vivere vite parallele attraverso il mio lavoro”

Kourtney Roy è una giovane fotografa di origini canadesi, nota soprattutto per gli autoritratti che la ritraggono in travestimenti e situazioni sempre differenti. Interpretando stereotipi, spesso e volentieri dal gusto retro, in realtà non fa altro che distruggerli. Nelle immagini della Roy, tutto diviene magicamente altro, in una compenetrazione di realtà e illusione, quotidianità e alienazione, esistenza e fotografia.


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Qual è la sua idea di Fotografia?


Non ho un’idea di Fotografia. Semplicemente esiste e non dipende dalla mia soggettiva visione di essa.


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Quando ha iniziato a fotografare?


Ho iniziato a praticare la fotografia mentre frequentavo gli studi d’arte, quando ho cambiato laurea da “general fine arts” a “media studies”. Fino ad allora avevo fatto qualcosa a livello amatoriale, ho iniziato a fotografare seriamente solo dopo un corso extra.


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Esiste una relazione tra la sua fotografia personale e il cinema?


Decisamente. Ho scoperto il cinema un po’ tardi. La gente spesso guardava i miei lavori e veniva a dirmi: “Quest’immagine mi ricorda questo film”, oppure “Mi ricorda l’universo cinematografico di questo regista”. Mi hanno incuriosita e ho iniziato, in questo modo, a guardare film.


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Quali sono i suoi registi preferiti?


E’ sempre una domanda difficile a cui rispondere. Ce ne sono così tanti e la lista continua a crescere incessantemente, così come si affievolisce e scorre. Werner Herzog, Andrea Arnold, Jane Campion, Jean Pierre Melville, Nicolas Winding Refn, Early Spielberg, Douglas Sirk, Debra Granik. Ci sono anche tantissimi film che sicuramente non rintrano nella categoria dei registi preferiti: Animal Kingdom di David Michôd, Donnie Darko di Richard Kelly , Blade Runner di Ridley Scott , Wisconsin Death Trip di James Marsh, Don’t Look Know di Nicolas Roeg. Insomma, è realmente complicato tracciare una mappa di influenze e ammirazioni.


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Come vive la sua relazione con l’Autoritratto?


L’Autoritratto mi permette di vivere nei mondi che io fotografo. Fotografarli non è sufficiente, io voglio assolutamente vivere vite parallele attraverso il mio lavoro.


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Cosa può dirci riguardo gli ultimi progetti o lavori?


Ora, per oltre un anno, sto lavorando su un progetto in Canada su un’autostrada che registra un numero eccessivo di donne che sono sparite o uccise su di essa. Trascorro il mio tempo guidando sull’autostrada, dormendo in vecchi hotel e incontrando gente.


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La sua fotografia è un’esplosione di colori. C’è un motivo?


Il mondo è a colori, ed è semplicemente stupendo, voglio mostrarlo nei miei lavori.


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L’Arte può essere una terapia?


La miglior terapia.


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Intervista a Fabrizia Milia: Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia, e d’amore per la fotografia

Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.


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Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?


Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.


Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?


Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.


Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?


Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.


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Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?


La malinconia. La trovo poetica.


Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?


Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.


Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?


In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.


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Quale parola assocerebbe alle sue immagini?


Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.


Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?


Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.


Cosa preferirebbe non fotografare?


Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.


Come affronta i periodi di calo creativo?


Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.


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Intervista a Fabio Vittorelli: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”

Il milanese Fabio Vittorelli si contraddistingue straordinariamente per la capacità di catturare la magia della e nella quotidianità, con grande spontaneità. L’osservatore si stupisce tramite gli occhi del fotografo, non molto differenti da quelli infantili, e viene improvvisamente catapultato in un mondo non estraneo ma filtrato in maniera creativa. Il soggetto, pur appartenendo alla realtà, viene ritratto attraverso un punto di vista poco comune, scaturendo di conseguenza emozioni naturali ed estremamente umane.


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Come nasce la sua passione per la fotografia?


Fin da giovane, ancora adolescente, con una macchina fotografica allora analogica. Da allora la passione è rimasta, raggiungendo poi una diversa intensità nei vari anni.


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Le è capitato di fotografare in più parti del mondo. C’è una zona a cui è più legato?


Direi di no. In ogni luogo, cerco di rappresentare il mondo con cui interagisco. I contesti urbani, comunque, sono quelli che mi attraggono maggiormente.


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Quale crede che sia il filo conduttore di tutte le sue immagini?


Negli anni è progressivamente mutato il mio approccio con la fotografia. Ho iniziato con fotografie prevalentemente di architettura, poi mi sono avvicinato di più alle persone, che hanno iniziato a popolare le mie fotografie. Attualmente, le persone sono al centro di quasi tutti i miei scatti.


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Come si pone verso i soggetti ritratti per strada?


Cerco sempre di raccontare una loro storia, quello che vivono in quel momento, almeno, per come io lo percepisco. E’ un esercizio umano molto interessante: spesso non riesco a scattare nessuna foto, ma ho avuto lo stesso modo di vivere una parte della loro vita, dei loro pensieri. Bisogna imparare prima a stare in mezzo alla gente, nel modo più discreto possibile; la fotografia viene dopo. Credo anche che la fotografia di strada contenga una parte di magia. Il fotografo di strada può solo intuire una certa situazione, ma non può determinarla. Certe volte basta un attimo, altre volte, anche una lunga attesa può non portare a nessun risultato valido.


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Come definirebbe la Fotografia?


Credo che questa definizione di Neil Leifer possa rispondere a questa domanda: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”


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Qual è la sua idea di “buona fotografia”?


Una fotografia che esprima una sua verità, anche se parziale, la verità del fotografo e/o quella del soggetto fotografato: una fotografia che ci lascia dentro qualcosa è una buona fotografia.


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Come riconosce se una sua immagine è valida?


Faccio ancora molta fatica a essere critico con quello che scatto, ho spesso bisogno di qualche parere esterno oppure di far trascorrere del tempo, per avere un coinvolgimento diverso. E poi ci sono delle fotografie che sono valide per me e non lo sono per altri: ma forse questo è un lato positivo.


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Quali sono le differenze che incontra tra il fotografare per strada e ritrarre corpi femminili nudi?


Il passaggio più recente, ai ritratti e al nudo, è stato il passo successivo dello stesso percorso: ho cercato di entrare sempre di più in relazione con il soggetto fotografato, ma non in modo casuale come avviene nella street photography, ma in modo concordato, programmato, studiato. Questa è la mia fase di studio attuale, anche se la mia natura principale è sempre quella della foto di strada. Mi sono già reso conto, però, che questa fase attuale mi sta insegnando molto: mi rendo conto che questo esercizio mi è molto utile, anche nella fotografia di strada, che paradossalmente è molto diversa. Forse sto imparando un nuovo modo di interazione.


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Cosa ne pensa dell’attuale diffusione della fotografia come forma espressiva?


Siamo sottoposti quotidianamente a un grandissimo flusso d immagini, spesso però del tutto omologate fra loro. E’ positivo però che tutti ormai possano fotografare e condividere i loro scatti: la tecnologia ci ha fornito strumenti che anni fa non esistevano.


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Ci sono fotografi o registi che lo hanno ispirato?


Ci sono molti elementi che mi ispirano, è difficile dirlo. Una scena particolare di un film che magari rivedo molte volte, oppure uno spot pubblicitario particolarmente riuscito, un video su youtube, un quadro magari sconosciuto visto per caso in una mostra. Un po’ come nella street photography, ogni tanto il mio occhio cade su un soggetto o su di una situazione che sento in sintonia con qualcosa dentro di me. In ogni caso incidono sicuramente la pittura, fotografia e i film che vedo, ma anche i viaggi sono fonte di ispirazione.


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La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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Intervista ad Angelo Ferrillo: la fotografia è stomaco, non cuore

Angelo Ferrillo nasce a Napoli nel ‘74 dove intraprende gli studi di Ingegneria e si avvicina alla fotografia, formandosi da autodidatta. Attualmente si occupa di fotogiornalismo e di fotografia corporate, è photoeditor e docente di fotografia presso lo IED Milano, OFFICINE FOTOGRAFICHE Milano, CREATIVE CAMPUS Milano e FOWA University. Conosciuto al pubblico per la street photography e per i reportage, collabora attivamente con editori nazionali ed internazionali e con brand leader mondiali dell’urban style progettando e sviluppando immagini di social adv e brand comunication. E’, tra l’altro, membro del Direttivo AFIP International.


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Come e quando nasce la tua passione per la fotografia?


Non di certo quando mi hanno regalato la mia prima macchina fotografica. Un anno dopo circa. Quando mio padre per il mio diciassettesimo compleanno mi comprò una polaroid non rimasi proprio del tutto entusiasta. Poi iniziai a giocarci dopo quasi un anno e da li tutto in discesa.


Cos’è per te la fotografia?


Il modo migliore che ho di esprimere me stesso. Sembra una di quelle frasi da baci perugina, ma la realtà delle cose è quella. Per me, ma anche per tutti quei fotografi che si ritengono tali.


Cosa consiglieresti a chi vuole ottenere buone immagini?


Innanzitutto di abbandonare quella idea del sentimento. Quando si producono immagini (che una volta stampate diventano fotografie) si innesca un meccanismo per cui il tecnicismo prende il sopravvento sulla percezione sentimentale. Rendersi conto che una immagine prima di essere bella deve essere buona. Deve cioè raggiungere lo scopo per cui è nata: solo in quel momento si cortocircuita con i fruitori dei propri lavori


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C’è un aspetto che curi particolarmente quando fotografi?


Quello che succede. Mi deve catturare quello che sta succedendo. Percepibile o impercepibile. Non importa che sia sensazionale per tutti, ma deve attrarre in primis la mia attenzione. Credo debba essere fondamentale per la produzione di tutti. Se sono in fase di sviluppo progettuale porto tutti i tasselli al posto giusto, lasciando al caso solo la produzione dell’immagine finale. È l’unico modo che ho per rendere meno statico quello che vedo.


Come ti poni verso i soggetti fotografati? Interagisci o preferisci catturare soltanto l’immagine che hai nella mente?


Difficilmente interagisco con i miei soggetti. Non mi interessa il loro racconto. Dopotutto dalle mie immagini non si saprà mai chi sono, ma solo chi sono in quel momento per me. Nel caso in cui succeda deve succedere dopo. Mai prima. Se succede prima è perché le sto ritraendo e siamo in un ambito differente.


Come concili il fotogiornalismo con l’attività del docente?


Facilmente. Non faccio cronaca, quindi scegliendo le mie storie, gli approfondimenti, la progettazione, le partenze e tutto quanto, non influisce su tempistiche di calendario. Molte volte capita che progetti vengano sviluppati in viaggio/studio e quindi convivono anche nello stesso momento.


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Può una fotografia non essere autobiografica?


Assolutamente, se si produce senza essere fotografi. Il percorso personale è un progetto a lungo termine che ti porta ad essere le tue immagini. Nel momento in cui non ci sei tu (e succede) è semplicemente perché il tuo percorso formativo (non mi riferisco all’accademico) è ancora incompleto.


Qual è la difficoltà che incontri maggiormente nell’insegnare fotografia?


Riuscire a far capire che la fotografia è stomaco non cuore. La conoscenza è obbligatoria, ma il percorso poi deve evolversi e distribuirsi sulla propria pelle facendo leva su quello che si ritiene opportuno per la propria formazione e cosa invece va scartato. Ciò ci fa essere differenti l’uno dall’altro. Ecco, forse le regole accademiche sono difficili da abbandonare da parte dei miei allievi. Me ne accorgo quando di fronte a me ci sono alunni che non hanno una struttura conoscitiva della fotografia molto radicata. Faccio meno fatica. Molto meno.


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 Qual è il tuo atteggiamento verso l’errore?


L’errore fotografico a volte diventa la cosa giusta. Tutto quello che non puoi gestire è il tempo e quello che sarà l’evento. Puoi cercare di prevederlo, ma non saprai mai se sarà così. L’ho imparato a mie spese con una fotografia realizzata a Berlino, dove ho imprecato per un’ora nei confronti di una bambina che mi ha inquinato la scena. Col senno di poi, quella bambina l’ha resa migliore.


È mai successo che una persona, per strada, si sia infastidita dagli scatti?


Succede. Ma lo spirito di solito è quello di avere un atteggiamento positivo. Sapere cosa dire, sorridere sempre, essere accondiscendente e portare il soggetto nel proprio spazio aiuta. Quando dicono “non puoi” ho il dovere di far capire che non si tratta di una cosa vietata, ma al massimo di una cosa che il soggetto non vuole.


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La fotografia di Angelo Ferrillo spicca indubbiamente per la ricerca di un punto di vista inusuale, proprio, creativo. Al tempo stesso, è solo la porzione di una realtà che, spesso e volentieri, ha molta più fantasia di noi.


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Marco Pesaresi e l’amore: l’umanità, la poesia e la fotografia

Se oggi fosse in vita, il riminese Marco Pesaresi sarebbe sicuramente uno dei fotografi italiani contemporanei più abili. “La mia fotografia prende corpo – nasce – da tradizioni contadine, di campagna; e si sviluppa nella poesia del mare d’inverno; accompagnandosi a immagini di libertà, di emancipazione, di trasgressione nella notte. Però, comunque, nasce dalla campagna. Io amo questa terra, la amo con tutto il cuore. Ne amo i luoghi, mi piacciono i luoghi. E poi mi piace tantissimo – questa terra – perché muta in continuazione. Nulla è mai uguale all’anno precedente, tutto è in evoluzione continua. Più soffro e più mi affanno nella ricerca della poesia. Più sento che dentro di me vivo situazioni di disturbo, difficili – cose che purtroppo nella mia vita continuamente incontro – più il mio sguardo si addolcisce. E più cerca la serenità l’armonia delle immagini. E qualche volta le trova.” Con queste parole Marco parlava del suo amore per la sua terra, Rimini, alla quale dedicò anche il suo ultimo lavoro, e al tempo stesso per la poesia, tanto ricercata e altrettanto sofferta.


THE SUBWAY: TIMES SQUARE. A YOUNG COUPLE KISSING. LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.
THE SUBWAY: TIMES SQUARE. A YOUNG COUPLE KISSING.
LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.



Marco era infatti attratto dall’umanità, in tutta la sua complessità. Non a caso avvertiva l’esigenza di scavare nelle problematiche sociali e nell’inferno personale degli altri per provare a sentire di meno il proprio. “Underground” è il titolo del suo progetto, forse il più riuscito, dedicato alla gente incontrata casualmente per le metropolitane delle più grandi città. E’ difatti il dipinto di grande impatto visivo della vita, un dipinto onesto, commosso, colorato. La sua fotografia è il riflesso di una sensibilità estrema , sia artistica che umana. E’ una fotografia irrequieta, una ricerca di serenità attraverso i propri occhi e la vita degli altri. E’ un amore intenso, che si scaglia forte e s’imprime con naturalezza sulla pellicola.


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La giornalista Renata Ferri ha parlato dell’amore di Marco per la fotografia, in questi termini: “Per fortuna c’era la sua Rimini, dove tornava e dove tutto quel male del mondo diventava malinconia. Come un poeta, sapeva trasformare le sue affollate visioni del mondo in spazio, cielo, mare, terra delle origini e profumi portati dal vento. La sua fotografia si trasformava, toglieva il colore e restituiva solo poesia. Non più periferie dell’umanità e volti di mille razze, ma silenzio e distese, dove lo sguardo, il suo e il nostro, può essere infinito. Marco amava e odiava tutto quello che aveva con violenta intensità. So per certo che la fotografia è stata la stagione più bella della sua vita e siccome so che è stata una stagione lunghissima, credo abbia vissuto, dannato ed errante, intenso e visionario, l’unica vita possibile.” La fotografia è stata per Marco una valvola di sfogo, il mezzo di cui si è servito per incanalare le proprie visioni e quell’irrequietezza che tanto lo faceva soffrire.


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Marco ha cessato di vivere nel 2001 gettandosi con la macchina nel porto di Rimini, nel mare della terra che aveva spesso fotografato con una vena malinconica. Nonostante la morte fisica, il suo punto di vista, così intenso e bramoso di poesia, continua a scorrere con maggiore intensità affascinando, emozionando e continuando a suscitare grande ammirazione. Dopo aver amato per tanto tempo la gente, ora è la gente ad amarlo intensamente. Tutto ciò è possibile anche grazie all’amore e alla sensibilità della madre Isa, che si prende cura della conservazione e della diffusione dell’archivio fotografico del figlio.


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