“Essenziale, nardo e nasi” – L’esperienza dell’avere e l’avere esperienza

L’ESPERIENZA DELL’AVERE E L’AVERE ESPERIENZA

(da “Prima che il peggio accada” Angelo Orazio Pregoni)

La prima volta che compresi il concetto di proprietà avevo nove anni. Eravamo stati sfrattati, i miei genitori erano disperati perché avremmo dovuto lasciare quell’appartamento che era casa nostra, o forse no. Ma il dramma dello sfratto, pochi giorni dopo, si stava manifestando con cinica disumanità sull’unico mio vero patrimonio personale: la porta della cameretta. Mia madre stava tentando di ripristinare l’unica anta, raschiando via ogni figurina asimmetrica che avessi appiccicato: c’era Gimondi, l’uva e la mela di Fruit of the Loom, gli ammortizzatori Sachs, Jackie Stewart Wrangler, un apache con due piume bianche, San Marino, la Torre di Pisa… Questi mi ricordo. Ma ce n’erano centinaia di adesivi. Un secchio d’acqua, qualche lametta, l’alcol e vari porcogiuda, mi rubarono la prima cosa che sentissi davvero mia: la porta della mia cameretta, che senza quegli adesivi non era più la stessa. La fissavo per ore, prima di addormentarmi la notte, combattendo contro l’asma che solo cinque anni dopo scoprii essere dovuto alla collezione di pelouche di mia sorella e a quella poltrona (non mia, come vedete), a quella poltrona dei Ricchi e Poveri che mio padre aveva acquistato per dieci mila lire prima che la buttassero in discarica. Era una poltrona letto, con un tessuto optical di cerchi marrone, giallo e arancione che a me sembravano fiori dall’aroma di caffè e castagne. I Ricchi e Poveri avevano svuotato una sorta di studio prove, e a mio padre riuscì di aggiudicarsi l’unica cosa da poveri e non da ricchi, la poltrona in molle con materasso in gommapiuma spesso sette centimetri incorporato. Quella poltrona mi seguì e torturò ovunque. Un paio di anni dopo divenne marrone a scacchi bianchi, con odore di rovere e margherita, fino a quando, a quattordici anni compiuti, acari della polvere e graminacee furono l’esito ai test allergici, e mi fu regalato un letto. Un letto vero, sotto un armadio che definivano “a ponte”, forse perché rasentando la finestra sulla strada, convogliava i rumori delle auto e i fanali dentro i miei sogni. 

Mi capitò di rivedere una poltrona quasi identica, ma dall’odore di edera e birra, dentro l’appartamento di Susan, a Canterbury. Anche la mia porta era stranamente nella sua camera, uno specchio di due metri contornato dagli adesivi di Madonna, dei Bronski Beat, con in cima l’occhio tutelare di un triangolo con il marchio Triumph, e attorno tutti quelli prismatici dei Kiss che riflettevano la luce in tante micro-piramidi.  Lei era la mia professoressa di inglese, e quel giorno mi avrebbe consegnato l’attestato di frequenza estiva. Profumava di pane imburrato, aveva ventitré anni e la sua pelle spingeva fuori bianche note di latte e pallore. Io ne avevo quindici e i batteri lattici, tra le pieghe rosa della sua vagina, mi resero rosso, ma non di vergogna.

Lei se ne stava a letto mezza svestita, sventolando il mio diploma di frequenza con un sorriso che pareva suggerire “promosso”, tenendomi in bilico tra l’adolescenza del giorno prima e la frustrazione di ogni scelta da adulto del giorno successivo. “Qui, ora, tutto” sembrava la migliore delle lezioni che potesse darmi, sadicamente disposta a non vedermi mai più, insegnandomi che l’amore si sperimenta solo per abbandono. Quindi lei come faceva? Come poteva sopravvivere al giorno dopo, all’assenza? Perché gioiva? Forse non mi amava? 

Nella successiva settimana (adesso londinese) mi ritrovai ospite di due ragazze argentine appena più grandi di me, una delle due era maggiorenne da poco. Vivevano da sole con un pastore tedesco accampate in una minuscola abitazione con amici di vario genere ed etnia. Ero arrivato a Londra da solo, e, telefonando da una cabina vicino Trafalgar Square, mi autoinvitai a casa loro facendo in modo che l’iniziativa non fosse mia. Mia zia, che poi era una cugina di mio padre, spartana come solo gli esuli sanno essere, mi disse che sarei dovuto partire prima, perché lei, argentina di Reconquista, e suo marito, inglese con una riproduzione gigante in sala di un francobollo da mezzo penny del 1891 delle isole Falkland, aspettavano ospiti improvvisi. Decisi di andare a Londra e non tornare in Italia, forte di quel numero di telefono che mi avevano lasciato quelle due ragazze orfane, invitate da mia zia Paula ogni tanto per un thè a Canterbury in memoria e ipocrisia del ricordo della loro defunta madre, sua amica di gioventù: “La puta madre!”, la definiva così.

Per farla breve, con quelle due ragazze praticai altre forme di amore, imbarazzato sempre meno dai retaggi del seminario che avevo abbandonato un anno prima, e cominciando a pensare che se la salvezza dovesse essere figlia della sofferenza, quegli orgasmi gioiosi mi avrebbero dannato.

“Io e mia sorella non abbiamo mai conosciuto i nostri relativi padri! Sopravviviamo in questo buco più per debolezza che per egoismo!”, mi disse Sandra, la più grande, “Non pensiamo cosa faremo domani, ma perché non siamo morte ieri, in quell’auto con nostra madre. Scopare ci fa stare bene, non saprei… Forse per gli abbracci.” Ecco, quelle parole mi confortarono di un inferno futuro perlomeno condiviso con persone empatiche, e ridevo davvero con Sandra e Rafaela quando si scambiavano consigli su come si lascia un uomo dopo essere state scoperte con un amante: 

“Ti ho tradito, ma ho dormito solo con te!” diceva Rafaela con una matura femminilità tipica di un gentleman.

“…E comunque quando dormo è te che sogno!” concludeva Sandra con l’esperienza quasi virile di mille anni vissuti e diecimila uomini mammoni incontrati. 

E io ero invecchiato in quel mese di luglio, e se è vero che la vecchiaia ci rende saggi allora meritavo un ulteriore attestato, non di inglese, ma di vita.

CARA_PACE opera di Angelo Orazio Pregoni

(foto in copertina vintage.it)

“Essenziale nardo e nasi” – L’odore della Pasqua

L’ODORE DELLA PASQUA

Quanti giorni santi ci sono nella settimana prima di Pasqua?

Escludendo la domenica, direi sei.

E di cosa profumano?

Probabilmente nessun giorno avrebbe odore di cioccolato, e nemmeno di balsami e unguenti e lenzuola di lino e sangue rappreso e resurrezione. 

Neanche un uomo, ai giorni nostri, passa dalla morte alla vita: per quante uova possiamo schiudere, non troveremo mai un nostro defunto resuscitato.

Forse la morte odora di un’altra vita? Non lo so, non ho ancora provato. 

Di sicuro c’è una Pasqua di questi tempi…C’è un popolo che “passa oltre”: senza il sangue di un agnello per segnare le porte delle loro case e sottrarre alla morte ogni figlio primogenito, senza pane azzimo o acqua di mare che si apra creando un varco, verso la fine della schiavitù.

Dunque, che odore hanno i giorni santi prima di Pasqua? 

Lunedì.

Bohdan ha un orsacchiotto. Lo ha portato da casa, prima delle bombe. Ci ha camminato insieme, tenendolo per una zampa morbida di peluche. Dopo due giorni di viaggio, Bohdan è stanco, i piedi si impantanano nei campi e l’orsetto Tommy gli cade in un acquitrino, ma la mamma lo pulisce e Bohdan smette di piangere. Poi la mamma è morta, ma Bohdan ha continuato a camminare, seguendo un gruppo di estranei anch’essi sporchi di fango e terrore. Era lunedì, l’aria odorava d’erba e letame e la mano sinistra di Bohdan profumava ancora… di mamma.

Martedì.

Alisa viveva al buio da dieci giorni: rinchiusa nello scantinato di una scuola, con altre dieci famiglie: trentasette persone in diciotto metri quadri. Era uscita per fare pipì; alcuni di quelli coatti, ormai, per la paura di montare le scale sino al primo piano, se la facevano addosso. Al primo piano c’era un unico secchio che chi riempiva aveva l’onere anche di svuotare dalla finestra. Alisa non mangiava da quattro giorni, e non defecava da almeno due. Si abbassò con un unico gesto i leggings e le mutande, si chinò, piegò le gambe evitando di toccare il secchio con la pelle, infine alzò lo sguardo e vide il soldato. Era martedì, l’aria odorava di sudore e sperma e il banco scolastico sul quale la stesero profumava ancora di gomma da cancellare.

Mercoledì.

Denys era riuscito a mettere in moto l’auto. Fumo, parole russe, uomini legati in ginocchio, donne in lacrime, la strada, agitazione, la strada, la strada… Sul ciglio vide un bambino barcollante, correva lungo l’asfalto. Gli gridò di salire a bordo, ma il suo urlo fu investito da un proiettile perforante sparato da un carro armato. Era mercoledì, l’aria odorava di pioggia e carne bruciata e i sedili smisero di profumare di pelle nuova.

Giovedì.

Sacchi neri. Plastica… Autolisi, gonfiore, decadimento, putrescina. L’odore di quella fossa comune è di naftalina, scatolo, zolfo e indolo. Si asciuga la fronte Alexey, spostando il berretto, e s’accorge che l’esalazione della polvere argillosa alzata dalla pala non gli è mai sembrata così poco umana, così ostile e ammalata. Se quella sensazione olfattiva avesse una voce sussurrerebbe: “Aiuto!”, come se la terra stessa avesse divorato l’essenza della vita e volesse vomitarla fuori.

Venerdì.

La minestra saltata per aria. Era di verdure (poche) e patate a pezzi. Iryna stava cucinando all’aperto, una zuppa dopo tanti giorni. C’era lei e c’erano altre donne: dentro un pentolone, giravano con un mestolo la loro voglia di sopravvivere, accanto alla chiesa piena di torture e cadaveri. Poi l’odore della cipolla divenne acre, sapeva di pesce marcio quel Venerdì Santo, e faceva caldo, più del fuoco sotto la pignatta. E piovve fosforo infiammato giù dal cielo e poi tutto fu diverso: a pezzi anche quello, come le patate.

Sabato.

Non serve l’abito per la festa. Tutto finisce presto, con la comunione e la remissione di tutti i peccati.

Un colpo in testa. E il piombo attraversa il tuo cranio, il tuo cervello e ogni perché sei stato vivo sino a quell’istante. Odore di mandorla amara. Mi chiamavo Roman. Amen.

Domenica.

“Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.”

E il giorno dopo, qualcuno, prima morto, rimase morto. 

Ma tutti i vivi si alzarono ancora, perché il coraggio di stare (e restare) liberi ha sempre avuto poteri di resurrezione non eguagliati da nessuna fede: chi viene dalle fosse conosce la morte e conosce la vita, e ha smesso di temerle entrambe, chi viene dalle fosse non ha più catene né mai le avrà.

Chi viene dalle fosse è in pace. Chi viene delle fosse siede alla destra del Padre.

Dipinto olio su tela CARA_PACE di Angelo Orazio Pregoni

(in copertina Le tavole della Divina Commedia)

“Essenziale, nardo e nasi” – L’odore del narciso

ESSENZIALE, NARDO E NASI” L’ODORE DEL NARCISO

“Ci incontrammo per caso, o meglio ci scontrammo: io stavo uscendo dal portone per portare Dorian con la sua premura di pisciare al parco (erano le sette di mattina), lei stava andando in ufficio per un problema con un cliente e la sua premura di risolvere (erano le sette di mattina). Dorian uscì per primo dal portone tirandomi dietro, aggrappato al guinzaglio di cuoio; la bicicletta correva sul marciapiede con a bordo una mantella di lana e due occhi assonnati. L’incidente avvenne in quello spazio: tra la mano e il setter, lungo il guinzaglio. La bici si impennò e Pamela fu proiettata per aria e poi a terra, sempre avvolta dalla sproporzionata sciarpa che ora sembrava una coperta.”

Così inizia il bellissimo romanzo di Osman Entanic’saffa (Osman Smith): “Amore mio sotto il plaid”, che in inglese credo sia “Love for love”.

L’autore (californiano ma di origini turche) si mette a nudo, rivelando le debolezze e le angosce di un rapporto di coppia tra due narcisisti. 

Orfano già dall’età di sette anni, Osman ammette di avere una totale incapacità emotiva; non piange mai, non soffre mai, insomma non prova empatia per nulla e per nessuno: “Avrei voluto avere dei genitori solo per trattarli male!”

Sino a Pamela, a quell’impatto sul marciapiedi, all’ambulanza e alla successiva frequentazione.

In sole due settimane, Osman e Pamela si conoscono, si innamorano, si detestano e si tormentano. Le scene, tra dramma e comicità, si susseguono pagina dopo pagina, come in un elenco di appunti che non portano mai a una vera e propria trama: non c’è soluzione alcuna tra i protagonisti, solo inizi e ancora inizi.

Lei lo insegue per strada, in pigiama e armata di una padella, per poi rendersi conto che il tegame era sporco.

Lui la tradisce con una diva di Hollywood, che poi lo denuncia per molestie sessuali.

Lei gli confida di essere bulimica, e lui si accorge di essere guardato come si guarda una fetta di torta vomitata.

Lui ammette di sentirsi attratto dalle cose nuove, e lei realizza di essere guardata come si guarda un abito smesso. 

La storia tra i due termina davvero dopo appena quindici giorni, lasciando tuttavia lunghe ombre e inquietudini. In un ospedale, sorseggiando un caffè dentro un bicchiere di plastica, Osman, prima di andare via per sempre (o quasi), le sussurra all’orecchio: “Ti ho amata per le tue cicatrici, ora ti odio per le ferite che mi stai lasciando.”

Dopo aver dato fondo alla riserva di illazioni reciproche, i due amanti vivono nella reciproca ossessione e si riavvicinano e si lasciano altre sette volte nell’arco di un anno. Pamela si crea nuove cicatrici, tagliandosi le vene, Osman sopprime il suo setter irlandese per evitargli la vecchiaia, ma poi se ne pente e si butta giù da un ponte. Nessuno dei due muore e nessuno dei due riesce mai ad accorgersi dell’amore dell’altro.

Nella versione cinematografica, c’è una scena aggiunta voluta proprio dallo scrittore che ha curato anche la sceneggiatura. Nello squallore di una camera di un Motel qualsiasi, dopo l’amore e le reciproche sadiche umiliazioni, Pamela lo abbraccia con i polsi fasciati, sfiora il collare che Osman indossa dopo il trauma cranico e seducente gli confida: “Sei un perverso! Fingi di amarmi per compiacerti e menti solo per essere amato.”

Questo romanzo ha una portata emotiva vastissima. È l’alba ed è il tramonto, è l’ansia della colpa e il desiderio di sbagliare, è, malgrado le illusioni di onnipotenza dei protagonisti, il fallimento dell’essere umano.

Alla fine, nell’ultimo capitolo, dopo pagine di odio e amore, l’autore si rivolge al lettore e lancia un invito a riflettere sulla nostra quotidianità: “Ehi tu, sei sui social? Stai usando filtri? Ti sei fotografato nel cesso di casa con la tavoletta alzata? Hai mostrato i tuoi piedi pari? Lo hai fatto senza vergogna? Allora credimi, anche tu sei drogato di te stesso. E se provi piacere a farlo, a celebrare questo culto dell’ego, allora sappi che non sei più bello di me.”

N.B.

Se hai letto fino in fondo questa breve recensione, o sei hai letto il romanzo, o se non l’hai mai neppure sentito nominare, comunque meriti che ti riveli la promessa del titolo: qual è l’odore del narciso?

È quello del tuo cuscino. È l’odore delle tue notti, del tuo sonno e dei mille specchi che chiami sogni: quelle maschere che indossi senza paura dei like, quelle bugie che ti ricordano la tua verità.

“Ad occhi aperti, sei solo irrilevante… E hai persino paura di ricordare l’ebbrezza di quei sogni. Finisci di leggere! Con l’ultima riga terminerà anche il tuo disprezzo per queste mie parole. L’alcol non serve a niente chiuso dentro la bottiglia. 

Sei tutto, quando sei fuori di te, e sei nulla, quando ti scavi dentro!”

NIGHTI_HE NB opera di A.O.Pregoni

(in copertina – La notte (1961) di Michelangelo Antonioni)

“Essenziale, nardo e nasi” – L’odore dell’amore

L’ODORE DELL’AMORE

Conseguire il successo o rincorrere i soldi non erano mai state le sue priorità anche se, agli occhi del mondo, Laura Elena Formica appariva come una delle donne manager più capaci e di successo. A maggior ragione, la sua posizione di leader aziendale nel settore petrolifero assumeva ancor più valore per via della diffusa misoginia dell’ambiente. Avendo comunque preferito la carriera di analista e poi dirigente, sino al ruolo di CEO, tra le fila di un’impresa operante negli idrocarburi, Laura Elena Formica non trovò mai il tempo (e nemmeno l’utilità) per l’amore.

La sua vita privata? 

Poche cose: alcuni hobby (collezionare puffi, bere buon vino, seguire corsi di pilates), zero relazioni con parenti o amici, accumulare dati statistici, suddividere ogni cosa apparentemente astratta in percentuali concrete e soprattutto praticare molto sesso. 

Era assuefatta al sesso come alla puzza di naftalene.

Consumava sesso occasionale con la semplicità con cui si ordina sushi d’asporto, e tra quegli uramaki, di pochi convenevoli e riso scotto, neanche una volta la foglia interna di alga nori le sembrò qualcosa di diverso da una alga: in quel cibo consueto mancava il sapore del mare, il profumo delle onde. Non trovava nessun godimento tra i semi di sesamo nero o bianco o le uova di pesce volante, nulla che potesse appagarla meglio o di più di un pc, un sex toy e la roca voce di velluto di Dean Martin. 

Ogni giorno, persino dopo il sushi, le canzoni di Dino Crocetti e i video di giovani ragazze senza soldi alla ricerca di un modo per pagare il taxi erano il suo rito per rilassarsi: un segreto tra lei e il suo provider.

E poi, le tragiche esperienze con “quelli del lavoro”, un paio di faccendieri suoi sottoposti: il primo, nonostante la spavalderia, un succube che soffriva di una forma congenita di “pene sepolto” e si faceva frustare con stringhe di liquirizia lunghe un metro prodotte in edizione limitata da un parco giochi; il secondo, un inetto che le fece tenerezza solo per quella sfumatura di biondo che le ricordava Arturo, il suo defunto golden retriever. 

Quando ormai tutto le sembrava prevedibile, per non dire banale, incontrò Birger, Birger Olsen: un operatore norvegese (di una compagnia petrolifera affiliata) “Responsabile della sicurezza e Valutatore degli impianti offshore e della felicità di Laura”.

I capelli di Birger erano densi e viscosi di colore cangiante da giallo a bruno scuro, gli occhi neri avevano una leggera fluorescenza da verde ad azzurra e infine l’odore che emanava era liquido, tangibile, dissetante e conteneva disciolte infinite sfumature gassose e piccole punte acute ossigenate, solforate, azotate. 

Fecero l’amore.

Laura si sentì per la prima volta un giacimento pronto a esplodere sino alla superfice. Il corpo di Birger si muoveva fluidamente: un fisico grassoccio ma rigido allo stesso tempo, come un minerale di gomma sagomato e sagomabile “su misura”. 

Birger penetrò ogni falda del corpo di Laura, a variabili profondità: perfino di chilometri, se la misurazione avesse potuto comprendere gli spazi tra la sua anima e il piacere, oltre… e infinitamente distante dalla carne.

Laura Elena Formica in cuor suo, da sempre, sperava di incontrare quell’uomo, quell’amore: lo sentiva, lo immaginava, lo sognava… Ma si rese conto immediatamente, con sgomento e razionalità, che due solitari come loro avrebbero potuto vivere insieme esclusivamente nella prospettiva di continuare a essere soli.

Si salutarono, si promisero di rimanere in contatto, di rivedersi, e tuttavia di scriversi. Ma non accadde.

E quando pensa all’amore, ormai trascorsi tre anni da quell’amplesso, ancora oggi Laura si ricorda ogni istante trascorso con Birger. Rammenta tutto, addirittura i dettagli più piccoli e scabrosi: l’onicomicosi sull’unghia dell’alluce destro, i peli sottili sopra l’ombelico, il sapore dello sperma dal gusto di vaniglia per lo 0,01%, di ananas per lo 0,2% e di kebab per lo 0,12%, per il resto… sapeva di fiordo.

In qualche tempo, un giorno come tanti della vita di Laura, un uramaki, conosciuto in uno speed date, cinicamente le chiese se fosse mai stata innamorata. 

Sorseggiando un merlot con un taglio del 10% di cabernet sauvignon, lei rispose:

“Una volta! Una volta soltanto. Ma erano onde e profumavano di istanti, al cento per cento.”

Hip Hip Judith, opera di Angelo Orazio Pregoni

(immagine di copertina Cary Grant e Ingrid Bergman)

“Essenziale, nardo e nasi” – L’odore della Guerra

L’ODORE DELLA GUERRA

Non ricordo i nomi delle strade o delle vie, ma rammento i volti, le tante persone che ho conosciuto.

Kateryna mi sorprese portandomi un fiore, me lo regalò poco prima dell’inizio dell’evento. Fu un gesto di rara semplicità e privo di malizia: si avvicinò a me mentre il suo ragazzo la osservava a pochi metri di distanza, e mi porse una rosa: eretta, timida e profumata.

Ogni tanto una donna si annusava il polso, una, due volte e poi mi abbracciava: “Vuoi essere il mio marito italiano?” mi chiese Irina ridendo con gli occhi pieni di quell’ironia che è il miglior antidoto contro ogni forma di seduzione.

Ero stanco di raccontare i miei profumi ed ero stanco di spruzzare ogni lembo di carne mi mostrassero: gelsomino, fava tonka, pepe rosa, mela rossa, benzoino, cardamomo, magnolia, camomilla romana, sandalo, ylang ylang, fico, alloro, mirra, castoreum…era tutto nell’aria, nebulizzato come gli sguardi pieni di vita.

Avevo perso un paio di partite a scacchi bevendo cioccolata calda, anzi ero stato umiliato, davvero! E la cosa mi faceva ridere, non riuscendo a trovare impeto agonistico in quel che non so fare. Avevo cenato, avevo camminato, avevo bevuto, avevo stretto centinaia di mani e odorato il collo di decine di donne sinuose come cigni, pericolose come gatti che mostrano la pancia. 

Alle tre di notte, avevo mischiato le carte e trovato quella giusta in un mazzo da poker, nella sosta tra una mano e l’altra, presentato come un “grande mago” dal punk sessantenne che gestiva la bisca priva di alcolici. Giochi di prestigio…

Che odore aveva Kiev?

Quello delle donne, dell’azzardo, dell’amicizia spontanea e anche quello dei miei profumi.

Quante narici sotto questo ponte. Ognuno ha le sue due narici. Due di tutto, o quasi. Un signore ha perso la mano destra, ha fasciato il moncone con della stoffa e odora di metallo rosso e fumo. 

Un cane beve da un tubo esploso sotto l’asfalto, ha un collare con una medaglietta a forma di osso, da chi ritornerà? 

Una madre allatta al seno, e mi viene fame. 

Bruciano copertoni, ovunque, sembrano milioni di Narciso Rodriguez in fumo. Il gas è nell’aria come il pericolo di una pentola d’acqua bollente trasbordante che ha spento il fuoco. Non c’è nessuna finestra da poter aprire; spero che il vento non si raffreddi e che non smetta di portare lontano questo sudore di terra e spavento. Non sappiamo chi o cosa stiamo aspettando, ci stringiamo alle nostre coscienze con la certezza di qualche razionale motivo deciso da qualcuno più intelligente di noi: più esperto, più audace. Siamo migliaia sotto al ponte, e ognuno crede di essere l’unico a non conoscerne il motivo: un altro mondo, un altro modo di vivere o sopravvivere. Mi fido dell’intuito delle donne (tante) e quindi anche del mio. 

Restiamo immobili: ferocemente pazienti, da quattro giorni.

Dopo l’oro e i diamanti e il lusso e i profumi ora sono i nostri corpi che pretendono: siamo quello che i russi hanno di più prezioso, noi come gregge loro come lupi che si pensano pastori.

L’acre aroma della polvere da sparo mi ricorda Capodanno, e il sangue che esce dagli occhi di quella donna ha lo stesso impeto di uno spumante: sembra caldo come le sue grida e il suo pianto di sale che “la disinfetta”, dice uno.

Una guerra contro i gay, hanno proclamato una “santa” guerra; e pensare che nei film i gay sono amici di tutti.

Ma sì, distruggete Sodoma e le sue madri e i loro figli! Ipocriti. Immagino che ucciderci sembrava una buona idea sul momento, coprirci con due metri di detriti, nasconderci nell’oblio: “Ehi ragazza ucraina, stai per morire!” 

“Grazie! Me l’aspettavo.”

Forse la morte sarà più bella della vita. Oppure… dovremmo muoverci, dovrei provare a salvarmi, correre. Non riesco.

Ho fatto l’amore a quindici anni, non mi scandalizzo di morire a venti.

In tasca ho uno snack, ma mi vergogno e lo lascio lì, con le sue mandorle, i cinque cereali, le fragole essiccate e le sue settantacinque calorie. 

Un tizio ci raccomanda di non respirare l’aria perché è tossica: “Troppe polveri!”. Cosa dovremmo respirare? Non ho neanche una mascherina con me, nemmeno i documenti. Non ho acqua, non ho cambi, non ho il mio gatto, non ho metri di distanziamento sociale, non ho idee, non ho buonsenso, non ho un reggiseno, ho solo paura… e profuma di brioche, di panna acida e ricotta, di buccia di limone, profuma di desiderio, di sochniki.

Nessuno è riuscito a portare molto con sé, se non il battito del cuore, le vie urinarie, il tunnel carpale, la miopia, la gotta, il diabete, la dentiera, la prostata, il mestruo, il rush cutaneo e i ruttini… Qui sotto, siamo solo anziani, donne e bambini.

Quando la corrente gira sembra di essere in un caseificio: l’olezzo dei corpi e delle ferite e della merda dei meno coraggiosi ci ha trasformato in una massa di potenziali cadaveri, eppure è vetriolo e fiamma a scorrerci nelle vene. 

Una bomba ha acceso il cielo nonostante il giorno. Gli uomini combattono come tigri e muoiono come bambini durante la ricreazione alle elementari: spesso tra le fiamme di un’esplosione, tra i vapori ustionanti che deflagrano i loro corpi, cuocendoli più rapidamente di qualsiasi fast-food.

Ricordi di cheratina bruciata, doppie punte, doppia morale, un indizio, un popolo, unica fine.

Piango anche io, ma in silenzio senza cercare sguardi. 

“Non piangere, o se vuoi piangi per loro che ci stanno ammazzando!” mi consola una signora.

Le lacrime hanno il sapore di Odessa. Sono solo una giovane ucraina con un futuro da inventare, non sono una Dea, non sono Venere… e la spuma del mare. Ho paura, non riesco a smettere.

Vorrei regalare un fiore a qualcuno: una rosa che spezzi l’odore dell’angoscia, dei morti, degli edifici crollati, del cemento, della benzina, delle armi. Ma la rosa è svanita, non esiste più. 

È un peccato puzzare? Non c’è rimedio. Probabilmente serve a compensare questa nefandezza: scacciare il peccato con il peccato. La natura ci riporta a sé, ci pretende: perché questa puzza di vissuto, così terribilmente preistorica, ricapitola l’universo intero. 

E sembra sia questo l’odore della fine, come fu quello dell’inizio: semplicemente un odore umano. 

La morte, dunque, è talmente naturale che il suo odore di martirio e di vita confina con ogni sogno di libertà. Almeno con il mio…

Vuoi sapere di cosa odora la guerra? 

Ecco, la prima nota che sentirai sarà quella di una bellissima rosa.


(foto in copertina di Alfred Eisenstaedt, 14 agosto 1945, Leica IIIa)