Bianca Atzei, timbro che graffia

EIC/ART DIRECTION Miriam De Nicolò
TALENT Bianca Atzei
PHOTOGRAPHY Marco Onofri
STYLING Diletta Pecchia
MAKE UP Paolo Sfarra
HAIR Flavia Gjozi
THANKS TO Bella Milano
INTERVIEW by Ambra Lo Faro

Il graffio è sempre stata la sua cifra, il suo timbro riconoscibile la rende una degli artisti più amati in Italia, ed è impossibile appunto non rimanere “graffiati” da questo suo “1987”, l’ultimo album che la racconta con la sfacciataggine del rock italiano che la contraddistingue da sempre, ma con quella consapevolezza in più che ha come donna oggi, dopo le esperienze che l’hanno portata ad essere così e a raccontarsi completamente al pubblico. Il filone anni ’80 nei suoni, e sicuramente nel brano driver “Discoteca”, è perfettamente collocato nel trend attuale, ma mantiene il suo personale gusto nei brani firmati da artisti di calibro rilevante come Gigi D’Alessio e Kekko dei Modà: qua e là è possibile trovarvi una ballad anni 60 contemporanea, fino a raccontare la parte più profonda ed intima di se stessa. 

Ultimamente il trend in musica è appunto quello di riportarsi agli anni 80: pensiamo a Harry Styles o Taylor Swift. Questa tua scelta di approdare a quell’epoca è data da una personale inclinazione, o hai voluto provare a seguire questo trend e farlo tuo? 

No, non ho mai seguito le mode nella mia vita. La mia è un’esigenza: quando sono diventata mamma la mia vita è cambiata, ho avuto bisogno di ritrovare quella spensieratezza, quella leggerezza, ed è per questo che ho iniziato ad interessarmi agli anni ’80. L’ho vissuto come un bisogno di tornare a divertirsi, e a fare qualcosa di nuovo. 

Siamo abituati a conoscere Bianca Atzei personaggio, ma meno l’imprenditrice musicale che c’è dietro. Quanto metti il naso all’interno delle scelte in studio, di suoni, di mix? 

Stare in studio e dire la mia mi piace molto, ma ho un approccio molto di pancia, molto istintivo. Mi occupo personalmente anche di tutti i cori, che amo molto fare da sola: nasco corista e riesco ad armonizzare all’istante ogni cosa che ascolto, ho questa fortuna innata. Sulla scrittura posso dirti che sì, a volte sono altri autori a scrivere per me, ma le melodie partono da me praticamente sempre.

All’interno del tuo nuovo disco la voce è mixata in maniera diversa rispetto alle tue precedenti uscite, si sente che qualcosa di nuovo c’è assolutamente, ma il pubblico riesce ancora a riconoscerti. Quanto conta per te il tuo timbro?

Mi fa piacere sentire che dici questo perché ho lavorato tanto sul mio timbro, da quando sono bambina. E’ stato uno studio molto lungo, fin dall’età di 7 anni e mezzo, facendo lirica per 3 anni, e poi ho capito quale fosse la mia direzione, sono andata avanti fino a trovare il mio timbro, la mia firma. 

Quanto è complicato questo trade off, quando la propria cifra è appunto il timbro: è possibile dare in pasto al pubblico qualcosa di nuovo, ma permettere loro di ritrovarti comunque?

In questo nuovo disco “1987” mi è venuto tutto naturale, gli anni e l’esperienza hanno giocato a mio favore. Anche se non sono usciti altri album negli ultimi anni sono comunque stati pubblicati diversi singoli, tutti con sonorità e sound diverse, mi piace sperimentare. Per come mi sento in questo momento della mia vita, credo questo disco mi rappresenti a pieno. Ci sono anche brani come “Non ti lascio andare” scritta da Kekko, che è un brano in stile anni 60, ma perfetta per me: quel brano si sposa perfettamente con la mia vocalità. E’ stato un ritorno alle mie radici, e ci voleva. 

Di te sappiamo tanto, hai un rapporto molto vivo con il tuo pubblico, a cui racconti molto della tua vita e di quello che ti succede, nelle interviste ma anche sui social. Esiste un momento in cui secondo te bisogna dire “ok, questo non ve lo dico, mi fermo”? 

Io sinceramente non mi sono mai posta dei limiti, dipende dal tuo carattere, dalla persona. Quando nella mia vita è capitata l’esperienza drammatica dell’aborto, ed ero in terapia, inizialmente non avrei voluto raccontarlo, ma poi mi è scattato qualcosa ed ho detto: magari raccontandolo posso sentirmi meglio, posso sentirmi meno sola. Ho seguito il mio istinto, ed il mio cuore mi ha dato ragione: ho scoperto un mondo che non conoscevo. Milioni di donne con situazioni simili alla mia, o addirittura peggiori della mia. Parlarne mi ha sempre aiutato tanto. 

A questo proposito impossibile non citare il tuo brano “Una cometa blu”: una canzone scritta da Gigi D’Alessio e Calvetti, tuo produttore e manager. Il brano racconta appunto di questa tua terribile esperienza, ma anche del modo in cui ne sei uscita con grande forza e coraggio. E’ un brano davvero toccante, e musicalmente ha proprio quel tipo di scrittura italiana melodica tradizionale, che si nota all’interno dell’album per quanto risulta sofisticato. 

Parlare di se stessi nelle canzoni non deve essere facile…

Non lo è, infatti. Questo brano non fa parte del mio spettacolo dal vivo, e non ti nascondo che faccio tanta fatica a cantarlo in pubblico ma qualche volta sono riuscita. E’ un brano che non avrei potuto scrivere da sola : io riesco a scrivere di mie esperienze, ma devo avere qualcun altro in mezzo, non so come dirti. Se parla di me un’altra persona, riesco a farlo. Posso scrivere di una mia esperienza se sono poi altri artisti ad interpretare il brano. 

Siamo abituati a vederti in collaborazioni importanti, sia nei featuring che nella scrittura dei brani. Cosa ti ha lasciato questa lista di grandi nomi? 

Ho avuto la fortuna di lavorare con i più grandi, ed ho iniziato proprio con le collaborazioni. Mi ha dato tantissimo: il featuring ti aiuta ad esprimerti in maniera diversa, e questa cosa ti fa crescere professionalmente e personalmente. 

E’ stato un modo anche per farti conoscere ad un pubblico, a restituire importanza e prestigio a ciò che proponi..

Sì, ma in realtà ti dico che nonostante il supporto di molti cantanti famosi per me è stata tanto dura. Io ho cominciato dalla radio, e la gente non associava il mio volto alla mia voce inizialmente. Ogni volta era un “ah, ma è lei che canta”, ed io questa cosa l’ho sofferta. Al mio secondo Sanremo sono riuscita a farmi conoscere di più, ma la vera popolarità è arrivata con l’Isola dei famosi. 

E questa cosa ti dispiace ? Intendo dire: la popolarità più con un reality che con la propria musica. 

Ma sai mi dico: ho fatto tantissime cose, le persone ascoltano la mia musica in radio da diversi anni, e comunque non sanno chi sei. L’Isola mi ha aiutata tanto, anche per fare altre cose. Il fatto che le persone ti riconoscano è bello. 

Domanda scomoda Bianca, ma devo fartela: hai un piano B? 

E’ diverso tempo che me lo chiedo, perché purtroppo per motivi di salute ho dovuto interrompere i miei studi, e non ho potuto completarli. Avevo cercato di riprenderli, ma poi è arrivata la mia carriera, e non potevo esserci a scuola. Però ti confesso una cosa: avrei voluto occuparmi di pedagogia. Lavorare con i bambini malati mi appagherebbe tantissimo. Mi è capitato per i problemi di salute che ho avuto di frequentare quell’ambiente, e la non consapevolezza dei bambini è disarmante : hanno una forza incredibile. Anche se non è il mio lavoro, vado spesso negli ospedali appena posso.

Comunque a questa cosa del piano B non voglio pensarci: al pensiero di non fare la cantante mi manca il respiro e mi sento male!

(foto in copertina abito lungo tulle Bartolotta & Martorana)

I suoni con Maninni

INTERVISTA A MANINNI

Talent Maninni
Agency Astarte Agency
Photography Emanuele Di Mare
Styling Diletta Pecchia
Grooming Martina Belletti

I ritornelli aperti, quelli da cantare negli stadi. Maninni ci racconta la freschezza della sua classe 1997, con una consapevolezza di chi il mestiere lo conosce, e annulla così ogni stereotipo di chi vorrebbe incasellarlo nel nuovo prodotto discografico del momento studiato a tavolino. Non lo è, né in quello che dice, né in quello che propone. La sicurezza se l’è conquistata nei palchi calcati con le rock band in giovane età, e in questa epoca di social risulta anticonformista e insolito. Interessato agli obiettivi raggiungibili, non segue le mode e nel suo fa tendenza con il plus di chi non se ne rende conto.

Nel sentirlo raccontarsi traspare pienamente la volontà di sentirsi completamente artefice del proprio destino, ed è perfettamente dentro tutto ciò che fa, dalla produzione in studio, al palco di Sanremo. Imprenditore romantico di se stesso, sogna ma con i piedi saldi sulle mattonelle della casa dove scrive, a Bari, con uno sguardo fisso nel futuro che vuole scriversi da autore della storia, circondato da fidati collaboratori che valorizza con l’umiltà giusta di chi gli obiettivi li raggiunge.

Vi portiamo dietro le quinte di SNOB, e più che un’intervista, sembra di respirare l’atmosfera da soundcheck, fra cavi da sciogliere, e suoni ancora da fare.

Nei tuoi testi si parla spesso di porte, di pareti, di appartamenti. Si respira la capacità di creare ritornelli aperti (da stadio) e cantabili anche in una area circoscritta. Come ti senti in questo periodo della tua vita: sei più in un loft dopo Sanremo, o ti piace ancora l’idea del monolocale?

<< Gli stadi? Ci spero, me lo auguro. Per unire tanti cuori dentro uno stadio, significa che qualcosa di importante è successo davvero. Passo molto tempo in casa, mi piace essere legato alle mie abitudini, ai piccoli gesti che nella vita fanno la differenza. Sono certamente ancora quello di “Monolocale”, tanto che ho deciso di rimanere a Bari e non trasferirmi in una città che magari poteva darmi più opportunità. Voglio restare dove tutto è partito, mi aiuta a ricordare quello che sono, quello che sono stato, e quello che vorrei essere. >>

I tuoi pezzi sembrano scritti chitarra e voce, e poi arrangiati in studio. In alcuni pezzi infatti sembra che l’arrangiamento lasci spazio a dei momenti proprio crudi chitarra e voce, come percepisco possa essere stato al momento in cui li hai scritti. Ci racconti come avviene la scelta degli arrangiamenti e se ti piace dire la tua anche su questo aspetto della composizione?

<< Nasco come musicista, chitarrista nello specifico, anche se mi sono poi avvicinato anche al piano, alla batteria e al basso. I miei pezzi nascono chitarra e voce, o piano e voce. Mi hanno detto tempo fa “Potresti iniziare a scrivere anche su dei beat”, ma preferisco creare da uno strumento. Nel disco ho infatti inserito la versione acustica di “Spettacolare”, mi piacerebbe che chi ascolta quel brano si potesse sentire all’interno di una stanza insieme a me, come se fossimo in studio. Quando scrivo inizio così, chitarra o piano e voce, e poi mando una pre-produzione a Enrico Bruno e Marco Paganelli, i miei produttori. Mi sento fortunato perché danno fiducia a quello che faccio, ho trovato davvero la mia dimensione con loro. Sono maniacale dal punto di vista del suono, e sentirmi circondato da persone che mi lasciano dire la mia è rassicurante; in passato mi sono trovato a dover accettare dei compromessi su quello che proponevo, ma si perdeva l’essenza. Oggi ho trovato la mia dimensione. >>

Rispetto alla proposta musicale attuale si può dire che, nella sua immediatezza, sia proprio la tua l’offerta musicale più anticonformista: non utilizzi auto-tune, e proponi un pop rock con qualche sequenza. Hai mai avuto paura di non essere “di moda”?

<< Ma sai, ho un concetto molto chiaro di quello che è la moda. Seguire le mode non ti porta ad essere di moda; mentre lo fai qualcuno le ste già cambiando. Non ho reference chiare, non voglio somigliare a nessuno. Ammetto però che, quando sei sotto i riflettori, la paura di non essere alla moda c’è. A Sanremo ho sentito dire di essere “OLD”: a dire il vero ho apprezzato questa caratteristica, mi piace essere diverso dagli altri. La moda è ciclica, certe cose poi ritornano, e se vuoi essere autentico devi anche prenderti il rischio di non essere a passo coi tempi. Di recente ho ascoltato l’ultima di Tananai, e ho apprezzato che abbia scelto un arrangiamento con tutti gli strumenti: sembra paradossale, ma pare sia percepita come una cosa “moderna”. >>

Quanto realmente di tuo può esserci in questo momento, sotto contratto con una major? Abbiamo tanto sentito parlare di scelte vincolate, di libertà espressiva ridotta una volta nel sistema. Quanto del Maninni di 5 anni fa c’è oggi? Riesci appunto a sentirti autentico?

<< Ai discografici che dettano le regole vorrei ricordare che la musica è di chi la fa e poi di chi la ascolta, non di chi la sponsorizza. Se esistono le radio, le labels, è perché c’è un artista che quelle cose le ha create. Da questo punto di vista mi sento fortunato perché il team con cui lavoro crede in quello che faccio, sono libero. Non potrei mai fare questo mestiere senza sentirmi libero: fare musica è l’unica cosa che mi appassiona davvero nella vita, e voglio sentirmi così. >>

Total look Noskra
Shoes Dr Martens
Jewelry Aneis

Il pop rock che ti caratterizza ha lasciato spazio ad una ballad a Sanremo quest’anno (anche questa scelta anacronistica, e rispettosa della tradizione Sanremese). Molti altri concorrenti hanno puntato su brani veloci, quasi scritti apposta per tik-tok. Oggi, con il senno di poi, pensi di aver portato il brano giusto?

<< Alle pagelle dei giornalisti questa cosa delle poche ballad venne detta. Sapevo con cosa mi stavo scontrando, ma se avessi portato un pezzo più “social” non sarei soddisfatto di quello che ho fatto a Sanremo. Ho portato me stesso al 100%, non ho avuto paura del confronto. Le canzoni con ritmi più incalzanti magari performano di più sugli streaming, ma la musica non si misura con i dischi di platino. La musica ti fa rivivere quel momento, magari dopo anni che non ascolti quel pezzo. Ha bisogno di tempo. Tempo che non abbiamo più, con questi ritornelli da 15 secondi da usare da Tik Tok, che magari oggi vanno e domani sono superati. >>

Insomma, punti sulle canzoni che restano.

<<Sì. Il tempo è fondamentale: serve a farci capire delle cose, a farci affezionare. Comunque Maninni non è solo ballad, ma anche pezzi movimentati. Sono cresciuto con la musica rock: Vasco ha scritto “Sally”, ma anche “Rewind”>>.

Nella tua storia c’è anche un talent, Amici, qualche anno fa. Oggi, dopo un po’ di esperienza in più ed una bella visibilità nazionale, consiglieresti ad un ragazzo giovane di prendere parte ad un talent ?

<< Ma piuttosto suggerirei a quel ragazzo di chiedersi se è davvero pronto per un talent >>. 

Sentirsi pronti è una percezione soggettiva, e anche un po’ falsata quando si è giovani. Come ci si sente pronti? 

<< Se sei pronto lo senti. Il talent è un contenitore incredibile, ma è il contenuto quello che conta. Ti espone ad un pubblico vastissimo e comporta dei rischi anche psicologici. Se sei troppo giovane, c’è il rischio di schiantarsi contro qualcosa. Se sei pronto invece il talent ti può dare qualcosa. Io ho fatto un tentativo, rimpiango solo di aver avuto 18 anni, ero troppo giovane. Forse avrei aspettato un paio di anni. Prima di arrivare a quello step lì devi aver mangiato tanta merda. Se non arrivano le delusioni non impari nulla. >>

Il tuo nome viene spesso associato alla terminologia “indie rock” online. Come definiresti la musica indie oggi?

<<Indie per me non dipende dall’etichetta discografica ma significa essere indipendenti, non seguire schemi precisi per scrivere canzoni, non imporsi determinati tipi di sound, sei indipendente da quello che c’è fuori. Io sono un cantautore POP. >>

Quindi il termine POP non ti spaventa. 

<< No, anche i Maneskin per me sono POP. La musica POP è popolare, i Pink Floyd sono POP. Se Gilmour avesse cantato con l’autotune avrebbe spaccato ugualmente. >>

Raccontaci come è accaduta la tua partecipazione a Sanremo. Siamo curiosi di capire i retroscena, e se ti va dacci qualche dietro le quinte. Siamo SNOB, e anche un po’ curiosi.

<<Serata cover del venerdì, abbiamo bucato col van. Siamo rimasti fermi per mezz’ora, interviste spostate, un delirio. Col van fermo per strada però, provavo a scrivere il nome della mia canzone sui vetri, mentre pioveva, al contrario, per farla leggere da fuori. >>

Insomma, marketing anche nella cattiva sorte!

<< Non sono bravo col marketing in realtà, mi dico sempre che dovrei essere più social. >> 

Sei un artista Pugliese di origine, quindi non posso non pensare a tutto quel filone più legato alla scrittura in dialetto. Nei tuoi brani sento più una tendenza milanese, anche nella pronuncia vocale. Un tentativo in pugliese?

<< I Negramaro non hanno avuto bisogno di cantare in leccese, ma tutti sanno che sono Salentini. Non ci ho mai pensato, anche se parlo in dialetto a volte con gli amici >>.  

Hai un piano B nella vita? Qual è?

<< La musica può coprire tutti i piani, A,B,C,D. Mi piace molto stare anche dietro le quinte. Ho prodotto anche altri artisti, se non dovessi essere protagonista potrei produrre altri. Male che vada, andrò a suonare ai matrimoni. >>




SARAFINE e la Messa dei Millennials 

SARAFINE e la Messa dei Millennials 

Ho ascoltato la vincitrice di XFactor 2023, e l’ho fatta coperta da tutti i possibili pregiudizi di chi fa musica e notoriamente non segue i talent. Mi sono imbattuta in un brano, “Malati di gioia”, che ha spiazzato ogni mia aspettativa, alzando la media di tutti i testi italiani che ho ascoltato nei brani degli ultimi tempi.

Mi ha spiazzata perché notoriamente non sono una fan delle cantanti non cantanti, dei parlanti, degli attori in musica. Preferisco l’arte vocale pura, l’enfatizzazione del timbro, delle dinamiche vocali, il racconto interpretativo attraverso l’emissione del suono. 

Sarafine canta, ma non è questo che di lei colpisce: ha parlato in un brano da 2 soli minuti e 26 secondi, di un’intera generazione. In un brano dal gusto religioso contemporaneo, sofisticato, spinge l’ascoltatore a prendere l’eucaristia (“questo è il vostro show” evoca nella mia testa “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”). L’accettazione silenziosa di una ripetizione, nel loop, nell’armonia, nella drum & bass ipnotica disco, porta a non pensare, ad accettare che sì, è così che va il mondo, come dice nella canzone. L’ipnosi serve a rassegnare l’ascoltatore ad una realtà lontana dal sogno, e allo stesso tempo spaventa, terrorizza, utilizza una distorsione del timbro appena prima delle 8 battute di silenzio che racconta quanto di più lontano può esserci dalla voce umana. E’ un film horror in musica, che sorprendentemente trova conforto nella parte più intima dell’ascoltatore: tocca il più recondito sentimento del doversi sentire accettati per forza in una società di troppe regole, e poche soluzioni su come rispettarle. 

Il brano stesso non ha regole: non ha ritornelli, non ha strofe, più generalmente non ha una struttura convenzionale pop. E’ un flusso di liberi pensieri, una libertà che nella vita non hai più, ma che sì, puoi averla in un brano così. Un verismo contemporaneo, un colloquio di lavoro a tutti gli effetti, senza i filtri a cui siamo abituati, e assuefatti.  L’arte è raccontata nella sua purezza, sebbene non valorizzi la tradizionale capacità vocale, perché lontana dagli schemi sociali. Allo stesso tempo, questa forma liberissima trova uno spazio commerciale validissimo, non rappresentato dalla trap, né dal pop tradizionale, né dal vintage. E’ una fetta del grafico a torta rimasta in silenzio per troppo tempo, ma che ora può avere una sua rappresentanza. 

Cosa non mi piace? Due cose. 

  1. E’ l’unico pezzo così. E’ l’unico racconto così. Sembra confezionato a tavolino, molto bene per carità, per questo talent. Nella realtà è però un po’ distante da tutto ciò che trovo di lei su Spotify, e un po’ mi preoccupa, mi pone la domanda che possa trattarsi solo di una fiamma momentanea. Spero di no. Spero che questo fuoco di idee, che il racconto chiaro di una generazione, la mia, possa trovare il suo collocamento in versi detti, comprensibili, e non mascherati da effetti inflazionati.  
  2. L’esibizione live è estremamente più d’appeal della versione registrata: ha più rabbia, più interpretazione, più passione. 

Sarafine, attendiamo nuovi brani su questa linea. 

Il dialetto fa figo. Di nuovo. 

 Il dialetto fa figo. Di nuovo. 

E’ una tendenza nuova, o vintage. Il gusto per l’espressione dialettale in musica è tornato vivissimo nelle ultime uscite, non solo underground ma anche in quelle dei grandi numeri. 

Se i rapper e gli artisti di tendenza filo-jazzistica in tempi recentissimi molto local che cantano in dialetto, parzialmente o in toto, rappresentano una fetta commerciale sottile e poco nota al grande pubblico, mi stupisce invece la tendenza di voler fare di artisti giovani e già piazzati benissimo, penso ad Angelina Mango, portavoci di un linguaggio dialettale, popolare, e super local. 

L’artista main stream deve accedere a tutta l’Italia, partiamo da qui prima di arrivare altrove, ma sicuramente non deve parlare solo ad un pubblico regionale. Da qualche tempo a questa parte invece, i testi riportano modi di dire a volte intraducibili, e tipicamente locali.

E siccome funziona, voglio credere che questo linguaggio sia voluto, sia studiato, sia pensato. (Troppo ottimista?). Voglio leggere il dialetto qua e là come una necessità di autenticità nel racconto ormai omologato della trap, appiattita da autotune, di cui comunque ci liberiamo a fatica purtroppo, e di una società apparentemente eterogenea ed omogenea allo stesso momento. 

Il dialetto caratterizza, puntualizza, rende verace e squisitamente veritiero il racconto. Anche nella vita di tutti i giorni, se ci pensiamo, per rendere meglio l’idea di un concetto o per ironizzare all’interno di un racconto, usiamo delle espressioni dialettali. 

Aiuta dunque il personaggio, il dialetto, perché lo rende stereotipo. Sorprendentemente non allontana, ma unisce nel racconto dei più, le storie. 

Altro aspetto di importante novità rispetto al passato è che il dialetto è una tendenza vintage. Ha avuto il suo successo nelle canzoni popolari folkloristiche di moltissimi anni fa, mantenendo poi in Italia una collocazione mi viene da dire esclusiva nel territorio Napoletano, che ne ha fatto caratteristica di orgoglio negli anni, anche quando per tutti gli altri il dialetto rappresentava ignoranza, impopolarità, incapacità di calcare i grossi palchi. Sono pochissimi i casi in cui il dialetto in musica si colloca con prepotenza, dimostrando un fortissimo appeal. Uno di questi è Gigi D’Alessio, che con coraggio qua e là ha sempre inserito sia in musica, con i riconoscibili mielismi arabeggianti napoletani nelle chiusure degli acuti, sia in parole, con “se stasera t’avissi vasà” e similari, la sua caratteristica napoletana. 

Il dialetto oggi si riprende il suo spazio, ed ha un ruolo commerciale molto forte perché con poca fatica si crea un personaggio. Non male-interpretatemi: non ne faccio una colpa, ma anzi un’ottima carta da giocare, furba e molto ben riuscita. 

La musica non è la sola ad usare il dialogo locale. Il cinema, le fiction, le serie TV più di tutte utilizzano questo stratagemma per dare maggiore credibilità a ciò che si vede. Intere serie TV sono in lingua originale, per la maggior parte del tempo, e rinunciano al doppiaggio. Pensiamo a Narcos, o Gomorra. Il dialetto incrudisce, avvicina. Con il dialetto è possibile arrivare più a fondo della storia, più dentro il concetto. 

E la musica, non fa eccezione.

LATO B | Snob più del free jazz 

LATO B | Ho ascoltato per voi un disco Free Jazz, e non l’ho capito.

Forse dovrei dirvi che sì, ho ascoltato un disco che si autodefinisce Free Jazz, ma non so cosa sia davvero. Se per il pop esiste il pop, e basta, per il jazz non è così. 

Esiste il jazz delle origini, il New Orleans, il Dixieland, lo swing, il Bebop, il Free e la Fusion, tutto naturalmente, in ordine di tempo in termini di correnti stilistiche, e di comprensione dal più semplice al più difficile da comprendere.  

Se il jazz delle origini serviva per ballare, per vivere un momento di convivialità, il jazz della corrente Free allontana, divide, tende a non essere compreso, perché abbandona completamente ogni tipo di struttura, di regola, e si dice che necessiti di un ascolto “attivo” da parte dell’ascoltatore. Se lo comprendi è troppo pop per essere jazz, e troppo accessibile per far parte di un’elite. L’ oligarchia musicale dei colti non può permettersi di parlare una lingua di pubblico dominio, non può accettare di piacere ai troppi. Potrebbe essere un rischio. 

Ma se ci penso, è la regola a tenere l’ascoltatore e l’esecutore sullo stesso binario. Giusto?

E’ la regola a permettere uno scambio, a permettere un racconto a doppio senso di marcia, a riprodurre, a “ricantarsela” in testa, a ripensarci. Senza regola, come accade nel Free Jazz ad esempio, non esiste capacità di riproduzione. L’ esecutore rimane lì, da solo, ad eseguire qualcosa che forse un ascoltatore “attivo” proverà a capire, ma che per ovvi motivi non capirà fino in fondo, perché non potendola fare propria si troverà a sentirsi troppo lontano da quella cosa, per apprezzarne la bellezza in toto, qualora di bellezza si parli, ovvio. 

La cosa subdola degli esecutori, o auto-determinatisi, free-jazzisti, è quel sorriso di base che, davanti agli occhi dell’ascoltatore un po’ preoccupati che sembrano dire “io questa cosa non l’ho capita”, il loro sguardo saccente dice “non l’hai capita perché non sei colto abbastanza per capirla”. E allora, l’ascoltatore che, bhe se si trova lì ad ascoltare Free Jazz non è proprio un frequentatore abituale della sagra di paese, proverà a dirsi: l’ho capita. Cosa? Non è importante cosa. Lui l’ha capita, si è auto-determinato degno di accedere all’olimpo degli incompresi. 

Ma che cos’è un linguaggio senza comprensione? E’ uno strumento senza potere, senza forza sociale. Pensiamo alla musica Funky, utilizzata quasi come arma di distrazione di massa negli anni 70: il suo potere ipnotico, ripetibile, accessibile, riproducibile, era così essenziale da poter essere collegato agli istinti più primordiali dell’uomo.  

Naturalmente ci tengo a precisare che teniamo fuori da questo ragionamento le fasi ultrasperimentali di John Coltrane, Ayler o Taylor, che senz’altro hanno aperto le strade dell’avanguardia alle generazioni successive. Molto di questo ragionamento è piuttosto contemporaneo, è dedicato agli intellettuali vestiti bene, che non amano dire a voce troppo alta di aver ascoltato Stevie Wonder nella loro vita, e che sì, forse Coleman non è nella loro playlist quotidiana. 

Se da un lato il pop si fa paladino spesso della mancanza di valori umani, e dell’eccessiva importanza data all’immagine più che al contenuto, il jazz nelle sue forme più incomprensibili è portavoce della corrente intellettuale “per partito preso”, altrettanto pericolosa corrente umana. 

Anche la musica si fa spesso rappresentante di ciò che vogliamo essere, ciò che vorremmo essere, dei titoli che non abbiamo o di quelli che abbiamo ma che vogliamo far contare nella società. 

Del racconto del weekend il lunedì in ufficio, del cosa hai fatto tu, e di quelli che hanno fatto meglio di te, o che hanno percorso più km. L’ incessante competizione che porta il quotidiano ad una destinata infelicità, nel perseguire qualcosa di troppo distante dal proprio essere reale. 

Un Mare Fuori di gangster 

Un Mare Fuori di gangster 

Io non so voi, ma cari lettori di SNOB, sono un po’ preoccupata da questa necessità di sentirsi gangster.
Anni fa la voglia di chi usciva da quartieri disagiati grazie alla musica, al successo ottenuto a fatica portando fuori il proprio pensiero, la faceva da padrone nella Eight Miles di Eminem. 

Oggi invece, la necessità (lo dicono i grandi numeri) della generazione attuale è quella di sentirsi un gangster, anche se non si appartiene a contesti culturali difficili, di sentirsi parte di qualcosa di brutto per potersi autogiustificare forse. La musica della colonna sonora di Mare Fuori lascia a tratti un po’ basiti, con testi quasi mai chiari. Riconosco un aspetto interessante, ovvero quello di mischiare gli archi ad un parlato quasi trap local. Voci quasi mai intonate, l’intonazione è ormai un di più, e forse in questo grande contesto di gangster ci si può concedere di non esserlo no?
Perché è questo che fa quel tipo di storytelling no? Non sono preciso, non sono intonato, ma perdonamelo: forse non ho potuto studiare, non ho potuto fare di più. Apprezza di me quello che so dirti a modo mio, con quella veracità che mi contraddistingue, quella imperfezione che fa di me un artista. 

Mi ha stupito però, devo ammetterlo, leggere numeri importanti non solo nei pezzi cantati, che potrebbero essere un po’ falsati dal potere del personaggio,  ma anche in sole composizioni d’ambiente, che fanno alla serie TV un contorno inquietante, devo dire ben scritte e ben articolate nella loro inquietudine. Definiscono colori scuri, a tratti hanno del classico, ma non sono raffinate come Morricone, lasciano intravedere qualcosa di bello ogni tanto, per poi tornare in quel mood, molto disagiato. Ha una coerenza tutto questo, ma mi sono chiesta: l’ascoltatore perché lo ascolta? Vuole davvero sentirsi così, mentre cammina per strada? 

Vuole andare avanti, con quella faccia imbruttita, nella sua eterna adolescenza, nella sua eterna sofferenza da incompreso? Non credo che la società abbia bisogno di questo. O sì? 

E perché le generazioni attuali cercano questo mood? Che cosa vogliono provare, cosa vogliono sentire?

Che stiano cercando di dirci qualcosa? C’è una sofferenza nuova forse: un non ascolto che fa del dolore enfatizzato e colorato dal folklore napoletano una rappresentazione nuova di se stessi. Una generazione di gangster arrabbiati senza sapere perché, o perché soffocati troppo da poterlo trovare quel motivo. 

Ma quasi 40milioni di streaming devono pur dire qualcosa, e non ci si può girare dall’altra parte se non lo si capisce. 

LATO B | Live music: il vintage di cui abbiamo ancora bisogno. 

LATO B | Live music: il vintage di cui abbiamo ancora bisogno. 

Sono sempre meno gli artisti che nei live fanno davvero live. Un ballerino balla, un pittore dipinge, un barman prepara un cocktail, ma un cantante no, non è così scontato che canti davvero. 

E non è scontato che lo faccia proprio durante un live. 

Mi è capitato di notare nei live che ho potuto vedere su YouTube dei nomi più grandi della musica, e degli spettacoli più noti di questo nostro periodo, di notare una grande quantità di voci a supporto del lead vocal. E’ una pratica questa molto comune in chi prepara uno spettacolo, specie se il cantante debba gestire contemporaneamente una coreografia, o una particolare presenza sul palco. E allora sì, l’immagine prende il sopravvento, e probabilmente quello spettatore in tribuna non si accorgerà mai che Rihanna non sia realmente live, così come Dua Lipa o Taylor Swift. 

Una buona quantità di cori realizzati con timbro del cantante originale, e all’unisono, ma mixati leggermente indietro rispetto alla presa diretta del microfono live, vanno a coprire difetti, imperfezioni, stonature, e a volte proseguono acuti laddove non ce la si faccia. 

E’ bene che qualcuno lo dica alla massa che la musica live vera, quella di ampli e mixer, non si fa così. Così si fa uno spettacolo di arti visive, ma non un concerto. In realtà ritrovo questa stessa tendenza nei playback TikTok, che mi lasciano basita e talvolta spaventata dalla realtà in cui mi trovo. Ragazzini giovani non vanno a cantare un pezzo, suonarlo magari in una versione acustica a casa: sarebbero troppo soggetti a critiche e giudizi. Molto meglio proporlo in playback, magari con una bella coreografia. 

E allora sì, datemi della boomer. A me questa cosa non piace proprio, e trovo che ci stia portando nella direzione sbagliata. Se fai un playback, non stai facendo live. Se canti sopra la tua voce registrata in molteplici tracks, non stai facendo un live. 

Se vai ad un concerto di una persona in playback, non stai andando ad un concerto, ma ad una farsa. 

Il live è fatto di cavi che non funzionano, di sudore vero, di parole non ricordate, di serate finite troppo tardi, di “ma la sai quella che fa…” e di pezzi che anche dopo l’ennesima esecuzione, ti portano a sentire ancora qualcosa. Il live è l’imperfezione che si prende il posto da protagonista, è il non fingere davanti allo specchio e ritrovare tutto: dal proprio sorriso migliore, alle cicatrici che è impossibile nascondere. Il live è l’adrenalina in corpo che non se ne va fino a tardi, lo sguardo incrociato in mezzo alla folla di chi ha deciso di venire da te stasera. Il live è ritrovare la propria storia nel mondo degli altri, è condivisione vera senza ragione di mentire, altrimenti perché condividere? La musica live è quanto di più profondo la persona su quel palco vuole dirti, per questo sii gentile: che si tratti di un basker, o di un concertista alla Scala. Perché il live mette l’artista davanti ai propri limiti, e la vera perfezione sta nel saper giocare da fuoriclasse dentro quei limiti, più o meno largo sia il range di cui si parla. 

Il live è quello di cui questa società avrebbe bisogno davvero. Un filtro in meno, un cappotto con quel bottone sostituito, che riconosci sempre ogni volta che lo indossi e che forse sì, potevi cucirlo meglio ma tutto sommato ti piace così, ti rappresenta. 

E allora andate ad ascoltare un live. Uno vero.

Mettete in pausa la vostra voglia di perfezione, il vintage va sempre di moda.